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Genetica Umana Prof.

ssa: Tiziana Vaisitti


Lezione 2 Sbobinatore: Emanuele Tesio
07/12/2023 Revisionatrice: Chiara Rubino

LE VARIANTI GENETICHE E LE LORO IMPLICAZIONI


Da qualche anno si è scelto di distinguere le varianti dalle mutazioni geniche, pur essendo
fondamentalmente la stessa cosa. Il motivo sta nel fatto che, in genere, il termine “mutazione”
viene utilizzato con accezione negativa, sebbene si riferisca ad un fattore che è in realtà
strettamente funzionale al processo evolutivo, ovvero la conservazione della variabilità genetica.

Anche se per definizione il DNA può apparire come una molecola particolarmente statica, esso è
costantemente soggetto a cambiamenti. Nella lezione precedente si è accennato al concetto di
Epigenetica, e quindi a come il DNA possa essere manipolato ai fini della regolazione, ma gran
parte delle modificazioni che subisce nel corso della vita sono proprio le varianti genetiche:
rientrano in questa categoria tutti quegli eventi che contribuiscono a garantire una variabilità nel
genoma, da quelli autoindotti come il Crossing-Over o lo Splicing Alternativo alle mutazioni vere
e proprie, quelle che insorgono per motivi non premeditati e che, se vantaggiose, possono essere
trasmesse alle generazioni successive come un’eredità funzionale.
In generale le varianti di questo tipo possono essere dovute al caso, quindi spontanee (indotte da
agenti chimici o fisici esterni) oppure dovute a errori nei meccanismi di replicazione o di
trascrizione. In ogni caso il loro impatto sul DNA è enorme: ogni individuo conserva milioni di
varianti nel proprio genoma e gran parte di esse viene espressa nel fenotipo come caratteristica
somatica unica.

Tendenzialmente, quindi, nessuno si sottopone a un’analisi del DNA per capire esattamente quali
varianti abbia, perché questo non avrebbe un reale significato dal punto di vista medico, ma
potrebbe rendersi necessario nel momento in cui queste varianti dimostrassero una tendenza
patologica.
Infatti, sebbene ci siano moltissime varianti che non hanno alcun effetto perché non portano
cambiamenti nella sequenza amminoacidica (e quindi non alterano in nessun modo la proteina),
nel caso strettamente opposto c’è la possibilità che si generino varianti definite “letali” quando il
prodotto proteico risulta totalmente assente e si perde quindi la capacità di svolgere una
funzione; di solito queste situazioni non sono compatibili con la vita.

In realtà, nella maggior parte dei casi la presenza di una variante dannosa non compromette la
vita, ma coincide con l’insorgenza di una patologia legata al malfunzionamento della proteina in
questione, spesso dovuto alla sostituzione di uno o più dei suoi amminoacidi nella catena.

Polimorfismi
Acquisiscono l’attributo di “polimorfismo” tutte quelle varianti che si dimostrano abbastanza
frequenti all’interno di una determinata popolazione da poter essere considerate una sua
caratteristica. Se quindi il termine “variante” è strettamente legato al singolo portatore (che viene
chiamato mutante), per definizione il “polimorfismo” va sempre riferito a una popolazione
campione.
In particolare, perché una variante possa definirsi polimorfismo di una popolazione, deve essere
presente con un’incidenza minima dell’1-2% negli individui appartenenti a essa.

A livello medico questo è importante, perché incide sulla


considerazione dei risultati di un test genetico: a seconda
dell’etnia di un paziente le stesse varianti possono
assumere valenza di polimorfismo o di mutazione rara,
proprio in base a quanto sono tipiche di quella
determinata porzione di umanità.
Trattandosi sostanzialmente di varianti, i polimorfismi conservano tutte le loro caratteristiche:
- Sono presenti a milioni nel codice genetico di ogni individuo (circa uno ogni 1000 paia di basi)
- Sono sparsi in tutto il DNA, compresi gli introni e le sequenze regolatorie
- Possono avere un effetto fenotipico o essere silenti
- Possono riguardare singoli nucleotidi o grandi porzioni di gene
- Possono essere dovuti a errori nei meccanismi di replicazione, sebbene siano estremamente
controllati, o ad agenti esterni come le radiazioni, che spezzano la doppia elica del DNA
- Sono normalmente biallelici (questa caratteristica è tipica loro)

I polimorfismi sono stati a lungo sfruttati come sistema di marcamento del DNA in fase di
sequenziamento, quando gli strumenti e le tecniche di oggi ancora non esistevano: conoscere le
varianti tipiche di una popolazione permette di riconoscere con una certa specificità alcuni tratti
precisi di DNA, che risultano quindi marcabili e rintracciabili.

