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L'ANTIUMANESIMO DI MAHLER

I.

Nel 1910, Mahler è un uomo sconfitto. Una serie di intrighi lo ha appena allontanato
dall’Opera di Vienna: “il regno degli dèi meridionali”, come lo definiva lui; il
matrimonio con Alma Schindler – la “vedova delle tre arti”, che dopo di lui sposerà
Walter Gropius e Franz Werfel, e sarà l’amante di Oskar Kokoska – è insidiato dalla
sua impotenza, che spinge Alma, quasi vent’anni meno di lui, a cercare altrove un
compagno meno paterno; la figlia Maria è morta di scarlattina, ed il medico gli ha
diagnosticato un vizio valvolare bilaterale congenito. Deve reimparare a camminare,
a respirare. Cammina con un podometro al polso. Deve rinunciare alle lunghe
escursioni tra i boschi e le scalate in montagna, che erano le fonte della sua
ispirazione. In queste condizioni, Mahler si reca da Freud, che lo visita a Leyden, in
Olanda. Passeggiano per strada tre ore. Freud dirà, venticinque anni dopo, che fu
come scavare un minuscolo forellino in una parete di granito. Dirà anche che Mahler
era la persona più ricettiva alla psicoanalisi da lui mai incontrata. Per forza: per
Mahler, la vita affettiva fu sempre la messa in scena di un gioco infantile; una
seduzione distruttiva ed autodistruttiva. Diventato padre a quarant’anni passati,
Mahler festeggia l’avvenimento scrivendo i Canti dei bambini morti. Alma, sensitiva
come tutte le madri “tu dipingi il diavolo sulla parete”: esclama, presa da quello che
sembra solo un raptus superstizioso. Qualche tempo dopo il completamento
dell’opera, Maria, la figlia, muore di scarlattina. Ricordate? quando Mahler sposa
Alma, per prima cosa le ingiunge di non scrivere più musica. “Mi portai i miei Lieder
con me tutta la vita, chiusi in una scatola di legno, come in una bara”: dice lei, nelle
sue memorie. Ken Russel, nel film La perdizione, mostra Alma che sotterra le sue
opere: reliquie di se stessa. Un simile dissipare i propri affetti più cari, implica la
devozione a qualcosa di più alto. Qualcosa che spinga ad annunciare, nelle parole
dell’unico poeta esoterico vissuto in Italia, “l’Ignoto viene a me; l’Ignoto attendo”.
Mentre componeva l’Ottava Sinfonia, Mahler, spesso, si sdraiava sulla nuda terra, nel
capanno tra i boschi di Dobbiaco che si era scelto per tèmenos: il sacro recinto del
Genio. Faceva parte della sua adorazione pànica della Natura. Il grande soffio del dio
Pan, era nient’altro che l’ispirazione. L’arrivo del dio Pan viene descritto nel tema
che apre la Terza Sinfonia, enunciato da otto corni all’unisono. È una primavera
tremenda, materica. Questa sinfonia, è il primo tentativo mahleriano di una
cosmologia attraverso la musica. È un concetto importante, su cui torneremo.
L’ispirazione, dunque, è un demone che tutto trascina con sé: una forza
antiumanistica; come antiumanistica è l’arte di Mahler, dove l’uomo è schiacciato tra
il tutto e il nulla. Osserviamo l’incipit della Prima Sinfonia di Schumann. Descrive,
anch’esso, l’arrivo della primavera. Solo che qui abbiamo un sipario; in Mahler, una
fanfara. Qui, l’inizio di un discorso; in Mahler, un fenomeno naturale . Qui,
un’espressione del sentimento; in Mahler, una pura messinscena del sentimento.
Mahler evita il “teatro” di Schumann. La musica esprime, in lui, il rumore di fondo
del tempo che passa: un tempo cosmico, e, quindi, disumano. Lo abbiamo visto: il
sentimento, in Mahler, è disumano. Dopo aver diviso con l’amico Hugo Wolf miseria
e camera ammobiliata, ai tempi del Conservatorio, Mahler, diventato il dèspota
podiale di Vienna, evita di mettere in scena la sua unica Opera: Der Corregidor.
Nicchia e rinvia ogni risposta; finché Wolf impazzisce: vaga per la città fermando i
passanti, e grida “io sono il grande Mahler”. Così, era certo che la sua Opera sarebbe
stata rappresentata: sublime logica della follia… Il fratello di Gustav, Otto, anch’egli
compositore, subisce talmente il confronto con lui, da spararsi: non in testa, ma nel
cuore. Otto, lascia un biglietto. Con sottile crudeltà: “La vita non mi dà più alcun
piacere. Restituisco il mio biglietto d'ingresso”. Dopo la morte, le sue Sinfonie
vengono affidate ad Alma, che le seppellisce insieme ai propri Lieder. Una bomba
spazza via i manoscritti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Questo tramonto della Mitteleuropa, è un tempo cattivo, pulsionale, frenetico.
Abbiamo già accennato ad Hans Rott, reso pazzo dal disprezzo di Brahms.
Ripercorriamo il suo destino, ma da un’altra prospettiva. Rott impazzisce sul treno
che lo porta verso un modesto impiego di direttore di coro, in una cittadina austriaca.
Sostiene che il treno è stato minato da Brahms. Prima di morire, in manicomio, di
tubercolosi, scrive molta musica, di cui si serve al posto della carta igienica. Di Rott,
è rimasta una Sinfonia che Mahler, al colmo dell’entusiasmo, studia e saccheggia,
senza mai nominare lo sventurato suo compagno di studi nella classe di Bruckner.
Verrà eseguita per la prima volta nel 1979, dall’Orchestra Sinfonica di Cincinnati.
Comincia anch’essa con un’invocazione alla natura. L’evidenza sonora, è
schiacciante: siamo di fronte al tramite tra Schumann e Mahler.
“E invece di provvedere saggiamente a ciò che occorre sulla terra affinché la vita vi
sia migliore, l’uomo si abbandona all'ebbrezza infernale”: dice Thomas Mann nel
Dottor Faustus. Nella Terza di Mahler, si celebrano gli esiti di una simbiosi tra la
musica e i riti dionisiaci che nasce dall’opposizione tra mente e natura. Tutto
comincia col Franco cacciatore di Carl Maria von Weber: la scena della “Gola del
diavolo”. Ascoltando questa musica, vi si nota la deformazione tremenda cui sono
sottoposti il Volkslied e la danza popolare. Questa musica, è tutta una parodia del
Volkslied: il canto popolare. L’ingenuo, il “popolare”, diventa, qui, sinonimo di
dannazione. Mahler, nel Terzo Movimento della Seconda Sinfonia, si riallaccia a
Weber: evoca il demonio. C’è una caccia infernale, sotto le volute dei temi:
metamorfosi estrema di quella giubilante frase che apre la Prima di Schumann. Tipica
di Mahler, la deformazione a cui viene sottoposto il timbro degli strumenti: ghigno
grottesco della Natura. Siamo in pieno antiumanesimo: un antiumanesimo nato dalla
deformazione del Volkslied. Mahler ama la musica popolare. La sua musica è sempre
caratterizzata dall’apparire, nei momenti più tragici, di melodie infantili, squilli di
caserma, ballabili di taverna. Il compositore stesso, lo spiegava così: da piccolo, dopo
una scenata penosa tra i genitori, era uscito affranto sulla strada. Un organetto
intonava una canzoncina per bambini: “Du lieber Augustin”. Le due dimensioni della
morte e della fiaba: l’infanzia, e lo stupore allucinato, erano, quindi, per sempre
rimaste, in lui, intrecciate. In Mahler, la musica si configura come una coazione a
ripetere: una rigenerazione del trauma originario. La danza, in Mahler, è una marcia
gentile, perché inconsapevole, verso l’abisso. L’ambivalenza del suo carattere emerge
nel Secondo Movimento della Sinfonia n.2 “Resurrezione”; dove la danza è, insieme,
idillio ed elegia. Mahler, nasce come compositore di Lieder. Quando scrive la Prima
Sinfonia, utilizza i temi della sua raccolta giovanile di Lieder: I canti di un viandante.
Da notare, nel quarto Lied, il gioco semantico finale tra “Lieb’/Leid”, “Welt/Traum”:
“amore/dolore”, “mondo/sogno”. È la cifra stilistica di tutta l’opera mahleriana.
Anche nella Terza Sinfonia, c’è la citazione di un Lied giovanile: Cambio della
guardia in estate. L’ultimo movimento della Quarta, è un Lied tratto da Il corno
magico del fanciullo. Tutti questi Lieder, hanno un elemento in comune: sono
umanistici; parlano di un equilibrio ingenuo tra mente e natura. Il Mahler
venticinquenne della Prima Sinfonia, dunque, ha già lo sguardo rivolto all’indietro.
Cita se stesso. È un elegiaco, uno sconfitto dalla vita. Scrive una musica non più
ingenua, ma sentimentale. Nostalgica. Antiumanistica. Anche Mahler, come Hans
Rott, non è sopravvissuto al crollo delle mitologie naturalistiche del Romanticismo,
viziate già in partenza da quella screziatura demoniaca che abbiamo visto in Weber.
Nella Prima Sinfonia, Mahler introduce un movimento intitolato “Blumine”:
“Raccolta di fiori”. Dopo la terza esecuzione dell’opera, lo toglie. Perché? La
citazione del tema con cui si apre la Sinfonia di Rott, è fin troppo evidente. Mahler,
eliminando questo movimento, suicida Rott dentro di sé. Rott, aveva cercato di
mantenere la Forma sinfonica dentro i limiti della contemplazione naturalistica. Nella
lunga agonia che la Forma sinfonica vive con Mahler, l’unica alternativa possibile al
suicidio artistico diventa, allora, “creare un mondo coi suoni”: fare della Sinfonia una
vera e propria cosmologia. Mahler ci prova, una prima volta, dilatando la Forma del
Poema Sinfonico: e nasce la Sinfonia n.2 “Resurrezione”, che è la storia dell’ascesa e
trionfo post mortem dell’eroe della Prima Sinfonia; anch’essa un Poema Sinfonico, in
quanto costruita su di un romanzo di Jean Paul: Il titano. Nella Seconda Sinfonia,
ricompare il fantasma di Rott: il grande sconfitto di questa gara utopica per la
sopravvivenza. Come abbiamo visto altrove, nel Terzo Movimento Mahler sviluppa il
tema su cui Rott fonda il Terzo Movimento della propria Sinfonia. Infine, nella
Sinfonia n.3, quando il dramma tace, e comincia il rito dionisiaco, Mahler trova la sua
strada. La Terza, non è più un Poema Sinfonico letterario, ma filosofico. Quindi, con
la Terza, nasce la morte della musica. I suoni, d’ora in avanti, necessitano, per
esistere, di concetti. La musica, nella Terza, viene uccisa dall’evoluzione, lungo i suoi
cinque Movimenti, dal linguaggio delle pietre a quello dei fiori, gli uccelli, la notte
(non per caso, origine dell’uomo: il “Canto di mezzanotte” dallo Zarathustra
nietzschiano) le campane del mattino e, infine, Dio. Dio inteso come amore che tutto
in sé accoglie e comprende. La musica, qui, diventa “mimesi”: imitazione di
linguaggi. Non è più un linguaggio autosufficiente, come in una fuga di Bach.
Diventa un sistema filosofico.
Questa progressione dalla Fisica alla Metafisica, Goethe la chiama, con Aristotele,
“entelechìa”. L'entelechìa è quel principio naturale per cui, nella ghianda, è contenuta
la quercia. Goethe costruisce il suo Faust come un’entelechia antiumanistica. Il Faust
nasce dall’elaborazione di un dramma cinquecentesco per marionette: dunque, dal
“popolare”. Anche il Faust, è una parodia del Volkslied. Mahler, quando decide di
indossare le maschere di Faust, scrive l’Ottava Sinfonia, che è una parodia del poema
goethiano. La parodia musicale di una parodia letteraria. Mahler, l’antiumanista,
eppure si ribella al crollo degli idoli che sconvolge e dissocia i suoi contemporanei,
ed il cui approdo ultimo è la dodecafonia di Schönberg. La dodecafonia, è la morte
della tonalità, che, in quanto espressione della gravitazione universale, è il linguaggio
della natura; mentre la dodecafonia, è un linguaggio mentale. Tutto il Romanticismo
si configura, in questi termini, come un’evoluzione del problema posto da Rousseau
al centro della sua filosofia: come far coincidere il linguaggio della mente e quello
della natura? il tempo dell’uomo, e quello del Cosmo? Mahler, nell’Ottava, sposta il
problema; e celebra il trionfo, superficialmente ottimista, dell’ispirazione: un
problema altamente demoniaco. Mahler realizza la deformazione parodistica del
Faust di Goethe facendo precedere l’ultima scena del poema in forma di dramma da
un Inno medievale: “Veni, Creator Spiritus”. Si tratta di una meditazione
trascendentale in forma di Fuga scritta in brevissimo tempo, con entusiasmo
platonico; “come fosse stata dettata”, dice Mahler. Quasi gliel’avessero dettata quegli
stessi angeli che dettavano a Schumann temi di compositori morti, quando già lo
avevano avvolto le tenebre della follia. Siamo nel regno della magia. Le ombre dei
bambini morti: i protagonisti dei Kindertotenlieder, dettano a Mahler questo epicedio
della Fuga, la Forma umanistica per eccellenza. L’Ottava, è l’ancora di salvezza di
Mahler dalla follia. L’ultima espressione dell’Imperativo Categorico: “Così deve
essere”, apposto da Beethoven, l’ultimo umanista, sul manoscritto dell’ op.135: la sua
ultima. Gustav Klimt, quando, nel fregio dedicato alla Musica, dentro il palazzo della
Sezession viennese, rappresenta Mahler, vestito da cavaliere medievale, nell’atto di
disperdere i demoni dell'inconscio, mentre dirige la Nona di Beethoven, certamente
auspicava il Mahler dell’Ottava Sinfonia. Il richiamo al Quartetto per archi op.135,
non è casuale. L’Ottava sviluppa il programma cosmologico della Terza, che si
chiude con il cielo di Dio: l’Empireo. Tra il tema dell’ultimo movimento della Terza
di Mahler, e quello che Beethoven adopera nel “Lento assai, cantante e tranquillo”,
del suo Quartetto, c’è più di un’assonanza. È una citazione in piena regola. L'Ottava è
l'estremo tentativo, forzatamente ottimistico, di Mahler, di uscire dalla sua nevrosi;
del Romanticismo, di uscire dal suo antiumanesimo; del linguaggio tonale, di
sopravvivere. Le tre cose sono strettamente collegate, come lo sono natura (tonalità),
mente (nevrosi), cultura (Romanticismo), secondo il modello di entelechìa realizzato
da Goethe nel Faust.
Solo una cultura al tramonto si può permettere di sostituire all’invenzione la
citazione; di farsi, da cultura, storia di una cultura. Il Faust di Goethe, comincia al
termine dell’Umanesimo. Le scienze e le arti non bastano ad appagare l’ansia di
infinito del protagonista; che si abbandona, quindi, secondo le parole di Thomas
Mann, “all’ebbrezza infernale”. Faust è il prototipo dell’eroe romantico: dice “dopo
di me, il diluvio”. La sua natura di intellettuale, lo rende il Doppio di Don Giovanni:
il carnale. Faust, è l’Animus; Don Giovanni, l’Anima, del narcisismo romantico. Faust
e Don Giovanni sanno che gli Umanisti avevano torto: la virtù non basta per essere
felici; men che meno, la conoscenza. Ad entrambe, manca un fattore fondamentale: il
desiderio, che rende l’uomo “umano, troppo umano”. Così, nel nostro “catalogo degli
Affetti” mahleriano, abbiamo già incontrato due termini-chiave: l’ispirazione e il
desiderio. Come dire: l’arte è uguale alla vita, e procede da essa. E in questo, Mahler
è un decadente. Fa del desiderio la propria religione.
Il desiderio, è la soglia fatale dello sguardo. Mahler, in Alma, amava gli occhi: occhi
grigioverdi, che fasciavano la sua Persona di un’aura violacea. Alma era il Perfetto
Ermafrodito, come ermafroditi sono gli occhi. Lo sguardo, infatti, è neutro: non ha
sesso. Le voci bianche che risuonano nell'Ottava Sinfonia, sono sguardi. Sono
richiami erotici rivolti a Faust. La redenzione nell’amore passa attraverso gli occhi;
che sono un’ossessione, per gli artisti della Mitteleuropa. Nell'Olandese volante di
Wagner, Senta si innamora del ritratto del pirata maledetto, ed intona di fronte a lui la
sua demoniaca Ballata; allora le ragazze posano il fuso, e le si dispongono intorno, ad
ascoltare. Anche qui, musica familiare e musica delle tenebre si intrecciano in un
sottile contrappunto; e Senta diventa il pifferaio di Andersen.
Lo sguardo fatale tra Tristan e Isolde, da cui nasce il celebre accordo che percorre
tutta l’opera, fa di un sentimento: il desiderio, un “affetto” da catalogo del
Melodramma. Da allora in poi, quell’accordo vuol dire “morte per amore”. Così il
desiderio, nella cultura della Mitteleuropea, si fa sacro. Diventa un mito; ed è proprio
dei miti, che “sacro” significhi anche “esecrabile”. Nel passaggio dell’Ottava in cui
interviene la Mater Gloriosa, voce di un archetipo: l’Eterno Femminino, Mahler
“santifica”, rende liturgico, quell’accordo lussurioso del Tristano. Prima di simile
palingenesi, però, il fantasma del Tristano compare nella Terza, in un passaggio del
Finale che segue immediatamente la parodia del tema beethoveniano di cui abbiamo
parlato. Le frasi del tema principale, in questo ultimo Movimento, sono, dunque,
entrambe parodie. Il tema sarà, poi, materiale per le variazioni di cui questo
Movimento è composto; ma ritornerà, intatto, nei punti nodali della Forma. Ne risulta
una vera dichiarazione di fede nella poetica della memoria. La “poetica delle rovine”
così cara all’Eliot di La terra desolata.
Le variazioni del tema degli occhi, nella Vienna delle rovine fin-de-siècle, sono
materia per il demonio. Non per caso, Elias Canetti ha intitolato Il gioco degli occhi
la sua autobiografia dei tempi di Vienna. Vi compare anche Alma Mahler, ora sposata
a Gropius. Ad Alma si ispira anche Robert Musil ne L’ uomo senza qualità: questa
scoria della bellezza in forma di romanzo; l’opera più nostalgica, e quindi più fredda,
introversa, che sia mai stata concepita; perché, qui, la nostalgia chiude i sensi al
mondo esterno. Nel romanzo di Musil, Alma vi appare come un’impicciona col gusto
del pettegolezzo: la signora Drangsal (ovvero “Tormento”). Gli occhi di Alma, erano
tremendi… Kokoska, da lei respinto, si arruolò nella Prima Guerra Mondiale,
sperando di venire ucciso. Al suo ritorno a Vienna, realizzò un pupazzo di Alma in
grandezza naturale; così, poteva sempre tenerla con sé. Un giorno, in un accesso
d’ira, bruciò in cortile l’aborto tremendo della sua Anima: la “salma” della donna. Un
vicino avvisò la polizia del tremendo omicidio, ed il pittore infiammato ed
infiammante dovette dimostrare la propria innocenza.
L'angoscia degli sguardi, in Mahler, è ben testimoniata da come il tema degli occhi
compare ossessivamente nei Kindertotenlieder. “Quando la tua mammina assorta/
Entra da quella porta/E io la testa giro/E verso lei miro/Sul suo volto non
cade/Dapprincipio il mio sguardo...” comincia una delle poesie che Friedrich Rückert
dedicò alla memoria dei suoi figlioletti. E un’altra: “Ora infine so perché così oscure
fiamme/A me lanciavate, occhi, in certi istanti”. Nei Kindertotenlieder, il tema degli
occhi è sempre collegato a quello del commiato: la morte. Ritroveremo un lungo,
straziante commiato, ad accomunare le tre ultime opere di Mahler, anche nei nessi
tematici. Il “catalogo degli Affetti” di Mahler si compone, quindi, di tre termini:
“ispirazione”, “desiderio”, “commiato”.
Parafrasando Rainer Maria Rilke: chi guarda e tace è condannato alla morte, perché
in lui lavora un demone oscuro. E invece, nella parte finale dell’Ottava, gli occhi
compiono il miracolo del rovesciamento. L’ispirazione è scesa dal divino all’umano.
Si è “redenta”. Ora l’uomo può ascendere, tramite l’entusiasmo platonico, al cielo
degli dèi. “Blicket auf zum Retterblick, alle reuig zarten”, “volgete lo sguardo agli
occhi salvifici”: così dice Faust alle anime penitenti, ed alla fine della perorazione
ricompare, trasfigurato come il ricordo di una miseria che ha dato ali alla redenzione,
il tema di apertura della Sinfonia: “Veni Creator Spiritus”. Ora, il tema iniziale
risuona in basso: memoria disturbante del tempo degli uomini. Mahler crea, alla fine
dell’Ottava, un “teatro cosmico” dove lo spazio viene osservato,
contemporaneamente, dall’alto e dal basso. Alla fine, il contrappunto è sconfitto da
un semplice Corale. La “tecnica”: il linguaggio, nulla può senza quel demone: lo
Spiritus, la cui evocazione richiede fede nel Simbolo. Nelle parole conclusive di
Goethe: “Tutto ciò che trascorre/Non è che Simbolo”.
II.

È proprio delle nature nate in un’epoca di transizione, l’essere superstiziose. Quando


il linguaggio non si piega più alle esigenze espressive, non resta che togliere il velo al
destino, e adorarlo. Mahler, come sappiamo, era molto superstizioso. Era convinto
che non sarebbe sopravvissuto alla Nona Sinfonia. Beethoven, Schubert, Bruckner:
tutti, erano morti dopo la Nona Sinfonia. E allora – l’abbiamo, altrove, già visto di
passaggio, ma il nostro contrappunto impone una ripresa del tema in sovrapposizione
– intitolò Il canto della terra “Sinfonia per voci”: lo catalogò come Nona, e chiamò
Decima la sinfonia che stava componendo in quel 1910 che vide il sofferto
ricostituirsi della sua serenità coniugale e personale. In quel periodo, Mahler era un
apolide: uno sradicato perso a New York come un santo anacoreta in un bordello.
Sapeva di dover morire, e voleva lasciare ad Alma un sufficiente patrimonio.
Artisticamente, si era già condannato a morte, guidando modeste orchestre rette da
tremende commissioni di virago: le mogli dei miliardari finanziatori, secondo quel
binomio cultura/finanza che ha lo stesso valore del binomio castrazione/castità. Il
capitale deve togliersi la patina sporca attraverso il nitore dei suoni; il castrato
(Origene, Abelardo…) deve elevare il suo handicap alla santità di un sistema di
pensiero. Mahler ha evitato la fase “follia”: è direttamente passato alla morte. I morti,
si sa, sono cattivi con i vivi. Ed ccco Mahler incutere il terrore, in quelle orchestre
novelle del Mondo Nuovo. Un violinista tubercolotico diventa la sua anima nera, la
sua spia. Rivela tutte le maldicenze su di lui. Si chiama Johner, ed è un personaggio
alla Jago: un nano hoffmanniano; un Mime di schietta tradizione bayreuthica;
querulo, vittimista, ipocrita. Che cosa “perde” Otello? L’insicurezza del “diverso”: il
Moro sposato ad una nobile veneziana bionda, sa che non durerà. Mahler, dopo
l’incontro con Freud, è uscito per caso dall’impotenza. E a New York, ora, si sente
doppiamente un diverso. Alma rivela di averlo, a quarant’anni suonati, iniziato ai
giochi d'amore (la delicatezza di Alma è pari a quella di quei siciliani di cui parla
Brancati, che appendevano fuori dalla finestra i lenzuoli, dopo la prima notte di
nozze). Non è vero, ma il rilievo bene illustra la natura del loro rapporto. Mahler era,
secondo le sue stesse parole, “tre volte senza patria: boemo in Austria, austriaco tra i
tedeschi ed ebreo nel mondo. Ovunque, un intruso”; di lui si dice che “anticipa il
futuro con mezzi terribilmente sorpassati”, oppure che “inserisce l’Opera nella
Sinfonia”. L'ambiguità, l’ambivalente non-appartenenza: la psicologia del Viandante,
è la sua cifra. Ad un viandante, dedica il suo primo ciclo di Lieder.
Freud, nel 1910, ha evitato il tracollo di quel generoso epigono del Romanticismo che
è Mahler. Nel 1911, a New York, il tracollo avviene. Gli occhi di Mahler, diventano
quelli di San Sebastiano: feticcio dei Decadenti; cui Debussy, insieme a Gabriele
d’Annunzio, dedicò un “mistero”. La Mitteleuropa ha la morte negli occhi:
ricordiamolo. La morte, è nella seduzione e nell’invito.
Il mito del Viandante, ha il suo archetipo nel Winterreise di Schubert. La triade
occhi/seduzione/morte ha anch’essa il suo antecedente in un Lied, poi diventato un
quartetto, di Schubert: “La morte e la fanciulla”. È strano, il gioco degli occhi.
Quando Mahler, febbricitante, si reca al suo ultimo concerto, nel Febbraio 1911,
un’infezione da streptococchi incurabile già lavora dentro di lui. Toscanini, il nuovo
astro del Metropolitan, odia Mahler. La sala, grazie alle sue congiure, è semivuota.
Quando si elogia Toscanini, non bisogna scordare quanto il suo astio contribuì ad
affrettare la fine di Mahler. Un direttore d’orchestra deve sempre onorare un
compositore più di se stesso. È un problema di valori.
Tra compositori, non vige lo stesso imperativo morale. Anzi: un artista creativo, se è
tale, cercherà di rendere sterile chi dà corpo a mondi diversi dal proprio. Brahms, con
i suoi maneggi, emarginò Bruckner fino alla disperazione e l’alcolismo. Pur di veder
eseguite le sue opere, Bruckner le amputò e riadattò fino a rovinarle. Ci perse anni.
