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POETICI PRIMATI

Premessa:

Si intende difendere due tesi in questo testo: la prima è che la letteratura, intesa come gli usi poetici
della parola, è connaturata al genere umano; la seconda è che il vantaggio evolutivo che essa ha
offerto e insieme la sua ragion d’essere, consiste nella coltivazione delle abilità e delle competenze
sociali.

Dunque, la letteratura è una di quelle forme attraverso cui gli uomini celebrano la propria natura
socievole.

1.1 Falsa partenza

Per riuscire a comprendere a pieno la funzione della letteratura bisogna allontanarsi da assunti
ideologici e soffermarsi su una locuzione più analitica, cioè bisognerebbe parlare di usi non
strumentali del linguaggi, in cui per “non strumentali” si intende non strumentali in modo
immediato e manifesto; infatti ogni enunciato può avere più scopi e obiettivi di tipo più pratico o di
tipo più astratto.

Molti teorici di letteratura hanno iniziato a misurarsi con la “storia del genere umano” nell’ambito
letterario concentrandosi sulla narrativa, seguendo una linea evoluzionistica e cognitivistica,
sebbene sarebbe più giusto estendere gli orizzonti a tutte le forme di discorso non necessariamente
legate ad un’occasione o a una necessità.

Ci si dovrebbe invece chiedere del perché della letteratura: cioè qual è la ragione d’essere di
quella che noi chiamiamo letteratura? Nel 21esimo secolo ci si interroga principalmente a partire da
una perdita di funzionalità e prestigio della critica letteraria, che chiaramente investe anche la
posizione della letteratura all’interno dei curricula scolastici.

Prima tesi: gli usi poetici del linguaggio sono connaturati all’uomo.

E’ necessario a questo punto fare il punto della storia, parlando della nostra più lontana discendenza
come essere umani: l’Homo Sapiens, la cui evoluzione più moderna, secondo la scienza, è l’Homo
Neanderthal.

Tutti conosciamo la storia evolutiva lineare dell’homo sapiens attraverso le varie “fasi”; la storia
che, però, non siamo in grado di raccontare, è il cammino del genere Homo dopo la separazione
dagli antenati comuni con le scimmie antropomorfe.
Le differenze a noi sono tutte ben note e riguardano la forma fisica e la postura; però non sappiamo
quando e in quale ordine questi cambiamenti siano avvenuti, anche perché invece sappiamo per
certo che nelle differenti varietà umane di cui sono stati ritrovati reperti non si registra per niente
uno sviluppo lineare e progressivo, poiché i vari reperti fossili presentano le combinazioni più varie
di caratteri arcaici e moderni.

La ragione principale di questo fenomeno è che gli organismi viventi sono soggetti a pressioni
selettive antagonistiche, per cui in ogni contesto dato le vie dell’adattamento sono molteplici.

La conseguenza è che la selezione opera in direzioni divergenti e contraddittorie e nessun esito può
dirsi ottimale.

Dunque, come pronuncia Pievani: “L’evoluzione è sperimentazione, diversità, possibilità. E si


declina sempre al plurale.”

Quello che conosciamo della storia del genere umano è dunque una quantità di dettagli che sarebbe
azzardato comporre in una vicenda unitaria; infatti, una volta allontanata l’idea che l’evoluzione
umana appartenga ad un progetto, bisogna tenere conto che la parabola dell’homo sapiens è il
risultato di una serie di eventi fortuiti, frutto di contingenze.

Dunque, un sistema non lineare di eventi è narrabile solo in quanto sia consentito ricostruirli fin nei
minimi dettagli; si potrebbe parlare anche di una contingenza esistenziale che investe poche vite
singole, inseguita nelle minuzie più banali, come le conseguenze impreviste di un gesto irriflesso e
dunque di certo non storie lunghissime e grandi come l’origine di una specie vivente.

1.2 Frammenti di Africa

In Africa, dall’inaridimento del suolo e una riduzione dello spazio delle foreste, i gruppi primati si
spostano a terra, sul suolo e la necessità di stare lì e non sugli alberi spinge l’uomo a tenersi in piedi,
in una postura bipede, che implica non solo cambiamenti anatomici, ma anche comportamentali.

Una di queste è l’essere soggetti a predazione, a cui si aggiunge il restringimento del canale
attraverso cui partorire e la durata della gestazione, che è ridotta rispetto agli altri mammiferi perché
il cervello si sviluppa fuori dal grembo, portando ad una maggiore cura parentale e ad un diverso
rapporto tra adulti e piccoli.

Si aggiunge a ciò il cambio di alimentazione con l’integrazione della carne, ottenuta attraverso la
caccia e cotta attraverso il fuoco, che attraverso il suo contenuto energetico consente maggior
volume del cervello e, dal punto di vista comportamentale, alimenta una forte cooperazione sociale
per l’organizzazione dei tempi, la condivisione dei pasti, la divisione dei compiti che produce
l’importanza simbolica del mangiare insieme.

I comportamenti umani, dunque, hanno origine dai Sapiens, ma non possiamo parlare di costanti,
nemmeno in relazione all’ambiente in cui la specie umana è vissuta; anzi, forse è stata la mutazione
di condizioni esterne che hanno spinto la specie a continue evoluzioni come risposte a fattori esterni
che, come comportamenti prolungati nel corso del tempo, hanno prodotti quelle evoluzioni che
conosciamo nella specie.

E probabilmente questa spiegazione dovrebbe spingerci a non considerare la specie umana come
privilegiata in senso metafisico rispetto ad altre, ma è considerabile come un preconcetto soltanto
difficile da estirpare.

1.3 What made us human?

Tutti i cambiamenti legati all’evoluzione della specie umana sono processi strettamente collegati tra
loro, ma è impossibile stabilire una successione precisa, cronologicamente lineare, o una serie
precise di causa-effetto.

Ciò è dimostrato anche dal fatto che ognuna delle varietà umane dei nostri antenati esistite
rappresenta un diverso equilibrio: varie interazioni con l’ambiente circostanze che si ripercuotono
anche sulla filogenesi.

Però c’è da dire che l’evoluzione, di generazione in generazione, premia le variazioni vantaggiose e
penalizza quelle sfavorevoli, conservandone allo stesso tempo una quantità di indifferenti o neutre
dalle quali non scaturiscono condizionamenti immediati, ma che vanno a costituire una riserva a cui
sarà possibile attingere in seguito, in tempi lunghissimi fuori da ogni logica capitalistica.

Nell’uomo, quando un adattamento risulta efficace, l’evoluzione rallenta o ristagna, mentre sono gli
squilibri, le inadeguatezze, le difficoltà e imperfezioni a generare processi evolutivi.

Sebbene la variabilità accomuna tutti gli organismi, il genere umano rispetto ad altre specie è invece
cambiato molto: questo significa che era meno che perfetto, cioè lontano dal pervenire ad un
compimento.

Nel corso della storia del genere umano, due elementi sembrano aver ricoperto un ruolo importante:
la flessibilità adattativa e la coesione di gruppo.
Infatti, la duttilità del genere Homo si è rivelata senza eguali e in una moltitudine di soluzioni
un’arma decisiva è stata sicuramente la capacità di cooperazione con i propri simili e dunque
l’organizzazione sociale, che è la più complessa rispetto ad altre specie.

Le ragioni di questo fenomeno sono sicuramente legate alla creazione del linguaggio, che
sicuramente è una prerogativa anche di altre specie, anche se l’uomo ha portato lo sviluppo di
queste facoltà ad un livello superiore in termini di complessità e consapevolezza.