Caratteristiche generali delle varianti


Teoricamente l’informazione genetica è programmata per essere trascritta in RNA messaggero e
tradotta in proteina, esprimendo un fenotipo che si definisce wild-type (o selvatico), ovvero “più
diffuso”, che è quello standard. Nel caso di varianti o polimorfismi, invece, il corso degli
avvenimenti può portare a un prodotto proteico anormale (iper-funzionante, parzialmente
funzionante, inattivo o assente) e quindi a un fenotipo alterato che devia dal wild-type.
In particolare, si possono suddividere le varianti in 3 macro-categorie a seconda di come
interagiscono con il funzionamento del prodotto proteico, e quindi con l’espressione del fenotipo:

● Perdita di funzione (loss of function): viene


persa la funzione della proteina. Questo
perché la variante porta alla maturazione di
un mRNA tronco o completamente errato,
che può essere subito degradato o entrare
nel ciclo di traduzione e dare vita a una
proteina deforme, incapace di svolgere le
sue funzioni, che può a sua volta venire
degradata.
In tutti questi casi, il compito della proteina
non viene svolto e il fenotipo ne risente in
maniera spesso irrimediabile. Sono di solito
situate su alleli recessivi.

● Acquisizione di funzione: può capitare


che la proteina alterata sia in realtà più
funzionale di quella wild-type. Ciò avviene
quando la sostituzione di uno o più
amminoacidi amplifica il ruolo di una porzione della proteina (ad esempio rende un’estremità più
idrofobica) oppure quando la mutazione interessa una regione di DNA implicato nella sua
regolazione; in questo caso non è il gene in sé ad essere alterato ma i meccanismi della sua
espressione, che portano il prodotto proteico ad un aumento in concentrazione. Sono di solito
situate su alleli dominanti.

● Aploinsufficienza: la proteina viene prodotta in quantità non sufficienti a svolgere


correttamente tutte le sue funzioni; questo avviene quando la mutazione riguarda le porzioni di
DNA implicate nella sua regolazione genica. Come risultato il fenotipo può scomparire del tutto o
essere comunque visibile, magari con una minore evidenza.
A questo proposito è importante fare una seconda distinzione, più ampia:

● varianti fisiologiche: è l’insieme di tutte le varianti benigne, cioè silenti o vantaggiose.


Questa tipologia di varianti (e di polimorfismi) va considerata come un fattore propedeutico
dal punto di vista genetico, perché garantisce variabilità ed eterogeneità nel momento in
cui la popolazione venga sottoposta ad una pressione selettiva, come un’epidemia.

● varianti patogeniche: sono quelle che hanno delle conseguenze negative sul fenotipo e
portano a condizioni patologiche.

In base a ciò, in diagnostica è stata coniata una scala di pericolosità delle varianti, che consiste
in una classificazione a cinque categorie, utilizzata a livello internazionale e consapevole di tutta
una serie di criteri che bisogna tenere presenti nel momento in cui si riscontrano delle nuove
varianti da refertare.
Quando viene scoperta una nuova variante, a seconda di quanto sia implicata in una o più
condizioni patologiche e di quanto ciò sia comprovato, essa viene inserita in una delle cinque
categorie della scala:

Le due sezioni “Benigne” e “Verosimilmente benigne” a sinistra sono pressoché inutili dal punto di
vista diagnostico, perché riguardano tutte le varianti che non hanno impatti patologici sul fenotipo.

