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IL PRIVATE EQUITY NEL SISTEMA IMPRESA.

MIGLIETTA N., SCHIESARI R., Il private equity nel sistema impresa. Luci ed ombre dell'investimento in
capitale di rischio, Giappichelli, Torino, 2012.
Capitoli: 1, 3, 4 (esclusi paragrafi 4.6 e 4.7), 5, 7, 8.

Capitolo 1: Il Private Equity in una prospettiva sistemica.


1.1 Considerazioni introduttive.
Ci sono vari modi per una piccola media impresa per finanziare un progetto di investimento e tutti quanti
sono legati al sistema della proprietà e del governo dell’impresa stessa. L’impresa può essere partecipata, e
quindi finanziata attraverso la raccolta di capitale di rischio, dallo Stato (impresa pubblica), da una famiglia
(impresa privata), da migliaia di proprietari (impresa quotata) oppure può essere supportata dal private
equity.
Il private equity investe in imprese private, mentre il “public equity” rappresenta il capitale di rischio
raccolto nei mercati azionari dalle imprese quotate. Entrambi rappresentano forme di finanziamento
essenziali per la sopravvivenza, lo sviluppo e la crescita delle imprese.

1.2 Che cos’è il private equity?


Qualunque attività imprenditoria necessita di capitali che supportino il suo finanziamento e quindi la sua
stessa esistenza e ragion d’essere. La finanza aziendale realizza la raccolta delle fonti necessarie al
finanziamento dell’attività.
Tali fondi possono essere ottenute facendo ricorso al mercato finanziario (imprese quotate) oppure
all’indebitamento bancario (riferita sia alle imprese quotate che quelle non quotate)

Il capitale di rischio dell’impresa è definito capitale proprio (equity) e viene associato ai titoli azionari. In
realtà, esso può assumere diverse forme, a seconda che l’impresa sia quotata o meno ed in ragione delle
sue caratteristiche più specifiche.
Il meccanismo di raccolta legato alle quotazioni è tipicamente riferito alle imprese di medio grande
dimensione, mentre il finanziamento bancario può scontare alcuni fattori congiunturali che ne limitano
l’efficacia e, in ogni caso, non può mai rappresentare l’unica fonte di finanziamento dell’impresa.

Il private equity si configura come una fonte di finanziamento legata al capitale di rischio (Capitale proprio)
e ne rappresenta, per l’impresa che lo riceve, uno stock di capitale non del tutto “paziente”, ma certamente
con caratteristiche profondamente diverse dall’indebitamento bancario.
il private equity si configura quale tipologia di capitale proprio e fonte di finanziamento nell’expansion
financing, lo sviluppo e la crescita dell’impresa.

1.3 Il mondo del private equity.


Il mondo finanziario può essere diviso, dal punto di vista della tipologia dei titoli, in due macro aree: equity
(che assegna un diritto di proprietà al sottoscrittore) e debt (prestito, che assegna al sottoscrittore un diritto
al pagamento di un interesse alla restituzione del capitale). Il profilo rischio-rendimento è molto diverso. Gli
investitori in equity diventano azionisti (shareholders) e possono ottenere guadagni elevati, oppure perdere
tutto il loro capitale. Chi investe in capitale di debito (bondholders, debtholders) ottiene un rendimento
inferiore ma più garantito, con la previsione di un interesse pre-determinato ed una priorità di rimborso in
caso di dissesto.
Sia il segmento dell’equity che quello del debt possono essere suddivisi in due segmenti: principale e
secondario.
Investimento/Finanziamento
Equity Debt
Primary Private Private
Markets Equity Placement
Mercato (Private)
Secondary Borse Valori Mercato
Markets Finanziario
(Public)

Il mercato primario è formato dalle emissioni di prestiti obbligazionari collocati nelle forme del private
placment e dal private equity e dal venture capital per quanto riguarda il capitale proprio o di pieno rischio.
Nonostante esistano specifici obblighi di comunicazione, il mercato primario risulta maggiormente
permeato dal fenomeno dell’asimmetria informativa. Per questa ragione gli investimento in capitale di
rischio sono considerati “istituzionali”, che significa essere destinato ad investitori dotati di un patrimonio in
termini di ricchezza molto consistente.

I tre principali attori dell’industria del private equity sono:


 i General Partners (GPs), sono i gestori dei fondi di private equity;
 i Limited Partners (LPs), sono i clienti dei GPs e rappresentano gli investitori che forniscono il denaro
(ricchezza, wealth) ai GPs per realizzare gli investimenti (deals);
 i fornitori del capitale di debito (Debt Providers).

L’operazione di raccolta del capitale fatta dai GPs nei confronti dei LPs si chiama “fund raising”. La
realizzazione del deal, cioè dell’investimento nel capitale di rischio dell’impresa target, prende il nome di
“closing”. Il closing di un deal si realizza non solo con l’impiego di equity ma quasi sempre viene utilizzata la
cosiddetta leva finanziaria (financial leverage).
I Debt Providers sono i fornitori del capitale di debito.
L’investimento (deal) è rappresentato dalla partecipazione nel capitale di rischio dell’impresa che viene
definita “target”.

1.4 Il processo di raccolta del capitale di rischio: fund raising e general partners.
Gli attori che realizzano il fund raising del capitale di rischio si chiamano GPs (General Partners) e
rappresentano le imprese finanziarie che gestiscono l’industria del private equity: sia negli Stati Uniti come
in Europa sono organizzati sotto forma di associazioni (partnership) prevalentemente per ragioni di tipo
fiscale.
Il GP, attraverso il suo management team, gestisce il fondo di private equity: raccoglie denaro (fund raising),
organizza lo staff, seleziona gli investimenti, gestisce il portafoglio societario e, infine, sceglie l’exit strategy
più opportuna.
I fondi di private equity si dividono in global funds e regional funds. Entrambi investono localmente.
i GPs vengono generalmente pagati con una management fee (2%) e con un “carried interest”
rappresentato da una parte del profitto realizzato. Nel mondo del private equity se un deal va male
dipendente normalmente dal GPs che ha fatto “assumption” errate e non è in grado di servire il capitale di
debito.
Le maggiori difficoltà che i GPs hanno trovato nelle attività di fund raising dipendono da cattive
performance che hanno caratterizzato il più recente periodo.
La crisi finanziaria ha giocato un ruolo determinante ma l’uso eccessivo di leva è apparso fuori controllo. Dal
2008 il volume dei capitali raccolti passa da 80 a 18 miliardi di euro, facendo registrare il peggior risultato
dal 2000. Negli anni successivi (2010 e 2011) il trend si è invertito ritornando ad essere in crescita, anche se
i 40 miliardi di euro raccolti nel 2011 rappresentano poco più di un terzo di quelli raccolti nel 2006.

1.5 Gli investitori: LPs limited partners.


I Limited Partners sono i clienti dei fondi di private equity. Investono grosse somme di denaro nelle
partnership con i GPs e sono loro vincolati per 5/10 anni. I loro diritti sono contenuti nell’accordo negoziato
con i GPs (partnership agreement).
I LPs sono generalmente investitori sofisticati ed hanno un ruolo finanziario più che strategico: questo
significa che il loro obiettivo non è quello di gestire un’attività ma di realizzare un ritorno dell’investimento.
È questa la ragione per cui si rivolgono a gestori professionali (GPs).

1.6 Le relazioni sistemiche tra LPs e GPs: esiste un conflitto di interessi?


La separazione tra fondo di private equity ed il management rappresenta teoricamente una garanzia sulla
buona fede del management team. Il GPs, tuttavia, non è immune da conflitto d’interessi.
In sintesi, queste sono le situazioni di conflitto d’interessi più comuni:
 la presenza dello stesso management su più fondi aventi durata differente;
 il reinvestimento in una società già appartenente ad un fondo gestito dallo stesso GPs;
 il rischio è che possa essere avvantaggiato un gruppo di investitori rispetto ad un altro;
 il mantenimento di una partecipazione in portafoglio unicamente per la massimizzazione delle fees
relative al management o il caricamento di fees addizionali;
 la sopravvalutazione della società target per produrre artificialmente performance non realizzate.

Per tutelare gli interessi degli investitori è buona norma affidare la valutazione ad un soggetto terzo.
La maggioranza del GPs comunica due o tre valori del fondo: uno conservativo, uno stimato ed uno
ottimistico.

È buona norma negoziare un agreement tra investitori e GPs che sia il più preciso ed accurato possibile e
che contenga tutte le clausole necessarie a mantenere una buona relazione nel corso dei 5/10 anni di
durata del fondo.

1.7 I fornitori del capitale di debito: Debt Providers.


I debt providers nel sistema del private equity sono i soggetti che coprono il fabbisogno di capitale di debito.
Nel 2000 i fondi di private equity hanno utilizzato molto intensamente la leva finanziaria (financial leverage)
per realizzare i rendimenti promessi agli LPs. Attraverso l’indebitamento è possibile moltiplicare i
rendimenti del capitale proprio sino a quando la redditività operativa generata è in grado di ripagare gli
oneri finanziari generati dalla leva.
I fornitori del debito sono stati le banche, le assicurazioni, i fondi mezzanini e persino i fondi hedge. Ma
sono state prevalentemente le banche commerciali ad erogare le cifre maggiori.

Nell’attuale scenario esistono due problemi di fondi: il primo è legato all’eccessivo ricorso al debito che ha
determinato una serie di posizioni in sofferenza che possono generare situazioni di crisi non solo per le
società che hanno ricevuto i finanziamenti ma anche per gli altri soggetti coinvolti.
Il secondo riguarda la necessità di rifinanziamento ovvero di ricapitalizzazione che molti GPs devono
affrontare per effetto della crisi finanziaria. In uno scenario caratterizzato da credit crunch il debito
disponibile è sempre più oneroso e tali valori poco si conciliano con le performance attese dai LPs.
Per il manager finanziario l’alternativa al capitale di rischio per raccogliere denaro è rappresentata dal
capitale di debito. Questa soluzione obbliga l’impresa ad effettuare pagamenti di lussi di cassa e conferisce
all’investitori un diritto di priorità in caso di dissesto finanziario.
Il finanziamento con capitale di debito è legato ad una serie di vantaggi e svantaggi: la principale fonte a
medio lungo termine è rappresentata dal debito bancario (bank debt). Questo fornisce all’impresa che vi
ricorre diversi vantaggi, in primo luogo può essere usato più elasticamente di una emissione obbligazionaria
che è generalmente più costosa, ed in secondo luogo rappresenta un meccanismo più adatto a colmare le
asimmetrie informative tipiche delle piccole e medie imprese.
Infine le banche possono disporre delle informazioni necessarie per valutare i progetti di investimento
dell’impresa nel medio e lungo termine.

Per quel che riguarda il debito mezzanino, tale forma di finanziamento ha una durata mediamente
compresa tra 4 e 8 anni e viene emessa attraverso un collocamento privato. Il debito mezzanino è un debito
subordinato ad un altro detto senior ed è generalmente strutturato nella forma di un prestito tradizionale,
ma che prevede la possibilità per il sottoscrittore di poter convertire il proprio credito in azioni della società
finanziaria. La caratteristica principale di tale forma è la postergazione del rendimento ma comunque tutta
la struttura dello strumento risulta molto flessibile e progettata in funzione della dinamica del fabbisogno
finanziario della società finanziata. Per tali ragioni è considerato una forma di finanziamento che si colloca
in una posizione intermedia tra l’investimento in capitale di rischio e quello in capitale di debito.