Lasciò incompiuta la Nona, e ci rese quasi impossibile ricostruire la versione
originaria delle sue composizioni. Di Hans Rott, abbiamo già detto. Anche Mahler,
come compositore, fu sabotato da Brahms. A vent’anni, concorse al Premio
Beethoven con la cantata Das klagende Lied. L’opera fu bocciata, e Mahler andò a
dirigere Operette. La vocazione del direttore d’orchestra, si impose, dunque, anche
per necessità esteriori. Mahler, poteva comporre solo d’estate. Si consumò per salvare
la propria identità di compositore, nonostante la direzione d’orchestra se lo mangiasse
vivo. Sei settimane all’anno, per comporre. Un anno intero passato ad isolare queste
settimane. Una capanna tra i boschi, ogni istante di isolamento vissuto come un
miracolo. La necessità dell’ispirazione, diventa un’ossessione: una coazione a
ripetere. I sensi si acuiscono paurosamente. È in questo clima che uno sciabordìo di
remi diventa l’inizio della Settima sinfonia. Anche qui, come nell’incipit della Terza,
la Natura è una forza malefica, che travolge l'uomo nell’oscurità dei suoi suoni. Pan
guarda il compositore, nel trionfo della mezzanotte. Gli occhi, sono un contagio.
Quando Maria, sua figlia, si ammala, Mahler la abbraccia, la bacia. Vuole espiare il
fatto di avere evocato la sua morte nei Kindertotenlieder. I batteri lo vedono, lo
abbracciano, lo baciano. Lo inseguono. Diventano i viandanti rinchiusi nel suo corpo
di Viandante. La Natura si vendica sempre di chi è capace di colpirla nel suo intimo
mistero. Non disturbate le Madri – è l’ammonimento di Goethe – lasciatele dormire
sottoterra. Nella Tetralogia di Wagner, quando l’assurdo supera anche le capacità
degli dèi, che sono impotenti come l’uomo, Wotan evoca Erda: la Terra. Sono i
momenti più terribili dell’intera Tetralogia. Non bisognerebbe mai evocare alla luce
ciò che doveva rimanere nascosto: dice Freud, che chiamerà “Das Unheimlich”, “il
Non-domestico”, questa dimensione esoterica, spiritica, dell’arte. L’arte segreta, è
l’arte non addomesticabile.
Nella cantata Das klagende Lied, la prima opera importante di Mahler, si parla di un
menestrello che, passeggiando, trova nel bosco d’abeti un osso alquanto adatto a fare
da canna di un flauto. L’osso, appartiene al cadavere di un giovane cavaliere ucciso
dal fratello (siamo agli antipodi della coppia dei “santi ermafroditi”: Siegmund e
Sieglinde) perché aveva colto un fiore il cui possesso dava diritto alla mano di una
potente regina. Il flauto, ora, appartiene al menestrello, e dai suoi fori risuona la voce
del morto, che racconta la propria storia. Il menestrello buffone, qui, è l’Unheimlich;
come il Fool che assiste al tramonto di Re Lear, egli porta la saggezza del “buon
selvaggio”, favoleggiata da Rousseau. L’osso che dà voci, voci di morte violenta,
appartiene a quella misteriosa simbiosi tra natura ed arte che è l’essenza stessa della
nostra cultura occidentale. È un motivo che troviamo già nell’Eneide di Virgilio, e poi
nelle Metamorfosi di Ovidio; fino a Dante, che, nel suicida Pier delle Vigne, dà al
tema una configurazione morale.
L’archetipo diventa, qui, un mito: il mito del martire. Mahler bambino, voleva
crescere per diventare un martire. La sua devozione alla musica, ha un’intensità
suicida. Mi innamorai del suo fanatismo: dice Alma. L’arte diventa una fede; il che è
un pericolo; perché, allora, il linguaggio collassa. La caduta del Sacro apre la strada
all’arte; e l’arte, linguaggio sacro, apre la strada all’irrazionale. L’esito di questa
deriva, sono i regimi sanguinari del Novecento. Nel 1910, il linguaggio collassa. Con
l’accordo di nove suoni che, nell’“Andante-Adagio” della Decima, lacera col suo urlo
la volta del cielo, la tonalità si sfascia; così come la psiche di Mahler, che vive nel
timore di perdere Alma, e le lascia sul comodino messaggi del tipo “ho baciato mille
volte le tue pantofoline”, durante le sue distruttive insonnie. Il suicidio posticipato
(ovvero: internamento in manicomio) di Rott, colpisce Mahler, che si sente un
martire. Sente di aver fallito nel suo tentativo di salvare il linguaggio classico.
Brahms, in condizioni analoghe, si contenta di rinnovare dall’interno. Accoglie le
Forme come un vasaio i suoi stampi. Mahler, no: Mahler deve, ogni volta, reinventare
le strutture, la filosofia, la cosmologia delle sue composizioni. In questo senso, la sua
arte deriva da Beethoven, che scrisse solo nove Sinfonie, contro le quarantuno di
Mozart e le centoquattro di Haydn. Brahms, invece, non si riallaccia a Beethoven,
come si sente dire: si riallaccia ad Haydn. Infatti, il Finale della Quarta Sinfonia è
una Passacaglia: una forma vecchia quanto nessuna. La genialità di Brahms sta nelle
voci interne: nella discrezione del suo eterno variare l’ovvio. La fine del linguaggio, è
la fine dell’uomo. L'uomo, è vivo solo in quanto artista. Brahms, che lo sa, osserva il
mondo per catturarne l’essenza vera e trasfonderla nella propria anima; Mahler
costruisce, per tutta la vita, mondi alternativi in cui vivere. Mondi di fango e, insieme,
di luce, simboleggiati nel Corno magico del fanciullo; nel Lied “La vita celestiale”,
che chiude la Quarta Sinfonia. Mondi buoni perché ingenui; ingenui perché infantili.
Giochi di un Demiurgo annoiato di altre, più complesse sue Creazioni.
Bach – favoleggiavano i Romantici – lasciò incompiuta l’Arte della fuga nel punto in
cui introdusse il suo nome (B-A-C-H: Si bemolle-La-Do-Si bequadro) come
controsoggetto; Mahler morì nel punto della Decima in cui tutte le note della scala si
sovrappongono, e che segna la fine del linguaggio tonale. Questo passaggio ricorda
un dipinto di Edward Münch: L’urlo.
Alla fine della propria vita, Mahler incontra ancora gli occhi, suoi eterni demoni.
Viene ricoverato nella clinica del dottor André Chantemesse. L’illustre batteriologo
prende il microscopio, fàllico dio dei Positivisti, e mostra ad Alma il “fuso” che gli
streptococchi, novelle Norne, intessono nel sangue di suo marito. “Guardi – mi disse
– madame Mahlér: io stesso non ho mai visto streptococchi sviluppati così
favolosamente. Veda questi cordoni: sono alghe” ricorda Alma. Ognuno ha la sua
arte. Chantemesse non ha fatto altro che difendere la propria. Ma gli occhi del
primario, attraverso la lente del microscopio, io mi sento di associarli a quel grido
lacerante che sconvolge la Decima Sinfonia. È l’irruzione della Medusa positivista
nel linguaggio romantico; nella mente di un uomo intriso d’Europa che passò i suoi
ultimi anni in un paese la cui Costituzione recita: “L’uomo ha diritto alla felicità”. Lo
Stato, garantisce il diritto alla felicità. Così, chi non è idiotamente felice, si sente un
babbeo. Anni dopo, Alma si risposerà con Gropius: l’architetto del Bauhaus. Avrà una
figlia bellissima, che morirà a diciotto anni, e per la quale Berg scriverà il Concerto
per violino “alla memoria di un angelo”. Elias Canetti, nell’autobiografia degli anni
viennesi, impietoso, poserà i suoi occhi sulla povera poliomielitica in sedia a rotelle,
imbellettata da Alma come per un ballo, e perpetuamente trascinata per feste. Canetti,
con i suoi occhi, vendica Mahler; a suo tempo umiliato, perché posseduto, dagli occhi
di Alma. Come ladri, ci si spartisce il tempo dei morti: dice Borges. Così, la vita
diventa una messinscena a beneficio degli altri. Forse per questo la cultura della
Mitteleuropa, e le Sinfonie di Mahler, ruotano intorno alla dimensione “tempo”:
sintesi di natura e teatro.
III.

Prima di questo epitaffio, c’è l’elegia. Nella Nona Sinfonia, lo sguardo spazia
lontano, sconfitto, a raccogliere ancora le ultime luci di un tramonto lento e luminoso.
La Nona, non ha radici: nasce dal silenzio, ed al silenzio torna; come quel Viandante
che, nel Finale del Canto della terra, si allontana dall’amico, e la musica segue il suo
svaporamento. Non è uno scomparire: è il confondersi di uomo e natura. Il mescolarsi
dei propri contorni con quelli del monte lontano. La Nona Sinfonia e il Canto della
terra, sono visioni che trascendono il tempo. Qui, per i vivi, non c’è più nessun
bottino da spartire. Anche il lirismo non è più, in queste partiture, autobiografico, ma
è stilizzazione di un’alterità: cifra di un’alienazione. L’inizio della Nona è
asimmetrico, irregolare: un fantasma sonoro dell’angina pectoris, il cuore malato di
Mahler (Beethoven, nella “Cavatina” del Quartetto op.130, proietta nei suoni la
stessa sua “immagine allo specchio”). Quando subentra la regolare scansione degli
accenti, la riconciliazione uomo/natura avviene entro uno dei temi più grotteschi che
si possano immaginare. Nulla più succede: tutto accade. Così, nell’“Adagio”
conclusivo, non c’è più una contrapposizione di due temi, come nello stile classico. Il
tema è uno, variato senza fine: esito ultimo della “melodia infinita”' wagneriana. Non
per niente, ultimato il Parsifal, Wagner intendeva dedicarsi a Sinfonie in un solo
tempo: costruite su di un solo tema. La metamorfosi dell’esitante tema iniziale
nell’incipit del Terzo Movimento: il “Rondò-Burleske”, trova nella deformazione
grottesca la traduzione stilistica di quella fibrillazione cardiaca. Il cuore malato,
ammala la mente. Grazie ai ritorni ossessivi di quell’incipit, ora scopriamo che
l’esitare era non scelta espressiva, ma destino subìto: deformazione del tempo. Il
tempo: la sua eternità disumana, distrugge le ragioni dello stile. Nel Canto della
terra, i giovani che festeggiano nella pagoda sull’acqua non si accorgono di come la
luce proietti le loro immagini rovesciate sul cielo sbiancato dalla luna. Quel piccolo
stagno, è il loro mondo, dove vivono prigionieri. La luce che riflette il Vero, è la
coscienza, secondo il Goethe della Teoria dei colori. Oltre la coscienza, si apre un
mondo di spiriti superbi, che noi possiamo penetrare solo a patto di disperderci nelle
mille identità dei sensi. Torna il contrappunto degli Elementi: acqua, aria, terra e
fuoco. I temi, nella Nona, sono eroi romantici: attori di un dramma senza significato.
A Mahler non resta che scrivere, sul manoscritto della Decima, “follia, afferrami,
perché io sia maledetto”. Più fortunato di Rott, morirà prima che succeda. Altri,
hanno pagato per lui.
Il 3 gennaio 1889, Nietzsche, a Torino, si attaccò al collo di un cavallo, a sua volta
aggiogato alle stanghe di una vettura di piazza. L’aveva scambiato per il Kaiser
ridotto in schiavitù. Conosciamo la data precisa del suo passaggio nel mondo senza
passato della follia: strano paradosso in un uomo che cercò di abolire in sé il fluire
del tempo; rifiutando di esistere, cercando solo di essere. Prima di impazzire,
Nietzsche ebbe occasione di teorizzare un tempo circolare, caratterizzato dall’eterno
ritorno delle idee e degli uomini. Riprendeva un’intuizione di Giovan Battista Vico,
che il filosofo napoletano attinse da certe suggestioni dei Neoplatonici e di Giordano
Bruno. Wagner la sviluppa nel Finale della Tetralogia, quando le ceneri del Walhalla
si disperdono, e l’aurorale ricaduta dell’Anello nel Reno riconduce tutto al primario
fluire dell’Essere. Nietzsche scopre che, nell’arte, il linguaggio è rito sacro, enigma
ed incantesimo; Mahler, grande ammiratore del filosofo, compie un’evoluzione dalla
mìmesi: l’imitazione dei linguaggi naturali, alla concezione della Sinfonia come
ecosistema chiuso; mìmesi anch’esso, ma dei fantasmi della mente. Uno specchio
concavo in cui si specchiano le figure di quel velo dipinto di “coloro che il vivere
chiamano vita”. Schopenhauer diceva che gli dèi hanno dipinto un velo attorno al
mondo; e le immagini di questo teatro, l’uomo le scambia per la realtà. Ora, il tempo
“epocale” della natura e quello “epifanico” della mente, nella Nona e nel Canto della
terra, vengono a coincidere.
Da qui deriva quella nostalgia del Vero che contraddistingue il tramonto di Mahler:
nostalgia che gli faceva amare la Cavalleria rusticana di Mascagni, e Leoncavallo, e
Giordano; e detestare Puccini. In Mascagni, Mahler manifestava la propria nostalgia
per il perduto sentimento ingenuo; in Puccini, detestava il teatro: la mìmesi nella
mìmesi; una cifra stilistica che era stata anche la sua, e per la quale – sapeva –
Platone l’avrebbe qualificato come “ipocrita”, e cacciato dalla Repubblica dei
Filosofi. Durante le Sinfonie “di mezzo”: la Quinta, la Sesta e la Settima, Mahler
trova nel contrappunto, la polifonia delle voci, il modo per aggirare la parodia delle
voci naturali: il teatro. Inventa una natura mentale, parallela a quella dei sensi.
Nell’ultima parte della sua vita, subentra una profonda malinconia, una senilità dello
spirito. Sempre chi muore, essendo solo, capisce. Dopo i Kindertotenlieder, l’infanzia
è diventata il regno del demoniaco: del “polimorfo-perverso”, dirà Freud, pochi anni
più tardi.
L’ultimo lavoro compiuto di Mahler, è un riadattamento delle Suites orchestrali di
Bach. Mahler, le ristruttura: ingloba sezioni e brani in un diverso ordine. La citazione,
la storia dello stile, non investe solo l’invenzione dei temi, ma diventa, infine, l’unica
possibilità intellettuale – e quindi, formale – della musica. Mahler muore storpiando
in dialetto viennese il nome di “Mozartl”; anche nella morte, il suo respiro d’artista
deforma lo stile classico ormai perduto. Lo stile classico, diventa un fantasma: una
immagine allo specchio. L’eidolon: effige di Anima.
In questo, Mahler, non è solo. Uno dei suoi ultimi atti, nella fatidica estate del 1910, è
promuovere la pubblicazione delle Sinfonie di Bruckner, devolvendo a questo scopo i
diritti d’autore delle proprie partiture. Perché Bruckner? Bruckner aveva sviluppato
fino alle estreme conseguenze la concezione per analogie tematiche: l’interpretazione
non dialettica, non sintetica, che Schubert diede dello stile classico. Torniamo
un’ultima volta al tema d’inizio della Terza Sinfonia mahleriana: potenti, le assonanze
che lo legano all’incipit della Nona di Schubert. Schubert, visse nell’Ombra: il
fantasma della natura. Visse nell’incubo della mente. Abbiamo altrove esaminato il
tema del Sosia, nel Lied Der Doppelgänger: la duplicazione senza fine, nel tempo
circolare della coscienza. Uno sviluppo musicale dell’idea nietzschiana per cui ogni
identità è rinchiusa nel circolo immutabile del tempo; lungo il cui percorso, a mutare,
sono solo le sue sembianze. Questo Lied è stato sviluppato da Camillo Togni, sul
finire del Novecento, in un brano per chitarra dal titolo Du bleicher Geselle: “Tu,
pallido compagno”, dove il Sosia diventa la luna. Con la luna – ombra della follia,
Doppio delirante della ragione – riaffiora per un attimo l’apparato massonico del
Flauto magico. La luna – simbolo dell’Angst, testimone della colpa – compare nello
Schönberg di Notte trasfigurata, ancora fiducioso in una riconciliazione tra mente e
natura; e in quello, già espressionisticamente scisso, dilaniato, del “monodramma”
per voce e orchestra Erwartung.
Erwartung è l’incubo di una donna persa nel bosco, alla ricerca del proprio amante.
Alla fine, ne ritrova il corpo, e sente di esserne lei, l’assassina. La musica non
rappresenta: è, tutto questo. La donna non pensa, sente. La musica, diventa metafora
della follia. Il cannocchiale rovesciato sull’anima osserva ingigantirsi, mostruosi, i
lineamenti dell’homunculus: l’uomo sintetico che Faust crea in un’ampolla; il
fantasma dell’identità, ghignante nel cranio dove la ragione crede di avere piantato il
proprio vessillo. L’homunculus: la più demoniaca maschera di Faust. Siamo nello
psicodramma, con la musica ridotta a infermiera del medico alienista. Da Schubert a
Mahler, la musica prepara simile dissociazione schizofrenica: lo specchio dell’Io,
inutile dialettica. Il trionfo dell’antiumanesimo. La fissità allucinata è, ancora una
volta, il tema del “Canto di mezzanotte” dallo Zarathustra nietzschiano, “specchio”
centrale della Terza Sinfonia. L’impossibile dialettica dei suoni; la paradossale
dialettica delle idee, impotenti ad arrestare il libero fluire del tempo, dove spaventa
sapere che tutto ritornerà. Per questo le Sinfonie di Mahler sono lunghe, complesse.
Mahler vuole sfuggire la consequenzialità delle idee. Depotenziare nel silenzio il loro
potere costruttivo.
Beethoven, odiava il dubbio. L’incipit della Quinta sinfonia, nei suoi taccuini, lo
abbiamo in diecine di versioni diverse. Il tema del Secondo Movimento trova la sua
forma attraverso quattordici successive varianti. Mahler, invece, ingloba nelle
Sinfonie anche i materiali scartati dalla sua coscienza critica. Vuole annullare, nel
libero fluire delle idee, la propria individualità artistica. L’opera comincia, con lui, a
far valere le proprie ragioni contro l’artista. La sua è una lotta, consapevole di essere
perdente, contro la genialità dell’artista: l’eroe romantico. Torna alla mente
l'immagine di Klimt: Mahler come cavaliere medioevale. C’è molto di arcaico, di
ancestrale, nella poetica di Mahler. La sua concezione dell’arte, è quasi dantesca: la
stessa ossessione per la luce; per gli occhi, gli sguardi: i riflessi della Parola divina in
un Cosmo smembrato dal male. Perché esiste il male? Perché il Tamburino ingenuo
del Corno magico deve morire; perché devono morire i bambini? Dante, alle prese
con lo stesso problema, pose il senso dell’arte in un Altrove, dove il male non esiste.
Questo Altrove, lui lo chiama “alta fantasia”. Quando scrive, qualcosa in lui “si
muove” e “ditta dentro”, e all’alta fantasia “piovono dentro” le idee. Anche per
Mahler, la fantasia è un luogo in cui piovono dentro rappresentazioni: idee fattesi, nei
suoni, simboli. Torna il “catalogo degli Affetti”: qui non più repertorio dei sentimenti
comuni, ma esorcismo di ossessioni private. La morte della musica, è la metastasi di
questa estetica rovesciata. Mahler non amava la parola “arte”. Non voleva sentirsi un
intellettuale; piuttosto, un Naturmensch: un “uomo di natura”, come il Papageno del
Flauto magico. “Ho vissuto una vita di carta”: disse con rimpianto quando gli fu
diagnosticata la malattia incurabile. Componeva passeggiando tra i boschi. Cercava
di smemorare la mente nel tumulto delle voci di natura. Per lui, tutto era natura; nulla
doveva essere artificio. Chiunque la pensi così, scrive le opere più complesse che si
possa immaginare. Per forza: ogni espressione della sua arte, deve essere
autosufficiente: trovare in se stessa le proprie ragioni. La tradizione, per artisti così, è
il feticcio di un dio straniero. Dunque, territorio di conquista. Allo stesso modo, le
complesse strutture sinfoniche di Mahler tentano di recuperare l’irriflessività infantile
delle origini. I materiali musicali, nel Primo Movimento della Terza, si assemblano da
sé: hanno una vita propria, di cui l’artista è spettatore divertito e, insieme, angosciato.
Faust, quando Mefistofele accetta di assisterlo nella magia nera, per prima cosa
sintetizza in laboratorio il suo homunculus: un uomo artificiale che viva di pura
istintività giocosa. L’estenuato finale della Nona non è, come sostiene qualcuno, la
descrizione della morte. È la descrizione del Nirvana: la cessazione definitiva del
pensiero, sopraffatto dal libero fluire del respiro: l’atman.
Nel Cosmo di Mahler, Dio esiste, ma non esiste l’uomo. Dio è perfetto; quindi, non
può aver creato una mente che non è in grado di comprenderLo: di comprendere il
male. Tutta la musica di Mahler è etica; ma di un’etica sovrumana, disumana. Il suo è
un profondo, teologico antiumanesimo. Per gli Umanisti, Dio è il garante: l’origine
della soprannaturale mente umana. L'espressione di Blaise Pascal: “L’uomo è come
una canna piegata da ogni vento; ma, a differenza della canna, l’uomo ha di sua sorte
coscienza. E in questa coscienza sta la sua forza, la sua gtandezza”; per Mahler, è
un’eresia. Questa coscienza, lungi dall’essere segno di grandezza, è, per lui, sigillo di
un’esclusione dalla natura che la mente perpetra ai danni dell’uomo,
rappresentandogli una bugiarda parodia di natura. Infinite volte, nelle Sinfonie,
Mahler cerca di ingannare l’arte, la Forma, inserendo i “suoni di natura”, elementi
estranei alla musica. I famosi campanacci da richiamo bovino, per cui Mahler subì
infinite caricature, ne sono un esempio eclatante. Quando echeggiano nel Finale della
Sesta Sinfonia, squassandone il tessuto dall’interno, il limite tra musica e rumore è
superato. Mahler, interrogato in proposito, disse che questi campanacci sono l’ultimo
suono che si sente quando, nello scalare una montagna, si sta per giungere alla roccia
nuda. L’ultimo legame col mondo, prima di sparire, è una prenatale, fetale sinestesia.
Da questa concezione mahleriana hanno origine le esperienze di Edgard Varèse,
quando, in Ionisation, introduce solo strumenti a percussione: solo suoni “naturali”;
oppure di Arthur Honegger, quando compone Pacific 431, per orchestra sinfonica;
che è la “storia” di una locomotiva, dal suo mettersi in moto alla corsa indiavolata per
le pianure solitarie. Da un punto di vista formale, si tratta di una Fuga; ma, qui, la
Tradizione, diventa uno specchio concavo: un bel cammino, dall’uso che Brahms fa
della Passacaglia, nella sua Quarta Sinfonia. Eppure, tanto doveva succedere…
Siamo ad un passo dalle esperienze di John Cage, che idea una “composizione” per
dodici radio soliste sintonizzate su stazioni a casaccio; e poi noleggia un treno, piazza
microfoni per ogni dove, e mixa il risultato in un’organizzazione dei “suoni di natura”
rimasti nella “memoria” dei registratori. Sono, anche questi, gesti sonori: eventi
sfuggiti alla ragione mimetica dell’arte. Vedete un po’ da quale estremo, arcaico,
istintuale Romanticismo viene fuori, la nostra superintellettuale musica
contemporanea.
L’artista è un attore dentro la sua stessa opera; il suo ruolo, è soltanto organizzare gli
eventi che avvengono al di fuori di sé. Il demoniaco antiumanesimo di Mahler, la sua
stigmate profonda sui nostri tempi, sta in questo regresso della coscienza.
ANALISI DEI BRANI FIN QUI TRATTATI

I Lieder eines fahrenden Gesellen sono l'incunabolo della Sinfonia n. 1. Le quattro


poesie di Mahler si muovono già nel clima di quel Des knaben Wunderhorn che
faceva parte dell'humus dentro cui crescevano i reietti dell'Impero asburgico nelle
terre di confine, dove la sovrapposizione delle culture diventava ghetto delle
diversità. Chi è mai questo Geselle: questo “tizio”, individuo senza qualità, nella sua
significazione tedesca? Un viandante in fuga da un dolore, un uomo che fugge da se
stesso. Il modello mahleriano è il grande ciclo di Lieder Winterreise di Schubert, ma
con un'importante differenza: in quello la natura, il mondo di fuori, fa da riflesso
all'animo dilaniato del protagonista; nei Lieder eines fahrenden Gesellen il paesaggio
fiorisce indifferente, estraneo, cosicché la sua luminosa bellezza diviene una ferita
profonda. Esiste un equivoco, tra i commentatori mahleriani, secondo il quale il
compositore sarebbe un paesaggista, un poeta della natura; invece, in lui, la natura
osserva l'uomo con l'occhio spalancato del dio Pan, e la sua bellezza è un incubo
ossessivo. Tra la natura e l'uomo c'è la memoria, il tempo perduto, che nessuna
sensazione potrà redimere.
Il ritmo di danza boema raggelata del primo Lied, “Wenn mein Schatz Hochzeit
macht”, “Quando il mio tesoro a nozze va”, nell'incipit, è un ricordo che funziona
come uno specchio deformante. Nella versione pianistica Mahler moltiplicò i cambi
di tempo, quasi a suggerire il ricorrere del flash-back allucinatorio. La linea del canto
è modellata sui canti di sinagoga. La sensazione della diaspora percorre la musica con
un senso di estraneità irredimibile. Quando il richiamo dell'uccellino risveglia il
viandante alla realtà, l'ingenuità del “cip cip” suona come un atto di accusa, una
stigmate della sua incapacità alla vita. Mahler fin da questo suo primo capolavoro
individua nell'alienazione come malintesa via alla conoscenza il destino amaro del
proprio canto. Il testo di questo primo Lied è modellato su due poesie del Des knaben
Wunderhorn e vive di due sezioni musicali incompatibili: sacrale, arcaica, la prima;
atmoferica, “suono di natura”, l'altra. La natura è un tempio di bellezza che il canto di
sinagoga, pianto degli esuli, non potrà mai attingere. L'amore diventa, così, metafora
di un'impossibile vita dei sensi. “Ho vissuto una vita di carta”, dirà un Mahler quasi
morente.
Il secondo Lied, “Ging heut' morgen übers Feld”, “Me ne andavo stamattina per i
prati”, sviluppa il tema della dissociazione sotto l'inganno di un'apparente simbiosi.
Il viandante cammina in una natura radiosa che lo abbraccia, e non sa di abitare un
sogno. Si è spesso parlato della parodia maheriana, della sua “imitazione di voci”. Si
tratta, piuttosto, di sarcasmo. L'imitazione nostalgica del canto popolare, nel tema, sa
di una regressione all'infanzia vissuta come stato psicotico. Dare voci umane agli
elementi della natura, far parlare il fringuello e la campanula, significa togliere senso
al linguaggio umano. La psicosi, in Mahler, suona sempre come una riconciliazione
idiota col mondo; dove per idiota si intende “senza carattere”, immune alla memoria.