All’estremo opposto ci sono invece le varianti “patogeniche” e quelle “verosimilmente patogeniche”,


implicate nei fenotipi malattia. La differenza tra le due risiede nella sicurezza scientifica della loro
appartenenza a questo gruppo: se una variante porta all’insorgenza di una malattia frequente e
questo è comprovato da più studi sparsi in tutto il mondo, essa viene assegnata alla categoria
“Patogeniche”; se invece la variante in questione ha una presunta valenza patologica ma è troppo
rara per poter essere studiata in maniera esaustiva o semplicemente è stata riscontrata una sua
pericolosità solo qualche volta, allora viene definita “Verosimilmente patogenica” (questo vale
anche per le benigne).
La speranza, ovviamente, è riuscire nel tempo a far convergere sempre più dati verso le estremità
della scala.

Al contrario, è molto difficile che una variante venga declassata da patogenica a benigna o
viceversa, proprio perché l’assegnazione a ogni categoria avviene solo su basi certe e comprovate
dall’incrocio di diversi studi.

Esiste poi una quinta categoria centrale dedicata alle “varianti di significato incerto”: molte si
conoscono ma non si sa realmente quale sia il loro ruolo, quindi non possono ancora essere
classificate come causative o non causative di fenotipi malattia; si tratta di varianti che vengono
tenute in stand-by, fino a che qualcuno non dia un risultato certo sulla loro natura.

Le varianti possono essere classificate secondo diversi criteri

1. Osservando la dimensione della porzione coinvolta possono essere:


● GENOMICHE: la variante interessa l’intero genoma. Mutazioni di questo tipo sono quelle che
riguardano il numero dei cromosomi, cioè le aneuploidie: per alterazioni della normale prassi di
disgiunzione nella meiosi, il numero dei cromosomi nelle cellule figlie risulta alterato in modo
leggermente diverso a seconda che:
- La non disgiunzione avviene a livello della prima divisione meiotica. In questo caso, a
seguito della fecondazione, metà dei gameti originerà zigoti con trisomia e l’altra metà zigoti
affetti da monosomia.
- La non disgiunzione avviene a livello della seconda divisione meiotica: due gameti
ereditano un assetto cromosomico normale, quindi lo zigote che genereranno non presenterà
alcuna sindrome (dando per scontato che il gamete del sesso opposto non sia affetto da
aneuploidie), mentre gli altri porteranno uno a trisomia e l’altro a monosomia.

● CROMOSOMICHE: riguardano il singolo cromosoma. Le mutazioni più grandi possono essere


individuate semplicemente con un cariotipo, quelle più piccole necessitano invece di una
colorazione fluorescente, chiamata FISH, che permette di localizzare le eventuali porzioni
scambiate o mancanti dei singoli cromosomi.

- Delezione: alcuni frammenti di cromosoma


vengono persi. La causa può essere l’esposizione
ad agenti esterni dannosi come le radiazioni, che
sono in grado di rompere la doppia elica, un errore
nella replicazione del DNA o uno sbaglio nel
processo di Crossing-over. Spesso le delezioni
comportano la degradazione dell’RNA messaggero
o la produzione di proteine tronche, quindi rientrano
quasi tutte nella cerchia delle mutazioni “a perdita di
funzione” e sono considerate tra le più pericolose.

- Inversione: la porzione di DNA che si


stacca non viene persa, ma ruota di 180
gradi e si riposiziona sullo stesso
cromosoma. In questo caso l’informazione
è ancora presente, ma viene letta al
contrario e quindi codifica completamente
per altro. Se la porzione interessata è una
sequenza regolatoria, allora ciò che viene
modificato non è il prodotto proteico ma la
sua regolazione. Sono mutazioni molto rare
nell’uomo.
- Inserzione: un frammento di cromosoma,
derivante da una delezione, si inserisce in un
altro cromosoma.

- Traslocazione bilanciata: quando la rottura della


doppia elica coinvolge più cromosomi diversi, non
omologhi, ci può essere uno scambio reciproco di
materiale. La traslocazione viene definita
“bilanciata” siccome di fatto non vengono perse
né l'informazione genetica, né la dimensione dei
cromosomi, ma le sequenze complessive risultano comunque alterate.

- Duplicazione: una porzione del cromosoma risulta doppia; la causa può


essere di nuovo un errore nel processo di replicazione del DNA.

