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ROSVITA- LA POETESSA DEGLI IMPERATORI SASSONI

Capitolo primo:

ROSVITA, IL "POTENTE GRIDO" DI GANDERSHEIM

Rosvita entra nella storia della letteratura europea come la prima poetessa medievale
tedesca, nota per i drammi composti in latino su imitazione delle commedie di Terenzio.
Un repertorio singolare per una religione sassone della seconda metà del X secolo. Dopo
il grande entusiasmo suscitato dalla pubblicazione delle sue opere, si ebbe, nella seconda
metà dell'Ottocento, il sospetto che il manoscritto rinvenuto nel monastero di
Sant'Emmerano a Ratisbona, potesse essere un falso; e di conseguenza, solo
un'invenzione la figura della religiosa di Gandersheim, che l'umanista Wilibald Pirckheimer
aveva paragonato a Saffo. La pesante accusa, avanzata da Aschbach, si fondava su una
distorta interpretazione di alcuni passi delle lettere scritte da Theodorich Ulsen, nelle quali
si menzionava una barbara cimbrica, di cui l'umanista sarebbe stato l'inventore. In realtà,
l'autenticità delle produzioni di Rosvita appare un dato certo, grazie al rinvenimento nel
1922 di un secondo manoscritto, contenente i primi 4 drammi, e alla tradizione
indipendente dei Primordia, l'ultima opera di Rosvita che ci è giunta, nella quale c'è un
riferimento alle imprese di Ottone il Grande.

Nell'editio princeps del 1501, Conrad Celtis intervenne e antepose la serie di drammi a
quella delle leggende. L'edizione fu corredata da 8 xilografie non firmate che appaiono
riconducibili ad Albrecht Durer, e alla sua officina. Le prime due illustrazioni riproducono
rispettivamente Conrad Celtis, nell'atto di offrire il libro al principe elettore di Sassonia,
Federico III il Saggio, e Rosvita, mentre porge il codice a Ottone I. La prima edizione fu
realizzata solo nel 1902 da Paul von Winterfeld. La vita di Rosvita va approssimativamente
dal 935 al 973 e sembra essere trascorsa in gran parte nel convento di Gandersheim. La
sua formazione intellettuale avvenne all'interno del cenobio, prima sotto la guida di
Rikkardis e poi con gli insegnamenti della giovane badessa Gerberga II, nipote di Ottone I.

La sua produzione è articolata in tre parti nel Clm14485, il codice di Ratisbona ora a
Monaco, redatto tra la fine del X secolo e gli inizi dell'XI. Il manoscritto sembra offrire
un'edizione completa della opere di Rosvita, suddivise cronologicamente e formalmente in
tre libri. Il primo consta di otto Legendae, poemetti agiografici accompagnati da una
prefazione, due prologhi dedicati alla badessa Gerberga e un epilogo; il secondo contiene
i Dramata, sei dialoghi drammatizzati introdotti da una prefazione e un'Epistola ad alcuni
sapienti, e termina con alcuni versi sull'Apocalisse di Giovanni; il terzo e ultimo libro
comprende i Gesta Ottonis, un epos storico accompagnato da una prefazione per la
badessa Gerberga e un doppio prologo per l'imperatore Ottone il Grande e per il figlio
Ottone II.

Al genere dei carmina historica appartengono anche i Primordia coenobii


Gandesheimensis. I Primordia iniziano con un breve proemio e mancano di una
prefazione. Dalla testimonianza di Enrico Bodo, monaco morto nel 1533, apprendiamo
dell'esistenza di un manoscritto che conteneva anche le Vitae,in esametri, dei papi
Anastasio I e Innocenzo I. L'opera non ci è giunta e la sua perdita potrebbe spiegare
l'assenza, inusuale in Rosvita, di una dedica, prefazione o prologo per i Primordia.

La poetessa si dichiara una donna semplice e fragile, dotata di un talento debole e facile a
smarrirsi, avventurandosi in compiti intellettuali forse più adatti all'intelligenza di un uomo.
Ella si giustifica, dicendo di dover servire Dio, e definendosi Clamor Validus
Gandeshemensis, il "potente grido di Gandersheim", sembra voler offrire una traduzione
latina del proprio nome. Nella Prefazione ai Poemetti agiografici, ovvero al libricino
contenente componimenti in versi sulla Vergine Maria, l'Ascensione e sei passioni di
martiri, Rosvita rivela un evidente intento apologetico. La religiosa si appella alla
benevolenza dei dotti, per chiedere venia degli errori poetici delle composizioni, dovute
alle sue "capacità inadeguate". Afferma inoltre di aver composto le sue Legendae di
nascosto, temendo di venir dissuasa dal continuare. Diversamente da altri autori
medievali, che dichiarano di aver scritto su richiesta di importanti committenti, Rosvita
presenta le sue prime composizioni poetiche come frutto di un'iniziativa personale.
Tuttavia, alla Praefatio del I libro segue anche una breve Dedica a Gerberga. All'epoca
della composizione, sembra che Rosvita non ritenga completa la sua formazione
intellettuale. Nel congedare l'opera, la poetessa oltrepassa le mura del chiostro,
rivolgendosi ad una più ampia cerchia di dotti. L'incipit della Praefatio offre così
un'evidenza dei rapporti di corrispondenza esistenti tra l'abbazia imperiale e la cerchia
degli intellettuali presenti alla corte degli Ottoni nel X secolo.

Il nome di Rosvita potrebbe suggerire un rapporto di parentela tra l'umile suora e la


famiglia reale. Lo status della canonichessa avrebbe permesso alla poetessa di
conservare le proprie ricchezze, disporre di servitori e frequentare la corte, essendo legata
al convento da voti di obbedienza e di castità. Tale condizione spiegherebbe in che modo
la religiosa fosse venuta a conoscenza della vicenda del nobile giovinetto cristiano
martorizzato dal califfo di Cordova. Nell'Epilogo del I libro, la poetessa dichiara infatti di
avere avuto notizia di tale vicenda da un testimone di quella città, ovvero uno degli
ambasciatori del califfo in visita alla corte di Ottone I nel 956. L'abbazia di Gandersheim
ospitava di frequente membri della famiglia imperiale ed era anche una sede deputata
all'educazione delle principesse imperiali.

Nei Gesta Ottonis Rosvita parla di sè come un'umile suora, e una debole donna, appartata
nella solitudine di un tranquillo convento, che non dovrebbe nemmeno conoscere cos'è la
guerra. Sia la Vita Hathumodae di Agio di Corvey, sia la Vita Mathildis antiquior e gli
stessi Primordia di Rosvita, testimoniano l'esistenza di un severo spirito religioso all'interno
del monastero di Gandersheim.

La Prefazione che apre il secondo libro di Rosvita, inizia con un aperto rimprovero nei
confronti di quei cattolici che finiscono per anteporre alle pagine sacre delle Scritture
i fingmenta poetici terenziani. Per tale ragione, Rosvita afferma di aver voluto misurarsi nel
medesimo genere di composizioni, con lo scopo di contrapporre a quelle letture migliori
tematiche, come celebrare la castità di vergini sante. La potenza del grido non
riguarderebbe la fama di Rosvita ma il messaggio da lei affermato. La religiosa confessa di
aver dovuto realmente immaginare la follia di coloro che vivono amori illeciti e la velenosa
dolcezza dei loro discorsi d'amore; e se per vergogna, avesse evitato di farlo, non sarebbe
riuscita a mostrare la vittoria della fragilità femminile sul male e sulla forza dell'uomo.
Rosvita, nel suo imitari dictando è consapevole di non poter competere con la bellezza
della lingua di Terenzio. Tuttavia, ella ha ritenuto necessario non curarsi di possibili
critiche. Il monito verso coloro che si compiacciono di leggere i fingmenta terenziani, è
rivolto proprio alla cerchia degli uomini dotti presenti a corte.