Dunque quando entra in gioco il linguaggio è chiaro che all’evoluzione naturale si aggiunge un altro
tipo di evoluzione, quella culturale, che riguarda i tratti comportamentali che non dipendono da
modifiche dell’organismo ma che sono acquisiti tramite apprendimento.

Per quanto concerne, dunque, il rapporto natura/cultura è possibile ricorrere all’antropologia; per
cultura, fino al 18esimo secolo, erano attribuiti i costumi di una determinata realtà.

Infatti, mentre alla natura umana sono attribuiti caratteri di universalità, stabilità, sicurezza, proprio
dei costumi è invece di essere mutevoli, accessori, inessenziali e arbitrari.

Tale visione valorizza ciò che è ritenuto originario, deprezzando quanto invece appare superficiale,
derivato; di cui l’auspicio, durante il settecento, di liberarsi dal superfluo “accidentale”, attingendo
alla sostanza profonda.

Una concezione diversa matura con Herder che usa il termine Kultur: quanto prima era compreso
nel plurale “costumi” è ora sintetizzato nel singolare “cultura” e riqualificato come totalità coerente,
dotata di senso e di forma.

Dunque, all’idea di una superficialità che altera la bontà della natura subentra l’immagine di una
costruzione organica, ricca di significati, degna di essere apprezzata e studiata nella sua peculiarità.

L’antropologo Koeber dirà che la cultura è un “fattore nuovo” che si aggiunge all’evoluzione
organica.

Clifford Geertz si pone in contrapposizione a molte idee sedimentate nell’antropologia fino agli
anni ’70 del Novecento e sostiene un’idea dell’uomo più duttile e complessa, secondo la quale i
diversi livelli (biologici, psicologici, sociali e culturali) si influenzano reciprocamente.

In particolare, un rapporto interattivo collega l’evoluzione biologica a quella culturale; secondo


Geertz la cultura, infatti, consiste più in una serie di meccanismi di controllo (istruzioni, programmi,
software), che non in un insieme di modelli di comportamento, come tradizioni, usi, abitudini.
Il tratto distintivo della specie umana consiste nella singolare dipendenza dai meccanismi extra-
corporei di regolazione del comportamento: gli umani hanno capacità innate molto generali, e
quindi insufficienti a guidare con efficacia le loro reazioni.

A caratterizzare l’uomo, dunque, sarebbe la sua incompletezza, che la cultura è chiamata a risarcire,
quasi come se l’evoluzione culturale abbia preceduto o surrogato quella biologica.

L’uomo, d’altronde, è inferiore alle altre specie in termini di forza e dunque di capacità di aggredire
o difendersi perché non ha artigli o zanne; in compenso, può vantare di altre capacità, in tempi
passati dette “spirituali” e per queste ragioni, come scritto anche da Pico Della Mirandola, l’uomo è
l’unico a godere di libero arbitrio, artefice del proprio destino, proprio perché, a differenza di altre
specie, l’uomo non ha un compito specifico e di fatto ha una fisionomia indefinita; per l’autore tale
indeterminatezza è considerata come il segno di un progetto divino.

L’idea dell’uomo come essere manchevole è poi ripresa anche dall’antropologia tedesca, tra cui
Herder, che descrive l’uomo come un essere debole, il più miserabile, la cui compensazione è
fornita dal linguaggio, che secondo il filosofo è tutt’uno con la ragione.

Per Nietzsche l’uomo è l’animale che non è ancora stabilmente determinato, la cui incompiutezza
sembra essere un compito, un dovere da assolvere.

Ancora, un grande filosofo tedesco, Gehlen, dirà che l’uomo è di una sprovvedutezza biologica
unica: l’uomo, infatti, dovendo prendere fuori da sé i mezzi di cui organicamente difetta, agisce
trasformando attivamente il mondo.

Questo perché il suo grado di manchevolezza, che potrebbe essere comune a tutte le specie, dato
che ognuna potrebbe mancare di qualche cosa, consiste in un grado limitato di specializzazione e
dunque incompleta componente biologica della sua strategia di sopravvivenza.

Infatti la specie umana, nell’equilibrio tra conformazione organica, risorse istintuali e


comportamenti appresi, si è progressivamente spostata verso l’apprendimento: sempre meno cose,
infatti, sono dipese dalla fisiologia, dall’anatomia e sempre più cose sono passate sotto il controllo
di atteggiamenti e modi di agire acquisiti dopo la nascita per via di imitazione e apprendimento.

Anche questo punto potremmo inserirlo in un processo di selezione naturale, poiché quest’ultima ha
cominciato a premiare strategie di sopravvivenza che puntavano sulla trasmissione non genetica di
informazioni, accelerando di molto i tempi.
Per tale motivo, all’evoluzione biologica si sono affiancati meccanismi di adattamento di tipo
culturale, che si sono ripercossi anche sull’aspetto anatomico o meglio neurologico della specie
umana.

Queste ripercussioni si sono sviluppate soprattutto attraverso la maggior necessità di cura parentale
e di conseguenza un rafforzamento dei legami affettivi, maggiore dipendenza reciproca e maggiore
disponibilità alla cooperazione, capacità di imparare e di adattarsi al contesto e flessibilità mentale e
di comportamento.

Da un certo punto in poi l’evoluzione naturale e culturale si sono intrecciate, per cui ai meccanismi
innati di regolazione e di controllo si è aggiunto un insieme di indicazioni acquisite che tendevano
ad accumularsi in schemi comportamentali, strutture simboliche: la cultura, che intrattiene con
l’uomo un rapporto di reciprocità.

Dunque l’idea della cultura come prerequisito per la nascita dell’uomo è un punto fondamentale,
sebbene anche la cultura possa produrre carenze a propria volta.

Alla domanda Che cosa ci ha resi umani? Possiamo rispondere in due modi.

Il primo è che l’uomo è il prodotto di uno scompenso mai perfettamente colmato; è il figlio di
un’alterazione, di una disarmonia costante con l’ambiente che lo circonda e di uno squilibrio che
tramite l’interazione biologico-culturale ha innescato un processo destinato ad auto-alimentarsi in
maniera inaudita.

Il secondo è che rappresenta la condizione dell’umano l’essere in mezzo agli altri: nessuno è
umano da solo; la specie umana ha fatto della socialità la propria bussola.

1.5 Dal Logos al baby-talk

Nella spiegazione delle grandi svolte evolutive si può fare riferimento a due principi:
l’estrinsecazione di potenzialità e la reazione a stati di bisogno.

La seconda opzione è da preferire perché l’assunto più plausibile sembra essere che il motore del
cambiamento sia sempre la mancanza, il bisogno: è da lì che proviene la spinta a reagire, a cercare
soluzioni.

Questo principio è stato applicato anche all’origine del linguaggio; in un primo stadio degli studi
legati a questo ambito, seppur incompatibile con la teoria evoluzionistica, il linguaggio è una facoltà
innata.
L’innovazione nell’ambito della ricerca linguistica, ha rinnovato questo assunto, soprattutto a
partire dalle intuizioni di Noam Chomsky, che ha modificato la sua teoria iniziale di grammatica
universale, sostenendo, invece, che la facoltà linguistica emerge solo ad un certo momento della
nostra storia evolutiva ma non in maniera graduale, bensì perfettamente formata e tutta insieme.

L’ipotesi più verosimile, però, è che la costruzione del linguaggio sia il risultato di un processo
graduale fatto di aggiustamenti e compromessi, di equilibri precari e provvisori, di esperimenti e
adattamenti progressivi.