● GENICHE: l’entità della mutazione è molto piccola, nell’ordine di qualche paia di


basi, quindi va considerata a livello di uno o più geni. È possibile con una certa
probabilità che la mutazione cada in porzioni non codificanti del DNA e sia quindi
silente, sempre che non interessi regioni regolatorie; in tal caso si hanno
conseguenze sulla sua espressione.

Mutazioni puntiformi: riguardano una modifica nell’ordine di un singolo


nucleotide, che risulta modificato o addirittura assente:

- Sostituzioni e Traslocazioni: un fattore che riduce significativamente il rischio di pericolo in


questo tipo di varianti nel caso puntiforme è la ridondanza del codice genetico (ogni
amminoacido è codificato da più codoni) quindi, quando ci sono delle varianti soprattutto a
livello del terzo nucleotide del codone, spesso non hanno un effetto sulla proteina perchè
l’amminoacido effettivamente trasportato dal tRNA è lo stesso del wild-type. Per questo
motivo molte sono sinonime o silenti, quindi non portano un danno. Il problema sta nelle
varianti non sinonime, come le “non senso”, che codificano per un amminoacido diverso: in
molti casi la realtà è che non c’è un vero e proprio effetto patologico, perché le proprietà
dell’amminoacido sono simili a quelle wild-type o il punto in cui avviene la mutazione non è
così rilevante per la proteina. Tuttavia le non senso e le frameshift sono le peggiori dal
punto di vista medico, siccome hanno un codone di stop prematuro: se lo stop è alla fine
della proteina, questa viene comunque prodotta, se è a metà o addirittura all’inizio la proteina
può essere degradata o non essere proprio prodotta.

- Inserzioni e Delezioni sono le tipologie più pericolose di mutazioni, puntiformi o no, perché
portano a uno slittamento della cornice di lettura a livello della traduzione (frame-shift), che il
più delle volte ha come conseguenza la produzione di proteine tronche o mRNA inefficienti;
sono quindi mutazioni che comportano una perdita di funzione.

2. In base all’effetto che hanno sulla proteina possono essere:

- Silenti: non hanno nessun effetto sul prodotto proteico, e quindi sul fenotipo.

- Missenso: la sostituzione di un nucleotide può provocare il cambio di un amminoacido.


Quando si devono refertare delle varianti missenso una delle cose importanti è cercare di capire
che significato ha questo cambio amminoacidico: in primo luogo si considera il tipo di
amminoacido e che proprietà ha all’interno della proteina (ad esempio Serina e Treonina sono
coinvolte nella segnalazione mediante fosforilazione, per via del loro gruppo -OH); poi bisogna
individuare il punto in cui questi cambi sono avvenuti, perché se è un sito catalitico l’enzima
rischia di non funzionare. Ci sono poi tutta una serie di tool informatici che considerano la
struttura secondaria e terziaria e riescono a capire quanto l’amminoacido sia stato conservato
evolutivamente e quindi quanta importanza abbia. Queste varianti missenso spesso vengono
definite come “varianti di significato incerto” proprio perché non è così chiaro il loro ruolo, mentre
altre volte rientrano nella classificazione delle patogeniche. Poche volte sono benigne.

- Nonsenso: solitamente sono le più gravi, perché creano dei codoni di stop prematuri e quindi si
perdono molti domini amminoacidici; per questo sono classificate come patogeniche o
potenzialmente patogeniche. Anche in questo modo si può fare una predizione sulla stabilità
dell’RNA messaggero: se il codone di stop è molto prematuro, l’mRNA risulta troppo corto per
essere tradotto e viene subito degradato, o in alternativa entra nel ciclo di traduzione ma la
proteina prodotta non è abbastanza funzionale e va incontro a denaturazione.

- Frame-shift: provocano uno scorrimento della cornice di lettura dei codoni.

- Regioni regolatorie: la mutazione interessa le porzioni di DNA regolatorie che definiscono


quando e quanto il gene deve essere trascritto. Nella lezione precedente si è accennato alle
espressioni tessuto-specifiche, alle regolazioni che dipendono dall’ambiente o dalle necessità
della cellula ecc. Si immagini di creare confusione in questi processi: il prodotto proteico rischia
di aumentare o diminuire la sua concentrazione, di essere prodotto solo in presenza di
determinate condizioni non previste o di non essere proprio sintetizzato. Tutto ciò a causa di
un’alterazione non del gene codificante (che resta nella sua forma wild-type) ma delle regioni
dedicate alla sua espressione.