Nell'Epistola , Rosvita impiega i consueti topoi di ficta humilitas , definendosi una piccola
ignorante, incapace di contraccambiare con un degno ringraziamento l'indulgenza a lei
dimostrate da uomini insigni per studio. Dalle parole di gratitudine della religiosa, traspare
il mutamento avvenuto nel suo percorso di scrittrice. Ora, confortata dal parere di uomini
saggi, ha visto schiudersi la possibilità di progredire nelle lettere, usando quel dono di
ingegno pronto ricevuto dal Signore.

L'Epistola ad quosdam sapientes segna un discrimine nella produzione letteraria della


religiosa sassone. Diversamente dai Poemetti agiografici, finalizzati a una lettura nella
comunità monastica, i drammi edificanti appaiono destinati non solo alle consorelle ma a
un uditorio più ampio forse di una declamazione in pubblico. La composizione del terzo
libro vede la religiosa sassone impegnata a celebrare in forma epica le imprese di Ottone
e la fondazione del cenobio di Grandersheim, per offrire una legittimazione per grazia
divina dell'autorità imperiale della dinastia sassone.

Capitolo secondo:

L'ABBAZIA DI GANDERSHEIM E GLI IMPERATORI SASSONI

L'abbazia di Gandersheim venne eretta sul fiume Gande, al crocevia delle importanti
direttrici viarie che corrono da est a ovest e dell'asse che attraversa da sud a nord le città
di Magonza, Fulda e Hildesheim. I suoi fondatori, il conte Liudolfo e la consorte Oda, si
recarono in pellegrinaggio a Roma nell'845 per chiedere al pontefice Sergio II
l'autorizzazione per il monastero che volevano fondare in Sassonia. Ottennero le reliquie
dei papi Anastasio I e Innocenzo I. Altfrid scelse il luogo del cenobio e spostò i confini
della diocesi di Hildesheim. Nell'852 si formò la prima comunità di canonichesse sotto la
guida di Hathumoda. Dopo la morte di Altfrid, i duchi Bruno e Ottone l'Illustre sottomisero
la fondazione di famiglia al re di Germania per conseguire la protezione regia e la garanzia
della dignità di badessa per le figlie della casata dei Liudolfingi. La posizione di
Gandersheim non rimase incontrastata e un'ulteriore donazione da parte del vescovo
Altfrid, di beni appartenenti al vescovado di Hildesheim, accrebbe le rivendicazioni dei suoi
successori nei confronti dell'abbazia di Gandersheim. Il suo periodo aureo si ebbe dal 959
al 1001, sotto la guida della badessa Gerberga II, maestra e amica di Rosvita; dal 1001 al
1039, ci fu Sofia a reggere il monastero. Nel XII secolo, sotto la badessa Adelaide IV,
Gandersheim rappresentò un fedele baluardo per la politica imperiale degli Hohenstaufen.
A distanza di 365 anni dalla fondazione, la storia dell'abbazia divenne argomento
della Reimchronik del prete Eberardo. Il poema basso tedesco celebra la libertas
Romana del cenobio, ovvero l'esenzione dalla giurisdizione vescovile di Hildesheim e la
dipendenza dalla Chiesa di Roma. Nella Gandersheim Reimchronik, la storia di
Gandersheim accompagna la costante ascesa dei Liudolfingi fino al culmine della dignità
imperiale con gli Ottoni. Liudolfo era stato un seguace dei Franchi durante le guerre di
Carlo Magno contro i Sassoni, e i Liudolfingi si erano insediati nelle proprietà confiscate
della regione attraversata dal fiume Leine. La necessità di difendere i territori dagli attacchi
di Slavi e Ungari favorirono la creazione di un ducato dei Liudolfingi. Il figlio di Enrico, il
futuro re di Germania Enrico I, detto l'Uccellatore, grazie al secondo matrimonio con
Matilde, aumentò il proprio potere in Westfalia. In Turingia entrò in conflitto con la famiglia
franca dei Corradini. La vittoria conseguita su Eberardo, permise a Enrico di ampliare i
suoi territori nell'area della Weser. La successiva elezione a Fritzlar di Enrico I come re di
Germania, da parte di Franchi e Sassoni, sembra adombrare l'esistenza di un trattato di
amicizia tra i due popoli. Corrado I, prima di morire, avrebbe pregato il fratello Eberardo di
portare al duca di Sassonia le insegne regali, poichè lo riteneva l'unico in grado di
garantire un futuro al regno per fortuna e valore. Enrico I non volle nessuna consacrazione
religiosa dopo l'elezione e si accontentò di essere riconosciuto re di una Germania
confederata. La Baviera e la Svevia rimasero fuori dalla sua giurisdizione, e la sua autorità
era esercitata su Turingia e Sassonia. Egli mise in piedi un sistema difensivo, prendendo a
modello quello anglosassone realizzato da re Alfredo contro le invasioni vichinghe. Una
connessione tra la corte di Sassonia e l'Inghilterra è data dalla richiesta inviata da Enrico I
al re anglosassone Athelstan per ottenere in moglie una principessa per il figlio; la
richiesta fu accettata nel 929 con il matrimonio di Ottone I e Edith d'Inghilterra. Il regno di
Enrico I è costellato da una lunga serie di trionfi militari. Anche se poco favorevole al clero,
Enrico impose a tutte le popolazioni sottomesse l'accettazione del cristianesimo, come
una delle condizioni di pace. Negli ultimi anni della sua vita invece, Enrico si interessò
maggiormente anche dei problemi del clero. Nel 936, a Memblea, fece eleggere
dall'assemblea di Erfurt come re e successore il figlio di Ottone.

Ottone I attuò una politica di diminuzione del potere dei duchi, appoggiandosi ai vescovi,
ai quali connesse poteri temporali. Sotto di lui e i suoi discendenti, la Germania esercitò un
ruolo di supremazia in Europa per circa un secolo, e la Sassonia ebbe modo di unirsi
culturalmente con l'Occidente. Dopo la fine dell'impero di Carlo Magno, Ottone I aveva di
nuovo realizzato una renovatio imperii; egli volle essere consacrato re ad Aquisgrana.
Anche il regno di Ottone II fu segnato da ribellioni familiari e discordie civili. Nel 973 ci fu
una prima sollevazione del cugino Enrico il Litigioso, per la conquista della corona; un
secondo tentativo fallito si ebbe durante la minore età di Ottone III. Quando quest'ultimo
morì, senza lasciare eredi, il ramo bavarese dei Liudolfing riuscì a salire al trono con
Enrico II. La diversa politica di Enrico II, assicurò un solido fondamento alla monarchia
tedesca; ma con la sua morte, nel 1024, si estinse la discendenza maschile della Casa di
Sassonia.

Nella politica ecclesiastica, dinastica e culturale degli Ottoni, un grande ruolo ebbero le
figure femminili che affiancarono gli imperatori. Malgrado Enrico I e Ottone il Grande non
si fossero interessati di letteratura, la corte ottoniana ospitò eminenti intellettuali. Un ruolo
primario esercitò l'arcivescovo Brunone di Colonia, fratello di Ottone I, e promotore di una
rinascita letteraria.

Ai docti virti di corte, era affidata la formazione intellettuale delle principesse, destinate al
matrimonio nell'interesse della Casa di Sassonia; e con il titolo di domina imperialis, esse
potevano partecipare alle diete del regno. Alla loro influenza è possibile ricondurre la
produzione poetica di Rosvita, chiamata a celebrare la grandezza della dinastia sassone.