Il titolo del ciclo liederistico trae in inganno con sottigliezze intraducibili. Il Gesell è
uno di noi, l'uomo comune, con una connotazione di sconfitto e di vittima. Il suo
viaggiare appare l'esito di un'impotenza ad amare, di una colpa del carattere. Il suo
Lied, il suo canto, è un atto di impotenza, il riconoscimento di una dissociazione. La
traduzione del ciclo è stata oggetto di innumerevoli aggiustamenti. In quel
“fahrenden” c'è l'idea del profugo, del reietto e dell'escluso, ma per sua incapacità di
vivere la vita dei sensi, per totale assenza di vitalismo. Il personaggio mahleriano
nasce dalla costola di von Eichendorff, la Vita di un perdigiorno, dove l'innocenza è
la colpa maggiore immaginabile. Non esiste categoria, in Mahler, più complessa
dell'ingenuità, che è rinuncia a lottare. La sua musica stigmatizza la bonaria passività
degli esclusi, rendendo la bellezza una complice della violenza.
A dimostrarlo c'è il tono melodrammatico, convulso, del terzo Lied, “Ich hab' ein
glühend Messer”, “Ho un coltello rovente”, dove il dolore diventa contorcimento
fisico. A bruciare non è la perdita dell'amore, ma l'incapacità di reagire al tradimento.
Ogni vittima, in Mahler, appare complice dei propri aguzzini. Un Lied, il terzo,
difficilissimo. Se lo si esplicita in senso espressionistico appare falso, ma se lo si
riduce a una somma di luoghi comuni, come è, si collabora con chi vedeva in Mahler
un ebreo scimmia dei romantici. Esasperare il pathos di questo Lied, diventa
antisemitismo: è, questa, la più sottile ironia di Mahler. La seconda sezione del canto
è trasognata, assente, scorporata. Il reietto del dolore smette di imitare i Padri
sinfonici, e commenta in un “declamato” la propria esclusione da ogni titanismo. È
come se il cantante nutrisse un Golem che prenda le proprie sembianze e vada in giro
per il mondo ad esibire la parodia del sublime. L'orchestra, nelle ultime battute,
distilla il tema fino a renderlo un pulviscolo sonoro farsesco. Dissociandosi, ci rende
consci di quanto falso sentimento abbiamo immesso in questo cattivo romanzo.
Il ritorno alla casa dei Padri è il quarto Lied, “Die zwei blauen Augen”, “I due occhi
azzurri”. Mahler vi commemora uno dei simboli sacri alla poesia romantica: il tiglio,
luogo di quella pace che sempre trascorre, nel sonno, alla morte. La natura che
abbraccia e fa regredire alla materia, nella cultura panteistica tedesca, è sempre
altamente sospetta. Gli esseri vegetali e gli uccelli dagli ingenui richiami sono
beatifici perché mancano di coscienza; quindi, sono figli del demonio. Il demoniaco
romantico è la cessazione dei conflitti, la pace del ricongiungimento alle origini. Così
intende Schubert, nel Winterreise, il tiglio. Inoltre, questo ultimo Lied del ciclo
celebra l'incantesimo degli occhi azzurri. L'azzurro è l'acqua, che è specchio di una
profondità entrando nella quale si annega. Il fiore azzurro è, in Novalis, simbolo di
perdita e presentimento di ritorno alla fusione col Tutto: la morte. La musica
mahleriana appare una Marcia Funebre sospesa in una movenza di danza raggelata.
Nulla di più elementare; eppure, l'effetto è di uno straniamento tremendo. Sembra che
il cuore si fermi mentre la danza lenta degli spettri ci attira a sé. Viene poi l'episodio
del tiglio, sotto il quale il povero girovago buono a nulla si ritira e addormentandosi
scopre che il mondo è sogno, e nel suo sogno c'è un altro povero girovago che lo vede
sognare. La musica ha una timbrica reattiva, di riflesso alla parola. Non dice, non
commenta, non risolve: sospende in un respiro fatto di sospensione qualsiasi
commento, ogni drammaturgia. Raramente, e solo con grande schiamazzo, il
nichilismo di Mahler celebrerà esiti così assoluti. Sulle ultime battute risuona, come
un rintocco funebre, l'incantesimo degli occhi azzurri. Sono lo sguardo di una
creatura al limite dei tempi, che aspettava il Geselle sui confini tra l'umano e la sua
cristalizzazione in un dolmen riarso dai venti. Il primo ciclo liederistico di Mahler è
anche la soglia più estrema del suo scavo nella falsità dei sentimenti. Interpretarlo è
quasi impossibile, perché comporta un distacco dell'emozione innaturale, e così
doloroso da risultare insostenibile.
A Budapest, il 20 novembre del 1889, Mahler presentò quel suo “Poema Sinfonico in
due parti” che noi conosciamo come Sinfonia n. 1 in Re maggiore. Il brano non
presentava nessun programma descrittivo, tranne la dicitura “À la pompes funèbres”
del Terzo Movimento. L'inclusione di “Blumine” come Secondo Movimento venne
sottoposta a censura nella revisione di Amburgo, gennaio 1893. Il 16 agosto dello
stesso anno la struttura tornò quella originaria, e il Poema Sinfonico si tramutò in una
Sinfonia “Titan”, cinque movimenti divisi in due sezioni. Mahler, questa volta,
abbondò in titoli. La Prima Parte era descritta come articolata in “Primavera senza
fine”, “Blumine”, “A vele spiegate”; la Seconda, “Marcia funebre alla maniera di
Callot”, “Dall'Inferno al Paradiso”. L'ultima didascalia è in Italiano, e risente di
letture dantesche affrettate. Il 27 ottobre del 1893 Mahler presentò in seconda
esecuzione il brogliaccio, ormai intricato, ad Amburgo. Riuscì a complicarlo ancora
di più. Ora il Primo Movimento si chiamava “Dai giorni della gioventù: un po' di
fiori, di frutti, di spine”. Aggiunse anche una notazione impressionista per l'incipit:
“L'introduzione rappresenta il risveglio della natura dal lungo sonno invernale”. La
Seconda Parte, ora aveva per titolo “Commedia humana” (stupisce come nessuno dei
critici abbia colto il riferimento ad Honoré de Balzac; il che vuol dire, realismo
rappresentativo, non metafisica). Al Terzo Movimento venne apposta la didascalia
scenica “Gestrandet!”, “arenato!”. È il tempo che si ferma ad osservare il senso di
una vita. Inoltre Mahler esplicitò a quale litografia di Moritz von Schwind si fosse
ispirato: Il corteo funebre del cacciatore, dove gli animali della foresta
accompagnano la salma del loro persecutore saltellando, zirlando e ciurlando come
loro, festosi, si conviene. Per evitare una cesura col Finale, il compositore appose
sull'apocalittico squarcio del cielo con cui comincia fa minore iniziale l'ultimo
movimento “segue, quasi improvviso precipizio nella disperazione di un cuore
piagato nel profondo”. Dopo la terza esecuzione, a Weimar, Mahler eliminò
“Blumine”, salvo poi sostenere che a imporglielo fosse stato l'editore Josef
Weinberger. Quando non era sicuro di una propria censura strutturale, ne dava la
colpa ad altri. Lo aveva imparato da Bruckner. Finalmente a Berlino, il 16 marzo del
1896, presentò il tutto come “Sinfonia in Re maggiore”. Tra il 1906 e il 1907, infine,
rielaborò un'ultima volta la strumentazione. L'indicazione amburghese “Dai giorni
della gioventù: un po' di fiori, di frutti, di spine” rimanda ad un romanzo di Jean Paul
il cui titolo è così lungo da costituire in se stesso in romanzo. Di solito lo si abbrevia
in Siebenkäs, “Setteformaggi”, che è il nome del protagonista, un “avvocato dei
poveri”. Allo stesso scrittore si ispira “Blumine”, che trae ispirazione da una raccolta
di saggi intitolata Herbst-Blumine, “Mazzo di fiori autunnali”. L'autunno è la
stagione del congedo al sole, ed ai ricordi: una suggestione epidermica, per Mahler, e
niente più. Quanto al sottotitolo “Titan”, deriva anch'esso da un romanzo di Jean
Paul, ma Mahler decise di introdurre questo controtesto solo a sinfonia finita, e su
consiglio di amici. Il Terzo Movimento era duro da digerire, e alludere al cinico e
sinistro Roquairol, l'amico infido del buon principe Albano, nella storia jeanpauliana,
poteva aiutare a cogliere gli specchi deformanti della musica. In Italia, dove lo
scrittore più contrappuntistico in lingua tedesca figura in traduzione con un solo
titolo, Flegejahre, “L'età della stupidera”, peraltro senza riscontri di lettori, questo
“Titan” rappresenta solo un'ulteriore complicazione. L'intera problematica dei
sottotitoli va ricondotta ad un dialogo del Mahler interprete col se stesso compositore.
Per eseguire la propria musica doveva ritornare alle sorgenti originarie, che erano
quasi sempre poetiche. I “programmi” delle sinfonie mahleriane sono pagine di diario
autoreferenziali, non indicazioni per gli ascoltatori. Gli scrittori preferiti del Nostro
furono Jean Paul e Dostoevkskij. Entrambi sono polifonisti, e agglutinano le voci in
dialoghi dissipativi, per contrasti. Mikhail Bakhtin si è diffuso su questo contrappunto
disgregante dostoevskiano. Mahler è un imitatore di voci, un attore musicale. La
letteratura gli faceva gioco come sceneggiatura di visione, scenario di panorami
interiori, e niente più.
La scenografia interiore della Sinfonia in Re maggiore si apre su di un armonico di La
tenuto da tutti gli archi ad eccezione dei terzi contrabbassi. Si tratta di uno
stratagemma timbrico introdotto da Mahler durante le prove per la “prima”
budapestina. Lo scopo è dilatare il paesaggio, lo spazio fisico dell'atmosfera; renderlo
così trasparente, diversificato, da ospitare al suo interno simboli sonori differenti,
ognuno dei quali è la traccia mnestica di un'esperienza. Fin dal principio, il carattere
peculiare al sinfonismo mahleriano è la capacità di trasfigurare lo spazio dei suoni in
teatro della memoria. Trasmutare in scena interiore, attraverso simboli musicali, la
sensazione quasi tattile dei suoni. Il suono armonico ha anche un significato, direi,
metafisico: è il risveglio della coscienza, è l'“apparir del vero”. La Prima Sinfonia è
opera matura. Segue ad una messe di composizioni che Mahler distrusse o smarrì con
una sistematica cupio dissolvi solo in parte conscia. Questi errori, nel senso
etimologico di “deviazioni”, lasciano il posto, nell'incipit della Prima, ad un'epifania
luminosa che sa di rinascita, accoglimento nel mondo della rivelazione angelica. I
reperti dei quali è costellata la sinfonia sono un altro elemento caratteristico del
Mahler revisore e, proprio perché tale, “autore” delle proprie composizioni. L'autore
è colui che, siccome suggerisce il Latino augeo, “accresce” l'esistente; le sinfonie
mahleriane sono costruite per mitosi, concrezione di cartilagini e tendini che poi
diventano carapaci formali capaci di custodire la tenera midolla della vita vissuta.
Molto si è detto sulla relazione, in Mahler, tra sinfonismo e liederismo, quando,
invece, si tratta di una mera ripartizione tra fasi creative. I Lieder fissano
un'esperienza emozionale, la reazione ad un evento interiore; le sinfonie elaborano
questi cristalli esperienziali in un'epos della vita, il poema del tempo che tutto
assorbe, compatta e diversifica in ciò che l'autocoscienza umana definisce “carattere”.
A sua volta, il carattere spiega la natura volatile, instabile, effimera, di ogni
emozione, spostandone l'asse interpretativo dal dominio del Vero a quello del Bello.
Bello è, per Mahler, ciò che non è più, e, qualora sia stato, non era che illusione. Le
sinfonie sono un'esumazione commemorativa di questo Bello che nei Lieder è storia
vissuta. Nella Sinfonia in Re maggiore i luoghi della memoria, i Lieder, stanno nella
seconda sezione del Primo Movimento (“Ging heut' morgen über Feld” dai Lieder
eines fahrenden Gesellen), al principio del Secondo (Hans und Grethe) nella parte
mediana del Terzo (la seconda sezione di “Die zwei blauen Augen”, ancora dai Lieder
eines fahrenden Gesellen. La linea cromatica che conduce, nel Primo Movimento,
dalle “quarte” coi “suoni di natura” degli uccelli e le “terzine” dei clarinetti, lungo gli
squilli delle trombe fuori scena, fino al “tema del Fahrende Geselle” non è
un'introduzione, è la dissolvenza del presente, quando la memoria vi si incunea
dentro come un maglio. Si tratta di un vero flash-back sinfonico capace di rendere
l'ingenuità del temino liederistico qualcosa di talmente effimero che nella parte
centrale del movimento la semplice sottrazione del ritmo di marcia, il ritorno allo
schermo iridescente, vibrazione dell'aria, iniziale, induce una prima epifania del
mahleriano Pan, il dio dello sgomento e della piccolezza umana di fronte all'ignota
Natura. La vorticosa articolazione della Coda è il trionfo di questa divinità acefala,
torso di materia erosa dal tempo, sulla volontà del Fahrende Geselle di trovare la
propria strada nel mondo. I richiami degli uccelli iniziali, per “quarte”, diventano
colpi di timpani, maglio del destino. La breve pausa prima della Cadenza non è un
respiro, ma lo slancio finale di Pan, la cieca vertigine della sua stretta. In questo dire
cose tremende in modo giocoso, Mahler fa propria la lezione di Schubert.
Nella versione originale della sinfonia il movimento successivo è, come sappiamo,
“Blumine”. A lungo fantasma sonoro, al pari di altri figli ripudiati della libidinosa
pulsione creativa giovanile maheriana, l'aggraziato piccolo idillio è riemerso solo ad
Aldeburgh, Gran Bretagna, il 18 giugno del 1967, quando Benjamin Britten lo ha
diretto alla testa della New Philarmonia. Come membro organico della sinfonia ha
avuto il suo reinnesto ortopedico a New Haven, nel Connecticut, dove Frank Brieff,
dirigendo la locale orchestra sinfonica, diede modo alla sua prima tromba,
protagonista canoro dell'incipit, di brillare di luce propria. E in realtà questo assolo
nostalgico amabilmente prestato al Mahler sinfonico da Herr Trompeter von
Säckkingen costituisce un'oasi della memoria, una traccia indelebile di amori
ricambiati nella cornice di una natura amica. Nella sua forma tripartita è un Lied ohne
Worte, una “Romanza senza parole”, per riprendere la terminologia di Mendelssohn.
Sopravvisse al naufragio degli scarti mahleriani solo perché il compositore donò la
versione originaria della sinfonia ad un'amica che poi sposò un americano dopo la cui
morte il manoscritto, come capita alle eredità dei ricchi non monetarie o placcate in
oro, finì all'asta da Sotheby, Londra, dove lo comprò la classica moglie melomane di
americano miliardario, al solo scopo di donarlo all'Università di Yale. Non essendo,
io, Charles Dickens, che veniva pagato a parola, ho ripercorso la faticosa trafila non
per tessere gli elogi delle miliardarie melomani, ma per sottolineare fino a che punto
Mahler mirasse a disperdere ogni brandello di musica non destinato a entrare nel
corpus dei suoi Opera Omnia. Il rilievo ci tornerà utile quando affronteremo lo
scabroso caso della cosiddetta Decima Sinfonia. Ed ora, la spinosa questione: fece
bene, il Maestro, ad espungere “Blumine”? Alcuni direttori d'orchestra (il più famoso
è Eugene Ormandy) lo reintegrano; talvolta lo fanno per aggiungere appeal alla loro
registrazione, e in questo caso fanno scrivere sulla copertina del disco “including
'Blumine'”; Ormandy, no. Evidentemente, a suo giudizio Mahler ebbe torto. In realtà,
questo siparietto liliale costituisce una sorta di secondo incipit della sinfonia. La
scrittura aerea, rarefatta, degli archi, nelle prime battute, è un parallelo all'esordio
della sinfonia: gli armonici di La che si distendono come un sipario di seta. In quel
passaggio è il tempo della natura a impadronirsi della scena; qui, è il tempo degli
uomini. Che in Mahler natura e mente, Pan e il giovane Werther, siano mondi irrelati
nella cui frizione è l'unica genesi di ogni umano dolore, non è l'unica eredità di
Goethe, ma certo è la più significativa. “Blumine” è il luogo dell'eterna illusione,
l'adolescenza dei sensi, e la sua reintegrazione rende più feroce, sarcastica, l'irruzione
del diavolo, nelle stesse parole di Mahler: quel “precipizio nella disperazione di un
cuore piagato nel profondo” che apre uno squarcio irridemibile, all'inizio dell'ultimo
movimento, nella tela traslucida della natura benigna. Come è il caso della Prima
Parte di Das klagende Lied, il compositore, a parer mio, si rassegnò ad amputare solo
perché temeva la lunghezza del lavoro ne inibisse l'esecuzione. È pur vero, come
qualche malevolo commentò, che per l'esecuzione delle sinfonie di Gustav Mahler
poteva contare su uno degli interpreti più dotati allora in circolazione: Gustav Mahler,
ma per tutta la vita tentò, senza riuscirvi, di fare entrare la propria musica nel
repertorio corrente. Comunque il Trompeter, con i suoi squilli, continuò ad
ossessionarlo. Nella Sinfonia n. 3 in re minore, dove recuperò, lo abbiamo visto,
alcune battute di un Lied scritto da studente a Vienna, io credo che una buona parte
dell'assolo affidato al corno di postiglione, nel Terzo Movimento, venga dalla città di
Säckkingen. Mahler era un temperamento di critico, più che di lirico. Il critico
compatta, assembla, sfronda ciò che ha scritto nelle più varie circostanze; il lirico
crea con l'incoscienza che guida il ragno nelle geometrie esatte della sua tela. In
questo, e solo in questo, non ci può essere iato più grande tra lui e il compositore che
gli è piu prossimo: Schubert. “Blumine”, dietro l'apparenza cordiale, cela insidie
interpretative temibili. È lecito vedervi una parodia di Serenaden-Fuchs, la musica da
chiosco di stazione termale sui cui modelli il professore di Armonia del
Conservatorio di Vienna intruppava i suoi allievi. Il tono di romanza buona per un
flirt tra un trattamento idroterapico e l'altro evoca certa prosa cinica di Arthur
Schnitzler, dove lo sbocciare dei sensi virginali in pure donzelle prelude sempre a
suicidi col Veronal. Mahler, qui, abbozza ciò che nelle due Nachtmusiken della
Settima Sinfonia porterà ad un compimento teneramente sarcastico.
Il Secondo Movimento della Sinfonia in Re maggiore, nella versione definitiva,
“Kräftig bewegt”, evoca già nell'indicazione in calce un tono brusco, plebeo. Lo
slancio iniziale viene pari pari dal girotondo di Hans und Grethe. Vi osserviamo una
prima manifestazione di ciò che definisco, in Mahler, “dislocazione secondaria”. Nel
Lied osserviamo il corteggiamento impacciato di due adolescenti, il loro gioco di
sguardi; qui, la stessa idea musicale si distende a descrivere quella danza entro la cui
vertigine è sbocciato il loro desiderio reciproco. La dislocazione secondaria è una
tecnica per varianti, solo che ad allargarsi, in questo caso, non è il tema, ma la visione
della scena. Nel Lied la danza collettiva non compare, e il riflettore è puntato sui due
protagonisti; nella sinfonia siamo dentro ad un piano sequenza che abbraccia una
moltitudine di coppie avvolte nell'eterno rituale del desiderio. È, questa, la tecnica
cinematografica di Mahler: prendere dai Lieder spunti lirici che poi diventano
narrazione complessa di scenari profondi quanto il mondo. È come se il Lied, in lui,
fosse una terapia di sublimazione delle emozioni individuali, una purificazione rituale
delle scorie soggettive. Il tema tumultuoso di questo Scherzo rovescia l'intervallo di
“quarta”, il “suono di natura” che apre il Primo Movimento. Il mondo degli uomini è
un cristallo incistato nel monolite della terra, un microcosmo che nulla sa degli
sconvolgimenti che lo attraversano di continuo. Il “Trio” centrale ha il tono di un
Walzer preso di sghimbescio, lievemente, e poi torto in un risentimento del ritmo
dentro la cui spirale l'oboe si inserisce con una figura precipitosa, quasi il solista si
fosse accorto di non essere entrato a tempo. Credo che il modello sia quel passaggio
umoristico, nello “Scherzo” della Pastorale beethoveniana, dove il fagotto, ubriaco,
sbaglia battuta. La ripartizione tra archi e fiati evoca certe Cassazioni barocche nella
rivisitazione parodica che ne fece Mozart. Per Mahler, fin dall'inizio, il “popolare” è
una categoria archeologica passibile di comparazioni e prove per analogie, come si fa
per i reperti delle civiltà antiche. A torto si richiama, per definire questo kitsch da
antropologo, la categoria schilleriana del “sentimentale”. La danza è qui, piuttosto, la
musica delle illusioni perdute, il compianto per una gioia trascorsa prima che la si
potesse avvertire per tale. Nella Coda tutto precipita in un gorgo e scompare nel cielo
nero della memoria, quasi un sepolcro si chiudesse di scatto sulle coppie allacciate.
La nostalgia della semplicità, di uno stato di natura impossibile a chi ha fatto
esperienza del vero, si afferma già da ora come l'elemento più “patetico”, struggente,
dell'ispirazione mahleriana.
Il Terzo Movimento, la Marcia Funebre “alla maniera di Callot”, è l'altra faccia della
luna. Dobbiamo immaginare la Sinfonia in Re maggiore come un geoide dai molti lati
il cui centro rimane nascosto, mentre l'indagine su ogni sua superficie si ripete
nell'incipit di ogni movimento. Ancora le “quarte”, questa volta fantasma del “suono
di natura”; affidate ai timpani, non sono più vita, ma morte. Il carattere ermetico di
siffatta tumulazione dell'eroe, questo Beethoven sfottuto da un maestro di banda, è
che la morte viene commentata da creature prive di coscienza, e dunque immuni alla
tragedia. Il riferimento al Corteo funebre del cacciatore di von Schwind vale in
questo senso: è una notazione estetica, non drammaturgica. L'aspetto che rende il
brano così straniato e, a suo modo, sgradevole, è la sincronicità. Abbiamo sorgenti
sonore indifferenziate che procedono per disvelamenti momentanei, e che però, anche
quando non sono udibili, continuano ad agire in modo perturbante. Per Freud, il
“perturbante” è ciò che doveva rimanere nascosto, e invece è venuto alla luce. In un
uomo così turbato, come Mahler, da una rimozione cautelativa del senso di colpa
verso la morte dei propri cari, questa categoria della psiche diventa stile musicale.
Una simile invenzione di gruppi musicali sincronici, non “narrativi”, spiega
l'interesse che il compositore dimostrerà, a New York, nella fase terminale della
propria carriera, per Charles Ives. L'eterogeneità dell'invenzione musicale è
complicata da un sottofondo di lotta di classe. Sull'“ostinato” di quel Frère Jacques a
Canone intonato per primo dal contrabbasso si innestano un'orchestrina boema
sfanfarante una marcetta buona sia per la festa del patrono che per un funerale e un
ensemble di musica klezhmer appena uscito da uno sposalizio. I due gruppi si
incrociano e si guardano in cagnesco, poli opposti di una società afflitta dalla
sudditanza politica e la miseria, e quindi destinati, per disperazione, a combattersi. Il
cinismo del dolore non condiviso esplode per l'artificio di quel velo nero, il Canone
di Frère Jacques, il nostro Fra Martino campanaro, steso sulla narrazione di questa
compresenza tra eventi sonori. Il racconto si svolge, suo tramite, in tempo reale,
senza la funzione mitigante della memoria. Il Canone è il tempo della morte: una
morte che trascorre nell'indifferenza del mondo che continuamente, insensato, si
rinnova. Il Canone è un tempo chiuso, a spirale; le marce e le danze sono un tempo
lineare, progressivo. La morte diventa, così, l'unico senso della vita, e mai come in
questo movimento Mahler evolve una simile, sinistra intuizione in stile coerente,
risolto. L'intromissione dell'ultima idea dei Lieder eines fahrendes Gesellen, laddove
il fuggitivo da se stesso trova sotto un tiglio la rivelazione quasi buddista di come
“vita” e “sogno” siano la stessa cosa, chiude tutte le ambiguità del movimento nella
stretta di un giudizio sardonico sull'illusione di esistere. Mahler era un lettore di
Pedro Calderón de la Barca, il cui La vida es sueno, “La vita è sogno”, influisce di
più su simile remissione del dolore per ogni morte di quanto non faccia lo Schubert di
“Der Lindenbaum”, “Il tiglio”, momento di quiete nell'incubo di Winterreise,
“Viaggio d'inverno”. Questo addormentarsi sulla terra, tra le radici di un albero,
redime l'omicidio descritto in Das klagende Lied. Lì, nella tregenda del fraticidio, “il
fratello minore come in sogno sorride”. La chiosa del “Feierlich und gemessen.
Ohne zu schleppen” ci svela il senso terribile, perché dolcissimo, di quel sorriso: un
risvegliarsi alla vita vera, un destarsi dal sogno, che altri chiamano morte.
Il Finale della sinfonia venne definito da Mahler “Dall'Inferno al Paradiso”. È un
viaggio nell'Aldilà, una prima faccia di quel geoide poetico che in Mahler si chiama
Trasfigurazione. Nella Sinfonia n. 2 in do minore il compositore ricomincerà da
questo problema estetico, sostenendo che l'eroe condotto nel Primo Movimento,
Totenfeier, “Rituale funebre”, a sepoltura, è l'eroe della sua Prima Sinfonia. Il
principio della sincronicità, che nella Marcia Funebre della Sinfonia in Re maggiore
compariva come strategia straniante diventa, a partire dalla Seconda e fino alla
Quarta Sinfonia, sistema compositivo: ognuna di queste partiture sviluppa la stessa
tematica osservata da prospettive diverse. Sono tutte svariate facce dello stesso
geoide: la Trasfigurazione della morte. “Tod! Verk!”, annoterà, compulsivo, Mahler
sul manoscritto della Decima Sinfonia: “morte” e, probabilmente, “Verlklärung”,
“trasfigurazione”. La chiosa più appropriata a questa disperata ed ilare pagina
mahleriana è di Pier Paolo Pasolini, quando parla di “una religiosità inaugurale che
identifica vita con morte, che esclude la nascita, che confonde il firmamento con la
volta della tomba, che concepisce il vagabondare della ricerca come il passare da una
madre all'altra, nell'interno del suo corpo, il labirinto; quella che concepisce il vivere
come un dormire da cui si può risvegliare solo attraverso una seconda nascita: la
nascita rituale dell'iniziazione”. Ecco, il Terzo Movimento della Sinfonia in Re
maggiore è in tutto e per tutto un'iniziazione al Mahler più proteso in avanti, il più
profetico: quello del divenire come ritorno ad un eterno presente. Il Finale della
sinfonia presenta due possibili, ed inevitabili, errori: se lo si prende come un trionfo
sul destino, se ne dà un'interpretazione ingannevole; se lo si assume come parodia di
un trionfo, se ne dà un'interpretazione inefficace. L'esplosione dell'orchestra enuncia
una fanfara militare che allude a lotte nascoste, interiori, più che scontri sul campo.