1.8 La catena del valore del private equity: the game.


Secondo un’indagine della European Private Equity and Venture Capital Association (EVCA) sono circa
24.000 le imprese che, in Europa, sono partecipate da un fondo di private equity.
Le piccole medie imprese in Europa sono oltre 20 milioni, ciò significa che l’investimento nel capitale di
rischio dell’impresa da parte del GPs è un’operazione piuttosto selettiva.
I fondi di private equity sono dei “talent scout” e individuano quelle imprese che potenzialmente possono
crescere: o perché sono ben posizionate nel mercato o perché possono difendere nel tempo il loro
vantaggio competitivo attraverso barriere all’entrata. I GPs allocheranno il capitale solo nelle imprese che
presenteranno quelle caratteristiche di recettività tali da poter pianificare un processo di creazione di valore
per entrambi.

La ricostruzione della catena del valore di un fondo di private equity passa attraverso l’individuazione di una
tipologia d’investimento (asset class). I GPs la propongono nel corso dell’attività di fund raising raccogliendo
dai loro clienti, i LPs, un commitment (impegno). I LPs sono i loro fornitori di capitale.
Una volta ottenuto il denaro si passa all’investimento. Viene innanzitutto definita una “pipe line” che
rappresenta il timing per la ricerca. Questo significa trovare una buona società (good deal) in cui investire il
capitale di rischio raccolto.

Cosa si intende per “good deal”? Generalmente il private equity investe in imprese di dimensioni più
rilevanti rispetto al venture capital e utilizza le leve finanziarie per supportare l’esperienza, nel passato,
poteva arrivare anche sino al 90%.
Le condizioni necessarie per realizzare un buon investimento sono: flussi di cassa certi (solid cash flows),
aspettative di crescita (growth), e potenziali profitti non realizzati. La stabilità dei flussi di cassa è molto
importante soprattutto nei casi in cui l’utilizzo della leva finanziaria sia molto elevato.

Perché si utilizza la leva finanziaria? Per un fondo di PE la struttura finanziaria del deal è molto importante
per la determinazione del ritorno finale dell’investimento.
Dopo la raccolta del debito (senior subordinato e mezzanino) occorre pianificare la strategia di
disinvestimento (exit strategy).

Facciamo un breve esempio (the game). Ipotizziamo che il valore di mercato di un’impresa sia 750.000 euro.
Se un fondo di private equity la paga 1.000.000 di euro riconosce 250.000 come premio, pari al 25% del
valore, agli attuali azionisti. Ipotizziamo ancora che la struttura del deal preveda che l’acquisizione avvenga
utilizzando un leverage pari al 75% del valore. Il fondo di private equity investirà 250.000 euro sotto forma
di equity e raccoglierà 750.000 euro sotto forma di debito da un altro provider (ad esempio una banca).
Se al momento del disinvestimento la società, nella quale è stato investito il capitale di rischio (equity), vale
diciamo 1.500.000 euro e viene quotata come si determina il rendimento ottenuto dagli investitori?
A fonte di un investimento del 50% del valore di mercato della società target (passa da 1 a 1,5 mln), gli
investitori del fondo di PE otterranno un rendimento del 300% del loro capitale. Semplicemente perché a
fronte di un investimento di 250.000 euro il controvalore del loro capitale è di 750.000 e risulta quindi
triplicato.
Risulta chiaro come un deal pesantemente “levereggiato” possa generare ritorno del 100-200% anche in
presenza di moderati tassi di crescita (10-20%).

Naturalmente la leva finanziaria non è il segreto per realizzare un good deal in termini di rendimento, ma
semplicemente lo strumento per realizzare la struttura delle fonti e, nel caso di riduzione di valore della
società, un suo utilizzo spregiudicato sortisce gli effetti indesiderati e cioè la perdita del capitale.
Questo fa del private equity un investimento “rischioso” e proporzionalmente più rischioso dell’aumentare
del grado di leverage utilizzato dal fondo.
I GPs, infine, per recuperare il loro denaro usano una tecnica denominata “recap”. Convincono cioè le
banche che il business è cresciuto di valore e richiedono ulteriore denaro utilizzando il nuovo multiplo (cap
rate).

Quali sono le ragioni per cui un’impresa dovrebbe considerare l’ingresso di un fondo di private equity? In
buona sostanza le stesse che guidano le scelte degli investitori professionali: crescita, sviluppo, creazione di
valore, maggiore trasparenza, comunicazione, managerialità, miglioramento delle performance, delle
relazioni, del know how e la creazione di nuovi posti di lavoro.

1.9 Gli elementi chiave del private equity: Le quattro P.


Partnership. Innanzitutto la partnership tra general e limited partners (GPs e LPs). L’attività di raccolta del
capitale e quella successiva di investimento trova la sua sintesi sistemico-relazionale nella strutturazione del
fondo che avviene attraverso una limited partnership. Una buona partnership si fonda essenzialmente su
pochi e semplici presupposti: lealtà e correttezza del GPs e sue capacità di trovare un “good deal”.

People. Come si realizzare in concreto una buona partnership? Da cosa dipende il successo
dell’investimento? In estrema sintesi dalle risorse umane coinvolte nel processo (people).
Con riferimento ai GPs ed alle persone coinvolte nel processo di raccolta del capitale e di selezione e
gestione degli investimenti, il management team e le sue capacità in termini di professionalità e
competenze fanno la differenza. Una volta realizzato il deal possono crearsi conflitti tra gli azionisti della
società target, specialmente nelle società a controllo proprietario “forte”, come le imprese familiari.

Price. Un good deal, per il LP, dipende dalla ragionevolezza del prezzo pagato che non deve essere
artificialmente aumentato per incrementare costi, fees e rendimento del GP. Occorre focalizzare l’attenzione
sul processo di valutazione. Esperti indipendenti e terzi rispetto ai soggetti coinvolti debbono certificare il
valore del deal e la capacità dell’impresa target di generare cash flow sufficienti a servire il capitale di debito
alle scadenze prefissate.

Performance. Da cosa dipende il raggiungimento di un risultato adeguato alle aspettative dei LPs? Ancora
una volta la consapevolezza da parte dei soggetti coinvolti che il private equity investa per generare un
ritorno in termini di cash flow ai proprio LPs.
La semplificazione e la facilitazione delle attività imprenditoriali può rappresentare uno dei cambiamenti più
importanti per quei governi che vogliono sviluppare l’attività di private equity in un determinato paese.
L’attività di training (formazione e guida) è cruciale tanto quanto il supporto fiscale, legale e societario.
CAPITOLO 3: Le tipologie di investimento nel capitale di rischio dell’impresa.
L’investimento nel capitale di rischio.
Con il termine “investimento istituzionale nel capitale di rischio” si intende l’apporto di risorse finanziarie da
parte di operatori specializzati sotto forma di partecipazione al capitale azionario o di sottoscrizione di titoli
obbligazionari convertibili in azioni, per un arco temporale medio-lungo, prevalentemente in aziende non
quotate.
Gli operatori di private equity possono intervenire in varie fasi della vita delle imprese e possono porsi
differenti obiettivi raggiungere. In ognuna di esse l’impresa ha specifiche esigenze alle quali l’investitore
dovrà rispondere apportando risorse, sia in termini di capitale che di know-how.
Tradizionalmente le diverse tipologie di investimento nel capitale di rischio vengono catalogate in base alle
fasi di sviluppo dell’impresa.
Secondo questa classificazione, detta classica, si individuano i seguenti interventi:
 seed (finanziamento dell’idea) e start up financing: interventi di early stage, volti a finanziare le
primissime fasi di avvio dell’impresa;
 expansion financing: investimenti finalizzati a supportare la crescita e lo sviluppo, da un punto di
vista geografico, merceologico, ecc.. di aziende già esistenti;
 replacement capital (capitale di sostituzione): investimento finalizzato alla ristrutturazione della
base azionaria, in cui l’investitore istituzionale si sostituisce a uno o più soci di minoranza non più
interessati a proseguire l’attività;
 buy out: operazioni orientate al cambiamento totale della proprietà e degli assetti dell’impresa;
 turnaround: investimenti di ristrutturazione di imprese in crisi;
 bridge financing: interventi finalizzati a creare la condizioni che permettano all’impresa di quotarsi.

In tempi più recenti è emerso come la classificazione suddetta presenti alcune problematiche, alla luce della
trasformazione del contesto competitivo in cui l’impresa opera e delle innovazioni introdotte a livello
tecnologico. Emerge la necessità di effettuare una nuova classificazione non più legata alle fasi di sviluppo,
ma al fabbisogno finanziario dell’impresa.
Sulla base di questa seconda classificazione, detta moderna, le modalità di intervento degli investitori
istituzionali nel capitale di rischio delle imprese possono essere divise in tre macro-aree:
 finanziamento dell’avvio;
 finanziamento dello sviluppo;
 finanziamento del cambiamento.

Il finanziamento dell’avvio.
L’operatore di private equity può investire sin dalle primissime fasi di vita di un’impresa. In tal caso si parla
di finanziamento dell’avvio, il cui obiettivo è quello di supportare la nascita di una nuova iniziativa
imprenditoriale sostenendo l’impresa in tutte le fasi del processo di creazione.
Gli aiuti sono rivolti ad imprenditori che mirano a sviluppare una nuova invenzione o a migliorare un
prodotto/processo produttivo esistente. Spesso non si tratta di veri e propri imprenditori, ma di soggetti che
necessitano più che un apporto di risorse, di apporto in termini di capacità imprenditoriale di competenze
aziendali e manageriali, di aiuto nella definizione della formula imprenditoriale e nella valutazione della
propria posizione competitiva.
È molto importante effettuate attente analisi di mercato, one evitare che un’idea, per buona che sia possa
poi, a lungo termine rivelarsi fallimentare. Questo è uno dei compiti dell’operatore che investe nelle
imprese in fase di avvio.
Le operazioni di early stage financing rappresentano, in tutto il mondo, quelle con il maggior tasso di
insuccesso in virtù delle maggiori probabilità di fallimento dell’iniziativa.
Quando avvia un’attività l’imprenditore deve attraversare tre fasi:
 seed financing, l’investitore interviene quando il prodotto ancora non esiste o quando esso è in fase
di sperimentazione. L’imprenditore ha un’idea e ha bisogno di un sostegno per poterla sviluppare e
poter dar vita alla propria invenzione. Occorre testare la validità tecnica del prodotto, nonché la
solidità economica dell’iniziativa. L’apporto finanziario è limitato, ma a fronte di esso i rischi sono
molto elevati;
 Start up financing, consiste nel vero e proprio avvio dell’attività produttiva per il quale è necessario
un apporto di capitali. Anche in questa fase sono richieste abilità tecniche e scientifiche agli
operatori. Qui il prodotto è già sviluppato. Anche questa fase è particolarmente delicata, in ragione
del fatto che da essa dipenderanno le future possibilità di sviluppo dell’azienda;
 First stage financing questa fase si ha quando l’attività produttiva è già stata avviata e l’imprenditore
è alla ricerca di finanziamenti per promuovere il suo progetto. A questo punto occorre valutare
appieno la validità commerciale del prodotto per poterlo lanciare sul mercato. Sono richiesti
operatori che abbiano competenze in merito alle analisi di mercato.

Il finanziamento dello sviluppo.