Capitolo terzo:

TRA CULTURA CLASSICA E DOTTRINA CRISTIANA

La giovane badessa Gerberga II sembra aver introdotto Rosvita alla conoscenza


approfondita di altri autori. Gerberga era stata educata nel monastero benedettino di
Sant'Emmerano a Ratisbona, prima di giungere a Gandersheim in qualità di badessa.
L'analisi delle opere di Rosvita rivela che ella lesse direttamente Virgilio, Ovidio e

Terenzio; conosceva le opere dei Padri della Chiesa. La prosa rimata dei Drammi sembra
richiamare quella di Raterio di Verona, maestro di Brunone, fratello dell'imperatore. Le
"aspirazioni intellettuali" delle suore di Gandersheim, appaiono riconducibili alla politica
religiosa e culturale delle principali figure femminili della casata dei Liudolfingi. Il monaco
sassone Viduchindo di Corvey dedica i tre libri delle Res gestae Saxonicae a Matilde, la
figlia di Ottone I e Adelaide. L'abbazia era stata fondata dalla nonna Matilde, che per
trent'anni aveva guidato il convento femminile. Per lei vennero composte due vitae, e
Viduchindo le dedicò un ritratto nella sua opera storica. Un rapido sguardo alla tavola
genealogica della casata dei Liudolfingi e degli Ottoni rivela l'importante ruolo delle
principesse sassoni, sia nelle allenze dinastiche realizzate tramite il matrimonio, sia nella
guida delle abbazie. La sorella di Ottone I, Gerberga, permise al fratello Brunone di
ottenere dal figlio, il giovane re Lotario, garanzie sulla Lorena. La nipote di Ottone I,
Hadwig, fu chiesta in moglie dal sovrano bizantino Costantino; ma contraria al progetto
matrimoniale, si divertì a posare con mille smorfie davanti al pittore incaricato di ritrarla,
finchè il matrimonio sfumò; sposò dunque l'anziano duca di Svevia, che morì poco dopo.
La severa Hadwig continuò a reggere il ducato, intrattenendo rapporti culturali con i
monaci di San Gallo.

La cugina Matilde accompagnò con il titolo di domina imperialis il fratello Ottone II nelle
sue discese in Italia e governò la Sassonia in qualità di reggente per il nipote Ottone III. La
sorella di Hadwig di Svevia, la Gerberga II celebrata da Rosvita, fu invece alla guida del
monastero di Gandersheim dal 959 al 1001. Alla sua morte, subentrarono le figlie del
cugino Ottone II e di Teofano, Sofia e poi Adelaide. L'altra sorella, Matilde, fu madre di
dieci figli e fondò il monastero di Braunweiler. I monaci dell'importante cenobio, devoti
ammiratori della duchessa di Svevia per la sua grande cultura, non esitarono a deridere
l'illustre grammatico Gunzone di Novara, per un errore di latino, sfuggitogli nel corso di
una visita al monastero. Gunzone sfogò il proprio risentimento scrivendo l'Epistola ad
Augienses. Nella lettera, il magister italiano difende la propria erudizione e descrive
l'ambiguità di costumi e rapporti esistenti tra maestri e novizi all'interno del monastero
sangallese. Gunzone cerca di giustificare il suo lapsus, l'impiego di un accusativo in luogo
di un ablativo. La pungente apologia del magister di Novara offre un prezioso inventario
degli autori conosciuti nell'ambito della letteratura latina profana e cristiana. Tra le
citazioni, compaiono versi di Virgilio, Giovenale e Sallustio. La lettera di Gunzone sembra
alludere a un premeditato attacco dei monaci di San Gallo nei suoi confronti, dettato forse
dalla gelosia per la sua posizione presso gli Ottoni. Se la superiorità ostentata da
Gunzone nei confronti della cultura dei monaci tedeschi appare poco giustificabile,
le Cronache di San Gallo testimoniano comunque la presenza di pettegolezzi all'interno
del cenobio.

Il monaco Ekkeardo IV scrisse una nota che riporta il fatto del matrimonio effimero e quasi
inconsumato di Hadwig con l'anziano Burcardo, che aiuta però a risolvere le difficoltà
legate all'identificazione dei tre personaggi femminili, i cui nomi compaiono nella
sottoscrizione del codice terenziano di Oxford.

Hadwig morì poco più che cinquantenne nel 994; pertanto, qualora si volessero associare
ai nomi di Adelaide e Matilde le figlie di Ottone II, quest'ultime dovevano essere
giovanissime al momento della sottoscrizione in cui Hadwig è citata come una fanciulla
loro coetanea. Inoltre, le figlie di Ottone II furono educate a Gandersheim, nel convento
allora guidato dalla sorella di Hadwig, la badessa Gerberga II, cui Rosvita sottoponeva le
proprie composizioni. A Gandersheim si insegnava o si parlava anche il greco, e vi
soggiornò spesso Teofano, la principessa bizantina moglie di Ottone II e madre di
Adelaide e Matilde.

L'argomento della "dolcezza" della lingua di Terenzio, che Rosvita affronta nella parte
iniziale della Praefatio, rivela che il pubblico destinatario dei suoi drammi edificanti era
costituito da un uditorio colto e aristocratico. Le sue opere sono molte lontane dall'epica
popolare cristiana in antico sassone a noi nota tramite l'Heliand ("Il Salvatore"). I drammi
latini di Rosvita sono rivolti ad una raffinata società di corte, malgrado Ottone I avesse
imperato a leggere solo dopo la morte della moglie Edith d'Inghilterra. Il fratello
dell'imperatore invece, l'arcivescovo Brunone, era stato allievo di Raterio di Verona ed era
famoso per la sua erudizione. La sfida di Rosvita sul teatro di Terenzio aveva dunque, per
intelocutori, intellettuali che non avevano mai smesso di leggerlo. D'altra parte, la fortuna
del commediografo latino era soprattutto legata alla sua esemplarità sul piano stilistico. Il
genere della commedia era stato inscritto nella categoria della letteratura ethica, ovvero
morale, in quanto descriveva i costumi degli uomini; l'aggettivo dulcisfu collegato ai colori
retorici, diventando sinonimo di un registro linguistico mediocris o humilis. Diversamente,
per Rosvita i dulcia verba delle fabulae terenziane sono strettamente associati ad un
contenuto erotico sconveniente.

Capitolo quarto:

MODELLI DI SANITA' NEI POEMETTI AGIOGRAFICI

Il primo libro Rosvita contiene otto leggende agiografiche, di cui sette in esametri leonini e
una in distici elegiaci. Nell'Epilogo, la poetessa afferma di aver desunto la materia
dell'opusculum da antichi testi tramandati sotto il nome di certi autori. Ella afferma che se
è stato narrato qualcosa di falso nelle due parti del libro, l'errore deriva dall'aver
incautamente seguito fonti ingannevoli. La prima delle otto Legendae è la Storia della
Nativit e della lodevole condotta della intatta Madre di Dio che ho trovato scritta sotto il
nome di san Giacomo, fratello del Signore. Il poemetto di 903 versi, inizia con
un'invocazione alla Vergine, affinchè assista l'umile serva nella realizzazione del canto in
metri dattilici, per celebrare la gloria della Madre di Dio. Rosvita si augura, dunque, che
Dio le sciolga la lingua e le asperga il cuore con la rugiada della grazia. Fonte del
componimento di Rosvita, sono i Vangeli dell'infanzia. L'indicazione del Protovangelo di
Giacomo contenuta nel titolo, è però inesatta, poichè il poemetto è in realtà una libera
parafrasi del Vangelo dello Pseudo Matteo. Il Protovangelo di Giacomo presenta i
principali temi della mariologia, ovvero la nascita di Gesù e la perpetua verginità di Maria. I
medesimi contenuti si rinvengono poi nel Vangelo dello Pseudo Matteo, che narra il
rimprovero del sacerdote Ruben a Gioachino perchè privo di discendenza; il
convincimento di Gioachino di non essere gradito a Dio; il suo allontanarsi dal Tempio; il
suo ritorno e l'incontro con la moglie Anna alla porta Aurea, dopo l'annuncio dell'angelo
della gravidanza. Sono poi narrate la presentazione di Maria bambina al Tempio; la
nascita verginale di Gesù; il ristoro della Sacra Famiglia nel viaggio in Egitto. Nel suo
riferimento poetico, Rosvita attua una selezione e una riduzione degli episodi dell'apocrifo,
privilegiando il racconto della vita di Maria; il testo dell'apocrifo viene ampliato per
enfatizzare l'ideale della castità e la rinuncia a qualsiasi amore terreno. Al fine di esaltare il
primato della verginità, Rosvita rende quasi letteralmente il settimo capitolo dello Pseudo
Matteosul rifiuto di Maria ad acconsentire alle nozze con il figlio del sacerdote Abiatar.
Minore attenzione ricevono l'annuncio del concepimento e la reazione di Giuseppe e della
comunità di fronte l'inaspetatta gravidanza di Maria. La poetessa giustifica il fatto di aver
ridotto l'episodio a soli dieci versi, con una recusatio di esporre una materia già nota con le
sue deboli forze. Su un argomento dei Vangeli è basato anche il secondo poemetto
agiografico di soli 150 versi: Ascensione del Signore. Il vescovo Giovanni tradusse questo
racconto in latino dal greco. Accanto alla parafrasi di brani evangelici, compaiono elementi
tratti dal racconto apocrifo sull'assunzione in cielo di Maria. Nel Nuovo Testamento, la
presenza di Maria al momento dell'Ascensione di Nostro Signore non è attestata e l'antica
letteratura cristiana offre al riguardo solo sporadici cenni. Questo potrebbe spiegare
l'orientamento di Rosvita verso un testo nel quale l'Assunzione di Maria era presentata
come una promessa del Figlio alla Madre. L'esaltazione della verginità e la scelta della
castità come condotta di vita per giungere alla santità, sono i temi costanti della
produzione agiografica di Rosvita.

Nel Gongolfus, il poemetto di 582 versi, Rosvita rielabora la leggenda di un nobile


burgundo, vissuto nell'VIII secolo; la sua morte sembra databile al 760. Una prima
menzione delle reliquie del santo, la cui festa è l'11 maggio, si ha nell'809 e all'870 risale
un documento redatto da Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Secondo la Vita più
antica, il santo sarebbe stato sepolto nella Chiesa di San Pietro a Varennes. Il culto di
Gongolfo sembra essere stato in costante ascesa all'epoca di Rosvita, poichè
l'arcivescovo Ruodberto edificò a Magonza una chiesa collegiata in suo onore. La vicenda
del nobile burgundo incarna una vita esemplare di santità laica. Secondo la Vita, il giovane
Gongolfo, dopo essersi sposato, parte per la guerra; durante il viaggio, conficca un
bastone in terra e da lì scaturisce una fonte prodigiosa; acquista allora quel terreno da un
giovane avido, suscitando l'irritazione segreta della moglie. Quest'ultima lo tradisce, e
Gongolfo la fa sottoporre al giudizio di Dio presso la fonte. Abbandonata la moglie,
Gongolfo si ritira in solitudine ad Avalon, dove è assalito dall'amante di lei e muore dopo
dieci giorni. L'omicida troverà anch'egli la morte, mentre la moglie verrà punita con
un'incontenibile flatulenza quando parla.

La Vita è abbastanza povera di eventi; non è narrato alcun miracolo compiuto


direttamente da Gongolfo; inoltre, l'episodio del giudizio di Dio presenta tratti inconsueti: la
moglie deve recuperare una pietra dalla fonte, ma l'acqua, divenuta improvvisamente
calda, le brucia la mano. In Rosvita, il rifacimento della leggenda di Gongolfo assume un
tono epico. Il nobile burgundo è descritto con i tratti dell'eroe, abile nella caccia e nella
guerra, fedele al signore, protetto dall'aiuto di Dio; il terreno, che nella Vita è un posto
dove far riposare i cavalli, diviene nel poemetto un locus amoenus, allietato dalla
freschezza delle acque di una sorgente, tanto da indurre Gongolfo a cercare di acquistare
il terreno. L'uomo trova però, al posto del giardino rigoglioso, un terreno arido e pieno di
spini. Giunto a casa, prima di sedersi al banchetto con i Franchi, sfama personalmente la
folla di poveri che era solita accorrere da lui. All'indomani, essendo finita l'acqua, Gongolfo
ordina ad un soldato di prendere il bastone, conficcato in terra la sera prima; e dal quel
punto scaturirà una sorgente d'acqua miracolosa. Prima del matrimonio, la futura moglie
venne esortata a condurre una vita esemplare, ma tentata dal demonio, commise adulterio
e la notizia si diffuse in tutto il regno dei Franchi. Gongolfo preferisce il perdono alla
vendetta; invita la moglie ad immergere la mano nelle acque della fonte per dimostrare la
propria innocenza. La donna si sottopone al giudizio di Dio, ustionandosi profondamente
la mano. La leggenda di Gongolfo, che contiene l'unico esempio negativo di figura
femminile in Rosvita, si distingue dagli altri Poemetti per la scelta del metro impiegato, il
distico elegiaco.

Il quarto poemetto di Rosvita ha per oggetto la passione di san Pelagio, un ragazzo delle
Asturie vissuto tra il 912 e il 925. Divenuto ostaggio dei mori di Cordova, dopo essere stato
catturato durante un'insurrezione contro gli Arabi, fu tenuto in carcere per tre anni:
condotto poi alla presenza del califfo, il giovane Pelagio venne torturato e decapitato per
aver rifiutato di abiurare la fede cristiana. Pelagio, la cui festa ricorre il 26 giugno,
appartiene ai martiri della dominazione araba in Spagna, caduti durante le persecuzioni
volte ad affermare la religione dell'islam.

Nella Passione di San Pelagio, martire pregevolissimo, incoronato col martirio a Cordova
ai nostri giorni, Rosvita rielabora in forma epica i contenuti biografici e storici di cui
dispone. Il poemetto, di soli 413 versi, presenta stilemi eroici, propri dell'epica germanica e
latina, nonchè reminiscenze derivate dall'Eneide di Virgilio e dal Peristephanon di
Prudenzio. La poetessa sassone trasforma il conflitto religioso tra il giovane e il califfo in
un'opposizione tra purezza e lussuria. Il componimento si chiude con gli immancabili
elementi agiografici: l'assunzione in cielo del miles Christi; il prodigioso recupero dei resti
del martire dalle acque del fiume, la miracolosa guarigione degli infermi presso il luogo
della sua sepoltura; il superamento della prova del fuoco cui è sottoposta la testa decollata
di Pelagio.