Mai come in questo caso è percepibile quanto il corroso sarcasmo di Dmitrij
Šostakovič sia debitore a Mahler. Segue un episodio “per imitazione”. L'ironia del
Fugato respira un sentore di Berlioz quando, nel “Sogno di una notte di sabba” con
cui termina la Sinfonia “Fantastica”, esprime una logica dell'incubo, una descrizione
del male in quanto suprema razionalità. D'improvviso il cielo tempestoso si rasserena
in uno squarcio di puro lirismo. Mai come in questo Lied adolescenziale evocato alla
fine del giorno, prima del passaggio terminale, Mahler si avvicina a Schubert, per
quanto l'accumulo progressivo di motivi, l'evoluzione del canto per piccole cellule
verso un climax che sa di catastrofe – segnato, com'è, da una scala discendente a
precipizio nelle tenebre – neghi proprio ciò che afferma, secondo una connotazione
che riassume, in sé, tutto Mahler. La ripresa dell'episodio “Tempestosamente agitato”
sfocia in una citazione del Messiah di Georg Friedrich Händel, l'“Alleluja”, alle
parole “and He shall reign for ever and ever”, sul cui slancio l'orchestra salta
letteralmente, senza modulare, nel trionfo di un Re maggiore tumultuoso (Mahler
voleva risuonasse come “fosse caduto dal cielo, venisse da un altro mondo”) presagio
di quell'unica vittoria possibile in vita che è la trasfigurazione nella morte. Riappare,
con effetto straniante, la transizione, nel Primo Movimento, tra l'incipit e il tema
liederistico in Re maggiore. Tutto è sospeso in un'atmosfera onirica, remota, dove
quel Fernklang, quel “suono di lontano” che in Mahler è un palcoscenico della
memoria, si colora di tinte desolate. È questo, il rammemorare all'indietro,
spietatamente lieto, che sempre si accompagna agli ultimi istanti di vita. Si tratta di
una Variazione dello stesso materiale del primo episodio lirico, non fosse che questa
volta la scala su cui culmina è ascendente, porta verso un cielo disteso ad accogliere
l'eroe. Il luminoso tema che si sviluppa da questa stasi, un simile cielo afoso nel quale
si staglia, come un brivido, il fantasma del Fahrende Geselle, porta ad uno strappo
delle viole sul rimbombo lontano dei timpani. La melodia ha una particolarità: risolve
la sincope dei corni che rendeva impossibile il canto spiegato, nel precedente
intermezzo. Durante il passaggio alla Coda eruttiva, sfrenata, lo stile imitativo
parodiato nel “Tempestosamente agitato” conosce la propria consacrazione dinamica.
Questa volta il Fugato è ortodosso, ma le risposte dei legni lo rendono anche
morchioso, condotto a strappi come un'agonia. Nelle ultime battute i corni si alzano
in piedi a declamare la promessa del “Messiah”, mentre l'orchestra trasforma la lirica
scala ascendente del secondo episodio lirico in un arcobaleno che comprime
l'episodio finale dell'Oro del Reno wagneriano, l'“Entrata degli Dèi nel Walhalla”, in
una sciabolata di luce. Nella Cadenza è celato un controtesto enigmatico: la brusca
interruzione dell'estasi ci fa capire che l'eroe è scomparso, annichilito da un
fenomeno di natura di molto eccedente la sua limitata essenza. C'è un retrogusto
amaro, irridente, in questa apotesosi, che la rende ambigua e tremenda da risolvere,
scabrosa da interpretare.
I due cicli di Lieder da Des Knaben Wunderhorn sono l'autobiografia artistica di
Mahler. Segnano il suo distacco dalla memoria; il che li rende facili al
fraintendimento. La serie di esclusi e reietti dei quali i testi lasciano memoria si
divide in inconsapevoli della colpa, indifferenti alla colpa e martiri. I martiri sono
quelli che assumono su di sé l'onere di commettere la colpa, ma solo perché crocefissi
al proprio ruolo. I bambini soggetti al potere oscuro della morale, i disertori per
memorie di affetti perduti, gli amanti che scelgono l'abbandono perché la morte è la
loro unica amante certa: i personaggi di Des Knaben Wunderhorn sono icone del
destino umano. La loro successione può essere paragonata a quella delle figure per
sempre irrigidite nello stesso gesto lungo un bassorilievo, una stele funeraria. Sono
archetipi di ogni sorte, perché ne subiscono le conseguenze ma non ne posseggono le
chiavi. Immaginiamo un mazzo di tarocchi. Tra le settantotto carte c'è una serie di
ventuno che vengono dette “Trionfi”. Sono figure mitologiche e zoomorfe. Al loro
culmine c'è il Matto, che rende impossibile un loro ordine logico. Il Matto è
metamorfico: scombina la successione delle carte, rendendo priva di senso ogni
strategia di gioco. Eliphas Lévi, autore di una Storia della magia così famosa, ai suoi
tempi, da essere oggi introvabile, li fa discendere dalla Cabala ebraica. La Cabala
afferma che noi siamo lettere di un testo che possiamo mettere in scena nella nostra
vita, ma comprendere solo per simboli. Quando sappiamo il senso dell'esistere, la
follia ci colpisce con la sua dannazione perpetua: la memoria del passato. In Des
Knaben Wunderhorn, i personaggi muoiono per la nostalgia della patria, come il
soldato di “Zu Strassburg auf der Schanz'”, “Sulla trincea di Strasburgo”;
l'ossessione contemplativa che li fonde con una natura splendida e indifferente, come
l'amante di “Ich ging mit Lust durch einen grünen Wald”, “Allegro me ne andavo per
un verde bosco” – al quale spetta la sorte degli sciamani: incarnarsi in un “signor
usignolo” dalla sua amata lasciato, per noncuranza, a languire nel buio della notte –
oppure per un'ingenua fiducia nell'onesto rigenerarsi della natura destinata a partorire
lutti che sono altrettanti riti di passaggio, come il troppo giovane amante di “Nicht
wiedersehen!”, “Arrivederci a mai!”, un lavoratore a cottimo che torna al paese natale
convinto di ritrovare l'amata un anno dopo; e invece il mondo ruota dal lato sbagliato,
e la sua donna, al ritorno, giace nella tomba, sulla quale proteso egli la evoca,
macabro rito di nera magia, perché oda ancora le campane risuonare e il cinguettio
degli uccelli. In Des knaben Wunderhorn il lutto non è la morte, ma il sopravvivere ai
morti. Come negli Arcani Maggiori dei tarocchi ci sono figure che capovolgono il
tempo, rendono miseria ciò che era trionfo, in questi Lieder, senza i quali Mahler non
sarebbe possibile, la gioia è sensoriale lutto, indegna sopravvivenza estorta ai morti, e
la bellezza è un'abitudine che, rendendo osceno l'inevitabile lutto, va negata come
perversione dei sensi. Così, in “Aus! Aus!”, “Via! Via!”, l'amante non più proclive a
barattare la libertà con il tempo prevedibile dell'amore ricambiato consola l'amata
desiderosa di rinchiudersi in convento con il cinico, perché nobile, rilievo sul maggio
che ovunque è “pieno di fiori”. Il suo grido pagano “juch-he”, aggiunto da Mahler al
testo, è l'animalità pagana che accampa i propri diritti sugli errori umani del
sentimento.
Si parla spesso del Naturlaut, il “suono di natura”, di Mahler. Anche nei primi nove
Lieder di Des Knaben Wunderhorn di cui ci stiamo occupando risuonano echi di
linguaggi pre-verbali, che sono indizio di divinità ma anche della dannazione umana
a non comprendere i segni del proprio destino. Le creature che osservano il divenire
degli uomini sono come idoli: hanno i segni di verità che non possono venire
comprese. I Naturlaute diventano, così, riflessi di mondi superiori che seducono
l'uomo alla follia di non saper più leggere la propria storia. Il Matto, che nei tarocchi
domina gli Arcani Maggiori, compare, nel primo ciclo liederistico basato
sull'antologia di Brentano e von Arnim, in “Selbstgefühl”, “Autocoscienza”, dove la
Sensucht romantica, l'aspirazione all'indefinibile, viene parodiata in imbecillità.
L'immanenza della morale, vista come sorte subita da vittime indotte al senso di
colpa, conosce in “Und schlimme Kinder artig zu machen”, “Per rendere i bambini
cattivi bambini ammodo”, con il suo ritmo di Giga che sembra prodotto da un
organetto di Barberia azionato da un cieco, il disvelamento della sua falsa coscienza.
Uno degli elementi retorici connaturati al linguaggio di questi primi nove Lieder da
Des knaben Wundernhorn è quello spettro, a noi già noto, da Freud definito il
“perturbante”: ciò che doveva rimanere nascosto, e invece è emerso alla luce. Come
le cure materne diventano sfogo delle frustrazioni represse in società, ogni promessa
di amore eterno, in Mahler, si fa ricordo della passione primordiale, nel momento in
cui l'abitudine l'ha già resa feticcio. In “Aus! Aus!” e in “Scheiden und Meiden”,
“Partire è un po' morire”, la frenesia della natura che si rinnova, nel primo, e,
nell'altro, l'esuberanza animale dei cavalieri in frenetica fuga verso un divenire senza
legami, forzano il rimpianto femminile a farsi caricatura dell'innamoramento, voce di
un risentimento che chiede il riscatto del pegno d'amore. In “Aus! Aus!”,
l'implorazione della fanciulla che tenta di trattenere il proprio amore è segnata
“lamentoso, con parodia”. Mahler, in questi brani paralleli al suo cammino di
viandante da Lipsia, dove abbozza i primi due per i figli di Marion Weber, a Vienna,
dove trascorre l'agosto del 1890 immerso nella natura boschiva delle sue colline, fino
a Budapest, eremo di un esilio autoimposto, incontra la propria memoria di escluso
sotto forma di Sosia ossessivi. Non si può parlare di reminiscenze, ma di un vissuto
che si fa teatro delle ombre. Gli esiti sommi del ciclo sono “Zu Strassburg auf der
Schanz'” e soprattutto “Ablösung im Sommer”, “Cambio della guardia in estate”. Nel
primo Mahler fissa quel suo processo di trasfigurazione per slittamento di piani che
costituirà poi la sua chiave di volta espressiva, e che compare per la prima volta
nell'ultimo dei Lieder eines fahrenden Gesellen. Sul ritmo di marcia funebre
enunciato dal silenzio, perché fondato su tempi irregolari immersi nel buio, quasi la
notte celasse un capestro già apprestato, il disertore non per malizia, ma per
ossessione di un suono, il corno alpino che ha ridestato in lui i suoni materni della
patria, nell'ultima parte si abbandona ad una nenia boema dove il perdono per i
carnefici è una discesa nelle memorie d'infanzia, verso la terra, tomba madre di vita e
promessa di redenzione. Con “Ablösung im Sommer” compare, in Mahler, la
metempsicosi musicale. Secondo Pitagora e Platone le anime dei morti si trasfondono
in umili animali intenti a giudicare l'umana follia senza che il loro linguaggio possa
più venire inteso; allo stesso modo, qui, le creature del bosco, sgomente per la morte
del cuculo, nel loro chiedersi chi allieterà, adesso, i loro giorni, sono “suoni di
natura” non risolti, ma lasciati allo stato di onomatopee. Tutti discendenti di quella
selvaggina che, nel Terzo Movimento della Sinfonia n. 1, accompagnava tra i lazzi la
bara del cacciatore in un corteo grottesco, il loro carattere è quello dell'apologo, dove
ogni saccente verità diventa impostura del sublime. L'usignolo che usurpa il ruolo del
morto cuculo ne cancella anche la memoria, e l'imbarazzo per un lutto che la musica,
stupro sensoriale del defunto, cancella nel piacere del tempo rinnovato. Il Lied, nel
suo maiuscolo successo, definisce la perenne diffidenza di Mahler per il tempo
rettilineo, orizzontale, da lui eluso, nelle sinfonie, con frequenti rievocazioni di echi
primordiali. Progredire, per lui, vorrà sempre dire non elaborare ciò che si perde, ma
rendere il ricordo, se dolce, elegiaco, un tradimento verso quanti, a noi cari, il destino
abbia sconfitto.
Che l'ironia di Mahler non sia distanziante, ma assuma su di sé tutto lo scandalo della
insignificanza, lo dimostra il secondo ciclo di Des Knaben Wunderhorn. Vi lavorò a
più riprese nell'arco di dieci anni, facendone la dorsale basaltica su cui erigere le
sinfonie dalla Seconda alla Quarta. Si possono paragonare simili brani a quei granelli
di sabbia la cui concrezione si solidifica in perle. La sua natura ossessiva, per cristalli
di memoria, impedisce, in Mahler, ogni elaborazione del materiale autobiografico. Le
vicende della sua infanzia fissata in rituali autistici ricompare sotto forma di
leggenda, icona di ogni destino straniero al mondo. Il secondo ciclo di Des Knaben
Wunderhorn segna il passaggio dallo stile dialogico a quello iconologico. I Lieder
con pianoforte sono una drammaturgia; quelli con orchestra, una Sacra
Rappresentazione, le stazioni di un personale Calvario. L'orchestra rastrema la
prospettiva, piuttosto che ampliarla. Questi Lieder fioriti sulle insufficienze dei primi
sono tratti ad acquaforte; gli altri, tratti a pastello. L'orchestra non ampia la
prospettiva; la schiaccia, la rende essenziale creando intorno al canto un palcoscenico
fittizio da teatro dei Pupi.
“Die Schildwache Nachtlied”, il “Canto notturno della sentinella”, è una meditazione
sul tema della distanza, che qui significa impotenza, e dunque sterilità. La sentinella
veglia nel buio, preclusa dalla monotona sfiducia al richiamo per “terzine” con cui la
fanciulla amata spera di ridestare in lui la nostalgia. La crudeltà mahleriana sta nel
rendere il dolore di lei una caricatura del sentimento, e l'obbligazione al dovere di lui
un regalo fatto al demonio. Presto i due mondi del desiderio rimpianto e
dell'abnegazione al comando diventano un unico strato di alienazione. Sembra di
vedere, qui, una parodia di quella polarità tra “tema maschile” e “tema femminile”
così caro ai teorici della Forma-Sonata. Il colpo di genio sta nell'intersezione casuale,
collisione tra elementi chimici incompatibili, del finale. Nella quarta strofa la
fanciulla libera da sé il fantasma dell'amato, che, lungo uno di quei cunicoli che
rendono il tragico l'altra faccia del grottesco, rifluisce lungo il canto fino a visitare la
sentinella irrigidita sui bastioni. “Alto là! Chi va là? Gira al largo! Non ti
avvicinare!”, esclama lui. L'orrore riposa su di un semitono discendente che segna
l'irruzione del macabro nella Poetica mahleriana. Il macabro è un errore di giudizio:
designare come amabile ciò che è la crepa da cui guardano creature di altri mondi.
Forse la fanciulla è morta, ed ha visitato un'ultima volta l'amato come un brivido, una
folata di vento. Forse quel tremolio dell'aria è una pallottola che si conficcherà nel
cranio. Mahler adopera i Lieder come laboratori per comprimere l'ambiguità in
molecole solubili, di lì a poco, nelle sue sinfonie.
In “Verlo'ne Müh'”, “Fatica sprecata”, l'elemento principale dell'ispirazione
mahleriana: l'inganno dell'amore, assume i caratteri della farsa. Che la felicità, anche
se una volta sola intuìta, più che vissuta, sia l'inganno al cui ripetersi il demonio lega
le sue vittime, è cosa che in Mahler radicò fin da subito la sua condizione di escluso,
reietto alle genti. Il Lied tratta la condizione più infelice possibile, quella di chi ama
non venendo riamato, e che con il suo amore induce solo fastidio e, infine, ribrezzo.
Compare, qui, il compositore destinato poi a parodiare il Franz Lehár della Vedova
allegra, nella Quinta, e fare di un Walzer di Johann Strauss junior la fotografia
ingiallita, nella Nona, di ogni possibile giovinezza; per lui, sempre, primavera non di
bellezza, ma della disillusione. Il tema vero del Lied è il tempo: sempre torbido e
inarrestabile come un fiume, esso, disciogliendo ogni identità, rende la fissazione su
di una persona una necrofilia di se stessi. Non c'è abbraccio, in questo Walzer negato
dove l'eccesso di modulazioni discendenti sa di un addio che non è più volontà, ma
legge di natura.
“Trost im Unglück”, “Conforto nell'infelicità”, vive per un sovvertimento completo
dei sensi. I due amanti in dialogo, prima che lui parta per la solita guerra, al posto di
benedirsi vicendevolmente, proclamano la propria insofferenza reciproca. La parodia
militaresca dell'incipit ha qualcosa di macchiettistico, un motorismo dove quanto vi
era di eroico nell'abnegazione alla patria è divenuto un numero da avanspettacolo.
Mahler sbeffeggia lo stile nazional-popolare della retorica asburgica, preparandosi un
letto di spine con la critica autoctona. Il ritmo orchestrale contrasta con lo scalpitio
del cavallo, i proclami di luminosa audacia del cavaliere. Cavalli così faranno
scapicollare chi li monta al primo dosso. La donna, che è anarchica per natura,
altrimenti non potrebbe generare nuove vite, declama un suo stornello canzonatorio
cui l'amante in armatura risponde con un cipiglio di metalli orchestrali ormai risibile
nella sua vuotezza. In questo Lied Mahler scopre il sublime del brutto e lo eleva a
metafisica del bello.
Nel Lied successivo, “Wer hat dies Liedlein erdacht?”, “Chi ha escogitato questa
canzoncina?”, la regressione ad un'infanzia in ascolto dietro al sipario di cartone
della tragedia assume toni sarcastici. Le virtù taumaturgiche dell'amato, con quella
bocca che “fa rivivere i morti e risana i malati”, trasmutano la fanciulla narrante in
una sirena dell'aria impegnata a modulare un canto ipnotico che sarebbe volgare, nel
suo imitare lo Jodel rurale, se la sua esasperazione non emanasse disgusto per lo
snobismo con cui la musica “colta” vampirizza le sane passioni degli umili. Mahler
era cresciuto artisticamente a Vienna, tra Zingari Baroni straussiani e le Nozze
rustiche di Goldmark. La sua metamorfosi del kitsch popolaresco in un atto di accusa
verso la violenza sociale delle classi dominanti lo predestinava al ruolo di “grande
inattuale”. Il carattere sulfureo del Lied sta nella parte finale, dove si tratta di “tre
oche”, “due grigie e una bianca”, che hanno portato sull'acqua il suo goffo
zampognare. Osserviamo, qui, il rovesciamento di ogni categoria romantica. La
natura canzona le movenze del sentimento umano, come la scimmia, se imita l'uomo,
compie gesti per lei senza senso. L'antiumanesimo di Mahler raggiunge, nel breve
spazio del brano, esiti che poi trapasseranno con esiti sulfurei nei suoi Scherzi
sinfonici.
“Das irdische Leben”, “La vita terrena”, doveva fare da anta sinistra in un dittico
comprendente “Das himmlische Leben”, “La vita celestiale”, poi confluito nella
Quarta Sinfonia. È uno dei luoghi mahleriani sacri alla Seconda Scuola di Vienna,
per il divisionismo timbrico di un'orchestra che cigola come un organetto a manovella
inceppato. Il tema bipartito tra madre e figlio sarebbe una canzone boema con tanto di
refrain cullante al modo di una ninna nanna, non fosse che il tempo del canto si
incastra in quello dell'accompagnamento orchestrale con un'oscillazione binaria
sempre divelta dalle ruote dentate dell'infernale meccanismo per “moto perpetuo”. La
madre promette il pane al bambino morente, ma prima bisogna mietere, poi trebbiare,
quindi accendere il forno: metafora, infine, dell'inferno cui l'innocenza condanna i
morti per fame. Il modello è l'Erlkönig, il “Re degli elfi” schubertiano; però, mentre
in Schubert la morte del bambino tra le braccia del padre è una Cadenza “perfetta”,
Mahler fa sì l'orchestra assorba in ondivaghe perturbazioni l'urlo agonizzante
dell'innocente, subito silenziato dal ritorno alla sferragliante sigla del destino. Così la
vittima del tempo indifferente rifluisce nel seno della sua vera madre: il respiro
sincrono della natura matrigna. Chi crede nelle premonizioni non mancherà di notare
come il pulsare raggelante di questa orchestra ritorni – fantasma accolto, ben svegli,
come un ospite – nel movimento della Decima Sinfonia che Mahler definì
“Purgatorio”, e fece in tempo ad orchestrare: l'unico, insieme all'“Andante-Adagio”
iniziale, prima della morte.
“Des Antonius von Padua Fischpredigt”, “La predica di Sant'Antonio da Padova ai
pesci”, appartiene alla categoria delle Humoreske, svelandone la discendenza dal
genere antropomorfo dei Fabliaux, lungo quella filiera che da Esopo giunge, tramite
Jean de La Fontaine, ai fratelli Grimm. I Fabliaux sono contes moraux: racconti
allegorici che narrano, nello specchio immacolato degli animali, le perversioni del
comportamento umano. Mahler ebbe questo Lied caro, forse, più di ogni altro, tra i
fioriti dalla cornucopia del fanciullo. Nella vicenda del santo che, esasperato
dall'assenteismo dei fedeli, esce a predicare ai pesci, appare, come cristallo, il
principio morale rabbinico dell'arte quale talismano contro i vizi; qui, peraltro,
ferocemente parodiato. Designando questo Lied a rappresentare, nella Seconda
Sinfonia, il mondo vano degli umani Golem sospinti dal Tempo ad una danza
autistica, di contro, nel colossale Primo Movimento, Totenfeier, “Rituale funebre”, al
tremendo infierire della Natura indifferente, il compositore dimostrò quanto riuscita
gli paresse questa Courante neo-barocca dove rifulgono echi di Ländler e detriti di
chiuse melodiche da Operetta allestita sui confini dell'Impero nei quali si avverte una
autoparodia del Trompeter giunto da Säkkingen, con tutte le sue stolte illusioni
giovanili. I pesci, commossi dalla predica, gabbato il santo, tornano tal quali; gli
uomini, rinfrancati dalla catarsi della musica, la usano come collutorio detergente, per
essere ben sicuri di non commuoversi nella vita di tutti i giorni.
“Rheinlegendchen”, “Piccola leggenda del Reno”, ha toni da antica litografia incisa
per un libro di racconti popolari buoni per bambini intelligenti e nostalgici contadini
inurbati. Qualcosa, insomma, che sta alla Tradizione come uno specchio concavo sta
ad uno convesso. La fanciulla getta l'anello dell'amato nel fiume; questo rifluisce nel
Reno e giunge nella bocca di un pesce; il pesce arriva alla mensa del re, che ritrova
l'anello; allora la fanciulla viaggia per paesi lontani, ripiglia l'anello e lo restituisce
all'amato. Come dire: più si va lontani, nel mondo, più si rimane attaccati alle stesse
cose. Il Lied è una metafora della memoria e del suo potere inibitorio verso ogni
metamorfosi di noi bruchi in farfalle angeliche. Il moto dell'acqua è anche quello
dell'illusione, come Mahler sottolinea, strizzandoci l'occhio, col permutare la stessa
cellula motivica in un moto armonico dove ogni trasposizione è sempre illusoria, e la
stasi ha l'aspetto beffardo del dinamismo. Im egual modo illusoria è la differenza tra
la contadina e il re, entrambi astratti, in quanto esseri umani, nel medesimo,
indifferente, moto del tempo.
Il “Lied des Vergolten im Turm”, “Canto del perseguitato rinchiuso nella torre ”, vive
di una simbiosi tra la struttura circolare della prigione e la sconfinata natura immersa
nella quale la sua amata lo rimpiange, dapprima quasi costringendosi all'oblio, poi
allucinando lungo il fluire dell'aria, i pensieri di lui, un sottile legame intrapsichico,
panteistico, che mai sarà discinto. “Se questo è il destino, tutto, almeno, si svolga nel
silenzio”, dice lui, ponendo un patto segreto di sensoriale vicinanza che le parole
farebbero svanire. In questo senso il Lied è anche una sacra icona della musica, la
quale sovrasta ogni linguaggio, rendendo chi la capisce indenne alla prigione del
corpo, i limiti fisici dell'esistenza. La rabbiosa, stizzita frase iniziale, “Liberi sono i
pensieri”, insieme squillo di tromba rivoltosa ed esasperata diagnosi di impotenza,
riapparirà nel Finale della Sesta Sinfonia in quanto immagine sonora di quella nuova
forza di riscatto che può dare solo la disperazione. I due pannelli del Lied, la torre
claustrofobica e gli spazi luminosi del mondo, non si incontrano mai. La loro
giustapposizione sigla quella maniera drammaturgica di intendere il principio
dialettico della Forma-Sonata dov'è nascosta la chiave segreta di tutto Mahler.