Una convergenza di circostanze e possibilità che può essere sintetizzata da una pagina delle Città
invisibili di Calvino, in cui si parla dell’importanza delle pietre nell’arco; anche nel caso del
linguaggio, dunque, bisogna soffermarsi sulle condizioni preliminari che lo hanno reso possibile.

Si può far riferimento a diverse teorie o meglio studi sul linguaggio di diversi autori e studiosi che
sembrano non solo tra loro compatibili, ma per certi versi complementari.

1. Corballis critica l’identificazione fra linguaggio e voce: infatti le specie più simili a noi, come ad
esempio gli scimpanzé, riservano alle emissioni vocali messaggi elementari, come emozioni
improvvise, mentre dispongono di un repertorio di gesti piuttosto articolato, che comunica
maggiormente rispetto ai suoni.

L’osservazione di maggiore rilievo, secondo lo studioso, è l’idea della sincronizzazione di suono e


gesto in un unico sistema integrato; infatti egli afferma che crede che i primi linguaggi gestuali
abbiano incluso elementi vocali, sebbene il gesto fosse dominante.

Dunque il linguaggio verbale che conosciamo non è il frutto di pura e semplice acquisizione, ma
l’esito di un processo innescato da una capacità di compensazione.

Il linguaggio umano sembra la risposta ad uno stato di bisogno, secondo la platonica congiunzione
di indigenza e rimedio.

Il linguaggio trae origine da una serie di sottrazioni: man mano che si riducono gli apparati coinvolti
nell’atto comunicativo, cioè con il corpo, le mani, il volto e la voce, si pone la necessità di
codificare sempre dipiù e sempre meglio l’uso dei pochi mezzi ancora a disposizione, come risposta
ad un deficit si potenzia, si sovraccarica nella struttura, diventando più complesso e articolato.

Per ovviare all’impoverimento del mezzo di contatto, la catena verbale tenderà ad articolarsi in
maniera sempre più sofisticata, così da sviluppare fonologia, fonetica, sintassi e lessico più
complesso e articolato; per cui tanto più le innovazioni si accumulano, tanto più rapidamente si
moltiplicano.
2. Dean Falk allo stesso modo si pone il problema di come il linguaggio primitivo si sia sviluppato a
partire dalle specie precedenti all’homo sapiens: le madri ancestrali, quelle degli scimpanzè da cui
proviene l’homo sapiens, per le necessità della vita, sono obbligate a “mettere giù” i piccoli, seppur
stando attente ai pericoli che potevano derivarne; secondo Falk è proprio la necessità di un contatto
fisico a distanza che fa cominciare ad usare la voce alle madri primigenie.

Il suono della voce, quindi, anche in questo caso, compensa un distacco e quindi l’innovazione
culturale, anche in questo caso, serve a risarcire una mancanza.

Il baby talk è un modo per comunicare con i bambini da parte degli adulti, che ha peculiarità
differenti rispetto alla comunicazione ordinaria; è questa la tesi di Falk che sembra porre luce su
aspetti importanti, cioè il naturale rapporto madre-figlio, l’indagare su qualcosa di originario che
spiegherebbe il linguaggio a partire da presupposti ambientali.

Dunque il linguaggio in principio non era il Logos, la Parola, ma qualcosa di affine al Baby-talk:
modulazioni vocali, suoni e ritmi ipnotici, a conferma della mamma sempre vicina e lallazioni
destinate a diventare, dopo lo sviluppo del linguaggio articolato, uno dei primi momenti di
acquisizione del linguaggio dei piccoli Sapiens.

1.6 Una tecnologia della comunicazione

Danier Dor, uno studioso israeliano, sostiene che il linguaggio risiede tra i parlanti, non al loro
interno, per cui il luogo dove cercare l’essenza del linguaggio è la vita sociale, non la mente.

Il linguaggio, a parte gli assunti fondamentali degli studi cognitivistici, è da interpretare come un
medium, uno strumento di contatto; per questo motivo, secondo la sua posizione, gli umani non
parlano per estrinsecare capacità maturate tra i meandri delle reti neuronali, ma perché hanno
bisogno di intendersi con i propri simili.

Per lo studioso il linguaggio è una tecnologia comunicativa frutto di una costruzione sociale, che
consiste nell’istruzione dell’immaginazione.

Il dato di partenza è che, infatti, l’esperienza percettiva è privata e ciascuno di noi è separato dagli
altri da un divario esperienziale, perché ognuno vive in un mondo di esperienze distinto.

Superare questo divario è un problema che si è posto prima dell’invenzione del linguaggio, perché
comunicare ha sempre significato cercare di colmare il distacco per poter condividere o trasmettere
un’esperienza.

Questo scopo può essere perseguito tramite sistemi diversi:


1.Il primo comprende le strategie di presentazione che hanno in comune il fatto di aver corso qui e
ora all’interno dell’esperienza (come espressioni del volto, posture, gesti, smorfie).

2. Il secondo consiste nelle strategie di rappresentazione (disegni, pitture, mappe) che consentono di
liberarsi dall’hic et nunc ma che hanno un carattere iconico.

3. La terza via è la comunicazione linguistica, in cui il messaggio non equivale ad una esibizione
diretta ma un invito alla cooperazione; ciò che viene fornito è solo un insieme di coordinate,
impalcature, che devono sostenere lo sforzo immaginativo. Qui la funzione delle parole è di attivare
e di guidare l’immaginazione del destinatario che, seguendo quelle direttive, cercherà di riprodurre
nella propria mente i significati che il parlante ha captato dalle proprie esperienze.

Uno strumento di cambio di prospettiva introdotto dallo studioso è il pointing, l’atto di indicare:
indicare, infatti, diventa un gesto significativo solo in quanto si basa su un terreno intersoggettivo
comune già stabilito.

Il gesto di indicare, allontanandoci dal presupposto che esista un terreno comune, serve a costruirlo:
in questa prospettiva, dunque, ci si avvicina al piano sociale e ci si sposta sul piano della relazione
intersoggettiva.

Dunque, per Dor, il linguaggio è un’entità sociale che deriva da un processo collettivo di invenzione
e di sviluppo; per spiegare questo processo lo studioso si sofferma su tre punti fondamentali:

1.Il carattere negoziale della comunicazione linguistica: il linguaggio e gli scambi di parole
rappresentano lo sforzo di superare una distanza attraverso un’intesa reciproca, la quale non si può
realizzare se non operando insieme per aggiusti.

2. Il carattere imperfetto della comunicazione linguistica

3. Lo sviluppo del linguaggio inteso come risposta ad una pressione evolutiva: la necessità, dunque,
pratica, di migliorare la propria capacità di interazione.

1.7 Potenza del gossip

La crescente necessità di comunicare si relaziona ad un aumento del grado di interazione tra i


soggetti; ciò accade quando non solo comincia ad esserci maggiore comunicazione tra la madre e il
piccolo, ma anche quando si instaura maggiore comunicazione fra gli adulti che iniziano a
condividere le cure parentali; oltre a quest’aspetto, un’altra importante questione che spinge
all’incremento della comunicazione tra i membri del gruppo è la ripartizione dei compiti per il
controllo del fuoco e della distribuzione dei cibi.
Un altro fattore da considerare sono le condizioni ambientali e la loro mutevolezza che implica
adattamenti non solo al clima e agli elementi naturali di un luogo, ma anche all’ambiente sociale.

4. Un antropologo inglese, Robin Dunbar, scrive Grooming, gossip e l’evoluzione del linguaggio in
cui per Grooming designa la cura reciproca della pelliccia dei primati di cui lo studioso descrive le
sensazioni fisiche e le relazioni sociali connesse a questa pratica.