Con il Teofilo, Rosvita è la prima poetessa tedesca a introdurre in occidente il tema del
patto col diavolo. L'argomento deriva da una leggenda nata in Oriente e tramandata in
numerose versioni greche. La popolarità della vita di san Teofilo il Penitente, la cui festa
ricorre il 4 febbraio, è principalmente legata all'episodio del patto con il diavolo. Secondo la
leggenda, Teofilo, economo della Chiesa di Adana in Cilicia, dopo la morte del vescovo
viene proposto, ma rifiuta la nomina, dichiarandosi indegno di tale onore. Il nuovo vescovo
revoca a Teofilo l'incarico di economo e questi, su istigazione del Maligno, chiede aiuto a
un mago ebreo, presente in città. Il giudeo promette di introdurlo dal suo signore, a patto
che Teofilo, qualunque cosa veda o ascolti, non si spaventi. A notte fonda, l'ebreo lo
conduce al consesso diabolico presieduto dal Principe. Satana pone come condizione per
il suo aiuto che Teofilo rinneghi per iscritto Cristo e Sua Madre. Il giorno seguente Teofilo
viene reintegrato nella carica di economo e tutti gli obbediscono con timore.
L'Onnipotente, che non vuole la morte dei peccatori, concede a Teofilo la conversione per
mezzo della penitenza. Dopo 40 giorni trascorsi in preghiere e digiuno, Teofilo riceve la
visione della Madonna. Passati altri giorni in veglie e suppliche, Teofilo ottiene dalla
Vergine la promessa della remissione dei peccati, e trova sul suo petto il chirografo. Si
precipita in Chiesa e mostra al vescovo il terribile documento, svelando il grande miracolo
avvenuto per intercessione della Vergine; chiede al vescovo di bruciare il contratto e il
popolo assiste alla sua trasfigurazione. Riconciliatosi con Dio, Teofilo muore dopo pochi
giorni e viene sepolto nel luogo dove gli apparve la Vergine Maria. Pur attenendosi
all'originale, Rosvita tralascia dettagli non privi di pathos; l'impaziente bussare di Teofilo
alla porta dell'ebreo; la descrizione dell'ippodromo, il luogo dove si trova Satana; lo
strisciare del demonio dentro il corpo di Teofilo; la richiesta di Teofilo al vescovo di leggere
al popolo il contratto che aveva stipulato. Al fine di dare un'esposizione più immediata e
diretta, la poetessa sassone abbrevia o elimina alcune parti didascalische dall'originale.
Il Theophilus ha un inizio epico ma è privo di prologo. Al Teofilo segue una Benedizione
per la mensa, che inizia con un incipit solenne, riconducibile allo stile epico dei Poemetti.
La formula conclude la prima parte delle Legendae di Rosvita e sembra indicare che tali
composizioni di santi fossero destinate a una lettura per le consorelle. La seconda parte
del primo libro è introdotta da un'altra dedica alla badessa Gerberga, nella quale Rosvita
anticipa l'argomento di un nuovo poemetto. Il Basilio inizia con un prologo analogo a
quello di Maria nella prima parte del libro; Rosvita chiede nuovamente al lettore benevola
indulgenza per i suoi versi modesti. Il poemetto narra un episodio edificante tratto
dalla Vita di Basilio il Grande, vescovo d'Iconio, in Asia Minore, nella seconda metà del IV
secolo. La Vita si diffuse in Occidente intorno all'VIII secolo attraverso raccolte greche
realizzate nell'Italia meridionale. Anche in Basilio l'argomento è un patto col diavolo, ma a
differenza del Teofilo, l'accordo avviene tra uno schiavo, mosso da un'insana passione per
la figlia del padrone, e il demonio; la turpe alleanza ha luogo senza la mediazione di un
mago. Sarà poi la giovane sposa a spingere il marito a confessare al vescovo il proprio
peccato e, al posto dello schiavo, il santo affronterà la lotta con il demonio per
l'annullamento del patto. Rispetto alla traduzione di Urso, i 264 versi del poemetto di
Rosvita appaiono ben diversi sul piano linguistico e stilistico. Tra le modifiche apportate, ci
sono il tono epico dell'inizio; la descrizione del consiglio del demonio; il grande
innamoramento dello schiavo; l'insania della fanciulla; il confronto tra padre e figlia.

Il Dionigi è incentrato invece sulla figura di un santo occidentale, vissuto nel III secolo e
martirizzato a Parigi sotto il regno dell'imperatore Decio. La problematicità legata alla
figura del santo, deriva dalla sovrapposizione di due personaggi diversi: Dionigi
l'Aeropagita, vescovo di Atene, e Dionigi vescovo di Parigi. La Passio di Ilduino, mira a
ribadire l'identità delle due figure, malgrado le numerose incertezze. La rielaborazione di
Rosvita segue la Passio di Ilduino in modo libero; l'aderenza al modello è limitata ai
capitoli 19 e 29 della Passio. Rispetto ai poemetti precedenti, questo risulta privo di
tensione e non sembra aver avuto alcuna influenza sulla letteratura agiografica posteriore.
L'ultimo poemetto agiografico, di 459 versi, ha per tema la passione di Agnese, una delle
prime martiri cristiane durante le persecuzioni di Diocleziano. La popolarità della vergine
tredicenne e il suo culto risalgono già al IV-V secolo. Modello di Rosvita è la Vita s.
Agnetis, falsamente attribuita a Sant'Ambrogio e sorta nel VI secolo. Già nel prologo, il
poemetto della religiosa sassone rivela un'intensa partecipazione al tema trattato; la figura
di Agnese assurge a modello di una vita santa, consacrata allo Sposo Celeste, specchio
del trionfo della divina onnipotenza sul male. Il primato della castità e la vincente
superiorità di chi sceglie la verginità invece dell'inutile gloria mondana e della
peccaminosa lussuria. Agnese chiude idealmente la serie delle leggende agiografiche,
iniziata con il poemetto su Maria e sembra quasi anticipare la sequenza dei drammi
fondati sulla contrapposizione tra l'eros umano e l'amore di Dio.

Capitolo quinto:

LA DIMENSIONE DELL'AMORE NEI DRAMMI: UN CAMMINO VERSO DIO

I sei Drammi, composti sul modello delle commedie di Terenzio, approfondiscono il tema
della contrapposizione tra amore ed eros. Rosvita rinuncia a una rigida forma metrica in
favore di una più agile prosa ritmica. Le figure femminili sono le vere protagoniste del suo
teatro; tuttavia, la preminenza del ruolo della donna e il contenuto morale non sono più
direttamente percepibili nei titoli dei Drammi correttamente adottati. Sulla base dell'editto
princeps di Conrad Celtis, è invalsa la consuetudine di citare le singole composizioni con il
nome di un personaggio maschile. I Drammi sono riconducibili a tre fonti principali:
il Passionale, le Vitae Patrum e le Passiones apostolorum; nella Praefatio però, la religiosa
non nomina nè le fonti nè gli argomenti trattati, mentre si preoccupa di chiarire la propria
posizione nei confronti di Terenzio. Il primo dramma di Rosvita, Conversio Gallicani
principis Miliciae, appare uno dei meno riusciti per una certa staticità dell'azione e
angolosità dei personaggi. Le vicende narrate si svolgono sotto la dominazione di
Costantino il Grande e del suo successore Giuliano l'Apostata. Nella protagonista
Costantina, si può ravvisare la figura di Costantino il Grande grazie ad un riferimento al
culto di sant'Agnese. Il dramma rosvitiano è incentrato sulla conversione del generale
romano Gallicano e sul martirio da lui subito. Nella prima parte, Gallicano chiede
all'imperatore Costantino la mano della figlia Costanza. Quest'ultima acconsente, pur
avendo già fatto voto di verginità. Gallicano riesce a vincere la campagna contro gli Sciti,
grazie ad un esercito divino, dopo essersi convertito per mano di Giovanni e Paolo.
Tornato in patria, il generale rinuncia spontaneamente alla mano di Costanza e sceglie di
passare una vita in castità. Nella seconda parte, Gallicano, mandato in esilio da Giuliano
l'Apostata, subisce il martirio; in segreto vengono uccisi anche Giovanni e Paolo. Subito
dopo, il figlio del carnefice Terenziano, confessa il delitto commesso dal padre e viene
liberato dalla possessione diabolica. Rispetto alla fonte agiografica, Rosvita riesce a
creare un'azione drammatica grazie ad un dialogo serrato, modellato sulle commedie di
Terenzio. La protagonista risulta così la figura di Costantina, capace di vincere la forza e il
desiderio maschili attraverso la fede e la purezza, divenendo strumento di salvezza per il
peccatore.