“Wo die schönen Trompeten blasen”, “Laddove risuonano le belle trombe”, è un
primo studio mahleriano sul significato musicale della trascendenza, che in lui
coincide sempre con la sublimazione dell'addio. La vicenda del soldato che ritorna
dall'amata smaniosa di rivederlo e nella gioia di lei le annuncia la mèta lontana verso
cui si sta incamminando, il verde prato dove “ovunque suonano le belle trombe”,
immagine della morte, realizza con un'intensità nostalgica, invece che macabra, l'idea
che il termine della vita sia non una fine, ma la regressione ad un Tutto
indifferenziato. Così, il Tempo è esilio sulla terra, e la morte, la riconquistata dimora
del Padre. La scena è singolarmente simile ad un racconto di Dino Buzzati, Il
mantello, dove la morte concede al soldato ucciso una breve sosta alla casa natale per
salutare la madre. In entrambi i casi, pur inconfrontabili (in Buzzati l'influenza è
indiretta, perché deriva da Kafka) agisce il clima del teatro yiddish, dove lo stile
dell'apologo comporta sempre un'antifrasi delle emozioni secondo la quale la
tenerezza dell'amore vuol dire sempre annunzio di finitudine, e il commiato
affettuoso rappresenta la discesa non nella tomba, ma in un nulla dove l'unica eco a
risuonare è la memoria di chi resta. La contaminazione tra questa lunare distonia del
sentire ebraico e il tono franco e monodimensionale dei testi di Brentano e von Arnim
è tale che Mahler combina insieme due poesie, e crea nella musica un effetto di
straniamento brechtiano. In questo Lied sfingeo, in effetti, l'invenzione musicale
sviluppa con lirica e sublime rastremazione un materiale così inadatto da rasentare la
goffaggine. Un primo inciso parodia Funiculì funiculà, la canzone di Luigi Denza che
anche Richard Strauss cita in Aus Italien, e che qui diviene il negativo color ocra
della sua solare luminosità. L'immagine di una vecchia pellicola osservata
fotogramma per fotogramma alla luce di una candela, di contro al film che fluisce
sullo schermo, può aiutarci a sentire l'effetto allucinato di questa deformazione
funebre di quanto Denza scrisse per festeggiare l'ascesa in funicolare al Vesuvio. Qui,
del resto, si parla di creature che scendono verso montagne forse piene di fuoco, ma
incuneate nella terra. La seconda sezione del Lied è di un lirismo affettuoso, un po'
vecchio stile, per miracolose finezze di spostamenti in avanti e asimmetrie interne
sfuggita al sembrare un'Aria tratta da Bauer und Dichter, il “Poeta e contadino” di
Suppé . La strategia di Mahler è sottile e diabolica: l'estasi nel dolce ritrovarsi è il
trucco con cui il demonio stigmatizza la materia transeunte di ogni umana
sopravvivenza in una bellezza così lirica da parere insulto alla realtà. Dopo questo
Lied l'orrore, in Mahler, si anniderà in ogni trasparente piacevolezza di canto.
“Lob des hohen Verstandes”, “Lode dell'alta competenza”, è uno dei più emblematici
conte féerique di Mahler sul modello dei Fabliaux medioevali, dove gli animali
condensano nei loro comportamenti elementari ogni perversione morale umana. In
questo caso ci troviamo di fronte ad un torneo tra il cuculo e l'usignolo, impegnati a
sfidarsi dinanzi ad un asino scelto come giudice in grazia delle sue lunghe orecchie.
L'asino, non ricordando il lungo melodizzare dell'usignolo, dà la palma al monotono
richiamo del cuculo, che non ne sfida le doti mnemoniche. In origine il Lied doveva
intitolarsi “Lob der Kritik”, e il fatto che il compositore l'abbia escluso dalla prima
esecuzione, pur parziale, del ciclo, ne conferma gli intendimenti sarcastici.
Musicalmente il tutto riposa su di un'esasperazione di quello stile “concertante” tipico
del Barocco periferico, tra la Boemia e la Moravia, dei musicisti girovaghi intenti ad
imitare, senza esito, i modelli della capitale. Si respira un gioco di “basso ostinato” e
incisi onomatopeici non distante dal bizzarro stile di Franz Biber, qualcosa che
Mozart parodierà in Ein musikalikalischer Spass. L'inciso ritmico iniziale tornerà
nella Sinfonia n. 5 in do diesis minore, al principio del Finale. La pedantesca solfa,
nella sua ottusità ostinata, reiterazione di anticaglie formali, la goffaggine del
naturalismo descrittivo: tutto sa di accusa al gusto dei critici per la musica filistea,
incistata in una tradizione fatta di luoghi comuni buoni a sedare ogni inquietudine
estetica. L'“I-ja” finale dell'asino è un sì che squilla come un raglio: Naturlaut
abbassato alle doti dei critici, obolo sonoro alla stupidità di un'intera razza di
“competenti”.
La Sinfonia n. 2 in do minore “Resurrezione” sconta quella che potremmo definire la
“sindrome di Tannhäuser”. Quando Wagner presentò il Tannhäuser a Parigi, nel
1861, sedici anni dopo la “prima” di Dresda, fresco di Tristano e Isotta, vi aggiunse
in luogo di balletto la cosiddetta “musica del Venusberg”, dal linguaggio strumentale
ben più raffinato e il cromatismo più libero rispetto al resto dell'Opera. Allo stesso
modo, Mahler concepì i movimenti centrali della sinfonia mentre dentro di lui stava
passando il corteo di soldati disertori, bambini morenti di fame e amanti disillusi che
abitano Des knaben Wunderhorn: quanto di più lontano dal titanismo bruckneriano
squadrato col regolo di Liszt e nutrito di ossessioni wagneriane che scorre lungo il
Primo Movimento, quel Totenfeier cui attese nel settembre del 1888, ancora
ossessionato dalla Prima. Il legame tra il (ancora per poco) “Titano” e la
“Resurrezione” viene sottolineato dal compositore stesso, allorché dichiara a
Marschalk che, nell'episodio iniziale della Seconda, la trenodia funebre accompagna
al sepolcro l'eroe della Sinfonia in re minore. A che pro' vivere? Tutto è illusione?
“Che cosa sono vita e morte? Esiste una vita eterna?”: la metafisica da gazzetta
popolare diffusa da Mahler nel “programma” concepito per una ripresa della sinfonia
a Monaco, nel 1900, portò alla sua eliminazione. A Dresda, però, l'anno successivo, il
tutto venne bellamente stampato e diffuso. Nel Nostro, a quella data, più che il dolor
del triviale, poté il digiuno del consenso universale. Sempre, la descrizione puntuale
degli episodi contrastò, in lui, col bisogno della coerenza formale. Per questo
criticava i Poemi Sinfonici di Liszt, che gli parevano capitoli slegati di un racconto
non giustificato dall'articolazione delle parti.
Nel trasformare Totenfeier in un “Allegro maestoso”, fu sua cura evidenziare la
polarità tra il “tema della risorta polvere” trionfante nel Finale, qui presente come
secondo soggetto tematico, e il Dies irae che corre sotteso, come “Corale del
richiamo alla mortalità”, lungo l'intera partitura. Tutti si affannano a capire se
l'“Allegro maestoso” rispetti o meno i principi della Forma-Sonata, la sua dialettica
tra temi. In realtà, l'intera “Resurrezione” è un Allegro di Forma-Sonata, perché
costruita su varianti continue di questi due principi cosmologici: la trascendenza dal
tempo, che è assenza di gravità, esalazione di anime, e l'incalzare del tempo che
riafferra le anime con la sua gravità di corpi; il “tema della risorta polvere” e il Dies
irae. Si impone un curioso parallelismo: anche Sergej Rachmaninov fece del Dies
irae una cifra occulta, nel suo caso, in tutta la propria opera compositiva. È il fascino
diabolico delle “quarte” sulle quali questa Sequenza del Gregoriano è costruita:
intervalli che si sottraggono alle leggi progressive della tonalità, isole del male dentro
le campiture luminose di quel viaggio sinfonico che Beethoven definiva “per aspera
ad astra”; “attraverso le asperità, verso le stelle”. Uno dei giochi preferiti dei
commentatori è scoprire gli imprestiti mahleriani, col risultato di dare argomenti a chi
vede in lui un vintage della civiltà sinfonica austro-tedesca, salvo soste rinfrescanti
nelle locande boeme. Le associazioni mentali vanno dal pretestuoso (l'incipit della
Valchiria di Wagner) all'illuminante: le prime misure di Das klagende Lied, del quale
la “Resurrezione” rappresenta l'indubbio rovesciamento. Qui l'anima del fanciullo
assassinato esce, attraverso il canto, dalla sua vestigia terrena, l'osso inciso a flauto
dal menestrello. Non si è notato, invece, un parallelismo che spiega, a contrariis,
l'intera questione estetica mahleriana. Il Poema Sinfonico Morte e Trasfigurazione di
Richard Strauss è stato composto contemporaneamente alla sinfonia. Il tema che vi
descrive l'apoteosi dell'eroe richiama da vicino quello mahleriano “della risorta
polvere”. La si può considerare una coincidenza, oppure trovarvi una conferma di
come, in musica, esistano archetipi, “oggetti sonori”, che in certe epoche rispondono
a comuni esigenze espressive e fluiscono spontaneamente, marcatori di significato
emozionale, nell'immaginario dei creatori. Come già sappiamo, Mahler paragonò se
stesso e Strauss a due minatori che stessero scavando una medesima galleria dalle
parti opposte della stessa montagna. Morte e trasfigurazione venne composto come
musica “pura”; il programma descrittivo fu aggiunto da Alexander Ritter sull'onda
delle associazioni mentali indotte dalla musica: tutto l'opposto, insomma, di ciò che
un Poema Sinfonico dovrebbe essere. Mahler, nella Seconda, si fece l'Alexander
Ritter di se stesso. Quanto alla struttura di questo colossale “Allegro maestoso”, le
sezioni di Sviluppo non realizzano la fusione tra i diversi soggetti tematici, ma
semmai li collocano in un punto dello spazio differente, sotto una luce radente di
diverso colore. Il gesto drammatico iniziale è uno strappo di violoncelli e
contrabbassi slanciato su cinque battute dove una “corona” su una pausa, alla quarta
misura, crea un ristagno del tempo, un basalto calcareo a effimera barriera contro la
marea della morte; da qui si dipana quell'“ostinato” neo-barocco che attraversa per
intero il movimento, dandogli il carattere di un Rondò ritmico. Il “tremolo” iniziale,
visione stigia, marca la rigida separazione tra Bruckner e Mahler. Se per Bruckner
ogni “tremolo” iniziale evoca l'inizio del tempo, in Mahler è la mannaia che recide
quel filo che lo allaccia alla vita umana. Ciò che allontana questo movimento da ogni
vocazione classica è il suo regredire all'origine, piuttosto che incedere verso una
sintesi dei contrasti. In questo senso, è l'opposto della Quinta di Beethoven.
Ritroviamo un'altra singolare consonanza con lo Strauss di Morte e trasfigurazione,
anch'esso attraversato a Rondò dalla ripresa dello spasmo d'agonia, quasi fosse un
materiale amorfo, impermeabile ad ogni evoluzione, perché la morte è per tutti la
stessa cosa. Gli episodi intermedi dell'“Allegro maestoso” rispondono alla stessa
strategia. Al “tema della risorta polvere” si giustappone una “Pastorale della
regressione all'infanzia”, archetipo di quell'angelo bambino, morte in volto di
fanciullo, che poi, diverrà in “Urlicht”, voce ultraterrena. Questa stratificazione delle
idee per sospensione gravitazionale è un simbolo dei bagliori di infinito che
precedono, nella morte, il passaggio tra i mondi. Un gigantesco flashback, dove i
ricordi esistenziali del morente si riflettono nell'immagine ideale che i suoi cari
vedono comporsi, nella loro mente, dal montaggio spontaneo delle reminiscenze. La
struttura, in questo gigantesco coesistere di memoria della vita e oblio mortale,
funziona solo per autodistruggersi progressivamente. È una via verso il silenzio,
dentro cui tutto sprofonda nelle ultime cinque battute, una discesa cromatica fino ai
due “pizzicato” finali, occhio di un Dio puntiforme occulto in quell'istante che segna
la fine del respiro.
L'“Andante moderato” è un confine di non ritorno in quella terra di nessuno tra stile
popolare e rigore del linguaggio colto dove si muove la musica di Mahler. Il 17 aprile
del 1910 il Maestro presentò la sua Seconda al pubblico di Parigi. Erano presenti
Debussy, Paul Dukas, Gabriel Fauré e Gabriel Pierné, i quali, nel mezzo di questo
movimento, uscirono dal Théatre du Châtelet, annoiati da una musica troppo
gemütlich: “comoda”, da serata in birreria del notabile viennese nostalgico di praterie
orientali. La provocazione dei puristi francesi intesi a disossare la musica dai lardelli
teutonici è raccontata da Alma, e sa di messa in scena. Qualche biografo non ci crede;
per esempio, io. Rimane la natura scoperta, non mediata, del quadretto evocante un
momento felice nella vita del defunto. Mahler ne era consapevole: “Un difetto della
sinfonia è il contrasto troppo brusco (e dunque non artistico) tra l'Andante, con il suo
allegro ritmo di danza, e il Primo Movimento. La ragione è che ho creato i due
movimenti indipendentemente, senza pensare di unirli”. Aggiungeva come,
altrimenti, avrebbe iniziato il pezzo con il tema dei violoncelli che vi figura come
terzo episodio. Il clima di esasperato lirismo, tipico di quei ricordi che il tempo ha
depurato, reso un ideale perduto, fa sospettare la riemersione di un fiume carsico: le
musiche di scena per Der Trompeter von Säkkingen. Quanto vi attinse, Mahler? non
lo sappiamo, ma era sua regola traslare materiale tematico da un luogo all'altro fino a
che il suo sedimento non si fosse depositato, utilizzando il tempo come un setaccio da
cercatore d'oro. Il problema, in questo “Andante moderato”, non è estetico, ma
poetico. Mahler non vi può ricorrere all'abituale stratagemma della parodia. La
Deutscher Tanz, trattenuta e quasi fissata nei movimenti da uno stregone la cui
bacchetta magica beffi i ballerini, non è un “come se fosse”, ma un “come era”.
Nessuna memoria perdona chi non crede in lei. La soluzione di Mahler sta nel ricorso
alla “terzina” come sipario su vite invisibili e minacciose. Nel secondo episodio del
movimento il moto ricorsivo, sempre più concitato, inane per vitalità, di “terzine” su
cui i legni strillano evocazioni sarcastiche del tema di danza, è un vetro opaco di
fumo attraverso cui le figure dei danzatori appaiono mostruosamente deformate. Il
modello che Mahler ha in mente è il Beethoven del Quartetto in Si bemolle maggiore
op. 130. Anche lì un movimento “Alla danza tedesca” gioca con gli stereotipi del
pubblico, sottoponendo al ridicolo dell'imitazione la sua idea che la catarsi della
musica sia il buonumore. Mahler non è mai così colto come quando scimmiotta il
popolare. Nelle ultime battute gli archi mimano uno sbadiglio, e la digestione della
Serenata gemütlich à la Fuchs viene compiuta con soddisfazione del compositore e
dispepsia di chi lo ascolta.
Mahler aggiunse le prime cinque battute dello “Scherzo” successivo a brano già
completato. Sono affidate ai timpani, e vedono su terza e quinta misura una pausa
sormontata da una “corona”. Amplificano, insomma, il gesto drammatico con cui
comincia la sinfonia. La loro funzione, però, è più sottile. La “corona” viene
generalmente interpretata come ad libitum, “senza tempo”. In Beethoven, invece, è
un marcatore di sezione, uno snodo strutturale nella Forma. Il gioco di pause, nelle
prime cinque battute di questo “Scherzo”, rovescia quello che attraversa l'incipit della
Quinta beethoveniana. Lì, la “corona” è sulle misure due e cinque: in proporzione
ternaria; qui, binaria. La brusca cesura con l'idillio amoroso sa di colpo di maglio
menato dal diavolo sugli amanti allacciati. Viene alla mente “La capanna sulle zampe
di gallina”, nei Quadri di un'esposizione di Musorgskij, dove viene evocata la visione
della strega Baba Jaga nel delirio alcolico di un mugiko. In Mahler, come nel
compositore russo, il suono ridotto alla sua mera materialità è una misura primordiale
dell'orrore. Lo “Scherzo” è anche il luogo in cui Mahler sperimenta per la prima volta
due strategie poi usuali, lo slittamento timbrico e lo spostamento strutturale. Le
famiglie degli strumenti, in questo “moto perpetuo”, riprendono a Canone lo stesso
materiale variandolo con figure secondarie su di una progressione tonale che sfasa
sempre di più l'equilibrio del movimento. Il moto disarticolato non procede solo
nell'accompagnamento ritmico, ma investe anche l'evoluzione delle Armonie,
impossibilitate a raggiungere un assetto orizzontale. Infine tutto collassa, e il sistema
di contrafforti dello Stile Classico precipita in una nebula che al suo diradarsi produce
un Fugato, emblema stesso della razionalità illuministica. La sua scolastica ovvietà
evoca un analogo momento della Sinfonia “Fantastica” di Berlioz, nel “Sogno di una
notte di sabba”, da noi già evocato raccontando il Finale della Sinfonia n. 1.
D'improvviso il cielo si apre e ne piove una fanfara ascensionale dove si annunciano i
richiami apocalittici del Finale. E qui subentra lo spostamento strutturale. Mahler
produce un materiale coerente le cui derive colloca nei punti nevralgici dei vari
movimenti, sostituendo la coesione della struttura con una tecnica della premonizione
e della reminiscenza che ha le sue radici nei romanzi di Jean Paul e si modella sulle
narrazioni a pannelli in progressivo slittamento di Hoffmann, autore di narrazioni
dove ogni vicenda anticipa quella successiva o recupera l'esito incompiuto della
precedente. Segue una sorta di Trio sospeso nell'etere, su di una scala per gradi
discendenti che inverte di segno l'incipit di “Urlicht”, ed è la nostalgia di vette ancora
inattingibili. Poi il “moto perpetuo” ricomincia con la percussione della frusta sul
bordo esterno della grancassa, ad evocare un suono di scheletri danzanti. Il gioco
imitativo tra gli strumenti si fa sempre più disorganico, scisso, straziato da salti
striduli, come di creature che tentino di uscire da un gorgo, finché un colpo di tam-
tam pone fine a questo caos organizzato. Ma è un inganno; esso continua eterno, in
una qualche dimensione della nostra coscienza.
La musica di Mahler procede per scenari. Segue le vicende di un immaginario
protagonista attraverso i regni che la sua memoria attraversa. Il nemico è il tempo,
che lo sceneggiatore della sua storia esorcizza evitando ogni autoconfessione. In
Mahler il mondo manda voci che l'eroe delle proprie storie subisce, assimila e
introietta, senza che la identità ci abbia niente a che fare. “Urlicht” è la clavis
alchemica della Sinfonia n. 2. È un Lied che Mahler ha scritto per se stesso, una
pagina di diario. Eppure, in queste poche battute c'è l'organigramma dell'intera
sinfonia. Il testo è di un'ingenuità demoniaca. Nelle prime tre battute ci sono tre
“corone”. La soluzione strutturale è disarmante. Se si nega il tempo, come si possono
avanzare critiche alla coesione del Lied con la struttura complessiva della sinfonia?
L'anima ridotta in crisalide alla quale il testo dà voce non è mai nata, non sa che cosa
è il tempo. Il Corale bachiano delle trombe che la solleva in volo prefigura il coro del
Finale, ma è anche una sequenza arcaica che immane alla sinfonia, viene prima di
ogni suono. Il compositore alterna battute in tre quarti e in quattro quarti, ad indicare
una cautela nel passo quale la possono sentire gli angeli venuti in visita sulla terra.
Gli angeli possono essere anche spaventosi, con il loro presentimento di immortalità.
La voce, dunque, esprime la propria angoscia di fronte alla condizione terrena: “Der
Mensch liegt in grösster Noth!”, “L'uomo giace in più acuta distretta!”. Noth non può
venire risolto da nessuna traduzione. Indica una necessità che affatica i viventi,
oscura e incomprensibile. La spada che Sifrido eredita dal padre Siegmund, da lui
mai conosciuto, si chiama Nothung. Noth è “la forza operosa che affatica tutte le
cose”. Poi, giunge l'angelo. Indica la via all'anima cosciente della propria condizione,
e quindi beata. Ma le potenze ultime le negano l'accesso alla beatitudine. Perché? Per
Malher, la conoscenza non è strumento di beatitudine, ma di dannazione; per questo
non si è fatto scrittore. Per accedere all'Empireo è necessaria una ricapitolazione dei
destini. Il nastro del tempo deve scorrere all'indietro, e questo è possibile solo alla
musica. “Urlicht” dichiara l'impotenza dell'umano conoscere. È una negazione
dell'Illuminismo, in quel nemico di ogni ragione falsa, tiranna dei sentimenti, che fu
Mahler. Un dettaglio nel quale c'è tutta la sostanza poetica del Nostro: alla fine della
sezione nella quale l'angelo invita l'anima a superare la soglia invisibile, un violino di
strada, un mendicante col suo Fiddler, il violino scordato, intona un lamento. Quel
mendicante lo troveremo assiso accanto agli angeli nel trionfo del Finale, redento dal
suo canto. È la nostalgia di Mahler per il socialismo, che lo portò, una volta, a seguire
il corteo degli operai nella marcia del Primo Maggio. Esiste, in lui, l'angoscia di
conoscere la vita solo per le vie della cultura. “Ho vissuto una vita di carta”, disse
poco prima di morire. “Urlicht” è forse il momento dove la sua ansia del divino, visto
come vita che si giustifica solo con il proprio esistere, trova la dimensione più alta.
Il Finale comincia con un gesto apocalittico terminale come quello del Primo
Movimento, ma di segno opposto. Là, vibrava la protesta; qui, il lasciarsi andare agli
eventi. Una fanfara ridotta a fantasmi degli avvenimenti sonori precedenti ci
accompagna all'ultima soglia. Sullo spegnersi di ogni suono si annuncia il “grande
appello”. Ottoni fuori scena annunciano che il tempo è finito; ora, rimane solo il
richiamo, che è quintessenza della Legge. Una delle tecniche dove Mahler è più
innovativo è la sua idea che i timpani siano scenari misteriosi, in controluce, limiti di
mondi misteriosi e inquietanti. Dopo di lui, solo Jean Sibelius li renderà testimoni di
cose viste ma troppo spaventose per poter venire dette (con la possibile eccezione di
Max Bruch, che apre il suo Concerto per violino n. 1 in sol minore op. 26 con un
richiamo atmosferico dei timpani). Dopo questa ascesa ad un mondo nebuloso di
passaggio, il richiamo degli ottoni fuori scena riprende suggestioni di Das klagende
Lied. È il richiamo della colpa, che riguarda tutti noi. I pesci dello “Scherzo”, la
predica antoniana, tornano, raggelati, in un gioco imitativo che viene spento
dall'insistere delle voci lontane. La dialettica tra legni e ottoni, qui, ha una
connotazione drammaturgica che eccede i limiti della musica. Mahler sta
corteggiando un paradosso. Si dice che la musica esprima contenuti inattingibili ad
ogni altro linguaggio, però in questo passaggio il compositore si industria a rendere i
suoni uno scenario tragico. Si capisce come a lungo sia rimasto incerto tra la
vocazione del musicista e quella del poeta. Una cesura improvvisa introduce un
episodio scisso, lacero, dove i tromboni chiamano le anime, e i violoncelli si lacerano
in un grido di impotenza poi lanciato in cielo fino ai legni e gli ottoni, che gridano
impotenti contro i cieli. Il successivo Corale degli ottoni ha un andamento scolastico
da esercizio di scuola, emblema della Legge, che è sempre naturale. Quando l'ovvio
fraseggiare è giunto al suo culmine, vi si innestano gli ottoni progressivamente
tumultuanti e il grido degli archi, fino a che la volta del cielo è penetrata e il coro
della Resurrezione risplende puro e incontaminato sui trilli dei legni e i tempi “forti”
delle percussioni. Mahler ottiene questo effetto di trascendenza più mutando in
regolare il tactus, fino ad ora ondivago, che con la muscolarità timbrica. Il canto di
“Urlicht” era cominciato in un'anacrusi che soltanto ora si risolve. L'angelo ha dato la
sua benedizione, e l'anima del pellegrino viene ammessa tra gli Eletti. In lontananza
risuonano gli echi del mondo terreno, che le percussioni conclamano con moto
selvaggio. È la memoria, nemica di ogni redenzione. Alcuni “pizzicato” inattesi
segnano il limite della mortalità, poi l'anima, gravata dal senso di colpa per il vissuto
terreno, sprofonda nel proprio Purgatorio sonoro. Segue uno dei passaggi più
equivoci, più passibili di sviamento, nell'intera opera mahleriana. Un “crescendo”
parossistico delle percussioni sfocia in una sorta di singulto grottesco, da gigante
rabelaisiano, degli ottoni, poi ripetuto fino a sfociare in una marcia circense che
parodia il nobile “tema della risorta polvere”. La trivialità esibita fa pensare ad uno
scabroso quadro di James Ensor, L'entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889. La
volgarità, qui, è il sarcasmo che patisce chi ha creduto nella sostanza dell'ideale,
promessa di una vita spesa nell'illusione. La musica di Mahler ha sempre una
componente di critica al materialismo dell'epoca, le “magnifiche sorti e progressive”
sbandierate in faccia agli ingenui manipolati dagli avidi. Siamo in un Espressionismo
non sistematico, ma raggiunto per virtù di straniamento. Già nello “Scherzo”, il
compositore suggerì di pensare a coppie di ballerini osservati di lontano, per cui si
vede la danza “senza riuscire a sentire la musica”, e dunque “i loro volteggi ti
appaiono strani, insensati”. Questa transizione alla sezione “celeste” del Finale passa
per il color ocra del mondo demoniaco, dove la caricatura beffarda delle usanze
umane diventa il teatro di un Inferno che è il mondo nostro. Il tumulto cresce fino ad
una catastrofe sinfonica dove tutto guizza, si scompone e rifluisce per le crepe della
terra alla propria origine negli abissi. Si leva il richiamo del trombone, in Mahler
canale, come in Gluck, di voci stigie. Prefigura l'assolo del contralto “O glaube, mein
Herz, o glaube”, il “tema della speranza confortata”. La vera morte, per Mahler, non
è l'estinzione della vita, ma il fatto che di lei non rimanga più traccia. Immortalità, per
il Maestro della “Resurrezione”, significa eredità di affetti. I legni intervengono con
“suoni di natura”, richiami di uccelli notturni che vengono dall'Oltremondo, ora
percepito, ma non ancora visto. I violoncelli variano il tema, mentre il Mahler di Das
klagende Lied riemerge nell'orchestra lontana, fuori scena, che continua la ridda
infernale dell'episodio precedente. È il principio, onnipresente nel Nostro, della
“drammaturgia spaziale”. Siamo in un regno intermedio tra terra e cielo, e ascoltiamo
voci remote venire dai due estremi del cosmo. Il racconto del dopomorte, il
pellegrinaggio delle anime tra i cieli delle stelle fisse, è un capitolo glorioso della
civiltà occidentale. Forse Mahler, nei suoi studi ginnasiali, si imbatté nel suo
capostipite, il Somnium Scipionis di Marco Tullio Cicerone. Dalla rielaborazione che
ne trasse il Cardinale John Henry Newman, Edward Elgar doveva trarre, nel 1900,
quel The dream of Gerontius che egli non volle mai si definisse un Oratorio. Elgar era
un cattolico in terra di protestanti; Mahler, un ebreo in terra di protestanti e cattolici.