Si tratta di interventi effettuati in iniziative imprenditoriali già sviluppate, dove però l’imprenditore vuole
espandere il proprio business consolidare la propria immagine, acquisendo nuove quote di mercato e
competitività anche a livello internazionale, o accedere alla quotazione in borsa.
In questa macro-area l’idea esiste già e l’operatore investirà in quei business dove vede possibilità di crescita
economicamente interessanti e concederà, dunque, finanziamenti a quelle imprese in cui ritiene che il suo
intervento ne possa aumentare il valore.
Gli interventi in questa fase sono piuttosto complicati perché l’investitore dovrà trattare con un numero
elevato di azionisti, i cui interessi non sempre convergono.
Le fasi che caratterizzano il finanziamento dello sviluppo, sono:
 Second stage financing, avviene quando l’impresa è giovane e di dimensioni medio-piccole, ma ha
già acquisito una relativa esperienza di mercato e il suo management è consolidato. La sua
organizzazione, però è ancora provvisoria e l’azienda ha bisogno di finanziamenti per rafforzare la
propria struttura e sviluppare la propria attività.
 Third stage financing, si ha quando l’impresa vuole consolidare il proprio sviluppo per vie interne
attraverso una diversificazione commerciale e/o produttiva, oppure per vie esterne, attraverso
l’acquisizione di aziende o rami d’azienda.
nel primo caso è richiesto all’investitore un aiuto in termini economico-finanziari. Nel caso di
sviluppo esterno fondamentale è il network di relazioni dell’investitore.
una terza possibilità è data dallo sviluppo “a rete”. In questo caso l’intervento dell’investitore è
finalizzato al raggruppamento (cluster) di più società operative indipendenti.
 Fourth stage financing, rappresenta il finanziamento dello stadio più avanzato di sviluppo. Risulta
necessario quando si vuole perfezionare la propria attività o qualora si miri nel breve termine alla
quotazione di borsa.

Il finanziamento del cambiamento.


In quest’area rientrano gli interventi legati all’esigenza di “ripensare” l’azienda, indipendentemente dallo
stadio di sviluppo raggiunto. Si tratta di processi di cambiamento interni che portano a una modifica più o
meno radicale dell’assetto proprietario e che richiedono l’intervento di un operatore specializzato.
In particolare si possono individuare le seguenti categorie:
 Replacement capital, l’operatore di private equity entra nella compagine azionaria di un’impresa
andando a sostituire un altro soggetto che non è più interessato a proseguire l’attività aziendale e
desidera cedere la propria partecipazione. A seguito di queste operazioni, dunque, non vi sono
cambiamenti rilevanti nella strategia dell’impresa. Le operazioni di replacement capital consentono
agli azionisti che non sono più interessati a portare avanti progetti di lungo termine di uscire
dall’impresa e di realizzare un profitto, allo stesso tempo si dà la possibilità ai soci ancora interessati
di proseguire nei loro intenti insieme ai soggetti che mirano allo sviluppo dell’azienda;
 Buy out, in queste operazioni la struttura proprietaria di u’impresa viene modificata
profondamente. Un cambiamento così radicale può essere imputato a varie motivazioni quali il
desiderio dell’imprenditore di liquidare l’azienda nel suo complesso o un ramo di essa,
l’impossibilità di trovare un successore nei casi di ricambio generazionale o per privatizzare
un’azienda pubblica.
L’operatore di private equity interviene dando un supporto finanziario alle operazioni e spesso è egli
stesso ad assumere il controllo dell’impresa divenendo un azionista di maggioranza.
I Buy Out comprendono differenti sottospecie di operazioni, classificate in base alle caratteristiche
del soggetto che gestirà la società. I MBO o MBI sono quelle operazioni in cui l’azienda viene
acquisita in modo parziale o totale da parte di manager. L’azienda può essere acquisita anche dai
lavoratori della stessa e si parla di WBO (Worker Buy Out).
 Turnaround financing, un finanziamento che si ritiene necessario qualora l’azienda sia in perdita.
Nei casi di crisi aziendale può risultare determinante l’intervento di un operatore specializzato, per
scongiurare il fallimento della società e anzi per risanare e rilanciare l’attività imprenditoriale
affinchè questa torni a creare valore. In questa fase sono richiesti investitori istituzionali con una
base finanziaria solida, capacità manageriali consolidate e conoscenze giuridiche di un cero livello,
nel caso in cui debbano gestire il fallimento dell’azienda stessa.

CAPITOLO 4: Il processo di investimento.

Considerazioni introduttive.
Le operazioni di private equity possono essere messe in atto attraverso diverse modalità di intervento. Il
processo di investimento può essere suddiviso in alcune fasi comuni a tutte le tipologie di investimento:
1) Origination: occorre generare un deal flow, ossia un flusso di opportunità d’investimento, così da
poter selezionare tra le varie opportunità trovate quella che più rispecchia i propri obiettivi;
2) Valutazione del progetto d’investimento: al fine di scegliere l’investimento che con maggior
probabilità possa risultare di successo occorre analizzare attentamente il prodotto oggetto
dell’operazione;
3) Trattativa e closing: scelta la società target, occorre definire con esattezza il valore della stessa sia
attraverso vari metodi di valutazione sia attraverso la due diligence;
4) Monitoraggio: siglato il contratto, l’operatore richiederà le informazioni necessarie per controllare
l’andamento della società in cui ha investito al fine di compiere un’efficace attività di monitoraggio;
5) Exit: infine occorrerà cedere la partecipazione assunta nella società target.

Generazione del deal cash flow.


Uno dei principali fattori di successi in un’operazione di private equity è legato alla scelta dell’impresa
target. Occorre individuare una serie di opportunità d’investimento (deal flow), così da avere un numero
consistente di opzioni tra cui scegliere. Maggiore è il numero delle alternative a disposizione, maggiore sarà
la possibilità che l’operazione si riveli di successo.
L’operatore di private equity deve strutturare dei meccanismi volti alla massimizzazione del deal flow e deve
considerare tre ordini di fattori:
 Le caratteristiche dell’operatore. Fanno riferimento all’immagine e alla notorietà di cui gode
nell’ambito del mercato in cui intende operare. Ciò che è rilevante è la sua esperienza in quello
specifico mercato nonché la qualità e la quantità delle operazioni effettuate in passato. Tutto ciò
influenza la possibilità di generare un flusso sistematico di deal flow, è necessario che l’operatore in
questione non solo sia molto esperto e capace, ma occorre altresì che sia ritenuto credibile dal
mercato e che tali abilità vengano percepite;
 L’area geografica di intervento. Molto operatori si focalizzano in una particolare area geografica. La
concentrazione territoriale è spiegabile considerando che gli investimenti sono più profittevoli
quando investitore e imprenditore sono più vicini. La vicinanza geografica consente di reperire con
maggior facilità informazioni sulle imprese e ciò semplifica attività quali la due diligence, lo
screening e il successivo monitoraggio.
individuata l’area geografica in cui operare, fondamentale è conoscere le esperienze e le abitudini
degli operatori economici e degli imprenditori e le caratteristiche del mercato;
 La tipologia di investimenti da effettuare. A seconda che si tratti di seed capital, buy out,
turnaround o altro, cambiano le tipologie e i target di riferimento. La strategia di marketing da
intraprendere dovrò, quindi tenere in considerazione la tipologia di operazione.
Infine, occorre sottolineare l’esistenza di due differenti modalità che portano alla generazione delle
opportunità di investimento: nel paesi anglosassoni che sono caratterizzati da mercati
finanziariamente più evoluti, è la stessa società target che si autopropone all’investitore mentre in
paesi in cui il private equity è poco conosciuto, come in Italia, sono gli operatori che attraverso
un’attività di marketing diretto sono alla ricerca di società in cui investire.
L’attività di marketing diretto presenta alcuni vantaggi, in quanto consente:
o Attraverso un analisi preliminare, di identificare le aziende target potenziali che possiedono i
requisiti primari necessari;
o Di generare un flusso di opportunità di buona qualità;
o Di scoprire opportunità interessanti ma sconosciute perché poco note;
o Di stimolare l’interesse di imprenditori che altrimenti non avrebbero contattato in modo
autonomo un investitore istituzionale;
o Di scavalcare gli intermediari;
o Di costruire nel tempo un serbatoio di opportunità e di capitalizzare/valorizzare il proprio
patrimonio di contatti;
o Il cross selling di altri servizi (corporate finance, M&A, consulenza aziendale, ecc..).

Valutazione del profilo imprenditoriale e del management team.


Importantissima è la fase di valutazione del profilo imprenditoriale e del management in termini di
affidabilità, competenze, esperienza e reputazione. L’esperienza dell’imprenditore e del gruppo manageriale
influenza notevolmente il buon esito dell’operazione e spesso hanno un peso superiore persino rispetto alla
validità tecnica del prodotto o all’assistenza di un mercato con elevati potenziali di crescita.
Secondo un’indagine la principale causa di insuccesso di un investimento nel capitale di rischio è connessa
proprio all’operato dei senior manager. Altri possibili fattori di insuccesso sono le carenze finanziarie e la
mancanza di un’efficace strategia di marketing.
L’imprenditore ideale per un operatore di private equity deve perseguire due tipologie di obiettivi:
 Obiettivi di sviluppo dell’impresa;
 Obiettivi di affermazione personale.
Tali obiettivi devono essere impegnativi ma fattibili e devono essere inseriti all’interno del piano
complessivo di sviluppo aziendale.
Il rapporto tra investitore e imprenditore deve essere improntato sulla massima fiducia.
I manager, inoltre devono essere in grado di gestire tutti gli stadi della vita di un’impresa dall’avvio alla
crescita.
Un altro fattore importante che potrebbe determinare l’insuccesso dell’operazione riguarda il
coinvolgimento di imprenditori e manager nel business: un eccessivo coinvolgimento emotivo può essere
causa di scarsa lucidità e distrazione.

Valutazione del prodotto e del mercato di riferimento.


Non bisogna trascurare la valutazione del prodotto e del mercato di riferimento. In tal modo è possibile
analizzare il vantaggio competitivo che un determinato prodotto garantisce o che potrà garantire in futuro,
le reali opportunità di crescita dell’azienda e la potenziale redditività del business.
Per quando riguarda il prodotto, l’investitore è alla ricerca di un prodotto ben distinto, identificabile e
fortemente competitivo, spesso con un considerevole grado di innovazione tecnologica.
Risulta opportuno fare una distinzione in base alla tipologia di investimento da effettuare tra:
 Early stage financing. È importante avere un prodotto efficace e ciò potrebbe determinare il
successo, o in caso contrario, l’insuccesso, dell’operazione, soprattutto in caso di investimenti nel
settore tecnologico;
 Later stage investment. Al contrario, poiché l’impresa opera in settori maturi e con prodotti
altrettanto maturi il buon esito dell’operazione potrebbe essere non strettamente connesso alla
qualità dei prodotti.

Per quanto riguarda il mercato di riferimento, uno dei primi passi da compiere è l’analisi del settore. Tale
analisi risulta utile per verificare il livello di attrattività del settore cui appartiene l’azienda target e per
definire le competenze chiave che bisognerebbe possedere, o che andranno acquisite, per competere in
quel determinato settore.
Uno dei moduli più conosciuti è quello delle cinque forze di Porter. Le cinque variabili identificate sono:
 Il potere contrattuale dei fornitori;
 Il potere contrattuale dei clienti;
 La minaccia di potenziali entranti;
 La minaccia di prodotti e servizi sostitutivi;
 La concorrenza di settore.
Tali forze agiscono con continuità e, se non opportunamente monitorate e fronteggiate portano alla perdita
di competitività.
Effettuata l’analisi di settore, occorre poi analizzare la capacità che ha l’impresa target di generare un valore
superiore a quello dei suoi concorrenti diretti, appartenenti allo stesso settore.