Martirio delle sante vergini Agape, Chionia e Irene è il titolo originario del Dulcitius, il
secondo dramma edificante di Rosvita, derivato dalla traduzione latina della passio greca
contaminata con la leggenda di sant'Anastasia. Il nucleo del romanzo è riconducibile alla
prima persecuzione di Diocleziano nel 303-304; le prime due vergini sarebbero state arse
vive insieme ad altri compagni, mentre Irene avrebbe subito il martirio due giorni dopo. Il
rifacimento di Rosvita riscrive la leggenda in forma drammatica, con una tecnica ormai
sicura: scene brevi, eliminazione di personaggi secondari, dialoghi veloci. Il Dulcitius inizia
con la scena delle tre sorelle convocate alla corte dell'imperatore Diocleziano, affinchè
abiurino la religione cristiana e possano sposarealla loro condizione e alla loro bellezza alti
dignitari di palazzo. Al rifiuto delle fanciulle, l'imperatore dà ordine di gettarle in carcere e
ne affida la custodia al governatore di Tessalonica, Dulcizio. Quest'ultimo le fa rinchiudere
in una cella interna alle cucine, per poter approfittare di loro più facilmente. Recatosi in
cucina, si ritrova ad abbracciare pentole e padelle, confondendole con i corpi delle tre
fanciulle. Imbrattato di fuliggine, fino a diventare nero come un etiope, è scambiato dai
soldati per il demonio e viene cacciato. L'imperatore ordina a Sisinnio di vendicare
l'affronto e il dramma si chiude con il martirio delle vergini. L'episodio di Dulcizio nelle
cucine, è sviluppato da Rosvita con una serie di scene comiche. La scena sugli
amoreggiamenti di Dulcizio con le pentole è presentata attraverso la descrizione delle
fanciulle, che osservano il comportamento del governatore dalle fessure della loro cella.
Alla comicità delle situazioni finalizzate a mettere in ridicolo i pagani, vengono
contrapposte la serenità e la superiore ironia delle fanciulle cristiane; costoro attendono la
morte, salde nella fede e impavide di fronte alla tortura.

L'argomento del Calimachus, il terzo dramma di Rosvita, è un'opera della prima letteratura
cristiana, sorta in Asia Minore e attribuita a un certo Leukios. Fonte di Rosvita, potrebbe
essere stato un testo latino simile a quello tradito nel Codex Parisinus 3779 della fine del
X secolo. Il rifacimento della religiona sassone è abbastanza indipendente e dal modello
latino riprende solo la successione degli eventi nell'episodio di Drusiana e Callimaco.
Nel Calimachus rosvitiano manca il riferimento a Efeso, il luogo dove si svolge l'azione; la
descrizione dei rapporti tra Drusiana e il marito Andronico è appena accennata; Callimaco
non è una meccanica incarnazione del diavolo, ma uno spasimante realmente innamorato.
Drusiana, dopo essersi consacrata a Dio per seguire gli insegnamenti di San Giovanni,
respinge la corte di Callimaco; turbata dalla paura di poter cedere alla seduzione, chiede
al Signore di morire e la sua preghiera viene esaudita. Il marito assiste alla scena, inerme;
affida all'amministratore Fortunato, l'incarico di sorvegliare la tomba. Quest'ultimo,
propone a Callimaco di profanare il cadavere ancora intatto. Il giovane è tentato di usarle
violenza, ma un serpente apparso all'improvviso uccide Fortunato con un morso e
Callimaco, pentito, muore per la paura. Nella scena seguente, san Giovanni e Andronico,
hanno la visione di un giovane bellissimo sulla tomba della donna; è Gesù in persona,
apparso per preannunciare la risurrezione di Drusiana e Callimaco. San Giovanni
resuscita entrambi, e la donna gli chiede di far tornare in vita anche il servo Fortunato.
Quest'ultimo però, preso dall'ira per la conversione di Callimaco, preferisce morire di
nuovo. Il dramma si chiude con un ringraziamento a Dio, conoscitore di ogni segreto e
giudice segreto. Il messaggio centrale del dramma, ovvero la possibilità di una nuova vita
per i peccatori pentiti grazie alla misericordia divina, si accompagna agli altri temi cari a
Rosvita: l'importanza della castità; la superiorità dell'amore celeste rispetto a quello
terreno; il trionfo dell'onnipotenza di Dio nel soccorrere coloro che credono. Un'ideale
continuazione degli stessi temi è nell'Abraham, il quarto dramma di Rosvita. L'argomento
deriva da una Vita, falsamente attribuita a Efrem Siro. La leggenda fu tradotta in latino.
La Vita tratta il tema del ravvedimento di donne perdute, un argomento di derivazione
evangelica basato sull'episodio della conversazione di Maria Maddalena da parte di Gesù.
L'opera presenta numerosi elementi agiografici: la piccola Maria è una perfetta ancella di
Dio già a sette anni; il seduttore la corrompe avvicinandola vestito da monaco; la
tentazione è possibile grazie ad una finestrella; una tortorella, simbolo d'innocenza,
appare per due volte in sogno ad Abramo. Nel rielaborare la fonte, Rosvita procede
liberamente; tra i particolari aggiunti dalla poetessa, compaiono l'ammaestramento della
piccola Maria, affinchè imiti la castità della Vergine. Abramo paragona la Vergine alla stella
che non tramonta mai e indica ai naviganti la giusta rotta, prefigurando l'ascesa al cielo
attraverso la verginità del corpo e la santità dello spirito. Il dramma si chiude con la lode
del Figlio di Dio, che ha redento gli uomini col suo sangue. Un'altra leggenda orientale, sul
tema della fanciulla traviata e poi redenta, è argomento del Pafnutius, il quinto dramma di
Rosvita. La veridicità del racconto agiografico su Taide. Alla figura di san Serapione
corrisponde, nella traduzione latina, Pafnuzio, un santo venerato già nel V secolo. Anche
la Vita di Taide ha gli stessi temi portanti: il padre spirituale della fanciulla è un eremita; la
conversione avviene in città, dove la ragazza si prostituisce; pentita, la fanciulla distrugge i
suoi averi ed espia i suoi peccati nel deserto in dura penitenza. Taide è un'etera, mentre
Maria conduce fino all'età di vent'anni una vita irreprensibile; l'eremita Abramo è lo zio di
Maria e, in quanto tale, si premura di salvarla; diversamente, Pafnuzio vuole redimere
Taide per zelo monastico; Abramo ed Efrem condividono la vita eremitica; Pafnuzio è
invece circondato da giovani discepoli che educa alla vita religiosa; nel racconto
agiografico, Maria sopravvive per alcuni anni alla scomparsa di Abramo, suo padre
spirituale, e muore poi di morte naturale. In Taide, Pafnuzio, tramite una visione,
comprende che la fanciulla ha ottenuto il perdono dei peccati ed è prossima al Regno dei
cieli. Il Pafnutius di Rosvita, risulta la composizione più lunga. Un prolisso dialogo
didascalico è inserito all'inizio dle primo atto tra la domanda del discepolo e la risposta di
Pafnuzio sul motivo della sua tristezza. Il santo rivela che il suo turbamento è dovuto alla
presenza in paese della bellissima Taide. Prima di questa rivelazione, Pafnuzio si dilunga
in un ampio excursus su macro- e micro- cosmo, filosofia dialettica, musica e armonie
celesti. Questa digressione introduttiva è stata per lo più valutata negativamente
nell'economia dell'azione. Secondo Homeyer, però, essa avrebbe una propria funzionalità,
propedeutica a un'interpretazione spirituale del dramma, quale esempio dei momenti
fondamentali della vita cristiana: colpa e peccato, pentimento e perdono. La prima scena
offrirebbe quindi un pendant alle riflessioni morali. Nel Pafnuzio, la rielaborazione
della Vita inizia solo a I, 23 e Rosvita non dà particolare risalto ai personaggi. Nei dialoghi,
però, la poetessa sassone evita riferimenti scabrosi e rende il linguaggio diretto e scarno
della fonte. Il contenuto del Sapientia, l'ultimo dramma di Rosvita, deriva da una leggenda
non anteriore al VII secolo e priva di valore storico. La versione latina, attribuita al
presbitero Giovanni di Milano, risale all'VIII secolo. Rosvita, pur fedele al contenuto
della Passio, ne dà una libera rielaborazione nella struttura drammatica e nei dialoghi;
riduce le preghiere e le riflessioni edificanti nel modello e tralascia i particolari non
essenziali. Il contrasto tra l'imperatore e Sapienza su un argomento di matematica è
invece un'aggiunta originale di Rosvita. La disequazione numerica tra l'imperatore Adriano
e Sapienza sembra voler contribuire ad innalzare il livello didattico del dramma di
argomento agiografico; il confronto è introdotto da una banale domanda dell'imperatore,
desideroso di conoscere l'età delle giovani figlie di Sapienza. E Adriano è presentato da
Rosvita come uno sciocco ignorante, incapace di affrontare la semplice prova aritmetica
presentata da Sapienza. Il dramma presenta la superiorità delle martiri cristiane come un
elemento provocatorio, tale da muovere i pagani all'ira e alla disperazione. L'andamento
diegetico è determinato dai discorsi della madre, poichè in Rosvita le tre fanciulle non
hanno quel ruolo centrale che assegna loro il racconto agiografico.