Il suo sincretismo religioso lo porta a concepire l'Inferno come un sentimento terreno:
la disillusione al cospetto della verità rivelata da ogni esistenza, l'inane senso del
tempo. L'Inferno è das irdische Leben, “la vita terrena”; il Purgatorio è il transito tra
prove iniziatiche nei mondi intermedi, esperienza che solo nel sacrificio di sé al
magistero dell'arte può essere tentata. E il Paradiso? come vedremo, è la liberazione
dal tempo che tutto consuma e corrompe. Nelle parole del Faust goethiano, è l'attimo
che si ferma, perché è bello. La bellezza, in Mahler sinonimo di immortalità, è
cristallizzare il tempo delle cose nel respiro sospeso dell'anima. A questo punto del
Finale l'anima sembra, ormai, redenta, eppure di nuovo viene trascinata, con strappo
violento, verso il basso. E giunge il passaggio di stato, lo sfondamento della soglia.
“Molto accelerando”, sta scritto in partitura. La densità dei cromatismi crea una
caligine fitta. Siamo ai margini dell'infinito, dove la materia si addensa più cupa
prima di precipitare nel tempo. Nella Sinfonia n. 1, Mahler evoca il transito
nell'infinito lanciando l'orchestra, come una palla oltre la rete, da Do maggiore a Re
maggiore. Tutte le modulazioni lì evitate creano, in questo tunnel, sempre più chiuso,
della “Resurrezione”, uno spaventoso agglutinarsi di cacofonie. L'anima, uscendo dal
corpo, lo dilacera tra spasimi orribili. Solo l'accettazione del dolore salva l'uomo dal
non senso della vita: questo, il significato profondo della sinfonia. La “tecnica per
sovrapposizione di orchestre virtuali” risalta, qui, per la prima volta in tutta la sua
genialità. L'effetto è quello di una rotazione. Il tempo non scorre più, ma si riavvolge
su se stesso creando una di quelle prospettive fatte di figure ricorsive, specchi di
geometrie, dove ogni cosa appare simultaneamente in ogni punto dello spazio, che
fanno la gloria dell'incisore Mauritz Cornelis Escher. Le avanguardie novecentesche,
a cominciare dalla Seconda Scuola di Vienna, videro in Mahler il Maestro proprio in
questo suo far coincidere, pur se per esigenze drammaturgiche, la dimensione
orizzontale e quella verticale della musica. Spazio e tempo. Attimo ed eternità. La
musica di Schönberg e, soprattutto, quella di Webern ripartono dall'ultimo strappo,
nella “Resurrezione”, verso la luce. Isolano siffatto episodio dando per acquisito tutto
ciò che lo precede per poterlo meglio affermare, piuttosto che, come si potrebbe
pensare, per negarlo. Con semplicità straordinaria, e tanto più efficace, il compositore
passa da una segnatura “in quattro quarti” ad una “in due mezzi”, assorbendo tutto il
materiale amorfo del cosmo in una colonna di suono radiante. I modelli di Mahler, in
questo passaggio, sono il Gluck dell'Orfeo ed Euridice, “Che puro ciel!”, quanto al
clima espressivo, e il Wagner del Crepuscolo degli dèi: l'incipit, dove la risoluzione
armonica ha la magia di una trasfigurazione. A questo punto risuona, dai quattro lati
dell'Empireo, “der grosse Appell”, “il grande appello”, scandito di lontano dai corni e
ripreso dalle trombe su lunghe “corone”, mentre in orchestra la grancassa, rollando
“sempre pp”, esprime il mistero di quella forza che permea, in vita, tutte le cose; fino
a traslarle, per fede, nell'aldilà. Siamo su di una pianura desolata dove l'unico
richiamo della vita sono i versi degli uccelli. Nelle culture arcaiche, gli uccelli sono le
anime dei morti. Mahler visse in una terra di confine, un crogiolo di tradizioni
spirituali. Forse questo significato totemico degli uccelli, i loro richiami
dall'Oltremondo, gli venne dalla Chiesa Ortodossa. Si è sempre esaltato il tremendo
potere ascensionale di quanto accade da questo punto in poi: l'apoteosi dei Giusti. I
Giusti siamo tutti noi, che abbiamo già espiato con l'esistere la nostra condanna. In
questo eretico Giudizio Universale, infatti, non ci sono colpevoli. Dopo l'entrata del
coro “a cappella”, sui versi di Klopstock, l'orchestra enuncia il “tema della risorta
polvere” con un procedimento timbrico ascensionale che porta progressivamente il
canto fin nelle regioni più eteree dell'orchestra. La sapienza di Mahler sta nel
riproporre, poi, quel canto, a partire dall'entrata del soprano, con maggiore fede e
confidenza. L'intuizione di presentare l'assemblea dei Giusti, all'inizio, come un
popolo spaurito di fronte all'immensità dell'eterno, è un tratto di straordinaria
umanità. “E poi non accade nulla di quanto ci si sarebbe aspettati: nessun giudizio
divino, nessun salvato, né dannato; nessun buono, nessun cattivo e nessun giudice!”,
dice Mahler alla Bauer-Lechner. La folla dei morti nasce, ora, alla vita vera, nelle
entrate progressive a Canone sulle parole “Mit Flügen, die ich mir errungen”, “Con le
ali che io mi sono guadagnato”. L'impressione del vuoto, l'assenza del Dio
indagatore, creano uno sconcerto che è il momento più mistico e complesso della
sinfonia. La Seconda descrive una resurrezione gnostica: l'unica salvezza possibile
all'uomo è nell'autocoscienza, il sapere che nella sua pienezza si riversa,
spontaneamente, in amore. Non si tratta di ebraismo né di qualsivoglia fede
confessionale, ma del ritorno a una sacralità antica della quale, ora, si è persa
memoria: la fede nel dolore come redenzione dal tempo falso delle cose apparenti. Lo
Gnosticismo, Umanesimo per eccellenza, è il culto sotteso alle perorazioni finali della
partitura. “Il 'crescendo' e la progressione che si verificano da questo momento in poi,
fino alla fine, sono così imponenti che io stesso, a posteriori, non so come sono
riuscito a ottenerli”, commenta Mahler. Eppure l'origine dell'incantesimo è evidente,
ma, come tutte le cose semplici, difficile ad essere notata. È il silenzio. La spaventosa
fissità di quel cielo pervaso di richiami d'uccelli che è anche abisso, perché pervaso
dall'eterno, l'immobile per definizione. Questo silenzio verrà poi incorporato come
struttura, nella propria musica, da Webern, grande interprete mahleriano, e unico vero
erede di questo suo segreto sapere. Prima dell'apoteosi c'è un duetto tra contralto e
soprano la cui innocenza melodrammatica richiede una spiegazione. Vi si proclama
l'inalienabile possesso di ciò che per cui si è lottato: l'eredità di memorie, la ragione
ordinatrice del caos attraverso l'opera di una vita. Io, non altri, mi sono guadagnato le
mie proprie ali per ascendere all'eterno. Non si celebra, qui, l'arte se non come pietra
filosofale, reagente per la trasmutazione alchemica di ogni sapere in amore. I santi
possono farlo con maggior forza e minor tempo di ogni sapiente. Le due voci soliste
sono l'anima di “Urlicht” sperduta di fronte alla soglia, e ora accolta dall'angelo
guardiano. Ogni anima redenta torna ad essere l'androgino primario. Le due voci sono
due aspetti della stessa identità, adesso ricomposta. Su “Bereite dich zu leben”,
“Preparati a vivere” – si badi bene: “vivere”, non rivivere – ogni stasi si risolve in
ascesa. Ma senza questa stasi, ciò che segue non ci sconvolgerebbe così nel profondo.
La resurrezione secondo Mahler non è il ritorno ad una vita eterna: è la nascita del
vero essere dalla sua crisalide infine deposta a terra. L'eroe che viene condotto a
sepoltura nel Primo Movimento è solo un testimone. È il Jedermann del dramma
omonimo di Hugo von Hoffmannsthal: “Ognuno”. La sinfonia racconta ciò che vide,
al pari di Dante quando dice “Veramente quant'io del regno santo/Ne la mia mente
potei far tesoro/Sarà ora materia del mio canto”. La discussione teologica ha uno
scopo analitico. Mahler non poteva giungere a questa trascendenza dalla vicenda
biografica iniziale se non articolando la struttura della composizione per episodi via
via rastremati su un piano sempre più alto dell'esistere. Questo spiega anche il
carattere riassuntivo, per reminiscenze e anticipazioni, del Finale; quel suo materiale
tematico derivativo, non conseguente, tanto spesso fatto oggetto di critica. Rimane il
mistero di come un'opera così potentemente pagana, eretica rispetto a qualsiasi
confessione, venga ancora vista in una prospettiva ireneica, secondo i canoni di una
sottomissione dell'uomo a poteri che lo eccedono. Il Mahler della Seconda aveva
meditato Nietzsche. La “Resurrezione” è un inno all'uomo dio di se stesso.
La vita interiore di Mahler fu segnata dallo studio di Così parlò Zarathustra. Il
poema allegorico di Nietzsche è il programma segreto sotteso a tutta la Sinfonia n. 3
in re minore. Che cosa ci trovava, il compositore, nel delirio dionisiaco del veggente
filosofo? il panteismo, certo: l'idea che ogni creatura, nella grande catena degli esseri,
sia unita da legami invisibili. Ancor di più, un'estetica della vertigine. L'ipotesi che
l'arte, se vuole ricreare un'immagine dell'universo, debba procedere per contrasti,
opposizione di entità incompatibili. È la teoria della “doppia visione”, il “battere tutte
le campane allo stesso tempo”, usando i mezzi più raffinati e quelli più rozzi. Questo
materialismo spirituale, per paradossale che sia, fu il linguaggio che Mahler adottò
lungo la Terza, la sua cosmologia sinfonica. Vi cominciò a lavorare a Steinbach, nel
giugno del 1895. Questa volta, aveva in testa un progetto preciso. Titolo, La vita
felice; sottotitolo, Sogno di una notte d'estate, con una postilla: “Non da Skakespeare.
Nota per i critici e per gli specialisti di Shakespeare”. Una irrisione verso i dotti e i
filologi di ogni specie. Successivamente la sinfonia si chiamò La gaia scienza, in
omaggio a quel libro dove Nietzsche, in pensionamento dalla cattedra a Basilea,
segna il proprio divorzio dal sapere accademico. Quanto al Sommernachtstraum, il
“sogno di una notte d'estate”, la notazione sarcastica mahleriana nasconde un
riferimento occulto al vero Shakespeare, che non è quello degli specialisti. In A
Midsummer night's dream, la “mezza estate” cui si allude è la festa di San Giovanni,
quando gli spiriti delle foreste, delle acque e dei venti si destano alla vita. La Terza dà
voce a questi spiriti, e li segue nella loro evoluzione verso le più alte forme viventi.
Dietro a Nietzsche, e a Mahler, c'è l'ombra massonica di Goethe. Il più alchimista tra
i poeti, nella Metamorfosi delle piante ricerca, al di là delle molteplici sembianze che
assume il mondo vegetale, l'idea di un archetipo originario dal quale il loro intrico
procede e si ramifica in specie via via più complesse. Lo stesso vale per le rocce, gli
animali e gli esseri umani, che un'unica scala evolutiva conduce fino a quell'archetipo
sovrasensibile che vien detto Dio. Mahler iniziò la composizione della sinfonia dal
Secondo Movimento, “Tempo di Menuetto”, dal sottotitolo “Che cosa mi raccontano
i fiori del prato”. La metamorfosi delle piante era uno dei libri conservati nella
bibliotechina di fianco al pianoforte, dentro la casetta per comporre che Mahler si era
fatto costruire a Steinbach. In Briefe des Pastors, Goethe dice che Dio ed amore sono
un'identità, e che ogni differenziazione tra dogma e dogma, religione e religione, non
ha ragione di essere. Le conseguenze di quest'ultima affermazione, le abbiamo viste
nel sincretismo aconfessionale della “Resurrezione”. Nella Terza, il Finale, Sesto
Movimento, ha per sottotitolo “Che cosa mi racconta l'amore”. “Potrei chiamare
questo pezzo anche 'Che cosa mi racconta Dio'. E proprio nel senso che Dio può
essere compreso solo come l'amore”, spiega Mahler in una lettera alla Mildenburg.
Questo Creatore-Motore Immobile, energia vitale che pervade per gradi diversi
l'intera Creazione, viene descritto in suoni che sono la sua Gloria, nel senso che
Dante, al principio del “Paradiso”, così esprime: “La gloria di colui che tutto
move/Per l'universo penetra, e risplende/In una parte più e meno altrove”. Il Finale è
il “ciel che più de la sua luce prende”, e la tragedia umana di Mahler fu morire
proprio quando la Commedia dantesca, naturale evoluzione, in lui, del panteismo
goethiano, stava prendendo corpo nella Sinfonia n. 10. Torniamo per un attimo a
Goethe. In Eckermann, Conversazioni con Goethe, parlando della natura “senza le
mie ricerche nel campo delle scienze naturali, non avrei conosciuto gli uomini così
come essi sono – dice il poeta – La natura (…) ha sempre ragione e gli errori e le
manchevolezze sono sempre dell'uomo (…) L'intelletto non giunge sino ad essa,
l'uomo deve essere capace di elevarsi sino al più alto stato di ragione per sfiorare la
divinità che si rivela nei fenomeni primitivi sia morali che fisici”. Ecco: la musica,
nella Terza, è quel più alto stato di ragione. E infine “la divinità opera in tutto ciò che
è vivente (…) Essa è nel diveniente e nel trasformantesi (…) Pertanto anche la
ragione, nel suo tendere verso il divino, ha da fare con ciò che diventa e vive”. La
lunga citazione valeva a comprendere il processo compositivo di Mahler, già maturo
a partire da questa Terza dove tutto si evolve da piccoli incisi, cellule motiviche che
sono organismi, archetipi di ogni possibile forma del vissuto. Simile
Naturphilosophie goethiana trovò la prima espressione musicale nei Leitmotive di
Wagner. Mahler, però, trasforma l'evoluzionismo drammaturgico dei drammi musicali
wagneriani nell'immanenza del tempo ciclico, dove Dio è un punto che si sposta
ovunque lungo la circonferenza del Creato. Per questo chi coglie gli sviluppi delle
stesse idee, il loro germinare da un movimento all'altro della Terza, percepisce la
struttura della sinfonia come rivelazione di una verità cosmologica. La sinfonia si
intrecciò a lungo, nella sua elaborazione, con la Quarta; al punto di prevedere, a un
certo punto, anche quel Lied “Das himmlische Leben” che la conclude. Doveva
essere il movimento “Quello che mi racconta il bambino”. Il rilievo ci serve a
definire fin da ora la sinfonia successiva come il naturale epilogo della Terza, che vi
compare in figura di cristallo e in prospettiva rovesciata, come una lanterna magica
osservata da un fanciullo. La Terza è una sinfonia animistica. Le voci misteriose di
esseri nascosti oltre il nostro sguardo vi giocano un ruolo strategico. Come accade a
chi cammina in un paesaggio sconosciuto, ci costringono a volgere lo sguardo verso
l'alto, oppure indagare ciò che si nasconde nel buio.
Il Primo Movimento, “Kräftig, Entschieden”, l'ultimo a venire composto, costituisce
da solo la Prima Parte. È un Poema Sinfonico sul modello di Totenfeier, dove tutti i
materiali tematici vengono fatti collidere in un processo geologico e tellurico,
secondo le leggi che creano le montagne. Nell'incipit, gli otto corni all'unisono, Pan si
sveglia. Il dio dello stupore di fronte al mistero dell'immensità, il demone che ispira il
panico, viene evocato da Mahler attraverso il misterioso rimbrotto della grancassa in
“pianissimo” e i trilli del fagotto, intervallati da un richiamo della tromba che anticipa
la “firma” di Petruška, nel balletto di Stravinskij. La primavera, respiro di Pan, tenta
di vincere l'inerzia della materia. Presto un secondo episodio, su di una nenia
pastorale dell'oboe poi variata dal violino, annuncia che Pan ha iniziato a insufflare la
vita nelle creature inanimate: le rocce, i cristalli, i protozoi. Comincia una marcia
bandistica dove il temino agreste si ramifica in variabili ispirate alla canzone
popolare e la musica da ballo. Vi risalta il particolare Contrappunto di Mahler, fatto di
eventi sonori che si sovrappongono per tempi diversi, come se uno spazio smisurato
li facesse risuonare in assenza di un'interazione consapevole. La tromba interpola il
caos organizzato con il rovescio del suo richiamo, finché l'orgia non precipita sotto
l'incalzare di un trombone solista il cui assolo è una domanda di senso dove la
creatura vivente, sperduta di fronte a simile spinta in avanti dell'insensato esistere,
chiede soluzione all'enigma del proprio stare al mondo. Lo stesso motivo compare
quasi identico alla fine del Lied “O Mensch! Gibt Acht!”, Quarto Movimento, a
connotare l'idea dell'eternità; quindi, sovrapposta ad un ritorno dell'incipit scandito
dagli otto corni, nel Finale, Sesto Movimento, lungo quella transizione che apre le
porte dell'immensità. La sottigliezza del lavorio motivico, in tutto l'arco strutturale, è
impressionante. Nel Lied con coro del Quinto Movimento, “Es sungen drei Engel”,
per esempio, percepiamo una variante dell'incipit: il Weckruft, “risveglio” di Pan,
degli otto corni. Il Lied racconta l'autoconfessione di un'anima che ha tradito i dieci
comandamenti, confortata dagli angeli che accolgono il suo pentimento. Pan riapre
gli occhi, e il suo sguardo si specchia in quello dell'uomo, che solo la colpa risveglia
all'autocoscienza. La terza sezione del Primo Movimento è un gioco di
sovrapposizione tra complessi bandistici, echi di festa, ebbrezza e caos che spiega
l'interesse dimostrato da Mahler, negli anni newyorkesi, per Charles Ives. Nelle
Wunderhorn-Sinfonien il Contrappunto, per il compositore, lo abbiamo visto, è la
concomitanza casuale di eventi possibili. Fu questo episodio a suggerire a Richard
Strauss l'immagine di una marcia degli operai il Primo Maggio: un rilievo che, nel
suo linguaggio sempre dissimulato, per non compromettersi, era un elogio. Una volta
Mahler si ritrovò con Hubert Wondra, segretario artistico alla Hofoper, a passeggiare
sulla strada che dal Wörtersee portava a Klagenfurt. Cominciò a suonare un
organetto. Wondra sembrava infastidito. Presto un secondo organetto si aggiunse al
primo, nel mentre, in lontananza, una banda militare stonava la propria marcia.
Wondra, orripilato, guardò Mahler, che restava impassibile, attraversato da un
inconfessabile piacere. Quella, era la sua idea di Contrappunto... Torniamo al
gigantesco affresco introduttivo della Terza. In capo al tumulto, il trombone solista
torna a ristabilire l'ordine. Già sappiamo che, sull'esempio di Gluck, Mahler affida
sempre a questo strumento il ruolo della coscienza ordinatrice. Il movimento termina
risolvendo a Canone tutto ciò che lo Sviluppo, in Forma di Rondò variato, aveva
lasciato irrisolto. Siamo passati dall'Età degli Dèi a quella delle Creature Terrestri. Il
Maestro prescrive, a questo punto, una lunga pausa che quasi nessuno rispetta. La
transizione tra un'èra primordiale, innervata da forze magiche, e la storia
dell'evoluzione biologica, richiede uno iato che separi le due dimensioni.
“Quello che mi raccontano i fiori del prato” è l'argomento del “Tempo di Menuetto”
successivo. Si tratta di una parodia della Suite di danze barocca poi scomposta da
figure irregolari degli archi, simbolo del vento che mette alla prova l'indifferente
natura di quegli esseri inanimati. La tromba muta il richiamo inquietante, pulsionale,
del Primo Movimento nell'eco di una Serenata strettamente affine a “Blumine”, il
brano espulso dalla Sinfonia n. 1; e dunque, al Trompeter von Säkkingen, il fantasma
di tutte le Wunderhorn-Sinfonien. Questa musica da Kursaal, da chiosco nel parco
delle terme, è un microcosmo dove tutto sta in equilibrio perché chi lo abita non ha
l'intelligenza necessaria a percepire l'abisso vuoto che lo circonda. È una serenità
fatta di inganno, una beffa del Fato, quando diventa un corteggiatore azzimato da
Operetta viennese. Si respira, qui, tutta una parodia del mondo alto-borghese, un tono
di quelli cui Arthur Schnitzler, tra signorine Else pronte a suicidarsi col Veronal e
dott. Gräsler che scambiano per felicità l'insensatezza della loro vita ridotta a flirt,
dovette la sua fama.
Il “Comodo. Scherzando. Ohne Hast” che segue è un modello per capire la
particolare “tecnica a collage” che Mahler adopera per sviluppare materiali
eterogenei nati dallo stesso motivo. Si tratta di una combinazione tra il Rondò e il
Tema con Variazioni concettualmente affine alle procedure di Brahms, ma con fini
opposti: dissolvere la consequenzialità, disarticolare la coerenza delle derivazioni
tematiche. Il motivo generatore è il Lied “Ablösung in Sommer”, che qui ci appare
come un cristallo che mandi i più diversi riflessi, a seconda di come viene
attraversato dalla luce. Ritroveremo l'indicazione “comodo” nel Primo Movimento
della Sinfonia n. 9. In Mahler esprime la necessità di far percepire la compresenza di
sorgenti sonore collocate a distanze diverse. È una sorta di “regia” musicale ottenuta
attraverso la disciplina esatta del tempo di base. Lo sviluppo del materiale procede
secondo quella “evoluzione a gorgo” che è la conseguenza, nel compositore, della
tecnica a collage. In pratica, tutti i motivi associati ai personaggi del Lied vengono
progressivamente sovrapposti senza mai combinarsi, perché mancano alcune battute
di risoluzione; fino a che la densità della scrittura imitativa non collassa in due
episodi collaterali: una specie di Furiant boemo trattato come fosse un Canone di
Johann Sebastian Bach, e una Serenata à la Fuchs che sboccia da quel parapiglia
come il fiore nostalgico di un vecchio sulla tomba dell'amata. A questo punto lo stallo
della Forma viene risolto dal corno di postiglione, e lo scenario si apre su di un
mondo interiore di affetti umani che gli animali del bosco prima irridono, quindi
imitano nelle sue movenze; ma senza empatia, né comprensione. E capiamo la chiave
segreta del movimento: il tempo degli umani è terminato ère or sono, e gli animali
hanno preso il loro posto; intanto, il nuovo cominciamento di mondo, l'incipit del
Primo Movimento, a tutto sotteso, creando un cosmo che ripeterà la progressione del
cosmo perduto sta generando, invisibile, l'uomo nuovo: l'Übermensch, l'Oltreuomo,
quella creatura che, secondo la teoria dell'Eterno Ritorno nietzschiana, prenderà il
posto dell'uomo vissuto nel mondo di ieri.
Il Lied, Quarto Movimento, sviluppato su “Das trunkene Lied”, “La canzone ebbra”,
in Così parlò Zarathustra, ha una posizione perfettamente simmetrica rispetto al
Primo Movimento, del quale sviluppa, nel mondo degli uomini imminenti, la stessa
stasi, germinazione progressiva del tempo, dentro cui si muove il Weckruft iniziale.
“O Mensch! Gibt Acht!”, “O uomo! Attento, ascolta!”, dice il contralto. La genialità
della scrittura sta nel suo prevedere la sovrapposizione di figure irregolari, a fare un
ondeggiamento di veli nella luce immacolata delle origini; e questa luce altro non è
che la dimensione di “Urlicht”: nella Seconda, germe di ogni resurrezione possibile.
Nel richiamo notturno dell'oboe – l'“uccello della notte”, nelle parole di Mahler; la
nottola, emblema di Minerva – espressione dell'anelito alla vita, primo moto della
schopenhauriana Volontà di esistere, ci appare, cristallizzata, la “sveglia” iniziale
degli otto corni. L'eco dell'origine del mondo, ora, al sorgere dell'umana coscienza,
appare remoto; fossilizzato, quasi. “Come un suono di natura”, prescrive il
compositore, esigendo quel lento “portamento”, da sgraziata voce nel buio, cui pochi
interpreti adempiono. Nel Primo Movimento, ricorderete, il trombone era l'appello
della ragione contro il caos; nel Lied, dunque, come abbiamo già accennato, al
momento culminante, quando la luce dell'eternità rischiara, infine, gli uomini, questo
stesso tema diventa lo stelo su cui fiorisce il canto. È l'alba dell'uomo, che dà senso
alle cose; ma solo come memoria, eco del passato. Il movimento ha per sottotitolo
“Quello che mi racconta la notte”, ma il suo protagonista è l'uomo, simboleggiato
dalla sua voce risonante nel buio. Il modello di Mahler, qui, è il Beethoven della
Nona Sinfonia, nel cui Finale il canto esprime l'ascesa, a partire dal caos dell'incipit,
fino al logos.
Il Quinto Movimento è un ex-voto edificato da cantori spirituali, ma ingenui, con i
rottami della storia. Il coro di voci bianche imita il suono delle campane con
un'onomatopea troppo immediata per non essere il fantasma di un altro mondo.
Conosciamo un altro luogo simile: il Canone Frère Jacques, a fare da Marcia
Funebre nel Terzo Movimento della Sinfonia n. 1, e sappiamo quali esiti ha sortito.
L'aspetto più spaventoso della Terza è che tutto il suo materiale melodico sia una
variante della fanfara iniziale dei corni, anche il temino in forma di ninna-nanna di
questo “Es sungen drei Engel”, “Tre angeli cantarono” – nel programma di Mahler,
“Quello che mi raccontano gli angeli, le campane del mattino” – strofico, ma
spaziato da un piccolo interludio orchestrale che prefigura il tema del Finale. Il dio di
amore c'è già, ma non osa manifestarsi, perché dove risplende la gioia delle creature
senza coscienza non c'è posto per la sua onnipotenza eucaristica. Il movimento
sinfonico vive della sospensione tra la reminiscenza degli otto corni che aprono la
sinfonia e la prefigurazione del cosmico tema del Finale, agape dei viventi. Questa
dissociazione del concetto di Sviluppo sinfonico è fondamentale per capire Mahler.