In merito all’analisi del mercato di riferimento occorre, infine, porre l’attenzione su tre aspetti molto
importanti:
 La dimensione del mercato: sarà necessario svolgere ricerche di mercato dirette per individuare la
dimensione totale del mercato;
 Il piano di marketing: occorrerà sviluppare un piano che delinei le azioni da porre in essere per
raggiungere i livelli di vendita prospettati;
 La strategia di mercato: bisognerà sviluppare una strategia utile per difendere il posizionamento
dell’impresa sul mercato.
L’operatore di private equity dovrà fare un’attenta analisi del mercato in cui andrà ad operare. Ciò che conta
per lui non è il mercato in sé ma il posizionamento dell’impresa target all’interno dell’arena competitiva.

Redazione e analisi del business plan.


L’operatore di private equity deve valutare se l’azienda sarà in grado di produrre reddito e generare valore,
così da garantire all’investitore un ritorno economico in un orizzonte temporale di medio periodo.
Non esiste una target ideale in assoluto, ma la scelta è influenzata dalla tipologia di investimento da
effettuare. In generale, gli investitori sono orientati verso imprese dinamiche, con elevati tassi dei crescita
prospettici e con obiettivi strategici predefiniti.
Gli obiettivi strategici dell’imprenditore e del management sono delineato nel piano aziendale di sviluppo, il
business plan. In tale documento sono esplicitate le strategie competitive dell’azienda, le azioni che
occorrerà intraprendere per raggiungere gli obiettivi preposti, l’evoluzione di key value drivers e i risultati
economici e finanziari attesi.
Per l’investitore è uno degli strumenti informativi principali da utilizzare quando selezione un investimento.
Il business plan non è rivolto solo all’investitore ma a tutti i principali stakeholders della società tra cui
anche i finanziatori, i proprietari, il consiglio di amministrazione e i manager.

Il business plan è un documento chiaro e semplice che deve essere allo stesso tempo sintetico ma anche
dettagliato nei suoi elementi chiave. Deve essere redatto in modo schematico e presenta, in genere, una
struttura standardizzata. È possibile individuare un contenuto di massa così sintetizzabile:
 Obiettivi, profilo e caratteristiche dell’azienda: bisogna specificare gli obiettivi della strategia
aziendale e indicare come il progetto si inserisce nella mission dell’impresa;
 Tecnologia e caratteristiche del prodotto/servizio: occorre descrivere il prodotto in modo semplice,
ma spiegando anche gli aspetti tecnici;
 Mercato: occorre effettuare un’analisi a livello macroeconomico definendo la dimensione del
mercato e i tassi di crescita attuali e potenziali;
 Aspetti produttivi: descrivere il modo in cui viene realizzato il prodotto, le fonti di
approvvigionamento dei materiali necessari, le competenze specifiche richieste dal personale;
 Piani operativi e dati economico-finanziari: redigere dei piano in merito alla produzione e alla
commercializzazione del prodotto, tenendo conto dei tempi e dei costi;
 Struttura finanziaria: individuazione del rapporto tra capitale di rischio e di debito;
 Profilo dell’imprenditore e del management: valutare le caratteristiche del gruppo dirigente e
indicare con precisione chi detiene il controllo del capitale;
 Strategia di disinvestimento: vengono prese in considerazione alcune alternative in merito alle
modalità di uscita e vengono esposti i ritorno previsti per l’investitore.

Una volta redatto il business plan l’investitore dovrà verificare la credibilità, la ragionevolezza e la coerenza
delle ipotesi sottostanti lo sviluppo del piano.
La valutazione del BP può essere vista con un’ottica di processo.

Performance storiche 
Trend di mercato, posizionamento 
Strategic & action plan 
Ipotesi economiche e finanziarie.

Il primo step riguarda la valutazione della strategia di marketing e il posizionamento competitivo. Bisogna
fare un’accurata analisi del mercato, verificare il posizionamento dell’azienda e confrontarlo con quello dei
competitor. Successivamente, esaminando i dati storici sulle performance economico-finanziarie, bisogna
fare un confronto tra i risultati raggiunti e gli obiettivi strategici preposti.

Il secondo step comporta un’analisi del mercato e del futuro andamento della domanda e dell’offerta. Si
effettua poi l’analisi dei driver futuri di competitività e delle possibili strategie dei competitor.
Fondamentale è prestare attenzione all’evoluzione dei segmenti di mercato e all’evoluzione della quota di
mercato.

Il terzo step è quello più legato al business plan. In primo luogo, bisogna verificare che gli obiettivi strategici
siano ben definiti e, in secondo luogo, fare un’analisi di corrispondenza tra strategie definite ed evoluzione
del mercato e della concorrenza e tra Strategic & Action Plan, verificando quindi la coerenza tra le strategie
definite e il piano d’azione. Infine, bisogna analizzare il piano d’investimento complessivo, verificando che
gli investimenti materiali e immateriali siano sufficienti per raggiungere gli obiettivi preposto.

Il quarto step prevede un’analisi dei trend storici e il rolling check sul business plan a medio-lungo termine:
si proiettano i dati di previsione futuri su quelli storici e si verifica se le assumption siano corrette. Infine si
effettua un’analisi dei benchmark e dei concorrenti diretti, così da individuare le aree di rischio.

Due diligence.
Durante la fase di valutazione dell’opportunità di investimento viene svolta quella che è comunemente
definita due diligence. Il termine letteralmente significa “dovuta diligenza” e fa riferimento ad un’indagine
volta alla raccolta e alla verifica di informazioni di natura patrimoniale, finanziaria, economica, gestionale,
strategica, fiscale e ambientale, relativamente all’azienda per la quale vi siano intenzioni di acquisizione o
investimento. Quest’attività presenta una duplice finalità:
1) Perimetrale le aree di rischio dell’operazione, rilevando fattori critici di successo, i punti di forza e di
debolezza ed eventuali rischi che potrebbero compromettere la creazione di valore;
2) Determinare correttamente il valore dell’azienda o della partecipazione.

La due diligence risulta necessaria per giungere ad una valutazione finale, analizzando lo stato attuale
dell’azienda e le sue potenzialità future.
L’attività di due diligence assume notevole importanza per entrambe le parti perché garantisce una chiusura
rapida della negoziazione e permette all’investitore di venire in possesso delle informazioni necessarie ad
effettuare l’investimento in maniera professionale.

La due diligence è solitamente focalizzata sui seguenti aspetti:


 Due diligence di mercato;
 Due diligence finanziaria;
 Due diligence legale;
 Due diligence fiscale;
 Due diligence ambientale.

Due diligence di mercato.


Funziona specifica di questa due diligence è quella di permettere all’investitore di comprendere il mercato
specifico dell’azienda e il suo posizionamento all’interno dello stesso, in modo tale da poter confrontare i
risultati con i business plan prospettici dell’imprenditore. Si tratta di un’attività di indagine e raccolta dati
che permette di avere informazioni sulla situazione operative dell’azienda target e di elaborare una
previsione della sua evoluzione all’interno e nei confronti del proprio mercato di appartenenza. L’obiettivo
primario di tale attività è quello di definire i punti di forza e di debolezza, le opportunità offerte dal mercato
e le potenziali minacce. Deve essere coordinata strettamente con l’attività di due diligence finanziaria.

Due diligence finanziaria.


Rappresenta un’analisi dei dati economico-finanziari, storici e prospettici, finalizzata alla valutazione degli
aspetti economico-finanziari dei piani d’impresa ed alla valutazione del fabbisogno finanziario. Essa è
condotta principalmente prendendo in esame conti economici, stati patrimoniali e cash flow storici, budget
e business plan.

Due diligence legale.


È finalizzata ad evidenziare le eventuali problematiche di natura legale che possono coinvolgere l’azienda
target e l’investitore. In particolare, l’analisi è volta ad accertare l’esistenza di passività che scaturiscono e/o
che potrebbero scaturire dai rapporti giuridici e contrattuali posti in essere dall’impresa. Si esaminano,
dunque, i contratti in essere in cui l’azienda target è parte contraente al fine di verificare la correttezza
formale degli stessi e la presenza di eventuali obblighi a carico della società che possono portare al sorgere
di passività in futuro o al pagamento di penali tali da ridurre il valore dell’azienda. L’analisi, inoltre, riguarda
la verifica del corretto adempimento da parte della società per ciò che riguarda gli obblighi contributivi e
previdenziali, gli obblighi di legge in materia di privacy e sicurezza sul lavoro e gli obblighi di legge esistenti
per lo svolgimento delle attività operativa in quel determinato settore.
La due diligence legale è molto importante ai fini della valutazione dell’azienda e della stesura del contratto
definitivo.

Due diligence fiscale.


Analizza gli aspetti legati alla fiscalità della società. L’obiettivo principale è rappresentato dall’identificazione
e quantificazione di passività fiscali potenziali correlate alle attività poste in essere dall’azienda target,
dall’individuazione di eventuali benefici fiscali futuri e dall’identificazione preliminare degli effetti fiscali
delle strategie di disinvestimento.
Il team che conduce l’analisi verifica il corretto adempimento degli obblighi fiscali in capo all’azienda e
l’esistenza di contenzioni in atto o potenziali, classifica le aree fiscali più a rischio e determina le passività
fiscali.

Due diligence ambientale.


Ha come obiettivo la verifica del rispetto della legislazione e dei regolamenti in tema ambientale da parte
della società target. Analizza l’organizzazione interna del controllo ambientale e dell’inquinamento e
individua l’impatto degli aspetti ambientali sull’attività corrente e le conseguenze delle problematiche non
risolte. Comprende anche gli aspetti inerenti all’igiene del lavoro e alla sicurezza.

Definizione del prezzo.


Il prezzo viene determinato non solo tenendo conto dei risultati quantitativi derivanti dall’applicazione dei
metodi di valutazione, ma anche alla luce dell’indagine di due diligence svolta.
Spesso il prezzo offerto dall’investitore e quello richiesto dal venditore non corrispondono. Tale discordanza
può essere imputata sia ad una differenza nella valutazione oggettiva dell’azienda, sia alla possibilità per il
venditore di includere nella valutazione anche aspetti di tipo affettivo.
Per portare avanti la trattativa, una delle possibili soluzioni a cui spesso si ricorre è rappresentata dagli
accordi di earn out. Si tratta di una particolare formula attraverso la quale parte del pagamento del prezzo
di acquisto di un’impresa o di una quota viene rimandata ad un momento successivo, quando disponendo
di maggiori informazioni si avranno maggiori certezze circa i risultati della società target.
Un’altra soluzione per ridurre il prezzo che l’investitore deve pagare è costituita dallo scorporo degli
immobili. Questi ultimi hanno un valore elevato per l’imprenditore in ottica di un’analisi patrimoniale, ma
l’operatore di private equity, maggiormente interessato ad una valutazione di tipo reddituale o finanziaria,
preferisce non acquistare consistenti patrimoni immobiliari nell’ambito di aziende produttive.

Un altro strumento a cui si ricorre per risolvere alcuni problemi di carattere negoziale è rappresentato dalle
vendor notes. Questa soluzione non comporta una riduzione del prezzo fiscale, ma solo dell’ammontare che
l’investitore è tenuto a pagare immediatamente alla stipula del contratto. Il venditore rinuncia a ricevere
subito l’intero importo e sottoscrive titoli della società ceduta (vendor notes), concedendo così
all’acquirente un vero e proprio finanziamento. Tali obbligazioni dovranno poi essere a lui ripagate in un
tempo predeterminato e con un tasso di interesse preventivamente concordato.

Definizione della struttura dell’operazione.