E' possibile che la presenza di una insistita componente filosofico-didascalica, negli ultimi
due drammi di Rosvita, derivi da un diverso progetto poetico, ideato forse dopo che la
religiosa aveva sottoposto i primi quattro drammi alla lettura dei tre saggi, ricavandone un
giudizio positivo. Il Sapientia sembra però essere stato ritenuto più adatto alla lettura, per
la sua maggiore astrattezza formale ed erudizione.

Capitolo sesto:

IL DIVINO NELLA STORIA DELL'UOMO: I GESTA OTTONIS

Il terzo libro di Rosvita comprendeva almeno due carmina historica, l'epos sull'imperatore
Ottone e il poema sulla fondazione del cenobio di Gandersheim, unitamente alle Vitae dei
santi patroni, Anastasio e Innocenzo. Il principale manoscritto, il Monacensis Latinus
14485, conserva però soltanto i Gesta Ottonis e neppure in modo completo. Il committente
dell'opera è Gerberga II, alla quale Rosvita dedica i Gesta, ricordando di essere stata
sollecitata proprio dalla badessa a cantare in versi le imprese dell'imperatore; il secondo
prologo, indirizzato a Ottone II, appartiene ad una fase seriore della composizione e non
riflette una vera committenza. Per Rosvita si trattava di misurarsi in un genere nuovo,
attraverso il quale veniva introdotta nell'ambiente di corte. Nella lunga Prefazione in prosa
si avverte lo smarrimento autentico della religiosa, consapevole di aver intrapreso
un'opera senza ausilio di modelli precedenti. Rosvita si paragona ad uno straniero,
avventuratosi senza guida nelle profondità di una foresta sconosciuta, e orientato solo dai
cenni di coloro che gli indicano la strada. Dopo aver narrato, tra mille esitazioni, e con
grandissima fatica, le imprese legali, ella non vuole affrontare senza guida i fastigi
imperiali. La religiosa non si esime dal presentare il proprio lavoro a Gerberga e
all'arcivescovo di Magonza, Guglielmo; da loro, Rosvita attende il giudizio sui pregi e difetti
del libretto. Diversamente dalle precedenti, la Prefazione non contiene alcuna riflessione
religiosa e i prologhi che seguono, ripetono i topoi della modestia auctoris e della modestia
mulieris. Rosvita chiede attenzione per la sua opera; la religiosa definisce il poema un
"piccolo omaggio dell'ultima pecorella del gregge di Gandersheim"; ma, al tempo stesso,
spera che il libro non venga relegato all'ultimo posto, poichè è il primo ad essere stato
composto senza l'aiuto di un modello preesistente. Come già per il Pelagius, Rosvita
difende la sua buona fede, riversando la responsabilità di quanto narrato sulle
testimonianze ricevute. Le principali difficoltà incontrate dalla poetessa, nella
composizione del panegirico epico, dovevano risiedere nell'interpretazione e nella
presentazione di eventi di un passato recente. Rosvita, ad esempio, attenua il
coinvolgimento di Enrico di Baviera nella guerra civile contro il fratello Ottone I; tace anche
sulle ragioni della spedizione di Liudolfo in Italia, all'insaputa del padre. Il silenzio della
religiosa di Gandersheim si può però comprendere tenendo presente che, sia Enrico sia
Liudolfo, all'epoca della composizione dei Gesta erano morti. Preferì dunque risparmiare
la rievocazione dei fatti, dal momento che il committente dell'epos sull'imperatore era
proprio Gerberga. Possiamo anche pensare che la scelta di non descrivere scene di
guerra sia dovuta dal rifiuto di interpretare in un'ottica politica gli eventi che per la religiosa
s'inquadrano esclusivamente in una concezione dominata dalla Provvidenza. L'attendibilità
cronologica degli eventi presentati nei Gesta, lascia supporre che la religiosa possa aver
utilizzato anche degli annali, oltre alle testimonianze orali. L'epos di Rosvita mostra
numerose concordanze con le Res gestae Saxonicae. In nessun caso è però possibile
documentare un rapporto di dipendenza tra l'epos della religiosa sassone e le opere dei
tre storici, Viduchindo, Liutprando e Adalberto di Magdeburgo. Nei Gesta, la genealogia di
Edith, figlia del re Edoardo il Vecchio, è riportata correttamente; diversamente, in
Viduchindo, Edith è menzionata come figlia di Edmondo, mentre in Liutprando come figlia
del fratello del re Athelstan. L'attribuzione a Enrico I di un periodo di regno di soli 16 anni,
potrebbe derivare da un informatore originario della Baviera, identificabile forse con la
stessa Gerberga. La religiosa presenta una legittimazione d'ispirazione biblica, che
richiama la profezia del Sogno di Daniele sulla sequenza dei quattro imperi del mondo; la
supremazione dei Sassoni s'inscrive nella continuazione dell'impero di Roma. Nell'epos di
Rosvita, i genitori di Ottone, Enrico e Matilde, sono menzionati in modo convenzionale e
laconico. Sulla brevità della poetessa può aver influito anche il ricordo della rivalità esistita
tra la regina madre Matilde e la nuova Edith d'Inghilterra. Matilde avvertì come diminuito il
proprio prestigio a causa del matrimonio di Ottone con la principessa anglosassone, Edith,
appartenente ad una stirpe di santi. Ella avversò la nomina di Ottone come successore del
padre e cercò di contrapporgli il figlio minore Enrico, con la motivazione che quest'ultimo
era nato in aula regali, ovvero dopo l'elezione a re del padre Enrico I. Rosvita dedica più
attenzione ai suoi figli che a Matilde stessa. La figura di Ottone è presentata secondo i
canoni del rex iustus et bonus: egli guida con clemenza i popoli già sottomessi dal padre
ed estende il proprio potere su molte altre genti. Il suo esercito, sorretto dall'aiuto divino,
non conosce sconfitta. E anche nella guerra civile contro il fratello Enrico, Ottone non esita
a soccorrere l'amato fratello. Rosvita dà grande risalto alle consorti di Ottone, ovvero Edith
e Adelaide di Borgogna. Quest'ultima, dopo la morte del marito, re d'Italia, Lotario, fu
segregata in prigione da Berengario; grazie alla Provvidenza, riesce a fuggire e ad attirare
l'attenzione di Ottone, vedovo di Edith. La narrazione delle imprese di Ottone si arresta
con il verso 1484. La religiosa di Gandersheim di non voler procedere oltre, poichè non
ritiene consono descrivere in uno stile dimesso le gesta di un imperatore. Sotto il profilo
letterario, il componimento della religiosa di Gandersheim non contiene elementi
caratteristici del genere epico, come descrizioni di battaglie, ambascerie. I Gesta Ottonis si
rivelano una "storia di famiglia", segnata da matrimoni, discordi, decessi, e costellata dai
trionfi militari accordati a Ottone dalla divina Provvidenza.