Non c'è più elaborazione del materiale, come nei Classici. Le varianti dei temi sono
detriti che si ripresentano alla memoria dei viventi sull'onda dell'emozione. Un terzo
elemento strutturale è quel cantus firmus che mette in musica il passaggio “liebe nur
Gott”, “ama solo Dio”. Con il ricorso ad un arcaismo irrelato al tempo della musica,
il compositore intende gettare un occhio benevolo sulla sublime follia dei santi, la cui
speranza fiorisce nell'ingenuità dell'eterno. Resta un enigma: perché Mahler associa il
canto degli angeli alle campane del mattino? Degli angeli noi non vediamo il volto,
udiamo solo il suono del loro canto.
Il Finale è un “Langsam”, un “Adagio” dove il tempo si arresta. Mahler evoca, qui, il
mito di Issione, che fu condannato, legato a una ruota, a girare senza posa. L'allegoria
del destino umano, sospinto a credere per nuove esperienze che sono ripetizione di
traumi precedenti, non poteva essere più freudiana. Non per niente il tema iniziale è
una parafrasi del Quartetto op. 135 di Beethoven, il “Lento assai, cantante e
tranquillo”. In questa epifania in limine alla sua morte, Beethoven diede suono al
termine di ogni contrasto. Il tema, circolare, collassa su se stesso. Mahler vi
contrappone un “principio del desiderio” che richiama un passaggio nel Quarto Atto
della verdiana Aida. La drammaturgia delle altezze, con questo slancio lirico che
evoca il buio di un sepolcro, getta un'ombra di ambiguità sull'apoteosi dell'Adagio.
Richiami di memorie passate lo intridono di ossessioni, fino a che il Weckruft dei
corni non semina il sospetto che l'intera ascesi sia l'incubo di un'anima in punto di
morte. Il primo tema cela un paradosso: nel suo tempo trattenuto è un flusso melodico
sorgivo, epitome di ogni romanticismo; ma se suonato su di una tastiera a un tempo
raddoppiato, sembra una Invenzione “a due voci” di Johann Sebastian Bach. La luce
primigenia di questo Finale, insomma, non solo è impura, ma finge maliziosamente
una purezza che non ha. Formalmente è un Tema con Variazioni in ogni transizione
del quale si innesta uno Sviluppo della Forma-Sonata. Stasi e dinamismo, quindi, vi
convivono in perfetto equilibrio. Niente si può dare di più demonico e malsano. Tra
l'altro, le sezioni di Sviluppo sono regressive, e infatti culminano nella ripresa
testuale del Weckruft su cui si apre la sinfonia. Il movimento è tutto giocato sui
chiaroscuri tra la trascendenza progressiva e il richiamo degli abissi. Si tratta di un
Tema con Variazioni giocato sulla tecnica degli ultimi Quartetti di Beethoven, dove il
passaggio in tonalità non contigue crea il senso di un percorso tra i rovi. Nel Finale,
la pagana Terza diventa una Messa laica. “Padre, guarda le mie ferite/ Fa' che
nessuna creatura vada perduta”: si tratta di un passaggio di Des Knaben
Wunderhorn, un luogo dove Maria, Gesù e il Padre discutono la sorte dei reietti e
salvati. Mahler, nel Sesto Movimento della sinfonia, mettendolo in esergo, erige un
altare musicale a Maria Vergine; in lui, simbolo di ogni femminile materno. Ecco
perché questa musica abbraccia il tempo e, come fosse un neonato, non lo lascia mai
cadere a terra. La strumentazione dà agli ottoni il valore di una “pedaliera” d'organo.
È l'unica eredità che Bruckner ha lasciato a Mahler: la fede nella progressione tonale.
Prima dell'apoteosi, le forze terrestri trascinano ancora una volta il corteo di spiriti
verso la fanfara dei corni che narra il risveglio di Pan. Quella frenesia, ora, appare
rovesciata, quasi fosse un inganno del sentimento. La sua violenza si abbatte senza
che la tersa superficie del cielo superiore ne venga intaccata, finché sul rastremato
pulsare del tempo si leva la voce del flauto, nel Nostro sempre presagio della
rivelazione. Il Corale delle trombe che segue disloca lo spazio su due scenari
lontanissimi, dove la quiete degli affetti ritrovati si fa passaggio verso una bellezza
troppo vicina per non essere spaventosa. La progressione terminale festeggia il
trionfo del diatonismo, l'evoluzione grado per grado su di una scala che percorre tutte
le dissonanze della sinfonia, rendendole un passaggio di stato, dalla crisalide
all'angelo. Mahler, qui, ha in mente il Finale dell'Oro del Reno wagneriano:
l'“Entrata degli dèi nel Walhalla”. Il colpo di piatti al culmine della rivelazione
iperurania è memore di un analogo passaggio, da alcuni ritenuto spurio, nell'“Adagio”
della Sinfonia n. 7 in Mi maggiore di Bruckner. È come se qualcuno scostasse un
semplice velario è vi trovasse il mondo delle origini, la patria d'anima perduta alla
nascita. Mahler rimarcò quanto la Terza fosse un fenomeno sonoro al cui cospetto la
“Resurrezione” impallidiva, e in effetti, qui, egli trovò per vie puramente musicali ciò
cui prima aveva alluso per strategie poetiche, il ricorso a un testo. Il Finale della
Terza risolve le ferite lasciate aperte, nella Forma sinfonica, dalla Nona
beethoveniana. Dopo l'apoteosi, in una detumescenza debussyana fatta di echi in
sordina dei corni e figure ricorsive degli archi, gli ottoni guidano l'addio al tempo. Il
luminoso epilogo brilla per la sua ovvietà, ma usa la retorica come sofisticata
regressione alle illusioni dell'infanzia. La coppia di timpanisti scandisce un tempo
ineluttabile, che noi avvertiamo presente nella partitura prima ancora dell'inizio; su di
esso il Weckruft, la “sveglia” di Pan, si rastrema in un richiamo alla vita onnipresente
nel flusso d'anime del Creato. Mahler non fu mai così radioso e propositivo; né più lo
sarà. La Sinfonia n. 3 in re minore venne eseguita per la prima volta a Krefeld il 9
giugno del 1902, diretta dall'autore. La proposta integrale era l'esito di un cauto
avvicinamento, scandito dal “Tempo di Menuetto” proposto da Nikisch a Berlino il 9
novembre del 1896 e da Secondo, Terzo e Sesto Movimento presentati da
Weingartner, sempre a Berlino, il 9 marzo del 1897. Il successo di Nikisch fece
temere a Mahler di venire considerato come una sorta di Fuchs boemo. Col senno di
oggi, proporre episodi isolati di questa sinfonia è come sostenere che una autopsia sia
una sfilata di moda, ma allora i detriti del Romanticismo avevano reso il frammento
una rivelazione dell'Assoluto. Mahler vi si conformò finché gli fece comodo, poi, a
fama acquisita, vi rinunciò del tutto; come ai “programmi”, le illustrazioni verbali, da
lui, negli ultimi anni, aborriti come trastullo di impotenti.
La Quarta adopera una polifonia per inganno. I motivi elementari sprofondano in
abissi dove divengono inudibili, per poi riemergere nel mezzo dell'intrico di temi
altri. Questo Contrappunto a fiume carsico emerge già al principio del movimento
d'apertura, dove la frase dei clarinetti si nasconde sul “levare” degli archi che
intonano, “ritardando”, una danza campestre memore della “Pastorale”
beethoveniana. Mahler non crea dissociazioni tra le voci; in questo, Brahms è ben più
avanzato. Piuttosto fa interagire, sovrappone, gruppi orchestrali differenti che per la
immaginaria distanza non si possono ascoltare tra loro. Questa stratificazione delle
linee affine alla Serenata barocca, dove archi e fiati giocavano in eco le sfasature
imitative dovute alla loro distanza, è la memoria della musica d'uso, gli strimpellatori
d'osteria e le bande per matrimoni e funerali della sua infanzia. Un altro carattere del
Primo Movimento è il caos calmo. Mahler non solo sviluppa il motivo principale e le
sue idee secondarie con impeccabile misura scolastica, ma fa confluire ogni motivo in
un cadenzare che, venendo troppo presto, è come il gorgo all'imboccatura della grotta
dentro cui collassa un fiume. La strumentazione di queste prime battute evoca
un'orchestra di automi. Ogni strumento viene teso nel suo registro acuto, dove sembra
un giocattolo tra le mani di un bambino dall'intelligenza spiccata ma sospetta di
autismo. Una simile sonorità da carillon esprime quel crimine della vita comune che è
imitare le voci del mondo per non sentire gli echi della coscienza, il luogo dove
risuona il dolore degli altri. L'intera Quarta è stata scritta dal quel bambino di sadica
innocenza che nel Finale della sinfonia, “Das himmlische Leben”, immagina il
Paradiso come un grande ristorante allestito con la collaborazione delle future
pietanze, gli animali che gli si immolano sotto la sorveglianza dei santi. Quel
bambino è la creatura in agonia protagonista di “Das irdische Leben”. Morendo,
immagina la scena finale della Quarta, dove predomina da capo a fondo
quell'alchimia stilistica così difficile da cogliere per chi non sia nato nell'Est europeo,
una zona d'ombra dell'Illuminismo: la caricatura del bello, la finzione di una gioia
scaduta a pance piene e servi devoti, perseguita con assoluta mimesi del gusto
borghese, kitsch, di coloro che ne godono. Che nella Quarta si tratti di un bambino,
rende la musica ancora più intrisa di rabbiosa demistificazione. Così, nel Primo
Movimento, al gruppo tematico iniziale formato da tre varianti della stessa idea
fiorite baroccamente l'una dall'altra, come le fronde di un albero, segue un tema
cullante da Ballata renana, eco dei Wunderhorn, subito ripreso dai fiati secondo
un'orchestrazione che, non fosse per i raddoppi, parodierebbe i musicanti di una
misera locanda. Questo secondo tema – scolastico nella sua contrapposizione al
motivo iniziale, secondo un irrigidimento delle norme della Forma-Sonata da
studente dei corsi inferiori – ha una grazia schubertiana che si impunta su ripetizioni
ed echi in sussurro prima che il periodo musicale abbia fine; quasi i musicisti,
ubriachi, si siano d'improvviso addormentati. La bellezza, qui, è così esibita da farsi
epitome di ogni insincerità. Il percorso di Mahler nell'infanzia maledetta dei
Wunderhorn era cominciata, se vogliamo parlare di autoconsapevolezza, con il Lied
“Um schlimme Kinder artig zu machen”, “Per rendere i bambini cattivi bambini
ammodo”; nella Quarta, il perbenismo melodico diventa evocazione di inferni morali
travestiti da norme etiche. Durante lo Sviluppo del movimento Mahler mette in
pratica tutte le regole dei manuali, creando un polverio di idee secondarie che il
materiale di base non può reggere. È l'educazione alle norme: nei bambini, sempre,
fine dell'innocenza, tradimento di se stessi. Nel bel mezzo di questa dissipazione –
dove a mio parere si muove anche una caricatura del Brahms sinfonico, il costruttore
per scavi e calcina sui detriti – quando tutto sembra perduto la frenesia cervellotica si
interrompe e un moto di danza naif introduce un'altra idea secondaria. È come se
l'orchestrina di taverna si fosse allontanata durante la disputa dei dotti, lo Sviluppo,
ed ora se ne tornasse liliale danzando sui cadaveri di quelli, che si sono sterminati a
forza di risse sulle regole accademiche. Ma ci stiamo muovendo, ricordate?, dentro
un sogno, ed alla fine il bambino che osserva la scena, sbadigliando annoiato, sale su
una nuvoletta e scompare nell'Empireo, da dove gli echi della canea umana giungono
ottusi. Eppure, il ritorno a mulinello, sempre più incastrato nel filo di una trottola, del
motivo iniziale ci ricorda che anche il bambino è, come noi, lo strumento di un Fato
del quale nemmeno l'innocenza si può accorgere. C'è più sarcasmo nella Quarta, in
queste ultime battute del Primo Movimento, che in tutto il Wozzeck di Berg. La resa
espressiva di tutti questi controtesti rende l'interpretazione del movimento iniziale un
luogo catastrofico. Mahler vi sperimenta per la prima volta un suo Contrappunto non
imitativo, ma dissipativo, qui ancora espressionista.
Il Secondo Movimento è ispirato a un quadro di Arnold Böcklin, Autoritratto con la
morte che suona il violino. Il motto in calce alla musica era “Freund Hein spielt auf”,
“L'amico Hein sta suonando”, dove questo personaggio dal nome così familiare altri
non è che la Morte; ovvero, nella tradizione popolare, “l'amico Hein”. Il modello
diretto a me pare il Liszt del Mephisto Walzer n. 1, improntato sullo stesso straniante
registro di quel sovvertimento giocoso che nasce dalla rassegnazione al grottesco, se
il dolore diventa un meccanismo ad orologeria del quale non si intravedono gli
ingranaggi. Il ritmo, in questo intermezzo intriso di musica di ubriachi così non
padroni di sé da allucinare suoni immaginari, esiste prima di ogni idea tematica. Il
corno enuncia, nell'incipit, il refrain di una canzone popolare la cui innocenza viene
subito smentita dal ghigno dei legni, resi sarcastici dal triangolo, specchio di una luce
sinistra. Mahler comincia, qui, a sdoganare gli strumenti idiofoni dalla loro
connotazione coloristica, forzandoli a suggerire sguardi e ironici motti di creature
troppo spaventose per essere viste. Il violino, accordato un tono sopra per imitare il
Fiddler dei mendicanti, inizia una Sousedská boema che sembra ballata sulla Luna,
perché l'orchestra si muove in una dimensione raggelata. Il genio mahleriano di
orchestratore si esprime con ottoni in sordina che ridono tra rupi lontane e legni
intonanti lacerti di serenate su ritmi slogati, frenetici per i rimbalzi del loro zoppicare.
L'evocazione di morti per sempre irrigiditi in una festa imbandita dal diavolo non
potrebbe essere più raggelante. Il “Trio” è annunciato da una fanfara degli ottoni.
Anche qui l'orchestra si sdoppia tra gli archi intricati dentro una Špacírka, una danza
di corteggiamento. I legni vi incuneano l'epilogo di una Polka irridente, quasi a
suggerire la vanità di ogni sogno d'amore. Eppure, l'evoluzione dell'interludio
procede su di un panorama schubertiano di memorie dove la sincerità dei sentimenti
vince sul Sosia demoniaco, finché i bassi insistono su di una figura ripetuta che tenta
di sedare la parodia orrenda delle trombe con sordina. Nell'epilogo la presunzione
umana di vincere il destino sprofonda il canto amoroso dentro un paesaggio di
scheletri. Tutti i motivi contrastanti, gli echi del corteggiamento, la danza e il
richiamo sardonico degli spettri, si combinano verticalmente in un cielo sinistro dove
ottavino, Glockenspiel e triangolo incidono la luce radente di un rintocco bestiale. I
timpani e il tam-tam creano un velario sulfureo che avvolge l'erotismo dell'orchestra.
Sono passati millenni, e la polvere sottile della distruzione ha avvolto i ballerini
dentro bende di mummia. Sulle ultime tre battute, l'oboe e il corno inglese evocano lo
spettro della danza, subito tacitati dalle percussioni stridule, irte in un gesto di
scherno verso ogni umana illusione. In questo movimento Mahler raggiunge, ben
prima che nelle ultime partiture, la fase estrema della propria visionarietà dissolutiva,
inventando un'orchestra senza la quale, fatto salvo il romanticismo utopico di
Schönberg, né Berg né Webern sarebbero stati possibili. E si comprende perché
volesse definire la Quarta una Humoreske, una partitura dove il sentimento del
contrario raggiungeva il luogo estremo della mistificazione, il capovolgimento degli
umani valori. Per comprendere questo spaventoso movimento basta prendere le
Danze slave di Dvořák e metterle a testa in giù.
Nel Terzo Movimento Mahler mostra la sua singolare assimilazione di Johann
Sebastian Bach. La Passacaglia che introduce il tema iniziale, la curvatura stessa
della melodia, richiamano l'“Erbarme dich” della Passione secondo Matteo bachiana.
Il Nostro assomiglia in molte cose, anche per vicende esistenziali, a Schubert, ma
soprattutto gli è affine nell'assimilazione tardiva, da autodidatta, del Contrappunto.
Schubert, negli ultimi mesi di vita, era divenuto allievo di Simon Sechter; Mahler si
fa allievo del Thomaskantor lipisiense. Come chiunque non sia passato per le maglie
strette dello Storicismo, interpola stili e linguaggi diversi senza farsi problemi di
verità filologica. Questo “Ruhevoll. Poco Adagio” si libra su di un tema di ninna
nanna dalla purezza diafana e sfuggente. C'è qualcosa di esoterico nel suo richiamarsi
alla scena del Fidelio in cui Leonore libera il marito Florestan dalle catene. Il Corale
come simbolo massonico della fraternità, piovuto in Beethoven attraverso Il flauto
magico mozartiano, trova il proprio compimento in questo inno all'Armonia utopica
dell'immaginario che spiega la predilezione mahleriana per l'Opera estrema del
Salisburghese. Un simile cielo di anime liberate viene offuscato da un lamento
dell'oboe disceso per canali simbolici dalla Cantata bachiana Ich habe genug. La
Passacaglia si incardina su di un “ostinato” del fagotto che sembra il bilanciere di una
pendola rotta. Fiorisce una variante di “Urlicht” nitida come il tramonto su di un
fiordo: una di quelle musiche dove si avverte la sensazione dell'aria gelida, per
quanto è pura, contro il viso. Dopo un “glissando” di mani che afferrano gli angeli,
catastrofe del tempo, ritorna il lamento, questa volta armonizzato nei legni, finché
tutto sprofonda nel borbottio demoniaco dei corni. Il tempo presente, del sangue e
della lotta, viene esorcizzato da una variante, negli archi gravi, del futuro Lied “Ich
bin der Welt abhanden gekommen”, “Sono sfuggito alla presa del mondo”. La sezione
terminale di questa prima parte alterna varianti del tema principale ed episodi di
Canoni in forma di Corale dei fiati, ad evocare la dialettica tra il tempo degli affetti
umani e quello dell'eterna rivelazione. La Cadenza sospesa che conclude il tutto
evoca lo sprofondare nel mondo del sogno, l'inganno dell'arte, sublimazione
alchemica della realtà. La seconda sezione del movimento è una serie di Variazioni il
cui modello è l'“Adagio molto e cantabile” della Nona beethoveniana. Una seconda
catastrofe dissolutiva sembra dissolvere l'immagine dell'ascesa, ma ecco che Mahler,
in uno dei punti più alti della sua creazione, ci rivela un mondo iperuranio al di là del
polverio delle cose. I corni scandiscono un'intimazione di immortalità alla fine del
quale il tema della ninna nanna, l'idea iniziale, viene esposto per la prima volta in
tutta la sua articolazione fraseologica. E scopriamo che il movimento procede in
modo bustrofedico, per due serie di variazioni: una progressiva, verso la fine, ed una
retrograda, verso l'inizio. E che morte e vita sono due versioni dello stesso
cominciamento di eterno. Il tempo si raggela su di una piccola frase, il “passaggio
nella luce oltre le cose”. Mahler sfiora, qui, la sinestesia. La musica si rastrema verso
un raggio violetto che pulsa ai confini dell'universo, simile a ciò che gli odierni
radiotelescopi fotografano nel buio della notte. Infine, appare il Signore del Tempo,
su di un'esplosione che arpe e timpani trasformano in eco del “glissando” angelico
degli archi e del pulsare sordo del fagotto: la musica cupa del mondo terreno. Le
ultime battute riprendono, sempre più agglutinato in cristallo, sempre meno legato
alla gravità della pulsazione di un cuore umano, il motivo del passaggio nella luce.
Siamo nel clima di congedo che attraverserà il Primo Movimento della Sinfonia n. 9
in Re maggiore; nello stesso tempo, gli armonici degli archi, sulle ultime misure,
riprendono l'incipit della Prima. Questo passaggio è nel cuore evolutivo dell'intera
produzione mahleriana. Ogni cosa si spegne, ma non, come nella Nona, per effetto di
morte; invece, nella eterna ruota delle nascite che fa di ogni fine anche un inizio.
L'incontro con la filosofia orientale, la sua mistica della reincarnazione: il Das Lied
von der Erde, si prospetta, per questo poeta dell'infinito in un granello di sabbia,
inevitabile. Mahler definì il “Ruhevoll” “il sorriso di Sant'Orsola”. Dopo le nozze con
Alma, paragonò il tema iniziale alla luce del suo sguardo. La virginea santa fu
protagonista di una specie di crociata delle undicimila vestali illibate presso Attila,
onde indurlo alla conversione. Vennero massacrate tutte quante, e in “Das
himmlische Leben”, il Finale della Quarta, tornano danzanti e ormai disinibite, tanto
che perfino Orsola le guarda sorridendo. Questa associazione mentale mahleriana tra
la donna che sbloccò non la sua libido, ma la sua paura del legame che essa instaura,
e la santa martirizzata per la propria verginità, fa sorridere: un sorriso che non tanto è
di Orsola, ma, semmai, di Mahler.
La Quarta è ciò che i tedeschi chiamano Finale-Sinfonie. Tutti i materiali sono
contenuti, in potenza, nel Lied dell'ultimo movimento, scritto ben prima del resto,
come nella ghianda è contenuta la quercia. A forza di sottolineare l'analogia
dell'incipit con almeno tre diversi canti popolari bavaresi se ne è omessa una
singolare familiarità con quel ranz des vaces con cui Gioachino Rossini, nella
“Ouverture” al Guglielmo Tell, saluta la natura indifferente alle sorti umane. Sempre
arruolato tra i “bidelli del Walhalla”, Mahler, invece, fu influenzato altrettanto
dall'Opera italiana. Sostenne sempre di avere appreso molto dall'orchestrazione di
Verdi. Si pensi ai fagotti che introducono il Grande Inquisitore, nel Don Carlos, o al
contrabbasso che canterella, insieme al violoncello “con sordina”, una nenia
innocente all'ingresso di Sparafucile, nel Rigoletto. Il primo modello torna nel
movimento iniziale della Terza, laddove i fagotti trillano dalle latebre dell'Inferno;
senza il secondo, l'inizio della “Marcia Funebre”, nella Prima, sarebbe inconcepibile.
La natura formale di questo Lied che chiude la Quarta è tanto semplice da
nascondere una diabolica complicazione. Si tratta di un doppio Rondò dove il ritorno
del tema bucolico iniziale allude al tempo degli dèi immortali, mentre la ripresa del
frenetico stridio del pianto infantile, esordio della intera sinfonia, richiama quella
prospettiva tra idillio e incubo nella quale il bambino morto di fame, suo
protagonista, è sospeso. Il testo di simile innocente riesumazione di stilemi plebei
parla di animali immolati di loro spontanea volontà, col consenso di santi chef
stellati, all'ingordigia inappagabile del piccolo pezzente. Nella cultura italiana, i
registri del sublime e del comico sono separati in casa; nelle culture dell'Est, tra
Balcani e terre magiare, convivono more uxorio. La tragedia del non avvertire per
crudele il riscatto della propria miseria è la chiave, nel nostro secolo, per un paio di
guerre mondiali e svariati eccidi. E la descrizione di tanta mostruosità sta in questo
Lied tenero e svagato, così aereo che non ci si accorge come nelle sue ultime battute
la peristalsi cardiaca che ha attraversato tutta la sinfonia si fermi. Questa volta, è la
morte biologica: quella che attraversa l'Io quando si cristallizza in “persona”,
piuttosto che confluire nell'eterna ghirlanda delle nascite. Lo spegnersi delle ultime
tre misure, con tanto di “corona” finale, tra arpe percussive e contrabbassi che
risolvono l'esito sospeso di armonici che incorona il “Ruhevoll”, Terzo Movimento, è
un annichilimento senza ritorno. Tutta la Quarta è percorsa da codesta serenità
diabolica, sentimento del contrario: quel Perturbante che Freud definisce l'emergere
inaspettato, satanico, di quanto doveva restare nascosto.
Il passaggio di Mahler dalla prima stagione, quella dei Wunderhorn, alla seconda,
avviene ancora nel segno del Lied. Il Lied mahleriano è un laboratorio, la messa in
scena di fantasmi personali, lo studio di soluzioni espressive poi ratificate nelle ampie
strutture delle sinfonie. Ogni innovazione, per il Nostro, passa dal timbro, che è una
descrizione di paesaggi interiori, il sentimento che nasce dal sentirsi gettati nel
mondo. In accordo con il prediletto Dostoevskij, Mahler riteneva che la madre di ogni
creatività fosse la sofferenza. A Bad Ausee, dove si era ritirato nel giugno del 1899, la
desolazione di vedere il proprio anelito ad un ideale assoluto imbrattato dai
mestieranti viennesi, unita all'ulteriore perdita del nido familiare, diede corpo ad uno
degli esiti tardivi, e più alti, del Wunderhorn: Revelge. Ormai quella lapide su un
mondo di sentimenti sorgivi eretta da Brentano e von Armin era divenuta, nel
compositore, la stele della propria adolescenza, perduta nella natura e nelle leggende
di uomini ad essa simbiotici. Revelge non è più parodia, quadro di genere,
drammaturgia dei caratteri: è autobiografia interiore. Il ritmo di marcia iniziale sa di
prova generale per l'incipit della vicina Sinfonia n. 5 in do diesis minore. È uno dei
momenti dove Mahler sposa la sciatteria della banda militare solo per connotarla di
una noncuranza sarcastica verso la tragedia. Il suono si fa, qui, rumore; e il rumore,
immagine del crimine di chi dà ordini: la sentenza di morte spacciata per eroismo. Il
Lied è una “caccia selvaggia”, uno di quei quadri di spettri non ancora consegnati alla
morte perché, uccisi dalla vigliaccheria di chi li doveva tutelare, esigono la vendetta,
nei quali signoreggia il norvegese Peter Nicolai Arbo. Il soldato suona il suo tamburo,
guidando i commilitoni alla battaglia; e non si accorse che una palla lo ha stroncato, e
chi lo segue è un battaglione di larve. Nella sua marcia da creatura ossessa, spinta da
una forza che gli nega anche la morte, passa davanti all'amata che salutò alla
partenza; e le ossa degli scheletri, sua corte, biancheggiano davanti allo sguardo di
lei. Siamo in un clima affine ai Gurrelieder di Schönberg, ma mentre quest'ultimo si
getta a capofitto nel morboso gorgo delle evocazioni di altri mondi, Mahler scrive una
marcia militare con tanto di Trio; un lavoro scolastico da festa del reggimento, non
fosse che nel procedere del brano la materia sonora si impone sui suonatori
rendendoli sempre più striduli e convulsi, come il pifferaio di Hamelin incantava i
bambini a seguirlo verso il nulla. È, questo suono, la natura, che sotto forma di tempo
affatica gli uomini e li conduce verso la propria volontaria autodistruzione. Revelge è
una delle grandi pagine mahleriane, quelle dove il Maestro, non cedendo allla
glorificazione del proprio nichilismo, lo lascia agire quale scandaglio di verità così
orribili che non si può dar loro né nome né armonia. Il fascino di Revelge sta proprio
in questa sua trivialità che copre rivelazioni evidenti, ma negate per orroroso collasso
di ragione. Singolare, il luogo scelto da Mahler per comporre il Lied: Bad Ausee, nei
pressi del luogo dove Brahms si era sempre più isolato, fino a spegnersi. Come per la
morte di Bülow, suo padre spirituale dalla censura castrante, anche Brahms, senza il
cui appoggio Mahler mai sarebbe stato nominato a Vienna, doveva morire onde
permettergli di scendere fino all'abiezione della propria estetica: il rovesciamento tra
stile ed idea. La Bauer-Lechner, che era presente durante la gestazione di Revelge, dà
ai travagli del parto una connotazione spiazzante che avrebbe fatto la gioia di Freud.