La cura reciproca del pelo, che induce uno stato di rilassata distensione e leggera euforia, assolve al
compito di consolidare legami di amicizia e di creare coalizioni in gruppi in cui è necessario un
equilibrio tra competizione e collaborazione.

Dunbar tiene delle ricerche sul fatto che quanto più un gruppo è grande, tanto più le dimensioni del
cervello aumentano, perché sembra evidente che le dimensioni di un gruppo vanno di pari passo con
la complessità delle relazioni sociali.

Dunque, secondo la tesi di Dunbar, la pressione evolutiva sollecitava la formazione di gruppi


sempre più grandi e per gestire una rete di rapporti sempre più estesa era necessario dedicare al
grroming una quantità di tempo notevole.

Secondo Dunbar per adattarsi alle sempre più complesse dinamiche sociali è stato necessario
ricorrere al linguaggio, che si è sviluppato come una forma di grooming vocale che ci ha consentito
di formare gruppi molto più grandi della sola pratica di cura reciproca del pelo.

Una premessa fondamentale di questo ragionamento è che non c’è dubbio che il linguaggio abbia
delle potenzialità straordinarie; tuttavia, nell’uso quotidiano che ne facciamo, lo spazio riservato
alle alte speculazioni e agli slanci poetici è molto modesto.

Dunque noi parliamo per la maggior parte delle nostre conversare di cose che servono per la
socialità e non perle di saggezza; questo perché ci preme essere informati più di tutto degli altri, del
nostro rapporto con loro e fra di loro.

Dunque, la proposta di Dunbar è che il linguaggio si sia evoluto per permetterci di fare chiacchiera,
di fare gossip; per lo studioso si intende uno scambio di informazioni sul comportamento degli altri
membri del gruppo e cioè qualcosa che ad uno certo stadio dell’evoluzione umana, ha assunto un
rilievo decisivo per la sopravvivenza.

E dunque, quanto più diventava necessario creare coalizioni e avere quante più informazioni
possibili sugli altri, dato che il suolo sottoponeva i primati a tanti pericoli, tanto più era necessario
semplificare quel processo, inizialmente rappresentato dal grooming, e poi trasformato in una forma
di grooming, cioè il linguaggio, che consente, con il suo passaggio alla voce, di rivolgersi
contemporaneamente a più interlocutori, di scambiarsi informazioni rispetto a terzi e di riferirsi a
situazioni passate, potendosi svincolare dall’hic et nunc.

1.8 Non c’è linguaggio senza inganno

Il linguaggio è uno strumento straordinariamente potente perché consente sia di evocare cose o
persone assenti, sia di fare riferimenti a eventi passati o futuri.

L’invenzione del linguaggio, però, deve tener conto anche dell’altro lato della medaglia: della
possibilità di incombere in bugie e inganni; la vita è diventata così, come dice Pietro Germi in
relazione al Pasticciaccio di Gadda, un maledetto imbroglio: un groviglio, un intrico.

Dunque, la proprietà fondamentale del gossip consiste nell’informarsi sul comportamento degli
altri, in modo da scongiurare il rischio di essere ingannati o aggrediti.

Quanto è più intenso il contatto con i propri simili, tanto più è importante prendersi cura della
propria immagine, o meglio della propria reputazione; la reputazione, però, è anche importante
soprattutto in ambiti come il commercio, in cui chi lo fa per mestiere deve accrescerla e mantenerla
continuamente, sebbene sia sicuramente un ambito molto proficuo soprattutto per gli inganni e le
truffe.

A Primo Levi, scienziato di formazione e di professione dirigente d’industria, capita di dar voce alla
tradizionale diffidenza verso la mercatura in termini piuttosto drastici, ritenendo che chiunque se ne
occupi lo si riconosce per l’occhio vigile e per la paura di essere imbrogliato e questo mestiere
tende a distruggere loro l’anima immortale.

Lo stesso Levi ha scritto anche un pièce teatrale, Il sesto giorno, che è un racconto dove un comitato
di esperti, coordinato da Arimane, è chiamato a implementare il Progetto Uomo; il più scettico è
Ormuz, che crede che l’uomo possa distruggere l’equilibrio planetario e soprattutto per la
riproduzione sessuata.

Qui si ipotizza un’umanità il cui comportamento sia governato da automatismi, come per gli insetti
sociali e in particolare per le api che sono tutte operai sterili intorno alla grande figura dell’ape
regina, l’unica in grado di riprodursi: qui il vero individuo è l’alveare, il superorganismo.

Nell’opera di Levi, però, la proposta del Consigliere viene respinta e l’uomo del Progetto dovrà
destreggiarsi tra egoismo individuale e spirito di gruppo.

Ritornando a Dunbar, egli dunque sottrae definitivamente al linguaggio un’origine trascendentale;


dunque, si cerca, a tentoni, di scoprire e di capire quale sia la matrice dello strumento che ci ha dato
la poesia: sembra una nebulosa fatta di un invaso di voci in cui man mano si prende sostanza
attraverso la necessità di parlare e la produzione stessa di discorsi.

1.9 Montagne innominate?

C’è stata un’epoca, certamente remotissima, in cui i nostri progenitori hanno cominciato a
modellare il proprio habitat; alla trasformazione fisica del paesaggio, avviata soprattutto dalla
nascita dell’agricoltura, ha fatto riscontro anche una metamorfosi simbolica attraverso l’arredo del
mondo di parole.

Il linguaggio, dunque, serve a fare proprio il mondo per poterlo cambiare e serve a umanizzare la
realtà, ri-modellando il reale, cioè costruendo simbolicamente il mondo abitato e, trasformando il
mondo che vivono, gli uomini cambiano anche sé stessi per osmosi.

2.1 Making special

Arredare il mondo di parole non significa solo battezzare oggetti e fenomeni, o usare il linguaggio
per interagire con gli altri componenti del gruppo, ma anche introdurre certi prodotti verbali nel
novero delle cose che esistono.

L’ambiente in cui gli umani vivono è una “realtà aumentata”, dove cose e fatti possono essere
nominati e dove le realtà materiali si intrecciano con i discorsi; in tale contesto certi discorsi
assumono un ruolo particolare.

Una studiosa, Dissanayake, ha il merito di aver svincolato l’estetica del predominio delle arti
figurative, chiarendo che l’arte non corrisponde ai prodotti artistici, bensì ad un comportamento, un
modo di muoversi: è una performance, in cui si mette in primo piano la dimensione della relazione.

In principio, dunque, dice la studiosa, c’è un’alterazione dell’agire normale, un’uscita


dall’ordinario, rendendo speciali certi gesti e certe enunciazioni.

Un esempio importante è chiaramente il baby-talk, che si designa come un linguaggio speciale,


delegato alla madre e al piccolo e agli adulti che si prendono cura del piccolo, a cui si aggiunge,
chiaramente, anche la dimensione della performance, oltre che delle enunciazioni in sé.

Tali fenomeni rientrano nella categoria della ritualizzazione: movimenti, gesti ordinari, sono
sottoposti ad un trattamento che li altera, li trasfigura, li rende rilevanti e distintivi attraverso la
ripetizione e il riuso in contesti differenti, per comunicare un messaggio non-ordinario.

Queste rielaborazioni di comportamenti ordinari presiedono anche alla celebrazione di cerimonie


collettive, dov’è in gioco un’identità di gruppo: il making special assume i caratteri
dell’artificiazione, con giovamenti intrinseci da parte degli adulti, perché la ripetizione, la
cerimonia, il rito, aiutavano a combattere l’incertezza e farli sentire più sicuri.