Dopo aver effettuato tutte le analisi del caso volte ad accertare la convenienza dell’investimento e dopo
aver stabilito il prezzo di ingresso, l’investitore e l’imprenditore devono accordarsi in merito alla struttura
dell’operazione. Tale scelte è fondamentale per il buon esito dell’investimento.
La modalità tecnica di investimento più utilizzata prevede il ricorso all’equity, ossia al capitale proprio
dell’azienda. L’operatore di private equity può, alternativamente, acquistare quote dai soci o sottoscrivere
quelle di nuova emissione.
In alternativa, si possono utilizzare forme di finanziamento intermedie tra il debito e l’equity, quali:
 Il prestito obbligazionario convertibile, l’investitore finanzia la società sottoscrivendo obbligazioni
che potranno essere convertite in futuro in azioni della società emittente o di altre società;
 Il senior debt, si tratta di una forma di capitale di debito a medio-lungo termine privilegiato che dà
all’investitore la possibilità di essere rimborsato per primo, in caso di fallimento della società;
 Il debito subordinato, un finanziamento di capitale di debito a medio-lungo termine il cui rimborso è
privilegiato rispetto al capitale proprio ma postergato rispetto ad altre forme di debito;
 Il mezzanino, è una soluzione ibrida che si pone a metà tra il debito e l’equity.

Conclusione della trattativa.


Dopo aver raggiunto l’accordo su tutti gli aspetti dell’operazione si può procedere con la firma del contratto.
In esso saranno comprese alcune clausole di garanzia, a favore dell’acquirente, che assicurino la correttezza
e la completezza dei dati forniti e dei fatti rappresentati, nonché l’inesistenza di passività occulte. Nel
contratto di investimento possono essere ricompresi anche accordi che regolino i rapporti tra gli azionisti
originari e quelli entranti: sono i patti parasociali. Essi prevedono sia delle norme da applicare nel corso
dell’investimento, sia nella fase conclusiva quando si realizza il disinvestimento attraverso la vendita della
partecipazione.

Siglato l’accordo e rilasciate le opportune garanzie, l’operazione si concretizza con il trasferimento delle
azioni, il pagamento del prezzo, l’eventuale sostituzione degli amministratori e la firma di eventuali contratti
accessori.

Il monitoraggio dell’investimento e la creazione di valore.


L’obiettivo dell’operatore di private equity è quello di controllare l’andamento della gestione, così da
assicurarsi che l’impresa raggiunga i risultati previsti dal piano.
L’attività di monitoraggio dell’investimento viene effettuata sia attraverso l’analisi costante di alcuni
indicatori economico-reddituali, sia prendendo parte alle riunioni del CdA.
Il monitoraggio riguarda gran parte degli aspetti che caratterizzano la vita aziendale.
A seconda del grado di coinvolgimento dell’investitore nell’attività aziendale, è possibile distinguere due
forme di monitoraggio:
 Approccio hands on: viene effettuato quando l’investitore partecipa attivamente all’attività
dell’azienda in cui ha investito. Ha una rappresentanza nel CdA e, spesso, ha anche diritto di veto su
importanti decisioni in merito all’attività d’impresa;
 Approccio hands off: si verifica quando la partecipazione dell’investitore nell’impresa è più limitata.
Egli non interviene né nelle decisioni operative né in quelle strategiche. In questo caso l’operatore di
private equity non esercita un controllo attivo, ma richiede informazioni in modo regolare per poter
monitorare l’andamento della società.

CAPITOLO 5: Il processo di disinvestimento.

Considerazioni introduttive.
La fase di disinvestimento rappresenta la fase conclusiva del processo di investimento.
Quella di disinvestimento è una delle fasi più delicate in quanto consente di realizzare il capital gain, ossia la
remunerazione dell’investitore. Al fine di realizzare il massimo rendimento possibile, l’operatore deve
definire due aspetti fondamentali:
 Il momento più opportuno per realizzare il disinvestimento (timing);
 Il canale di disinvestimento più adeguato.

Qualora l’iniziativa oggetto di investimento abbia successo si disinveste quando, raggiunto il livello di
sviluppo previsto, si ha un incremento del valore della società e quindi della partecipazione. Al contrario,
nell’eventualità che l’iniziativa fallisca, il disinvestimento avviene quando matura la convinzione che non è
più possibile risolvere la situazione di crisi venutasi a creare.

Per quanto attiene ai canali attraverso i quali gli investitori cedono le loro partecipazioni, si possono
individuare le seguenti categorie:
 Initial Public Offering (IPO): venduta delle azioni sul mercato borsistico mediante un’offerta
pubblica;
 Trade sale: cessione della partecipazione a un nuovo socio di natura industriale;
 Buy Back: riacquisto delle azioni da parte del socio originario;
 Secondary Buy Out: cessione della partecipazione a un altro operatore di private equity;
 Write Off: abbattimento del valore delle azioni a seguito della perdita di valore delle stesse.

L’initial public offering: IPO.


Tra i vari canali di disinvestimento rappresenta quello più ambito dagli operatori di private equity.
Considerando che in borsa è possibile collocare anche una minoranza del capitale dell’impresa, ciò
comporta indubbi vantaggi in quando l’investitore può cedere con profitto il proprio pacchetto azionario e
mantiene il controllo della società.
Per poter accedere al mercato borsistico un’azienda deve avere un insieme di caratteristiche organizzative e
finanziarie, quali la capacità di generare liquidità, un trend di crescita storico e concrete prospettive di
sviluppo futuro, credibilità, trasparenza e maturità manageriale.
L’accesso al mercato regolamentato contribuisce, almeno in via potenziale, a creare valore per gli azionisti, a
garantire una maggior liquidità all’investimento e a reperire risorse per l’ulteriore sviluppo dell’impresa. Si
tratta, dunque, di una scelta di tipo strategico di primaria importanza che coinvolge tutta l’attività aziendale,
l’assetto proprietario e manageriale e i rapporti con clienti e fornitori.

È di fondamentale importanza scegliere il momento più adatto per lanciare l’offerta pubblica di vendita. Tale
scelta dipende da un duplice ordine di fattori: il primo afferente alla congiuntura attraversta dal mercato
azionario, il secondo legato alla situazione di sviluppo dell’impresa.
Dal punto di vista dell’impresa, la quotazione può essere realizzata a prezzi convenienti solo se l’azienda ha
raggiunto adeguati livelli di fatturato e utile.
Dal punto di vista di mercato è bene lanciare offerte pubbliche di vendita nelle fasi di espansione, poiché il
risparmiatore sarà più propenso a investire in titoli azionari e i titoli stessi avranno una valutazione
superiore.
Collocandosi sul mercato prima di aver raggiunto i risultati consolidati, il titolo sarà sopravvalutato e,
dunque, i risparmiatori rischiano un successivo ridimensionamento delle quotazioni. Nel caso contrario, se
l’impresa posticipa la quotazione c’è il rischio di una minor redditività per gli investitori, dato che
quest’ultima risulta negativamente correlata al tempo di permanenza della partecipazione in portafoglio.
Un’altra problematica è rappresentata dalla scelta del mercato nel quale l’impresa collocherà i propri titoli.
A tal fine risulta opportuno tenere in considerazione una serie di fattori inerenti al mercato quali i tempi e i
costi di quotazione e permanenza sullo stesso, la localizzazione geografica e le eventuali connessioni con
altri mercati,m la dimensione, l’immagine di efficienza e trasparenza, ecc..

Deciso quindi il momento più opportuno per lanciare un’IPO è necessario che l’operazione si concretizzi in
tempi brevi al fine di evitare un possibile sfasamento tra l’andamento del mercato previsto in fase di
progettazione e quello effettivo al momento della quotazione.
Un altro contributo alla credibilità e all’immagine a livello internazionale è fornito dalla dimensione del
mercato. Essa influenza la capacità dell’azienda di attrarre capitale e raccogliere risorse finanziarie
professionalmente qualificate.
Un altro elemento che favorisce la raccolta di risorse finanziarie provenienti da investitori altamente
qualificati è costituito dall’immagine di efficienza e trasparenza del mercato.
Infine, bisogna considerare l’eventuale specializzazione di alcuni mercati. Le specializzazioni che un mercato
finanziario può presentare sono principalmente di due tipologie: dimensionali e settoriali. Per la prima vi
sono molti mercati che ammettono solo imprese di piccole e medie dimensioni. La seconda fornisce
ulteriori vantaggi quali il consolidamento dell’immagine dell’impresa e la connessa opportunità di trovare
più agevolmente nuovi partner nel suo stesso settore.

Per quando riguarda Borsa Italiana è previsto un incontro preliminare, dove la società presenta il progetto.
Accettato il progetto, si procede all’individuazione di alcuni soggetti quali l’advisor, lo sponsor, il global
coordinator, la società di comunicazione, i consulenti legali. Successivamente viene avviata l’attività di due
diligence.
A questo punto è possibile presentare la domanda di ammissione alla quotazione e dovrà essere pubblicato
il prospetto informativo precedentemente redatto.
Subito dopo sarà avviata un’attività di pre-marketing, al fine di verificare l’interesse da parte di eventuali
investitori al collocamento, le cui caratteristiche vengono ora definite nel dettaglio. Verranno poi promossi
una serie di incontri con i potenziali investitori e con gli analisti finanziari per presentare loro le
caratteristiche del progetto di quotazione.
La fase successiva è rappresentata dal pricing dell’operazione.
Infine, i titoli verranno collocati sul mercato attraverso un’offerta pubblica di vendita e da questo momento
verranno avviate le negoziazioni.
Il trade sale.
Molti disinvestimenti avvengono tramite operazioni di trade sale, che prevedono la vendita della
partecipazione ad un acquirente industriale con presumibili obiettivi strategici. Occorre trovare un partner
che possa assicurare lo sviluppo della società partecipata tramite apporto di capitali, sinergie industriali e
commerciali, management operativo e capacità di pianificazione strategica.
La transazione può essere regolata per contanti (cash sale) oppure attraverso uno scambio di titoli (stock
deal).
La trattativa può avvenire attraverso due principali modalità: la trattativa privata e l’asta competitiva.
Nella prima è lo stesso investitore che ricerca e seleziona il potenziale acquirente. Questa modalità di
vendita è una delle più veloci e consente all’operatore di private equity di cedere la partecipazione in tempi
brevi.
Qualora non si abbia un’idea precisa di chi possano essere i potenziali acquirenti si può far ricorso a un’asta
competitiva. Questa seconda tipologia viene utilizzata soprattutto nei mercati maggiormente evoluti e
prevede un elevato grado di formalità della procedura.
In primo luogo, occorre individuare un advisor specializzato, che si occuperà in primis di annunciare
l’operazione sul mercato e in secundis di individuare una rosa di candidati ai quali verrà inviato l’information
memorandum. A questo punto i potenziali acquirenti dovranno riconfermare il loro interesse nei confronti
dell’operazione proposta, formulando le prime offerte di prezzo non vincolanti. In questa fase molti
abbandoneranno il processo. Selezionati alcuni acquirenti che passeranno alla fase successiva, si passa
all’incontro con i manager e a una visita in azienda. Avranno accesso al data room e avranno l’opportunità di
svolgere la due diligence. In seguito verrà avviata la fase di negoziazione con un’unica controparte.
La cessione mediante asta permette al venditore di massimizzare il prezzo di cessione grazie al confronto di
più offerte alternative. Uno svantaggio non trascurabile risiede nella necessità di fornire informazioni su dati
delicati a un considerevole numero di soggetti.
L’asta competitiva coinvolte un arco temporale di circa 4/6 mesi.