- Varianti di splicing: coinvolgono il sito donatore o il sito accettore dello splicing: durante il
processo di maturazione dell’RNA accade che per via del cambio di sequenza di queste porzioni
possano essere eliminati alcuni esoni o conservati degli introni. Anche questo si traduce,
nella maggior parte dei casi, in uno slittamento della cornice di lettura. Ciò è pericoloso perché
si produce una proteina completamente diversa. Ancora una volta il gene è nella sua forma
standard wild-type, ma non viene trascritto correttamente per via di errori dovuti alla maturazione
dell’mRNA. Solitamente questi tipi di varianti rientrano nella classificazione delle Patogeniche (o
Verosimilmente patogeniche).

- Varianti dei sistemi di riparazione del DNA: esiste tutta una serie di enzimi che pattugliano
costantemente il DNA e cercano di evitare eventuali errori nei suoi processi di replicazione. Non
sempre essi sono in grado di riparare tutto ed esistono dei meccanismi che portano la cellula in
apoptosi nel caso avvengano troppi errori. Quando si presentano delle variazioni in alcuni dei
geni che codificano per questi enzimi di controllo, allora si verificano dei fenotipi malati
incapaci di riparare gli errori di replicazione.

3. Per l’effetto che hanno sull’ereditarietà possono essere:

- Somatiche: riguardano il singolo individuo e non vengono ereditate.

- Germinali: interessano la trasmissione alle generazioni successive, e possono essere a loro


volta derivate da un pedigree familiare. Quando ad esempio si fanno dei referti genetici in
campo oncologico, per capire se la causa della patologia sia ereditaria o se il fenotipo tumorale
alterato si sia generato ex novo si indaga nel primo caso sulle cellule sanguigne, nel secondo
caso sulle cellule tumorali.

TIPOLOGIE DI SELEZIONE GENETICA


Molte varianti fisiologiche vengono mantenute
dalle generazioni successive perché portano un
vantaggio selettivo, aumentando la fitness. In
alcuni casi ci possono essere però degli
avvenimenti selettivi molto forti, come pandemie
o epidemie, che creano uno stress molto forte e
portano a un tipo di selezione definito effetto a
collo di bottiglia: solo i soggetti con determinate
caratteristiche riescono a sopravvivere.

È un effetto evidente anche in medicina nel


trattamento delle malattie: per sconfiggere un
cancro, ad esempio, è necessario sottoporlo a forti stress nella speranza che le cellule tumorali
muoiano. Spesso però qualcuna riesce a resistere grazie ad alcune sue caratteristiche genetiche
variate, allora il tumore riprende a crescere, più forte di prima.
Un’altra tipologia di selezione è quella dell’effetto del fondatore: quando un gruppo di individui si
allontana dalla sua popolazione e resta isolato per molto tempo, abbastanza da ridefinire una
nuova sfera discendente della popolazione di partenza, vengono mantenuti solo i polimorfismi
presenti in quel gruppo fondatore e quindi si va incontro a una perdita di variabilità genetica, con
conseguente fissazione di determinati alleli che poi risultano più frequenti.

Questo può essere un vantaggio, nel caso i caratteri siano particolarmente funzionali o, nel caso
contrario, uno svantaggio; in generale, una popolazione formatasi per effetto fondatore risulta
sicuramente più vulnerabile alle pressioni selettive e perciò è più difficile che possa subire una
selezione a collo di bottiglia.
La selezione ad effetto fondatore è il motivo per cui molte etnie conservano, nel loro genoma,
polimorfismi tipici che in altre zone del mondo sono considerati estremamente rari.

PROCEDIMENTI PER IDENTIFICARE LE VARIANTI GENETICHE


Le varianti di tipo genomico o cromosomico possono essere viste con un semplice cariotipo o con
una colorazione FISH, come già detto, ma per le mutazioni geniche più piccole è necessario un
sequenziamento a livello
nucleotidico.