Per questo l’arte è necessaria all’uomo, parte integrante della sua esistenza.

Questa interpretazione può essere integrata con un riferimento ad un’altra idea sulle dinamiche
relazionali del sociologo Goffman, il quale sostiene che le interazioni sociali prevedono sempre una
certa misura di artificio, perché nei rapporti con gli altri si tende a costruire il proprio
comportamento e a giocare un ruolo; lo studioso si è servito di principi drammaturgici per
interpretare il funzionamento della società.

Quest’idea è stata a lungo interpretata anche da diversi poeti, come, ad esempio, Ungaretti, che nel
Monologhetto fa riferimento al fatto che i poeti abbiano delle maschere, sebbene ognuno non è che
la propria persona; il significato originale di persona, senonché, è proprio quello di maschera.

Nella dimensione delle relazioni sociali entra spesso in gioco la necessità di adottare accorgimenti,
di conformare la propria immagine alle circostanze, perché viene messo in atto un adattamento
reciproco.

Queste condizioni si presentano in maniera più evidente nelle fasi più cruciali dell’esistenza, tra cui
anche l’accudimento della prole e in questi ambiti la costruzione del comportamento assume
caratteri di artificio, con un grado variabile di formalizzazione, che nei casi più accentuati assume
connotati rituali.

Gli umani hanno accentuato questo fenomeno elaborandolo su una molteplicità di piani, dando vita
ad un insieme articolato di “giochi” o “riti” più o meno istituzionalizzati, tra cui l’arte e, di
conseguenza, la letteratura.

Il proposito, dunque, di questo lavoro è sicuramente spiegare com’è nata la letteratura; in questo
percorso, dunque, sappiamo che nell’universo dei comportamenti ritualizzati, entrano in gioco
anche i comportamenti verbali.

Dietro gli usi poetici del linguaggio c’è una vicenda complessa, in cui aspetti pratici, emotivi, e
cognitivi sono intrecciati indissolubilmente; l’arte della parola si perpetua per la sua capacità di fare
molte di queste cose insieme e nello stesso tempo, preservando una speciale concretezza che rende
la rappresentazione o l’elaborazione poetica della vita qualcosa di intimamente collegato alla vita
stessa, in un rapporto di osmosi.
12. Discorsi di ri-uso

La proposta teorica di Franco Brioschi procede identificando un insieme di pratiche discorsive entro
le quali è venuta acquistando la sua particolare fisionomia quella che noi chiamiamo “letteratura”.

Un comportamento ordinario viene staccato dal contesto di origine, entro il quale ha una certa
funzione, e dislocato in un contesto differente, dove viene adibito a compiti nuovi; in questo
processo subisce qualche forma di alterazione: viene reso «speciale».

Questa nozione può anche essere espressa al rovescio: un comportamento ordinario viene reso
speciale, in modo da produrre un'alterazione del contesto in cui si svolge.

Il making special funziona perché - e nella misura in cui - tutti i soggetti implicati si intendono sul
significato da attribuire a quello che si fa.

Fra gli umani, a riprendere il medesimo schema sono comportamenti culturali: la coordinazione si
svolge in un regime di ritualità acquisita, coscientemente accolta.

Di norma, gli enunciati prodotti hanno una finalità contingente: sono indirizzati a un interlocutore
preciso con un preciso scopo, per cui una volta profferito, l'enunciato esaurisce la propria efficacia,
a prescindere dal fatto che raggiunga l’obiettivo desiderato o no.

Per questo motivo a certe frasi, a certi discorsi, comincia ad essere attribuita una qualità particolare:
ripetuti, acquistano evidenza; vengono riconosciuti, e ciò accresce la loro peculiarità.

Diventando <<speciali>>appaiono depositari di una validità che eccede la situazione presente, e che
per comune consenso può meritar loro di essere ricordati ed è proprio il radicamento nella memoria
che porta a termine il processo.

Nell'universo del discorso prende forma la distinzione fra il discorso verso cui tu mi indirizzi qui e
ora, destinato a «consumarsi» in un singolo atto di comunicazione ad hoc, e il discorso destinato a
una fruizione pubblica ripetuta nel tempo da parte di un uditorio che nel tempo si rinnova, come ad
esempio un testo sacro, una fiaba, un proverbio ed è proprio attraverso un processo di
emancipazione e secolarizzazione che si distaccheranno i generi che chiamiamo letterari.

Le parole possono essere considerate come vocalizzazioni di ri-uso: una certa sequenza di suoni
acquista un valore semantico stabile, svincolato dalle particolari circostanze in cui i suoni vengono
prodotti.
Qui e ora, rispetto a un interlocutore in carne e ossa, quasi qualunque emissione sonora,
accompagnata da un atteggiamento espressivo e da appropriata gestualità, può funzionare come
veicolo di una intenzione comunicativa determinata.

Ciò che accade è che gradualmente, a forza di ripetizioni, si conviene di associare certi suoni a una
certa idea - o se si preferisce, un significante a un significato.

Allora nascerà la parola, spendibile in una serie di contesti fra loro simili: e in seguito, quanto più si
sarà rafforzata nella coscienza dei parlanti l'associazione originaria, in contesti non più così simili.

L'effetto sarà di alimentare una duplice spinta: da un lato verso la generalizzazione (i concetti
astratti), dall'altro verso la particolarità (i termini precisi e i quasi-sinonimi che popolano quelli che
noi chiamiamo campi semantici).

I discorsi di ri-uso replicano il processo a un superiore livello di complessità.

Perché ciò avviene? Le categorie individuate da Lausberg mettono in risalto il carattere


istituzionale del ri-uso: a prevalere sono le istanze normative e operative (nel senso della pragmatica
linguistica): dogmi, leggi, liturgie.

Ma è evidente che testi e racconti sacri, ordinamenti giuridici, cerimoniali codificati, formule
magiche germinano su una conche di discorsi «artificati», di asserti speciali, cui viene
progressivamente riconosciuto uno status privilegiato.

Tutti questi fenomeni appartengono alla categoria degli usi non immediatamente strumentali del
linguaggio.

Proprio della letteratura è un regime discorsivo fondato sull'appello alla cooperazione, sullo stimolo
all'esercizio (guidato, ma non passivo) della fantasia.

13. Una cassetta di attrezzi

Walter Siti ravvisa nell'efficacia l'obiettivo principe a cui mira la teoria letteraria degli ultimi anni:
quello che più conta della letteratura sarebbe l'impatto che produce sui lettori, e quindi la sua virtù
riparativa e terapeutica.

Al centro delle analisi letterarie non c'è più la ricerca del senso ma lo studio sull'efficacia; non quel
che un testo significa ma come il nostro cervello si modifica quando leggiamo quel testo, o quali
testi attivano più sinapsi cerebrali.

Nel fortunato volume L’istinto di narrare, dopo aver sottolineato un principio cardine della teoria
darwiniana, cioè che l'evoluzione è «implacabilmente utilitaristica», Gottschall propone un
accostamento tra le storie e la mano e a cosa può servire, cioè tantissime cose e lo stesso vale per le
storie.

Gottschall parla di storie; e in effetti la riflessione su letteratura e evoluzione gravita intorno al


campo della narratologia; se c’è qualcosa che caratterizza la letteratura in quanto tale è il fatto di
ritagliare ambiti del reale dei quali si sia fatta (o si possa fare) esperienza, configurandola in
maniera studiata e riconoscibile.