Il ricorso al trade sale presenta alcuni vantaggi:


 Prezzo maggiore, dovuto al premio per le sinergie;
 Liquidazione del 100% della partecipazione posseduta;
 Più economico, più rapido e più semplice rispetto a un’IPO;
 Necessità di convincere un solo investitore.
Svantaggi:
 Eventuale opposizione da parte del management;
 Difficoltà a trovare il trade buyer;
 Mancata concessione delle garanzie richieste.

Il buy back.
Attraverso questa modalità il gruppo imprenditoriale originario riacquista il pacchetto azionario di cui era in
possesso prima che l’operatore di private equity investisse nella società.
Questa forma di disinvestimento, in genere, è prevista contrattualmente. Si tratta di un’opzione call con la
quale l’imprenditore ha la facoltà di acquistare le azioni o, in alternativa, di un’opzione put che dà la
possibilità all’investitore istituzionale di vendere la propria quota e che obbliga il gruppo imprenditoriale ad
acquistarla.
Solitamente, anche se non viene stabilito un prezzo sin dall’inizio, vengono quantomeno definiti i parametri
che saranno utilizzati per valutare la partecipazione, così da non penalizzare l’investitore rispetto ad altri
canali di uscita.
Il ricorso al buy back, se non previsto inizialmente, può essere dovuto a performance insoddisfacenti, tali da
rendere l’impresa scarsamente attraente agli occhi dei potenziali acquirenti.

Il secondary buy out.


Un canale di uscita, in passato poco utilizzato ma che attualmente sta riscuotendo sempre maggior
successo, è rappresentato dalla cessione della quota azionaria ad un altro operatore di private equity. In
questo caso l’acquirente non è un investitore industriale ma finanziario.
Tale eventualità può dipendere da un deterioramento nei rapporti tra investitore, da un lato, e imprenditore
e managers, dall’altro. Pur non essendo ancora il momento più opportuno per cedere la partecipazione,
l’operatore di private equity si trova costretto a farlo.
Il replacement, inoltre, può essere necessario qualora si sia conclusa una particolare fase del ciclo di vita
dell’impresa e vi sia per quest’ultima l’esigenza di proseguire con nuovo partner.
Differente è l’eventualità in cui oggetto della cessione è una quota di maggioranza o l’intera azienda. E in
questo caso che si parla di vere e prorie operazioni di secondary buy out. Tale forma di disinvestimento può
prevedere anch’essa una procedura d’asta oltre alla vendita privata.
Vi si ricorre quando, da un lato, l’operatore di private equity decide di capitalizzare il proprio investimento
ritenendo conclusa la propria partecipazione nell’impresa e, dall’altro, l’azienda non è ancora pronta per la
quotazione ma necessita ancora di nuovi capitali e conoscenze per proseguire il processo di crescita.

Gli attori principali coinvolti in un secondary buy out sono i seguenti:


 La newco;
 Il management della società;
 L’investitore originario;
 Il nuovo operatore di private equity;
 I fornitori di capitale di debito;
 La target company.

Il write off.
Rappresenta un ultimo canale di uscita. Consiste nella diminuzione (in caso di write off parziale) o
nell’azzeramento (in caso di write off totale) della partecipazione detenuta dall’investitore di private equity.
Non si tratta di una vera e propria modalità di dismissione in quanto il pacchetto azionario non viene né
ceduto né venduto ad altri soggetti. Inoltre il write off non avviene a seguito di una decisione da parte
dll’investitore, ma è dovuto alla perdita di valore delle azioni.
La partecipazione, quindi, viene svalutata parzialmente o integralmente dal punto di vista contabile.
Con il write off l’investitore istituzionale non dismette la propria partecipazione monetizzando il proprio
investimento, al contrario dovrà registrare in bilancio la riduzione di valore della stessa.

CAPITOLO 7: Il private equity e il fenomeno delle economie distrettuali.

Dai distretti alle reti.


I distretti industriali si sono sviluppati in Italia tra anni ’60 e ’70, soprattutto nelle regioni del centro e del
nord est e hanno rappresentato sin dall’inizio una risposta efficace alla crisi delle tradizionali strutture
produttive di stampo fordista che avevano dominato fino ad allora. il modello fordista della grande
organizzazione integrata verticalmente entra in crisi nel momento in cui l’ambiente esterno non è più
prevedibile e in qualche modo controllabile, la domanda è satura e costringe l’azienda ad attuare una
produzione più diversificata e di qualità per rimanere competitiva.
La crisi del modello fordista genera quindi lo sviluppo di imprese autonome in grado di uscire dai vincoli di
dipendenza nei confronti della grande impresa. È proprio in questo contesto che molti distretti industriali si
sviluppano, cominciano a crescere le cosiddette aree di industrializzazione leggera, caratterizzate da
imprese di piccola e piccolissima dimensione che continueranno ad espandersi nel ventennio successivo. La
specializzazione produttiva si incentra nei settori tradizionali a basso contenuto tecnologico ed alto impiego
di manodopera specializzata: tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria, conceria, meccanica e
elettromeccanica.

Il numero di distretti industriali è cresciuto durante il miracolo economico. Un significativo sviluppo si è


riscontrato anche nei decenni successivi, quando il sistema economico ha rallentato la corsa. Negli anni ’80
e ’90 i distretti si sono espansi anche nel Sud del paese.
Grazie alla loro flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti economici, tali realtà hanno cominciato a crescere
anche in controtendenza con l’economia del Paese. In circa quarant’anni il nuovo modello di capitalismo ha
quindi saputo portare l’Italia fuori dalla crisi del Fordismo. Per lungo tempo i distretti hanno garantito le
buone performance di un’industria italiana perlopiù priva della grande impresa, dominata da soggetti di
piccole dimensioni e specializzata in beni considerati tradizionali o maturi.

Gli effetti della globalizzazione e le problematiche dell’economia negli anni più recenti hanno evidenziato
punti di debolezza del modello distrettuale italiano. Dopo un periodo di costante crescita i distretti si sono
trovati nella fase di maturità ad un bivio tra rivitalizzazione e crisi.
Il modello distrettuale ha manifestato limiti organizzativi e competitivi. secondo alcuni osservatori, il
modello non favorisce gli investimenti per l’innovazione e per la ricerca, è debole nella commercializzazione
di beni e servizi a livello mondiale, poco ricettivo ad avviare sinergie e joint-venture con altre imprese.
Per anni questo sistema ha sorretto lo sviluppo del sistema industriale italiano, ma le reti locali ed aziendali
si stanno modificando in risposta al mutamento dei mercati, più difficili da presidiare e conquistare.

La presenza di produttori low-cost sempre più forti ed aggressivi impone alle aziende distrettuali di investire
in innovazione, marchi, qualità e linee globali di approvvigionamento, produzione e vendita, attuando
strategie di decentramento e ricercando sinergie con altre imprese non solo a livello locale.
Per queste ragioni, il tradizionale distretto industriale, rete settoriale localizzata entro confini ristretti, si sta
evolvendo verso una nuova forma di rete che, pur mantenendo le radici nel territorio di origine, ha sempre
più carattere trans-settoriale e trans-territoriale.
La rete consente di distribuire nella filiera tra più imprese e tra più persone i costi, i rischi e il fabbisogno
finanziario dell’investimento in conoscenze e in assets materiali, riducendo moltissimo le barriere
all’ingresso per nuove iniziative imprenditoriali e nuovi specialisti. La rete inoltre consente di realizzare
innovazioni di sistema perché investimento, rischi e competenze specializzate sono distribuite tra tanti
micro-innovatori consentendo a ciascuno di essi di affrontare problemi che sono a misura della sua
esperienza, della sua finanza e della sua disponibilità a rischiare.
La rete è il modo più rapido e flessibile per accedere alle conoscenze e alle competenze esterne che spesso
le singole imprese, specie se di piccola dimensione, non possiedono direttamente.

I distretti industriali: le sfide dell’innovazione e dell’internazionalizzazione.


A seguito dei processi di globalizzazione, il contesto economico di riferimento e l’ambiente competitivo
dove le imprese e i distretti si trovano ad operare è quindi profondamente mutato. Si può parlare di una
nuova economia mondiale caratterizzata da cinque principali aspetti:
 La crescente centralità delle reti finanziarie, che rivestono oggi un ruolo più importante di quello
assunto dalle stesse strutture produttive;
 La crescente importanza dell’economia della conoscenza, non più assimilabile ad un semplice
fattore produttivo come capitale o lavoro, bensì vero e proprio vettore di competitività;
 L’internazionalizzazione della tecnologia che si traduce nella diffusione di standard e di know-how e
nell’utilizzo generalizzato di alcuni processi;
 La diffusione di oligopoli transnazionali;
 Lo sviluppo di un orientamento globale delle strategie economiche nazionali.

La globalizzazione rappresenta, da un lato, un irreversibile processo di integrazione mirato ad un incremento


degli scambi internazionali, alla nascita di imprese multinazionali e alla creazione del cosiddetto mercato
globale, dall’altra significa radicamento territoriale.
Ha innescato a sua volta alcuni importanti mutamenti di scenario riconducibili a tre fenomeni tra loro
correlati:
 l’emergere di nuovi protagonisti nella competizione internazionale;
 l’accentuarsi dei meccanismi di divisione del lavoro;
 la riduzione di barriere alla comunicazione, alla mobilità e al commercio.

Imprese distrettuali e non distrettuali a confronto.


Nel 2011, sulla base delle proiezioni dei ricercatori, il fatturato dei distretti dovrebbe avere sperimentato un
aumento dell’8,5% a prezzi correnti, mezzo punto percentuali in più rispetto alle aree non distrettuali.
Sembra pertanto che le imprese distrettuali abbiano saputo approfittare in modo più intenso della
domanda mondiale a fronte di una domanda interna rimasta debole.
I distretti che ottengono i migliori risultati di crescita e redditività sono quelli in cui il territorio continua ad
offrire esternalità sul piano manifatturiero, fornendo capitale umano e servizi avanzati.
Emerge anche la maggior propensione a innovare delle imprese distrettuali rispetto a quelle non
distrettuali.
Per quanto riguarda gli investimenti diretti all’estero, emerge una maggiore propensione a investire
all’estero delle imprese distrettuali, che a inizio 2009 avevano 25 imprese partecipate ogni 100, contro le 16
nelle aree distrettuali a parità di specializzazione produttiva e a 21,4 nella media manifatturiera.

La ricerca evidenzia una certa capacità delle imprese distrettuali di reagire ai cambiamenti e una maggiore
propensione a creare nuova conoscenza sulla base della ricombinazione di conoscenze precedenti.

Vincoli finanziari allo sviluppo.