Mahler stava parlando di “stimoli” dall'incerta provenienza, origine di ogni creazione,
“quando una pillola, che per tutto il giorno non aveva fatto effetto causandogli
disturbi, compì tardivamente il suo dovere e lui dovette allontanarsi in gran fretta.
Quando tornò, molto più allegro e e sollevato, come il malato immaginario, aveva in
tasca il suo blocco con l'abbozzo di Revelge”. Magari Freud, quando parla
dell'addensarsi del “rimosso”, non intende la cosa proprio in questo senso degno di
Molière... Resta la sensazione che Mahler, con questo Lied nato da sé, si sia liberato,
in una sola “seduta”, del fantasma di Brahms e della utopia infantile dei Wunderhorn.
Del resto, Lutero concepì quelle sue novantacinque tesi, poi affisse sulla cattedrale di
Wittenberg, dalle quali ebbe origine la Riforma, proprio mentre stava assiso sulla
seggetta...
Prima dei Rückert-Lieder, nel 1901 Mahler si congeda dal mondo fantastico dei
Wunderhorn con un testo che lo nega. Der Tambourg'sell, “Quello che suona il
tamburo”, è l'unico Lied del ciclo dove l'alienazione si divora ogni sentimento della
natura, qualsiasi risonanza del dolore nella vita degli altri. Il soldato più umile, il
tamburino, di solito un ragazzo di basse origini, viene condotto a morte, e non sa
perché. Il tamburo militare scandisce una marcia funebre che ha assonanze con quella
composta da Gaetano Donizetti per il Dom Sèbastien roi du Portugal, ma come se
fosse stata smangiata interiormente da una larva. I “gute Nacht” con cui il condannato
segna il passo verso la forca, salutando gli ufficiali che lo hanno perduto, ha un
carattere di passiva deferenza, emana un perdono effetto di idiozia, non di
benevolenza, e, piuttosto che pietà, suscita orrore. L'inversione di segno tra lirismo e
disperazione, il frammentarsi dell'orchestra in timbri che spostano il sinfonismo verso
una descrizione di mondi incompatibili, sempre più lontani: il Mahler futuro, è già
tutto qui, raccolto a rito propiziatorio, nostalgia delle origini, in un ultimo
Wunderhorn. Quando il tamburino scopre la forca rizzata per lui, un grido intride di
cenere il silenzio spaventoso del corteo. Infine, gridando “a piena voce” il suo
congedo ai propri aguzzini, quel povero Geselle, quel paria senza nome, ritorna nella
tenebra da cui è sortito. E scopriamo che l'esercito, coi suoi ruoli di marionette, non è
altro che un'allegoria della Morte. Mahler si affranca dal mondo funebre della sua
infanzia, e lo fa affrontando per la prima volta quello sentirsi stranieri al mondo che è
la morte in vita. Nessuno psicoanalista si farebbe sfuggire l'osservazione di come il
compositore, dopo aver sfiorato la morte, in quella notte del 24 febbraio 1901, si
identifichi con la figura di un figlio di nessuno condotto alla forca. Mahler, a quella
notte, è sopravvissuto, ma a costo di tradire se stesso.

Quell'estate del 1901 fu di miracolosa fecondità. Vi nacquero, accanto a Der


Tanbourg'szell, Blicke mir nicht in die Lieder! – composto subito dopo l'arrivo a
Maiernigg – “Ich atmet' einen linden Duft”, “Ich bin der Welt abhanden gekomenn” e
i primi tre Kindertotenlieder. Friedrich Rückert, oggi, deve la propria popolarità solo
al suo essere il poeta del “Mahler di mezzo”. Che cosa attrasse il Nostro verso la sua
vena sentimentale, sfogata al limite del kitsch? Certo, l'esperienza del lutto. Rückert
perse due figli, elaborandone l'assenza, ossessivamente, in oltre quattrocento poesie
nelle quali il senso la tragedia si purifica attraverso la contemplazione della natura,
ove ogni vita rifluisce per suo naturale congiungimento all'origine. Il poeta era un
orientalista; Mahler, un panteista. Al di là della comune esperienza del dolore, ad
attrarre il Maestro fu soprattutto l'apertura di Rückert alla mistica del Buddismo, il
suo trascendere l'individualismo rattrappito dell'Occidente razionalista. Con i dieci
Lieder tratti da Rückert comincia il cammino mahleriano verso il Das Lied von der
Erde.
“Blicke mir nicht in die Lieder!”, “Non spiarmi nei miei canti!”, è la dichiarazione di
una nuova Poetica. “Blicke mir nicht”: non cercare me, non fare dei miei canti un
ritratto dell'autore loro. I Lieder esprimeranno, ora, la trascendenza da chi li ha creati.
Saranno simboli liberi da ogni autobiografismo. Mahler tenterà la strada della grande
tradizione sinfonica austro-tedesca. Lui, l'apolide, adotterà una patria. Il Lied
trasforma un certo infantilismo finto-ingenuo dei Wunderhorn in esibito sarcasmo.
Appare una caricatura del filisteismo in musica, facendo il verso a quei borghesi
capaci di assumere l'arte come fosse un sorbetto che Schumann ebbe in orrore. Il
brano è anche uno studio sul nuovo “puntilismo” musicale mahleriano: il
contrappunto timbrico, dove strumenti diversi dissipano in un polverio di echi la
stessa linea musicale.
“Ich atmet' einen linden Duft”, “Respiravo il dolce profumo del tiglio”, è un esempio
di feticismo erotico sinestetico. Nell'incipit le viole, l'arpa e la celesta tramutano
l'effluvio in un'oppiacea onda sonora. La voce entra su di una scala modale,
cristallizzazione di canti infantili: la musica popolare dell'infanzia mahleriana, qui
raggelata come un lenzuolo funebre disteso sul passato. Il ramo del tiglio è un pegno
d'amore, la sua fragranza riassume in sé quella di un ricordo tanto lontano da essersi
fatto sensazione eternamente presente. Quando i violini cominciano una danza
rivissuta in sogno, quasi un “ostinato” da “basso” barocco, il tema si svolge sinuoso
senza mai trovare il riposo della consonanza tonale. Con arte nuova e meravigliosa
Mahler riesce, qui, a fare di un'ossessione luttuosa il sogno ad occhi aperti
dell'innamorato crocifisso al solo istante di estasi goduto. Il Lied termina come è
cominciato, a suggerire l'eterno ritorno di ogni inganno con cui la vita ci trattiene a
sé.
“Ich bin der Welt abhanden gekommen”, “Sono sfuggito alla presa del mondo”, è
diventato, a sua volta, un feticcio: l'autoritratto di Mahler, Viandante straniero alla
terra, che quale Aasvero lo risospinge ogni volta nel proprio mondo interiore. Il corno
inglese, all'inizio, cerca il tema improvvisando sui suoi intervalli, ed evoca un flash-
back sonoro, uno scintillare del tempo a mio parere disceso dalla “Canzone del
salice” nell'Otello verdiano, qui riflessa in figura scheletrica, quasi una sua immagine
ai raggi X. Questa musica è già oltre la morte. L'essere “scappato di mano”,
“abhanden gekommen”, al mondo viene suggerito dall'andamento aritmico,
desultorio, del tempo. La timbrica allude a cieli lontani dove risplendono ricordi così
dolorosi da farsi, per stanchezza di lutto, aloni, morbide risonanze. Questo Lied
procede dal secondo dei Kindertotenlieder, laddove si dice “Was dir nur Augen sind
in diesen Tagen/In künft'gen Nächten sind es nur Sterne”. “Quei che qual occhi ti
appaiono/Saran per te soltanto stelle, in notti a venire”. E veramente questo Lied è un
notturno dell'anima dove la sezione centrale evoca una romanza sentimentale, da
orchestrina nel parco del Kursaal. Mahler nega, ora, il grottesco, cercandone la
sostanza umana di ricordo. Non c'è rancore nel verso “Sie hat so lange nichts von mir
vernommen”. Il mondo, a lungo, del poeta nulla ha saputo. Di ogni sua illusione è
rimasta l'eco di un canto che l'orchestra, rispondendo alla voce, dissolve nello spettro
di una danza rarefatta. Il congedo, quel vivere, “in silenzioso ricovero”, solo di
riflessi del proprio cielo – fattosi amore, e quindi canto – è il Bello nel senso di Rilke,
“il tremendo al suo inizio”. È il raggelarsi del tempo sospeso che accompagna ogni
morte, qui feticizzata a cielo che sta sopra ogni altra sfera delle cose, laddove l'amore,
Lieb, si trasfigura in canto, Lied. Un analogo gioco di parole, ma di segno diverso:
“Lieb' und Leid”, “l'amore e la pena”, chiudeva i Lieder eines fahrenden Gesellen.
“Ich bin der Welt abhanden gekommen” ne è l'epilogo nel paradiso degli innocenti.
Nelle ultime battute il corno inglese ritenta il canto, regredendo alle origini del
ricordo, ma gli archi e l'arpa, in trasparenze di “glissandi”, fanno sparire la spoglia
terrena dell'innamorato, qui rifluito nel gran fiume dell'essere. Nel momento in cui
Mahler celebra l'amore in quanto ideale congiunzione di solitudini, ecco che ne
percepisce l'inganno della futilità. Tra poco Alma ascenderà il suo rifugio dal tempo.
I Rückert-Lieder sono scenografie. Mahler vi distilla la messinscena di una sola
situazione per volta, risolta in un'apodittica essenzialità che nelle sinfonie diviene
dialogo con ombre talora non necessarie. Infatti, non è vero che le ombre ci
rappresentano: esse sono soltanto nostri parassiti. “Um Mitternacht”, “A mezzanotte”,
è l'ombra della Sinfonia n. 3. Mahler vi risolve ogni insoddisfazione per la sua
stagione del naturalismo. Doveva alimentare un proprio diario privato di Lieder,
prima di osare negarlo. Il Lied, in lui, è una contemplazione del destino, questa volta
impersonato da un Demiurgo volgare per indifferenza. Sembra di vedere uno di quei
polittici dove la Madonna aduna nella veste enorme i devoti piccolissimi, che per
quello scherno divino sono costretti a cogliere solo gli echi dell'assoluto. La voce
scandisce il rintocco della mezzanotte con falsa sottomissione. È povera, è sola.
L'orchestra, dilaniata tra processioni del basso tuba su cantus firmus liturgici buoni
per educande soprano e oboi che glissano rovesciando la cellula germinativa del
“Canto di mezzanotte” nietzschiano, anima della Terza, crea un tappeto di voci
sinistre, perse in spazi mostruosi, perché sono lontani, ma appaiono prossimi.
L'andamento del Lied è di una banalità provocatoria: le stelle non rispondono alla
preghiera del solitario nella notte, e l'orchestra suggerisce ciò che sempre gli sfuggirà.
Quando, nell'ultima ripresa del banale intervallo ripetuto, l'anima desiderosa di
estinguersi osserva il “Signore della morte e della vita” che sta sulla soglia a
mezzanotte, il grido originario della voce esaspera in un gesto retorico la vanità di
quella rivelazione. Il Demiurgo è un pagliacco del tempo, una sua creatura buona a
vivere un giorno, come le falene. In “Um Mitternacht” Mahler rende il sublime la
biacca del diavolo, e ne gode.
Lo si sarà capito: i Rückert-Lieder sono il rovescio delle mahleriane sinfonie di
mezzo, dove il Kapellmeister boemo prende un'anima radicata nel sangue velsungo,
fingendo un titanismo dionisiaco che in lui assume l'aspetto greco del fescennino, la
farsa dove il dio appare travestito da gallinaccio. Ognuno di questi cinque Lieder
risolve nel giro di poche battute i problemi per non ammettere i quali Mahler scrisse
le sinfonie di mezzo, dalla Quinta alla Settima, per poi scoprire nell'Ottava che la loro
risoluzione abbisognava di mille esecutori.
Tutta questa perlustrazione di vicoli ciechi serviva a stanarvi uno stornellatore
importuno. “Liebst du um Schönheit”, “Se ami una cosa perché è bella”, non doveva
neppure comparire nella raccolta dei Lieder. Mahler lo nascose, suo regalo, nella
partitura della Valchiria che Alma compulsava ogni giorno non per arte, ma per
inappetenza al tempo. Alma, infatti, pensava che la musica desse senso all'esistere;
quasi essa non fosse un tempo senza senso. Un tempo che non ha bisogno di essere
spiegato. Penso che Mahler considerasse questo Lied una lettera intima, e la nostra
inclusione nel ciclo dei Rückert manifesti un'ottusità da notaio. Lo connotò ad Alma
come “privatissimum”. Poi Max Puttmann lo orchestrò, attirandosi le ire pubbliche
della reattiva ninfa egeria. Nella sua natura ondulatoria, aproblematica, pare scritto da
Richard Strauss se avesse visto in Alma un laboratorio per l'Oktavian del
Rosenkavalier. A noi interessa come anticipazione della Sinfonia n. 6 in la minore,
l'“Andante moderato”, dove il materiale melodico appare decantato nella disillusione
che segue ad ogni amore che duri nel tempo.
I Kindertotenlieder attraversano come fantasmi della mente le sinfonie mahleriane
successive, fino ad estenuarsi, nel Finale della Nona, in larve di temi. La loro scrittura
è di una severità essenziale, incunabolo di ciò che Schönberg chiamerà la
Klangfarbenmelodie, la “melodia di timbri”. Ogni strumento interviene a variare
timbricamente le linee tematiche, senza enunciarle compiutamente. L'effetto è quello
della pittura puntilista: si percepisce un insieme che lo spostamento di prospettiva
rende mobile, cangiante nel flusso del tempo. Il dolore si fa, in questi esiti sommi di
Mahler, sentimento di cosmica partecipazione, simbolo della vanità dell'esistere.
Questi Lieder non si concludono, alitano la vita svaporandola nel suo soffio
originario; perché ogni istante accade la morte, ogni istante si spegne una stella.
Mahler aveva ormai compiuto l'assimilazione dello stile imitativo bachiano. Il clima
espressivo di “Nun will die Sonn' so hell aufgeh'n”, “Ed ora pretende, il sole, di
sorgere e splendere ancora”, recupera la scrittura concertante delle Passioni di Bach.
L'oboe e il primo corno eseguono una Invenzione a due voci che sa di Arioso
barocco. I contorni melodici fioriscono dall'evoluzione delle sue scarne linee,
emblema dell'eternità. La voce scolpisce il verso iniziale in un Recitativo
accompagnato, per poi inclinarsi su di un movimento ascensionale simile ad un
abbraccio di madre, sorta di Berceuse. Il Glockenspiel, strumento solare, qui descrive
il rilievo di un viso indistinto, nel ricordo, per troppo pianto. Il severo Recitativo e la
quasi chopiniana Berceuse descrivono la barriera di solitudine che divide la vittima di
un lutto dall'umanità ancora illuminata dal sole, stretta negli affetti più cari. Un
contrappunto scenico, emozionale, questo, nel quale si riassume per intero la nuova
maturità dello stile mahleriano.
“Nun seh' ich wohl, warum so dunkle Flammen”, “Comprendo adesso, infine, perché
fiamme sì oscure”, assume un carattere di contrasto. Vi si indaga l'altra faccia del
lutto, quella più intollerabile: la premonizione, che nella psiche si confonde sempre
con la colpa. Il poeta non ha risposto all'intensità dello sguardo filiale, presagio di
abbandono. Ora quegli occhi sono stelle, ma la figura retorica viene qui rovesciata di
segno. La luce delle stelle più lontane, infatti, giunge quando esse sono già morte, e la
loro vicinanza è una beffa dell'eternità. Musicalmente, Mahler rende questo sinistro
gioco di arguzia satanica del Demiurgo un brano da Operetta straussiana, una sorta di
Czarda da Zingaro barone di Johann Strauss junior suonata da ubriachi. Il goffo
slancio di danza si apre poi, quasi attraversato da crepe, in un lamento su
reminescenze verdiane: l'Otello, Desdemona. La natura segreta del Lied è il suo
rispondere a “Ich bin der Welt abhanden gekommen”, dove risuona, eco interiore, “La
canzone del salice”. Ciò che, là, è oblio del dolore nell'eterno presente, qui è
fissazione sull'istante della perdita, che diventa eternità. L'antinomia tra i due Lieder
si risolve, così, nel loro essere due stazioni dello stesso calvario. Si potrebbero vedere
i Kindertotenlieder come cappellette votive di una via crucis, fino alla rivelazione
finale di una fede laica nel sole, la luce dell'alba; oppure come le fasi di un'operazione
alchemica, dove “Nun seh' ich wohl, warum so dunkle Flammen”, insieme al primo
Lied, è la nigredo: lo spegnersi di ogni scintilla vitale, nella materia. E infatti la
musica si spegne reiterando in un tempo raggelato la Czarda del demonio in trionfo
che apre questa tremenda trenodia della colpa. Sarebbe bastato sostenere un attimo di
più quello sguardo infantile, e la vita del sopravvissuto non girerebbe sempre intorno
a un inciso volgare, croce della sua ossessione: la frase per gradi congiunti dei
violoncelli, ripetuta due volte per innalzamento di tono, su cui viole e bassi fanno
cadere un “pizzicato” sarcastico ed inibente. Questo spunto tematico è la crisalide –
oppure il fossile, a seconda delle cronologie compositive – di un passaggio
dell'“Adagietto” che nella Sinfonia n. 5 in do diesis minore torna, trasformato in pura
esultanza, nel Finale. Voleva, Mahler, irridere a quella gioia? Il rilievo muterebbe del
tutto l'interpretazione di quel Finale sinfonico così controverso.
Con “Wenn dein Mütterlein”, “Quando la tua mammina”, entriamo nelle zone più
oscure dell'arte mahleriana. Siamo ancora nel dominio della luce estinta, come nel
primo Lied. Lì si parlava di stelle, qui è solo una candela che la madre della bambina
recava in mano, schiudendo alla vista del poeta l'immagine della figlia, “raggio di
gioia”. La musica imita una Passacaglia, corteo di memorie, fino a costituire, rispetto
al “Ruhevoll” della Quarta, una sorta di lente deformante. La grandezza di Mahler sta
nel suo fraintendere le tecniche antiche. Evocando una “epifania”, un momento di
intesa tra l'emozione e lo scenario occasionale del mondo esterno, il compositore
ricorre ad un “basso” reiterato che allude all'eternità. Ed è vero che la morte ha reso
permanente il riflesso di quel volto, solo che la sua sciatta volgarità ha trasformato la
normale gioia di un padre nel diuturno sacrificio ad un idolo: la bambina che,
all'ingresso nella stanza, si nasconde dietro la madre. L'orchestrazione assegna ai fiati
un ruolo concertante da Serenata barocca, esempio massimo di straniamento, nel
Maestro: scissione tra senso e significato. La memoria di una vita non vissuta, qui, si
fa quieta processione, senso del rito. Il Lied accumula una simile astrazione dal
dolore fino ad irrompere in un grido tristaniano, da Isotta sul corpo del morto eroe,
quando ne vede l'anima immortale fluire, dopo che il suo respiro si è fermato. La
bambina, “der Vater Zelle”, “parte di suo padre”, proclama la propria assenza in un
Lamento monteverdiano giocato su di una lunga melopea, la sillabazione di
“schnelle”, “velocemente”. Siamo all'apice del genio mahleriano: il testo parla di una
fissazione sull'istante, la musica trattiene il tempo, dipanando nel suo scenario ciò che
nel testo è il fulmineo palpitare dell'attimo.
“Oft denk' ich, sie sind nur ausgegangen!”, “Io penso spesso che sono solo usciti di
casa”, appartiene alla categoria psicologica delle denegazioni. I bambini non sono
morti, sono solo fuori per una lunga passeggiata. La giornata è bella, fanno quattro
passi su quelle colline. E lì noi li raggiungeremo, nel fulgore del sole. Perché su
quelle colline la giornata è sempre bella. Che l'eternità sia il profilo di un'altura
contro la finestra della propria stanza del dolore, è un abisso dentro il quale soltanto
la musica può gettare uno sguardo. Il tema del canto comincia con quella che a me
pare una reminescenza, per moto inverso, della cosiddetta “Aria delle carte” nella
Carmen di Bizet, Opera che Mahler apprezzava in sommo grado, tanto che a Förster,
che gli domandava la partitura dei Maestri cantori per studiarne l'orchestrazione,
prestò Carmen; a suo giudizio, un vero manuale della materia. Su “der Tag ist
schön!”, “il giorno è bello!”, si inserisce una reminiscenza del Flauto magico di
Mozart, l'Aria di Pamina “Ach, ich fühl's, es ist verschwunden”, “Ah, lo sento, è
svanito”. L'innesto della magia nera gitana sui misteri massonici vale a condensare in
poco spazio la mistica della trascendenza che questo Lied veicola. La musica esprime
un tempo parallelo, quello della memoria, dove ciò che è morto rinasce al giorno per
il desiderio fantastico di quanti lo amano. Emerge anche un ricordo di “Deserto sulla
terra”, dal Trovatore verdiano; in controluce, negativo di una vecchia fotografia,
percorre il Lied come uno scheletro armonico. Mahler trovava in Verdi lo sfogo del
“canto spiegato” laddove, nella sua cultura di profugo indesiderato, c'era solo il
silenzio. Tutti questi echi di musiche trattenute dalla memoria sono scenari interiori,
vocaboli di un linguaggio segreto. Credo che il compositore non ne fosse nemmeno
consapevole. I Kindertotenlieder sono la Stele di Rosetta della musica europea: vi si
trovano tracce di tutti gli stili, ma tracciati a punta secca su di una pergamena fatta
stinta dal tempo.
“In diesem Wetter, in diesem Braus”, “Con questo tempo, in questo turbinìo”, è una
partitura la cui importanza eccede l'occasione del suo autore. Mahler, qui, inventa la
Seconda Scuola di Vienna. L'orchestra va contro la narrazione del cantante, creando
un mondo di rastremazioni timbriche per ritrovare le quali dobbiamo aspettare la
Kammersymphonie n. 1 op. 9 di Schönberg. Trattenere la furia primitiva delle cose
nel polverio dell'orchestra denota una fede nel Caso, il suo momentaneo accadere,
che segna il collasso dell'Illuminismo, la Forma classica. Il torto di Mahler fu
asciugare questa piaga, dalla Quinta Sinfonia in poi; fino alla Nona, che la nega, ed è
un laboratorio della dissoluzione. Chi ascolti questo epilogo dei Kindertotenlieder
senza prevenzioni sentimentali non può negare che il Maestro avrebbe, fosse vissuto,
immaginato la Dodecafonia, i cui abbozzi preparatori stanno nel codice segreto, il
reperto dal naufragio esistenziale, della Decima Sinfonia. Mahler protesse, appoggiò,
combatté per Schönberg fino a rischiare risse durante la “prima” dei suoi lavori. La
sezione iniziale del Lied che chiude i Kindertotenlieder rappresenta il punto più
avanzato della sua sperimentazione. La voce non viene, qui, inglobata dall'orchestra,
ma vi si staglia contro come un atto di accusa. Chi canta sta in un'isola domestica
dalla quale gli echi della morte giungono confusi. Nessun esempio della musica
contemporanea a Mahler eguaglia la premonizione di Sprechtsgesang, il “recitar
cantando” in chiave espressionista, che il Maestro opera nella prima sezione del Lied.
Non perché la linea melodica sia dissonante, ma perché l'orchestra non accoglie il
canto: è un paesaggio di alberi contorti che viene osservato, minaccioso, al di là di
una finestra che è metafora della paura di sapere. Non conosco momenti in cui la
musica sia così nemica dell'uomo. Il panteismo del finale avvolge Mahler come un
abbraccio. La tempesta si arresta. Sembrerebbe un commiato di pace. Invece, il
Glockenspiel e l'arpa alludono a mondi lontanissimi di cui non abbiamo la chiave,
mentre i violini enunciano una ninna nanna che non è più il ricordo, ma il cullare una
creatura che non ci appartiene, perché abita mondi irraggiungibili. L'orchestra
classica non ha mai, come qui, trasceso i limiti del suo dire. Sembra di stare in un
pianeta dove non arriva la luce del ricordo; non perché è troppo lontano, ma perché
non l'abbiamo mai visto. La sezione finale del Lied è una regressione a stati
precedenti la vita. Un sogno di creature che si dissolvono appena le guardiamo. La
memoria del vivente, qui, è anatema. La creatura amata rifluisce al raggio di luce che
lo ha portato sulla terra. Quando i corni, mentre la voce, infine, tace, annunciano
l'alba del nuovo giorno, i violoncelli trasmutano il dolore del sopravvissuto in un
canto che viene assorbito dai legni quasi fosse una nuvola al crepuscolo. Mahler nega
l'idea che la personalità sia volontà di esistere; essa, piuttosto, è una stilla di eterno
subito riassorbita. La morte è un rituale di passaggio, e la musica la rende sensazione,
piuttosto che idea metafisica. I Kindertotenlieder sono la parola suprema di Mahler;
la sua ulteriore produzione sinfonica, fatta eccezione per la Nona, è un'ascesi
muscolare verso ciò che, qui, il cielo gli dettò sotto forma di illuminazione. Lo
spegnersi degli ultimi accordi assorbe il tempo in una nuvola della memoria. Siamo
nei pressi di Lontano di György Ligeti.

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