Il privilegio attribuito dalla teoria letteraria alla narrazione offre indubbi vantaggi, come agevolare i
collegamenti fra l'universo della parola e il variegato dominio della multimedialità, o approfondire
il nesso tra narrazione letteraria e narrazione naturale.

Le controindicazioni però non mancano: ridurre la letteratura alla narrativa equivale ad amputare o
obnubilare settori estesi ed essenziali della creazione verbale: inoltre, espone al rischio di svalutare
la dimensione estetica, pregiudicando le possibilità di inquadrare un sistema culturale nel suo
complesso.

Partiamo dall'idea di Daniel Dor del linguaggio come tecnologia della comunicazione; prendendo in
esame quel sottoinsieme dello spazio linguistico che è la letteratura largamente intesa, potremmo
dire che anch'essa rappresenta una forma di tecnologia, inevitabilmente più specifica.

La letteratura dunque, l'opera letteraria, va concepita a mio avviso come un potenziale strumento,
una cassetta di attrezzi.

La letteratura propone anche un immenso repertorio di informazioni su eventi, ambienti, personaggi


storici, figure sociali, e, analogamente, offre in maniera implicita o esplicita un inesauribile catalogo
di visioni e di principi, di concetti e di teorie; però se fosse solo in questo modo, non si
distinguerebbero da altri tipi di discorso, come la storiografia o la trattatistica.

Infatti, oltre a porgerci informazioni di carattere oggettivo le opere letterarie danno adito anche a un
sapere diverso, di carattere soggettivo, autoriflessivo e relazionale.

Ci dicono (ci possono dire) qualcosa su di noi, attivando, o ricordandoci, o in qualche caso
addirittura facendoci scoprire le nostre personali risorse e inclinazioni: la nostra capacità di
commuoverci e di indignarci, di vergognarci e di ammirare, di provare ira, stupore, desiderio,
attrazione compassione, rammarico e nello stesso tempo ci inducono a collocarci, cioè a definire la
nostra posizione rispetto alle diverse (infinitamente diverse) realtà di cui parlano.

Per la verità il ragionamento andrebbe capovolto: noi attribuiamo la qualifica di "letterario" ai testi
suscettibili di produrre simili effetti di accensione autocosciente, anche quando siano stati concepiti
come contributi a un preciso ambito disciplinare, quale esso sia (storia, filosofia, religione, arte,
scienza), sebbene se è vero che con ogni utensile possono fare più cose, non si può fare qualunque
cosa con qualunque utensile.

Nel fenomeno generale del ri-uso si registra una chiara tendenza alla fissazione, alla
cristallizzazione, dato che gli enunciati divengono rigidi, immodificabili, e le circostanze in cui
vengono fatti valere si precisano e si codificano: si pensi ad esempio alle formule liturgiche o ai
testi di legge: ciò avviene sempre in forza di un'autorità che si fa garante e arbitra dell'efficacia degli
atti.

E’ possibile notare due cose:

1. Le soglie della letteratura in realtà, sono molteplici: la letteratura sta al confine tra sacro e
profano, tra gioco e rito, tra istituzione e improvvisazione, tra fissità e metamorfosi. Gli usi poetici
del linguaggio comprendono la creazione di versi che vengono trasmessi immodificati lungo i
secoli, a volte perfino avulsi dal contesto e ripetuti come proverbi, verità sapienziali o mantra, e
l'ideazione di personaggi e miti sottoposti a incessanti variazioni manipolazioni mutamenti.

2. La seconda è che tali ambiguità rappresentano da un lato un tratto (per dir così) atavico, ossia
derivano direttamente dalla couche primigenia di usi del linguaggio che solo in seguito,
specializzandosi, avrebbero dato luogo a testi sacri, legislazioni, cerimoniali, preghiere, norme;
dall'altro convivono con ogni forma di codificazione, spesso dando luogo a rapporti di interazione e
scambio, cioè contribuendo alla sua perpetuazione.

Ma la letteratura, a che cosa serve? A vivere, naturalmente: cioè a sopravvivere, o a vivere


meglio.

Di usi speciali della parola, semplicemente, abbiamo bisogno, fanno parte della nostra natura, così
come è stata plasmata dalla co-evoluzione biologico-culturale.

Per vivere - per sopravvivere, per vivere meglio - non ci bastano una quantità adeguata di alimenti,
o i legami affettivi, dobbiamo anche nutrirci di parole di un certo tipo.

Una cultura è anche un insieme di discorsi di ri-uso: di formule, sentenze, versi, storie; e la
letteratura non ha mancato di rappresentare questo aspetto.

Si pensi ad esempio alle narrazioni che popolano gli ambienti dei personaggi dei Promessi sposi,
come il caso del miracolo delle noci, gli aneddoti di vita paesana, racconti popolari, storie
edificanti,
14. Di schemi, canovacci e paradigmi

L'idea di Brioschi è che la letterarietà non consiste in un dato oggettivo, in una marca linguistica
incorporata nel testo, indipendentemente dall'atteggiamento del destinatario. Nessun testo è
letterario per natura: lo diventa, invece, quando è trattato come tale. «Letterario», in altre parole, è
un certo modo di usare (o ri-usare) i testi.

Per capire la ragion d’essere della letteratura, il primo passo è il distacco dalla contingenza, dai
condizionamenti pratici del qui-e-ora.

Rendere «speciale» qualcosa - un gesto, un atteggiamento, un discorso - significa evocare un


mutamento di rapporti: istituire una dimensione di realtà a sé, nella quale vigono principì diversi
dall'ordinario.

La letteratura, come sopra si diceva, si attiene a una versione più debole di elaborazione rituale, che
ne preserva anche gli originari tratti di gratuità e perfino di arbitrarietà.

Ci si proietta in una dimensione di alterità rispetto alla concretezza della vita empirica e l'alterità è
evidente nel caso delle opere d'invenzione.

Che il contenuto di un testo letterario (poema, racconto, dramma) corrisponda o no a fatti


effettivamente avvenuti non invalida il principio della presa di distanze rispetto alla condizione del
lettore-ascoltatore-spettatore.

La distinzione tra ciò che si ritiene effettivamente accaduto e ciò che potrebbe soltanto accadere è
neutralizzata dal grado di immedesimazione che la fruizione letteraria per sua natura implica.

Lo stesso grado di plausibilità o di probabilità del non-(ancora) accaduto è una variabile


indipendente; ciò che conta è la capacità del testo di rappresentare - di rendere presente - qualcosa
che presente non è.

Sia il mondo immaginario evocato da un'opera di finzione, sia lo strato più profondo della realtà
rivelato dal saggista producono l'effetto di mettere davanti agli occhi dei destinatari qualcosa che in
precedenza ignoravano, o che loro sfuggiva.

Si tratta del fenomeno, ben analizzato da Vittorio Spinazzola nei suoi contributi sulla lettura
letteraria, del «divertimento»: la realtà effettuale è messa fra parentesi, l'attenzione è distolta dall'hic
et nunc, il lettore si proietta in una dimensione virtuale dove ha corso una realtà alternativa.

Tra le motivazioni della letteratura largamente intesa c'è anche, e direi in primo luogo, il piacere che
si trae da questo genere di «vacanza», di sospensione dell'ordinario.
Primo, perché probabilmente un apparato cerebrale ipertrofico e iperattivo come il nostro trae
giovamento dalle pause; secondo, perché anche il divertimento più spensie fato consente, nella
fruizione collettiva, una tonificante esperienza di condivisione.

Ci si svaga, ci si allieta, si ride insieme si nostri simili: cosa che, per un essere sociale qual è Homo,
gratifica e ristora, corrobora e da sollievo.