Il sistema industriale italiano è caratterizzato dalla piccola e media dimensione d’impresa.
Il vincolo finanziario può rappresentare un ostacolo significativo per le imprese nel loro percorso di sviluppo,
anche per quelle con un alto potenziale. Le modalità di finanziamento delle piccole e medie imprese italiane
presentano due caratteristiche di fondo: la prevalenza del ricorso all’autofinanziamento e al credito
bancario e l’eccessiva dipendenza del debito bancario e breve termine.
Nella gerarchia delle fonti di finanziamento le PMI italiane attribuiscono importanza prioritaria alle fonti
interne. In un sistema capitalistico in cui la separazione fra proprietà e controllo è praticamente inesistente,
l’autofinanziamento prevale sul conferimento soci tramite aumento di capitale. Vi è una forte propensione
da parte degli imprenditori ad investire in azienda i flussi di cassa generati dalla gestione corrente.
In secondo luogo, l’apporto del credito bancario appare fondamentale per il sostegno della PMI. I debiti
finanziari verso le banche rappresentano oltre un terzo delle passività complessive per le imprese di piccola
e media dimensione e si caratterizzano per l’assoluta prevalenza del debito bancario a breve termine, che
rappresenta oltre i tre quarti del debito complessivo. Le PMI sembrano dunque sotto dotate di risorse
finanziarie stabili e più esposte alla variabilità dei tassi a breve e alle fluttuazioni dl ciclo economico.
La progressiva apertura dei distretti verso l’esterno e la maggiore attenzione agli aspetti non manifatturieri
dell’attività d’impresa, sommati alla focalizzazione sulle fasi innovative, organizzative e distributive, si
possono tradurre in un cambiamento dei fabbisogni finanziari delle imprese. Il mantenimento di un buon
equilibrio tra la durata delle fonti di finanziamento e quella degli impieghi richiede infatti un prolungamento
della scadenza dei debiti finanziari. Questo si traduce a sua volta nel cambiamento del servizio richiesto ai
soggetti terzi.
Per queste ragioni le banche locali dovranno valorizzare il loro patrimonio informativo accumulato
investendo in alleanze strategiche ed in nuovi assetti organizzativi.
I grandi gruppi bancari, invece, dovranno muoversi in un ambiente più complesso che porta ad un
progressivo decentramento a livello funzionale, dovranno agire con maggiore incisività per rafforzare il
ruolo di interlocutori privilegiati con le imprese.
La crisi ha acuito i fabbisogni di circolante e la volatilità di ricavi e margini ha reso ancora più instabili i
finanziamenti dal sistema bancario, prevalentemente a breve e concentrati su fonti auto liquidanti, con i
conseguenti effetti sull’equilibrio finanziario.

Un rischio per la competitività delle imprese distrettuali è proprio quello della sensibile riduzione degli
investimenti materiali e immateriali, con ricadute pericolose nel percorso di riconfigurazione e
rinnovamento.
Una più adeguata patrimonializzazione delle imprese “leader”, con apporti di nuovo capitale di sviluppo,
può consentire non solo a queste di accelerare il loro percorso di crescita, ma anche di avere benefici effetti
per le imprese minori del distretto che interagiscono con loro.

Il ruolo del Private Equity.


Il Private Equity può essere un veicolo importante per permettere ad imprese anche di minori dimensioni,
dotate di competenze distintive di accelerare il loro processo di crescita e di internazionalizzazione.
L’investitore professionale oltre a fornire nuove risorse finanziarie sotto forma di nuovi apporti di capitale
proprio, talora accompagnate da fonti di finanziamento ibride come prestiti obbligazionari convertibili, può
aiutare l’impresa con il proprio bagaglio di esperienze e conoscenze nonché di relazioni a livello
internazionale e soprattutto internazionale. Spesso le imprese di minori dimensioni sono titubanti nel
perseguire con decisione processi di internazionalizzazione ed innovazione, non solo per la carenza di
capitale idoneo ad investimento con rischio più elevato, ma soprattutto per la carenza di esperienze,
relazioni e competenze manageriali.

All’operatore del capitale di rischio sono richiesti un maggior “coinvolgimento” nel processo strategico
aziendale e competenze maturate nel settore di operatività dell’impresa.
I principali vantaggi per l’impresa target che l’investitore istituzionale può dare sono così sintetizzabili:
 collaborazione nel tracciare una strategia di sviluppo e nel perseguirla;
 maggiore funzionalità della compagine sociale;
 un contributo alla realizzazione di una gestione più professionale e manageriale dell’azienda target;
 crescita del potere contrattuale dell’impresa;
 miglioramento dell’immagine dell’impresa nei confronti delle banche e del mercato finanziario;
 maggior capacità di attrarre management capace ed esperto;
 esperienza in tema di eventuale accompagnamento alla quotazione.

Si tratta di competenze non solo finanziarie che non sempre sono presenti nei team di gestione dei fondi ma
che possono essere cruciali per l’individuazione di opportunità profittevoli e per la loro gestione.
Il ruolo positivo che l’investimento di un fondo di Private Equity può avere sullo sviluppo delle imprese
target è evidenziato da alcune analisi che hanno comparato indicatori di performance delle aziende
venture-backed rispetto ad un benchmark di riferimento.

Opportunità e problematiche per l’investimento nelle imprese distrettuali.


La tipologia degli investimenti di cui maggiormente le imprese distrettuali hanno necessità sono
caratterizzati da elevata incertezza e come tali necessitano di ingenti fabbisogni di capitale.
Il capitale dovrebbe rispettare alcune caratteristiche essenziali: essere disposto ad assumere elevati gradi di
rischio, essere portatore di conoscenze rilevanti per gli investimenti, non richiedere ritorni nel breve
periodo. Si tratta quindi di capitale di sviluppo e non di mantenimento o di reintegro di squilibri
patrimoniali, di capitale “scoperto”, nella misura in cui il suo reintegro non è “coperto” da capacità di
reddito di investimenti già in essere.
Quanto alle conoscenze rilevanti il tema è legato alle asimmetrie informative nella fase antecedente
l’investimento con i collegati rischi di adverse selection e nella fase successiva, con i rischi di moral hazard
da cui il finanziatore cerca di tutelarsi con le attività di monitoring.
Il capitale per finanziare progetti innovativi non deve pretendere ritorni nel breve periodo essendo
estremamente difficile predeterminare i tempi di ritorno. Tali caratteristiche del capitale paiono compatibili
con il profilo di operazioni di expansion capital che può fornire il private equity.

Ma quali sono i benefici e i vantaggi del private equity nell’investire in un’impresa distrettuale?

In un articolo di Amit, Brander e Zott cercano di spiegare l’esistenza dei venture capitalist.
Le implicazioni di tale modello sono principalmente due:
 i venture capitalist operano in contesti dove la loro efficienza relativa nel selezionare e monitorare
gli investimenti e fornire servizi di incremento di valore dà loro un vantaggio comparativo rispetto
agli altri investitori;
 all’interno della classe dei progetti dove i venture capitalist hanno un vantaggio essi preferiranno
quei progetti dove selezione, monitoraggio e costi di servizi sono relativamente bassi o dove i costi
delle asimmetrie informative sono meno severi.

Sulla base delle implicazioni di Amit-Brander-Zott i distretti industriali possono essere proposti come
investitori in cui i venture capitalist potrebbero affermare il proprio vantaggio competitivo?

Le modeste dimensioni delle imprese distrettuali e l’incertezza che si ricollega agli investimenti di sviluppo
rendono ancora più acuti i problemi di selezione avversa e azzardo morale del mercato del credito.
Se analizziamo la situazione delle piccole e medie imprese all’interno del sistema distrettuale i costi delle
asimmetrie informative risultano ridotti.
Nella selezione dell’investimento gli investitori sono rassicurati dall’esperienze e dall’efficienza produttiva
con cui nel tempo le imprese distrettuali si sono andate affermando. A ciò si aggiunge il continuo flusso di
informazioni e di conoscenze che attraversa il sistema distrettuale e facilita lo screening delle proposte
attribuendo una maggiore visibilità alle imprese con potenzialità di leader.
La struttura socio-economico-informativa del distretto può esercitare quindi effetti positivi o negativi sul
processo di investimento.

CAPITOLO 8: L’applicazione dei metodi di valutazione aziendale nelle operazioni di private equity.

Metodi finanziari: il discounted cash flow.


I metodi finanziari consistono nell’attualizzazione dei flussi di cassa positivi e negativi attesi da parte
dell’azienda oggetto di valutazione in un certo arco di tempi.
Essi, pur essendo abbastanza razionali, presentano un notevole grado di incertezza e soggettività in quanto
prevedere i flussi di cassa è un’operazione alquanto ardua e difficile.
Il principio che alimenta il modello finanziario si può sintetizzare nella seguente relazione:

V = f (FC)

Dove:
V = Valore economico del capitale d’azienda;
FC = Flussi di cassa attesi dalla normale gestione aziendale.

Se ci fosse la possibilità di stimare ragionevolmente i flussi di dividendi in una prospettiva infinita il modello
DDM (Dividend Discount Model) sarebbe quello preferibile.
Il valore delle azioni al tempo 0 (P0) è infatti determinabile in funzione del valore dei dividendi attesi al
tempo 1 (Div1) oltre al valore dell’azione al tempo 1 (P1) attualizzato secondo il costo opportunità del
capitale proprio.

P0 = Div1 + P1 / 1 + i

L’azionista infatti avrà come rendimento atteso il dividendo e il capital-gain.


A sua volta però:

P1 = Div2 + P2 / 1 + i

E così di seguito.

Per n che tende ad infinito il valore delle azioni è dato da:

P0 = Ʃ Divt / (1 + i)t

Il valore delle azioni è quindi secondo tale approccio uguale al valore attuale di un flusso perpetuo di
dividendi in quanto per n che tende all’infinito, il valore finale dell’azione tenderà a 0.

Ma in una prospettiva temporale finita il DDM risulta poco affidabile in quanto i dividendi a breve termine
non costituiscono una base affidabile per prevedere i dividendi futuri, anche per le scelte che l’impresa può
fare e che ne possono limitare la correlazione con i flussi di cassa creati. Il valore dl capitale netto di
un’impresa sarà più correttamente stimato dai flussi di cassa per l’azionista (FCFE) in quanto l’azionista potrà
reclamare tali flussi di cassa.

Secondo il famoso investitore Warren Buffet “non si acquistano le azioni, ma il business sottostante”.
Per tali ragioni nella valutazione vengono in genere preferiti i metodi basati sui flussi di cassa per analizzare
l’investimento che sarà in grado di generare in futuro. Da questa concezione derivano alcune alternative
concrete del metodo.
I metodi maggiormente utilizzati sono:
 il metodo dei flussi monetari complessivi disponibili (approccio equity-side);
 il metodo degli Unlevered Discounted Cash Flow (approccio asset-side).
La valutazione con tali metodologie ha tra i suoi vantaggi quello di richiedere una profonda conoscenza e
comprensione dell’azienda, e una ricerca attenta sulla sostenibilità futura dei flussi di cassa e della loro
rischiosità, mentre tra i suoi limiti si può considerare il rischio di manipolazione dei dati di input.
Nella valutazione delle imprese non finanziarie prevale l’utilizzo dell’approccio asset-side in cui viene
stimato l’Enterprise Value, cui viene poi sommata la Posizione Finanziaria Netta per addivenire al valore del
capitale proprio.

I flussi di cassa ed il Terminal Value.


Uno schema per la determinazione del flusso monetario della gestione caratteristica, FCFF è il seguente,
partendo dal margine operativo lordo (MOL o EBITDA).

EBITDA
- imposte pagate sul reddito operativo
-/+ Variazione dei Fondi rischi
+/- Capitale circolante operativo
- Investimenti operativi
+ disinvestimenti operativi
= Unlevered Free Cash Flow

Sul piano teorico il modello è certamente il più razionale, ma sul piano pratico si possono riscontrare
numerose difficoltà. È il caso delle imprese di piccola o media dimensione, che mancano di un modello di
pianificazione affidabile.
Nell’utilizzo di tale metodologia, particolare attenzione va poi posta al peso che può assumere il valore
terminale, esaminando il flusso considerato “normale”, se è stato ipotizzato e in che misura un tasso di
crescita perpetua (g) di flussi di cassa, oltre alla corretta determinazione del tasso di attualizzazione in
funzione del rischio.
Il modello più coerente con il modello per la determinazione del valore terminale è quello che utilizza il
FCFF normalizzato atteso dopo il periodo di previsione esplicita.