Capitolo settimo:

IN LODE DELL'ABBAZIA E DEI SUOI FONDATORI: I PRIMORDIA COENOBII


GANDESHEMENSIS

Il racconto delle origini del cenobio di Gandersheim costituisce un ideale completamento


dei Gesta Ottonis, poichè presenta la nascita della comunità religiosa, voluta dal duca
Liudolfo. La datazione dei Primordia sembra porsi dopo l'associazione di Ottone II al trono
imperiale, il 25 dicembre 967, e prima della morte di Ottone I, avvenuta il 7 maggio 973. La
trasmissione lacunosa del testo potrebbe spiegare l'assenza di una prefazione o dedica
del poema, che rappresenta la prima storia dell'abbazia di Gandersheim. L'epos inizia con
il ritratto del nobile Liudolfo, la cui bellezza si accompagna a un comportamento virtuoso e
saggio. La consorte, Oda, diviene nel poema la destinataria della profezia di Giovanni
Battista. In un'apparizione il santo le annuncia che le sue generazioni future otterranno la
dignità imperiale. Il poema unisce elementi di carattere leggendario a dati e riferimenti
reali. Rosvita non cita alcuna fonte scritta e dichiara di essersi basata solo su fonti orali.
Alcuni dati sono presentati secondo una tradizione più recente, favorita dalla casa
regnante attraverso le biografie agiografiche composte su membri della famiglia imperiale.
Rispetto ai Gesta Ottonis, che comprendono solo 40 anni di storia,
i Primordia abbracciano un periodo di tempo di oltre 100 anni. La storia del convento di
Gandersheim inizia con la figura del duca Liudolfo, ma termina con la morte della badessa
Cristina, poichè il poema si interrompe per una lacuna. Gandersheim è fin dall'inizio una
fondazione sassone; Liudolfo doveva essere a capo della comunità come abate laico e
tramite lui, erano stabiliti i diritti di esenzione, e le regole per l'elezione della badessa.
Inizialmente la comunità monastica femminile era a Brunshausen; con Ludovico il
Germanico, la fondazione divenne soggetta direttamente al re e i suoi successori
confermarono la protezione regia. Nei Primordia manca però la menzione di santo
Stefano, protettore della fondazione; è possibile dunque che, dalla metà del X secolo,
fossero venerati come santi patroni, insieme a Giovanni Battista, solo i papi Anastasio e
Innocenzo.

Per la costruzione del convento di Gandersheim furono necessari più di 20 anni e Liudolfo
morì prima che la realizzazione del convento fosse ultimata. Due giorni prima della
solennità di Ognissanti, apparvero delle luci notturne dinanzi al duca Liudolfo e ad altre
persone riunite nella selva, come segnale che la chiesa sarebbe dovura essere edificata
nella valle. Il ritardo nella costruzione del monastero è attribuito alla scarsità di pietre
reperibili nella valle; ma l'incessante preghiera della badessa Hathumoda e delle
consorelle porta a termine l'opera grazie l'aiuto divino. Un giorno, la badessa vede una
colomba posata sulla sommità della roccia della chiesa in costruzione e Hathumoda,
seguendone il volo, giunge in un luogo pieno di blocchi di pietra. Per volontà di Oda, la
consacrazione della chiesa avviene il 1 novembre dell'881, in memoria della prodigiosa
apparizione delle luci, verificatasi per la terza volta 22 anni prima. La veneranda Oda è
principalmente dedita ad ammaestrare le sorelle della comunità perchè vivano secondo la
regola. Con la scomparsa di Gerberga subentra come badessa la sorella Cristina.
Spentasi la nobile Oda all'età di 107 anni, Cristina non sopravvive alla morte della madre
più di sei anni. E con la descrizione della veneranda duchessa e delle sue tre figlie, riunite
in cielo, il poema si interrompe per una lacuna.

I Primordia condividono con i Gesta Ottonis la descrizione di duchi e re secondo gli


stereotipi del sovrano ideale, mentre la suprema aspirazione delle figure femminili a
consacrarsi a Cristo richiama il primato della vita religiosa, già presentato nei Poemetti e
nei Drammi. La morte diviene qui, per volere divino, uno strumento di liberazione dai
legami terreni: per Oda dai vincoli matrimoniali con Liudolfo, per Gerberga dalla promessa
di matrimonio con Bernardo. Una peculiarità rosvitiana è la descrizione del paesaggio, che
rivela la familiarità della religiosa sassone con quei luoghi. I Primordia sono l'opera più
matura di Rosvita, in quanto esprime una più intensa e diretta partecipazione della
poetessa sassone all'argomento trattato, ovvero le origini del proprio convento.

Capitolo ottavo:

LA FORTUNA DI ROSVITA

L'opera di Rosvita ha avuto giudizi e fortuna alterni. Celebrata come la prima poetessa
tedesca medievale, è citata nel 500 dal monaco di Clus, Enrico Bodo, come rara avis nei
cieli di Sassonia. Rosvita non è una figura isolata nel panorama culturale del periodo
ottoniano; tuttavia, a lei appartegono realizzazioni letterarie singolari, che trascendono
l'universo spirituale del chiostro e la tradizione stessa. La poetessa sassone rivela
un'incontenibile volontà di apprendere, un'audacia nello sperimentare insieme a un non
comune senso dell'umorismo. La religiosa è la prima a introdurre in Germania la
leggenda orientale del patto con il demonio; a riscrivere i testi agiografici in forma teatrale;
a divulgare teorie musicali e matematiche all'interno di dialoghi drammatizzati; a scrivere
una storia al femminile. L'editio princeps del Celtis nel 1501 inaugurò la grande stagione
della popolarità di Rosvita tra gli umanisti tedeschi, interessati a recuperare le glorie
passate. La notorietà di Rosvita appare legata a traduzioni, rifacimenti e rappresentazioni
dei drammi da lei composti. Johann Christoph tradusse alcune parti del Gallicanus per
farlo conoscere al popolo tedesco; l'umanista Kilian Reuther compose un dramma latino
prendendo come modello il Dulcitius e il Sapientia. Tra i drammi più frequentemente messi
in scena, ci sono lAbraham, il Dulcitius, Calimachus e Pafnutius. Thomas Mann e Goethe
produssero numerose rielaborazioni su modello del Theophilus e Basilius, incentrati sul
tema del patto con il demonio.

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