Ovviamente e stare per dire: a maggior ragione -, il medesimo fenomeno si riproduce anche quando
il contenuto della finzione rappresentata è serio o tragico. Dolersi insieme, piangere insieme, è
comunque di conforto. Del resto la dimensione della festa, centrale in tutte le culture, eccede
largamente quella del rito.

Ma la fruizione letteraria non si esaurisce nel moto centrifugo che ci allontana dall'esperienza
quotidiana; c'è anche, non meno decisivo, il moto inverso che ci riporta dalla realtà immaginata al
nostro mondo di sempre ed è qui che si possono registrare i maggiori benefici della letteratura.

Dall'immersione in una realtà "altra" si può riemergere con nuove (o rinnovate) risorse: parametri
per interpretare e valutare i comportamenti, nostri e dei nostri simili, parole e discorsi per dar voce a
posture esistenziali, atteggiamenti relazionali, costellazioni emotive.

Un altro punto fondamentale è che non è detto che la lettura - s'intenda, sempre, la lettura letteraria -
dispieghi i suoi effetti in tempi brevi: motivi, personaggi, situazioni, metafore si possono depositare
nella nostra coscienza di lettori, sedimentare nel tempo e quindi agire con lentezza, persuaderci per
gradi, ovvero sorprenderci con epifanie dilazionate e tardive.

Brian Boyd insiste sull'idea di narrazione come «gioco cognitivo»: si tratta di un meccanismo di
recupero memoriale, di anamnesi (aváuvmous): noi interpretiamo quello che accade davanti ai
nostri occhi applicando all'attualità uno schema di comportamento che abbiamo già
precedentemente catalogato e memorizzato.

Il dato che importa rilevare è che la regolazione del nostro comportamento dipende da schemi
precedentemente assimilati: modelli, patterns, o per usare un termine più ruspante, canovacci.

Il carattere intrinseco degli schemi interpretativi con i quali cerchiamo di orientarci nel mondo è di
essere strettamente vincolati a situazioni concrete. Sono «ricordi» nel senso di tracce, incisioni,
cicatrici, non di algoritmi. E dunque figure, fisionomie: perfino nomi propri.

Benché il fenomeno sia comune e universale, e per nulla appannaggio di tempi eccezionali e lettori
d'eccezione, a questo proposito viene a taglio un brano del racconto di Primo Levi Potassio che
rievoca i primi mesi del 1941:
Ci radunavamo nella palestra del «Talmúd Thorā», della Scuola della Legge, come
orgogliosamente si chiamava la vetusta scuola elementare ebraica, e ci insegnavamo a vicenda a
ritrovare nella Bibbia la giustizia e l'ingiustizia e la Borava che abbatte l'ingiustizia: a riconoscere
in Assuero e Nabucodonosor i nuovi oppressori.

Sicuramente bisogna notare che la nostra attenzione e la nostra memoria sono sempre casi
particolari, personaggi definiti, nomi, volti e il discrimine è costituito dall'evidenza individuale: cioè
dalla possibilità di identificare con la forza dell'immaginazione un individuo, un soggetto personale
e corporeo al quale ancorare vicende e parole.

Il secondo aspetto su cui conviene soffermarsi è che l'ambito di cui si occupano i canovacci che
recepiamo e tratteniamo dalle opere letterarie ha a che vedere essenzialmente con l'universo del le
relazioni. È il groviglio dei rapporti con i nostri simili a forma re la gran parte delle trame, degli
aneddoti, degli stati e dei modi dell'animo, delle sentenze, delle dissertazioni.

In ultima analisi, dunque, la ragion d'essere della letteratura consiste nell'incremento delle nostre
competenze sociali.

Di conseguenza, la socialità dev'essere di continuo aggiustata, aggiornata, corroborata: ovvero - per


usare un termine che ha un senso pregnante negli studi sull'evoluzione -ri-modellata. E ciò può
avvenire solo tramite esperienze. Le opere letterarie ci consentono appunto di allargare in forma
virtuale, per via di simulazione e di immedesimazione, il campo della nostra esperienza, e quindi di
arricchire la nostra cassetta di attrezzi di altri strumenti mentali, di nuovi modelli di condotta e/o di
interpretazione dei fatti: nuove tracce per imbastire reazioni e risposte, nuove coordinate per dare
senso a ciò accade. Perché noi umani, per natura, rifuggiamo dal caso.

A ciò si collega la nostra ben nota tendenza a sopravvalutare l'agency: attribuire un evento alla
volontà di qualcuno, ravvisare un'intenzione dietro ad ogni circostanza, una soggettività con cui fare
i conti dietro ad ogni fenomeno, è stata sicuramente una strategia evolutiva vantaggiosa. La stessa,
in fondo, per cui siamo inclini all'ansia.

Dunque, meglio ancora se gli errori sono vissuti solo in una dimensione virtuale, offline, per dir
cosi: come gioco, come interludio estetico che consente di assaporare esperienze pericolose,
trasgressive.

15. Le menti degli altri

Capire cosa corre nella mente degli altri è impossibile, salvo che nella letteratura, beninteso.
Come scrive E.M. Forster in Aspetti del romanzo, lo spettro dell'opacità reciproca che ci perseguita
nella vita reale può essere dissolto: in una storia d'invenzione, la nostra conoscenza dell'animo dei
personaggi può non avere limiti.

La letteratura - come abbiamo a più riprese suggerito - rappresenta un uso potenziato del
linguaggio, una sorta di parole al quadrato (o elevata a n). L'esperienza letteraria offre la possibilità
di ponderare e apprezzare le risorse insite nella comunicazione linguistica: di ampliare e
approfondire il proprio dominio dell'universo verbale, e dunque le proprie competenze
comunicative, attive e passive. Inoltre, consente di fare qualcosa che nella realtà non è dato, ossia
penetrare nella coscienza altrui. Da alcuni decenni ha largo corso nelle ricerche psicologiche la
categoria di teoria della mente, theory of mind, spesso abbreviata in ToM: l'abilità di comprendere
gli stati mentali, attribuendo emozioni, intenzioni, desideri, aspetta-tive, credenze ad altri soggetti
(ma anche a sé medesimi).

Da questo punto di vista, la letteratura costituisce un repertorio davvero sterminato di


esemplificazioni, che oltretutto si gioca su più livelli: il lettore entra nella coscienza dei personaggi,
e nello stesso tempo assiste ai tentativi dei personaggi di intuire e interpretare quanto avviene nella
coscienza altrui.

Grande rilievo ha assunto altresi, in molti ambiti di ricerca, la riflessione sull’empatia.

Si tratta di un tema cruciale per gli studi evoluzionistici perché si collega alla questione dell’origine
dei comportamenti altruistici o (come si usa dire) eusociali.

La risposta più persuasiva mi pare sia quella che, prendendo spunto da intuizioni dello stesso
Darwin, ipotizza l'esistenza di più processi selettivi che agiscono simultaneamente, a livello di
individuo, di parentela, di gruppo.

Astrattamente parlando, la selezione naturale dovrebbe premiare l'egoismo e sanzionare l’altruismo,


e questo infatti avviene all'interno dei singoli gruppi.

Ma il discorso cambia quando la competizione riguarda i gruppi stessi: in questo caso risulta
vantaggiosa la disponibilità ad anteporre il bene collettivo all'individuale tornaconto.