È infatti indubbio che il DCF (Discounted Cash Flow) debba ricorrere ad un processo di normalizzazione dei
flussi di cassa, operazione esposta alle stesse stime soggettive riscontrabili nella determinazione di costi e
ricavi. Il tasso di errore risiede principalmente nella difficoltà di distinguere tra componenti transitorie e
permanenti dei flussi di cassa attesi nel periodo di previsione esplicita.
L’applicazione del DCF senza porre la massima attenzione ai flussi di cassa da considerare dopo il periodo
esplicito di previsione può portare a sopravvalutare aziende che, per migliorare il loro cash flow a breve,
riducono il fabbisogno per investimenti, con effetti negativi sulla loro competitività futura.

Quanto al tasso di crescita stabile (g), devono essere attentamente considerati:


 il tasso di crescita dell’economia;
 le prospettive del settore;
 le prospettive di crescita reddituale dell’azienda.

Una metodologia che considera le necessità di reinvestimento per sostenere la crescita è quella proposta da
Damodaran che lo stima sulla base di due variabili determinanti:
 il tasso di reinvestimento degli utili;
 il rendimento di tali investimenti.
Nell’approccio equity-side g è dato dal tasso di reinvestimento degli utili e dal ROE ottenuto investendo tali
risorse:

g = ROE x Tasso di reinvestimento degli utili

nell’approccio asset-side g è dato invece dal prodotto tra il tasso di reinvestimento ed il ROIC (Return On
Invested Capital) di tali investimenti.

g = ROIC x Tasso di reinvestimento del NOPAT

Il tasso di attualizzazione.
Nei metodi finanziari assume specifica rilevanza la stima del tasso di sconto per le conseguenze che esso
comporta nei confronti dl valore attuale dell’azienda oggetto di valutazione.
La dottrina aziendale ritiene che la scelta dei tassi debba essere:
 razionale, cioè ispirata ad uno schema logico, chiaro e convincente;
 coerente con i flussi di risultato atteso;
 affidabile, nel senso che devono essere ridotti al minimo gli ambiti di discrezionalità dell’esperto;
 verificabile, cioè ripercorribile nelle sue componenti.

Ovviamente la scelta del tasso deve essere funzionale del metodo finanziario applicato (un/levered).
La modalità levered perviene alla valutazione del capitale azionario mediante l’attualizzazione dei flussi di
competenza dei soli azionisti, ad un tasso che rappresenta il costo del capitale proprio (Ke) che esprime il
rendimento richiesto dai soli conferenti del capitale di rischio.
La modalità unlevered che perviene alla determinazione dell’Enterprise Value sconterà i flussi in base al
WACC, ovvero una media ponderata tra il costo del capitale proprio ed il costo del debito.
La determinazione del costo del capitale proprio (Ke) è uno di principali problemi aperti della finanza
moderna. Le difficoltà di tale stima risiedono nel fatto che non si tratta di un dato certo, ma di “costo-
opportunità”.

WACC = Kd (1 – t) (D/D+E) + Ke (E/D+E)

Tra i principali modelli di stima del costo del capitale proprio il CAPM è il più utilizzato anche se ne è stata
dimostrata la debolezza nello spiegare i saggi della redditività delle azioni.
La recente crisi ha evidenziato come dipendendo dalle osservazioni dei corsi azionari storici può non
catturare il rischio in periodi di grandi cambiamenti. Il suo successo è, invece, legato alla facilità d’uso. È
infatti un modello lineare, mono fattoriale, che consente di risalire al costo del capitale proprio con relativa
facilità.

Ke = Rf + Beta (Rm + Rf)

Dove:
r: risk premium;
Beta: coefficient beta;
Rm: rendimento generale medio del mercato azionario;
Rf: risk free rate.

Il risk free rate (Rf) rappresenta il premio che spetta a colui che rinuncia a disporre del capitale per un
determinato periodo di tempo.
La seconda componente è il premio per il rischio di mercato sopportato per compiere l’investimento. In
generale l’altezza del premio per il rischio varia in funzione di due elementi fondamentali: la rischiosità del
settore e la rischiosità dell’azienda.
La terza componente è rappresentata dal coefficiente beta che misura la rischiosità specifica della singola
azienda. Il beta è una misura del grado di rischio dell’azione e le aziende con elevato beta sono considerate
molto rischiose.

Gli elementi fondamentali di cui si costituisce il beta sono:


 la ciclicità di business in cui opera l’azienda;
 il grado di leva operativa;
 il grado di leva finanziaria.
Maggiore è la ciclicità dl business e maggiore risulterà essere il suo grado di rischio e di conseguenza si
osserverà un beta più alto.
Un’azienda in un settore caratterizzato da elevati costi fissi è sicuramente più rischiosa di una presente in un
settore dove l’incidenza dei costi fissi non è invece elevata (grado di leva operativa).
Inoltre l’incremento dell’indebitamento è un ulteriore elemento che può rendere rigida la struttura dei costi
e può incrementare il rischio per l’azienda determinando un maggior beta a parità di condizioni.

La posizione finanziaria netta.


Nei metodi unlevered si perviene quindi ad un Enterprise Value, a cui viene sommata la posizione
finanziaria netta (PFN). Essa viene intesa come la differenza tra l’ammontare delle disponibilità liquide e di
debiti finanziari a breve termine.

PFN = Cassa – Debiti Finanziari (a breve/lungo termine)

Nella composizione della PFN si considerano le tipologie di finanziamento, le fonti di finanziamento e le


scadenze dei debiti a valori contabili.
Importanza rilevante nel processo di determinazione della PFN è rivestita dal ruolo dei “Debt Like Items”,
elementi che pur non essendo rappresentati nel bilancio come tali, sono in realtà debiti finanziari. Essi
comprendono voci di natura diversa e le principali sono:
 Off Balance Sheet Financing: sono impegni finanziari attualmente non espressi in bilancio ma che in
futuro si trasformeranno in uscite di cassa (es. debiti per leasing, per operazioni di sale and lease
back o di factoring, o per debiti derivanti da contratti derivati);
 Debiti scaduti: il mancato pagamento entro le date concordate di debiti operativi migliorano
artificiosamente la PFN;
 Errori di cut-off e classificazione: consistono in errate registrazioni contabili o di classificazione in
bilancio di poste aventi natura finanziaria, il cui effetto produce un miglioramento nella
quantificazione della PFN.

I metodi basati sui multipli.


In sintesi il metodo dei multipli presenta alcuni vantaggi:
 Facilità di applicazione;
 Facilità di comparazione;
 Attenzione ai valori di mercato ma anche alcuni limiti;
 Difficoltà nell’identificare reali “comparables”.
Tale metodologia è quella più utilizzata nelle operazioni di private equity. Le ragioni principali della sua larga
diffusione sono riconducibili principalmente alla sua immediatezza, alla facile identificabilità dei parametri,
alla disponibilità da parte degli operatori finanziari di banche dati con numerose transazioni comparabili, ed
alla sua maggiore aderenza ai prezzi correnti di mercato.
Tale valutazione richiede meno ipotesi e può essere eseguita più velocemente di una basata sui flussi di
cassa attualizzati, è più facile da comprendere oltre che da presentare e spiegare.

I punti di forza di tali metodi sono anche i suoi punti di debolezza. La facilità con cui essa può essere
realizzata, può avere come risultato determinazioni del valore poco coerenti, in cui variabili quali il rischio, la
crescita o i flussi di cassa potenziali dell’impresa da valutare non vengono prese in considerazione,
utilizzando valori medi che non sono aderenti alla realtà aziendale.
Oltre alla difficoltà di individuare reali comparable, ed alla irrazionalità e volatilità di alcune quotazioni su
cui vengono calcolati i multipli medi vi sono anche difficoltà di applicazione in particolari fasi evolutive
aziendali (start-up e ristrutturazione) e problematiche legate a valutazioni non univoche di quote di capitale.

L’utilizzo dei multipli come metodo principale e non come metodo di controllo è quindi da considerarsi non
auspicabile anche se così diffuso.
Il valore dell’azienda viene stimato attraverso l’ausilio dei cosiddetti multipli, cio a rapporti tra prezzo di
borsa ed una variabile economica relativi ad una o più aziende similari. Applicando alla medesima variabile
economica riferita all’azienda oggetto di valutazione, il multiplo prescelto, si determina il valore dell’azienda
target.

Le ipotesi su cui si fonda l’approccio sono:


 L’omogeneità tra l’azienda oggetto di e quelle scelte per la comparazione, nonché tra le relative
variabili economiche contenute nei multipli;
 La variazione in misura direttamente proporzionale della variabile economica posta al
denominatore nel rapporto rispetto al numeratore dello stesso;
 Risposta tra la dinamica del valore dell’azienda e la dinamica dei prezzi di borsa.

Nella valutazione relativa tramite multipli vi sono tre passaggi fondamentali:


 Trovare società comparabili che abbiano un prezzo di mercato;
 Rapportare il prezzo di mercato ad una variabile comune;
 Effettuare le rettifiche tenendo conto delle differenze tra le varie attività.

Secondo Damodaran esistono quattro passaggi fondamentali da seguire per utilizzarli in modo corretto:
1) Assicurarsi che la definizione del multiplo sia coerente ed esso sia misurato omogeneamente per
tutte le imprese che si stanno mettendo a confronto;
2) Analizzare la distribuzione del multiplo non soltanto tra le imprese del settore oggetto di analisi, ma
anche per l’intero mercato;
3) Analizzare il multiplo per capire non soltanto quali siano i fondamentali dell’impresa che lo
determinano, ma anche come variazioni in cui tali fondamentali si traducano in variazioni del
multiplo stesso;
4) Individuare le imprese effettivamente comparabili a quella di esame e tener conto delle differenze,
che possono persistere tra le stesse.

La scelta dei moltiplicatori deve garantire che ci sia un nesso causale tra quantità aziendale e prezzo, che il
multiplo sia ragionevolmente stabile nel tempo e che siano identificabili gli elementi che possano spiegarne
le differenze nei multipli delle imprese comparabili.

I multipli Equity side più diffusi sono:


 P/E : prezzo / utile netto
 P/FCFE : prezzo / flusso di cassa netto
 P/Book Value : Prezzo/ capitale netto contabile
 P/Div : Prezzo/divividendi

I multipli Asset side più diffusi sono:


 Firm Value/EBIT
 FV/EBITDA
 FV/NOPAT
 FV/FCFF
 FV/Sales

Nel calcolare i multipli dovrà essere compiut una scelta tra


 i multipli trailing (storici) calcolati confrontando i prezzi di mercato con i risultati riferibili all’ultimo
esercizio,
 i multipli leading: ottenuti confrontando il valore corrente di mercato con i risultati attesi per il
prossimo esercizio sulla base delle previsioni di consensus degli analisti finanziari.

Per pervenire al calcolo dei multipli medi o di settore, potràessere necessario effettuare degli aggiustmenti
ai multipli per eliminare cause di disomogeneità derivanti da adattamento a principi e criteri contabili
omogenei, esistenza di proventi o oneri straordinari.

Più in generale si possono effettuare interventi correttivi su numeratore e denominatore (multipli adjusted
o clean)

Uno studio ha dimostrato che per il mercato Italiano il mutuo più efficiente è quello dell’utile per azione
(EPS) ed i multipli leading perfomano meglio rispetto ai multipli trailing.

Esistono anche metodi dei comparables basati su banche dati di M&A.

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