La ragion d'essere della letteratura è di esemplificare situazioni e vicende che ci aiutino in


valutazioni di questo tipo, corroborando le nostre inclinazioni spontanee o mettendole in
discussione, confermando valori principi credenze ovvero denunciandone i limiti e le
contraddizioni.
Per Bref, la letteratura dovrebbe accrescere la nostra saggezza pratica: anche nella sua forma meno
impegnativa, che ha come prima o esclusiva mira quella di rispondere al bisogno di distrarsi dagli
impegni quotidiani (letteratura di evasione).

Di empatia in letteratura si parla molto negli ultimi anni; le cause sono molteplici: il prevedibile
contraccolpo rispetto alla sopravvalutazione della dimensione cognitiva, causata dalla fortuna delle
neuroscienze in campo narratologico; la scoperta dei neuroni specchio, che sembra certificare sul
piano della eziologia cerebrale il processo di immedesimazione da sempre ritenuto distintivo della
fruizione estetica; i progressi nelle ricerche sul comportamento degli animali, e in particolare dei
primati, dai quali emerge un quadro ricco e complesso, con un'incidenza degli impulsi empatici
indubbiamente assai superiore rispetto a quanto si poteva supporre fino a pochi decenni la (il tutto a
maggior disdoro di Cartesio e della sua sciagurata concezione degli animali come automi).
Indubbiamente, l'esperienza letteraria sollecita la disposizione all'empatia.

Attraverso l'immaginazione, si (ri-)vivono emozioni e sentimenti dei personaggi: letteralmente,


sentiamo con loro; lo dice anche la risonanza magnetica funzionale applicata alla diagnostica per
immagini -, da cui risulta che, guardando qualcuno compiere un'azione, o anche leggendo di
qualcuno che compie un'azione, si attivano le stesse aree del cervello che si attiverebbero se si
compisse quell'azione direttamente.

Questa - se così si può dire - «svolta empatica» ha indotto alcuni commentatori a insistere
sull'importanza civile della letteratura.

La filosofa Martha Nussbaum ha sostenuto con autorevolezza la tesi che leggere romanzi, rendendo
più acuta la sensibilità per il mondo interiore dell'altro, agevoli l’inclusione dei sentimenti nel
dominio della razionalità, e quindi accresca il nostro senso di giustizia: «L'immaginazione letteraria
è una parte essenziale sia del teoria sia della pratica della cittadinanza»').

Nella sua accurata monografia su empatia e romanzo, Suzanne Keen mette in guardia contro gli
eccessi di ottimismo: condividere le emozioni dei personaggi non necessariamente inventiva i
comportamenti pro-sociali dei lettori.

Alle capacità di immedesimazione si può ricorrere sia per porgere aiuto e comprensione agli altri,
sia per manipolarli: cosi come è possibile che tutta l'empatia di cui un lettore è capace si esaurisca
nel rapporto con le figure di invenzione, e non ne rimanga ombra per la vita reale.

Certo, fatte salve tutte le possibili riserve, l'esperienza letteraria rimane comunque - fra le altre cose
- un intenso esercizio a mind reading, di condivisione intellettuale ed emotiva, di traduzione in
parole di pensieri e stati d'animo, potenzialmente assai positivo.
Semmai, converrà insistere su un altro punto. Nella fruizione di opere letterarie convivono sempre,
variamente intrecciate o miscelate, un'istanza empatica, che fomenta l'identificazione con i soggetti
evocati dal testo, e un'istanza critico- razionale, lucidamente giudicatrice.

Il rapporto è fluido, varia liberamente: straniamento autocosciente e coinvolgimento partecipe sono


suscettibili di avvicendarsi, di contendersi il campo, ma anche di esaltarsi reciprocamente ( e
saranno queste le fasi in cui la lettura si fa più intensa e remunerativa).

Un dato di fatto è poi che nel corso della modernità letteraria l’abbandono romantico sia stato
sovente oggetto di biasimo da parte delle élites colte, a tutto vantaggio di posture più distaccate e
intellettualistiche, attente soprattutto ad apprezzare gli elementi ragionativi, le innovazioni
linguistiche, gli artifici formali.

Il sospetto verso il patetico trascolora non di rado in aperta condanna: suscitare commozione è
giudicato riprovevole sia sul piano estetico, sia sul piano morale.

Difficile qui non ravvisare un riflesso di trasformazioni sociali; a fronte del massiccio ingresso nel
mercato delle lettere di nuovi settori di pubblico, fra i detentori del gusto molti ci tengono a
sottolineare il divario tra la raffinata consapevolezza degli esperti e l'ingenuità dei lettori comuni.

Esemplare, per la letteratura italiana del secondo Novecento, è il caso della Storia di Elsa Morante,
accolta bene dal pubblico ma non dalla critica perché suscita nei lettori le lacrime.

16. Sul Midollo, ancora

Il midollo del leone. Dopo aver tracciato un quadro della situazione della letteratura contemporanea,
Calvino mette in chiaro quali sono le coordinate entro le quali intende muoversi. Una letteratura che
sia «presenza attiva nella storia» deve conoscere altrettanto bene le proprie prerogative e i propri
limiti.

La prima qualità della letteratura è la relazione di reciprocità con i lettori, uomini e donne, cui essa
si rivolge: non si può insegnare se non a coloro dai quali c'è qualcosa da imparare (un assunto dal
quale germinerà, un quarto di secolo dopo, l'iper-romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore).

Su questa base, la letteratura può aiutare i lettori ad essere <<più intelligenti, sensibili, moralmente
forti>>.

Le cose che la letteratura può insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il
prossimo e sè stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a
piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni
della vita, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la
durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili.
Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti
dobbiamo continuamente andare a impararlo.

Perché il punto è questo: nei testi letterari si può trovare tutto e il contrario di tutto. La pazienza e il
coraggio, la cautela e l'audacia, la razionalità e l'abbandono, la dedizione e l'improvvisazione, la
fiducia e il sospetto, l'altruismo e l'affermazione di sé; e i pregi e i pericoli della memoria e dei
sensi, delle emozioni e dell'autocontrollo, dell'ostinazione e della rinuncia, della duttilità e del
rigore. Sta al lettore cosa e come leggere, cosa scegliere, come assimilare.

Può limitarsi ad assaporare esperienze dalle quali seguiterà a rifuggire; può trasporre nel proprio
vissuto cose apprese o intuite sulla pagina; può servirsi di quanto ha letto come di una pietra di
paragone o d'un goniometro.

In una parola, può fare di ciò che legge l'uso che riterrà più opportuno - o meglio, l'uso di cui sarà
capace.

Due ultime riflessioni:

1. Se la ragion d’essere della letteratura sta nell’uso che se ne fa, un uso, come abbiamo visto, non
immediato, non univoco, non esaustivo -, se cioè le opere letterarie funzionano come attrezzi
simbolici che accrescono la nostra capacità di interpretazione e di comprensione del reale, allora è
necessario anche riconoscere che della letteratura, come di qualunque altro strumento, materiale o
no, si può fare anche un cattivo uso. Per cui anche frequentando molti poeti, leggendo tanto, si può
comunque non diventare persone migliori.

2. La seconda osservazione deriva dalla metafora che, nel nome di Giaime Pintor, Calvino usa come
titolo per il suo saggio: «In ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una
morale rigorosa, per una padronanza della storia». Ma in verità la lettura o l'ascolto di quelle
speciali parole messe in fila con l'ambizione di resistere al tempo, di dire qualcosa che non è mai
stato detto prima in quel modo, di contribuire a dare forma e senso al mondo, quelle parole vengono
ingerite, assorbite, assimilate. Di esse ci si nutre. Divengono parte di noi, per cui noi umani siamo
ciò che abbiamo mangiato, saremo quello che avremo saputo o potuto mangiare.

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