Tra le tecniche tradizionali di


sequenziamento, la più importante è
forse il metodo Sanger, che prende
il nome dallo stesso scienziato a cui
si riconosce il sequenziamento della
struttura primaria dell’insulina.
Si tratta di una pratica che sfrutta
l’utilizzo dell’elettroforesi e di enzimi
specifici. La differenza tra questo
metodo e quelli odierni sta
sostanzialmente nel fatto che
richiede di pre sintetizzare dei primer
e permette di lavorare solo con
porzioni selettive di DNA, dovendo
già conoscere in parte la sequenza
cercata. Il limite del Sanger è dunque
l’impossibilità di sequenziare da zero
un genoma intero.

C’è un altro sistema che ora è stato in parte dismesso, ma che per anni si è usato per identificare
in modo mirato le varianti genomiche: si tratta della tecnica che sfrutta i polimorfismi, a cui si è
già accennato. Essa prende il nome di RFLP (Restriction Fragment Lenght Polymorphism) e si
basa sulla complementarietà dei “pattern di bande” che si ottengono per elettroforesi di campioni di
DNA tagliati con la stessa combinazione di enzimi di restrizione. La RFLP permette di mappare le
varianti tipiche di una popolazione e quindi di avere una base solida per un referto genetico:
individua la presenza di polimorfismi e permette di valutare la loro localizzazione con enzimi di
restrizione ed elettroforesi, andando a tagliare delle sequenze specifiche e distribuendole mediante
un campo magnetico in pattern di bande.

In genetica forense, questo si traduce in un confronto tra il DNA raccolto sulla scena del crimine e
quello dei sospettati: i campioni di acido nucleico vengono tutti tagliati con gli stessi enzimi di
restrizione specifici, in corrispondenza di polimorfismi noti, e poi trattati in elettroforesi su gel, al
fine di valutare le somiglianze tra le bande orizzontali che si ottengono come risultato (equivalenti a
una sorta di mappatura delle varianti presenti nei campioni di DNA utilizzati).
Tutto questo, oggi, è stato in realtà sostituito da sistemi automatizzati, collegati a enormi database
in grado di risalire a priori alle varianti polimorfiche di interesse…

Nel corso dei decenni, le procedure di sequenziamento e le attrezzature si sono evolute in maniera
esponenziale e al giorno d’oggi i laboratori genetici dispongono di macchinari piuttosto sofisticati,
chiamati NGS (Next-Generation Sequencing), che permettono di sequenziare tutto un genoma nel
giro di circa una notte, al costo di poche migliaia di euro (1500-2000). È un risultato storicamente
colossale, se si pensa che il primo sequenziamento è costato svariati milioni di dollari ed è stato
realmente concluso solo l’anno scorso.
Uno dei presupposti di queste tecnologie è che di base sequenziano per frammenti singoli, che
vanno poi riassemblati fino a risalire alla sequenza originale. Per questo motivo vengono utilizzati a
priori dei genomi di riferimento, provenienti da migliaia di campioni di pazienti in tutto il mondo e
memorizzati in enormi database informatici, pronti a essere usati come parametro universale di
comparazione.

Bisogna ricordare che l’obiettivo, in generale, è sempre determinare nuove varianti patogeniche e,
soprattutto, capire se siano rare o polimorfiche, A questo proposito è molto utile avere a
disposizione una tale quantità di dati provenienti da tutto il mondo: l’impiego di questi sistemi ha
permesso di capire quali sono i “geni malattia”, ovvero di associare a ogni fenotipo un determinato
genotipo. Esiste un database in continuo rinnovamento che ha in memoria tutte le malattie
genetiche conosciute, associate alle loro varianti, il cui nome è OMIM gene map statistics.
(http://www.ncbi.nlm.nih.gov/omim)
Esso è costantemente aggiornato di tutte le varianti che progressivamente vengono identificate nei
soggetti con un determinato fenotipo malattia Questo è importante soprattutto nel campo delle
malattie rare, perché avere dei risultati concreti su un singolo database permette di determinare
con rapidità e sicurezza se la causa sia, ad esempio, una sola mutazione o un’eterogeneità di più
varianti sparse magari su più geni diversi.

Concretamente, i parametri che vengono incrociati per giungere a delle conclusioni solide sono
sempre di tipo probabilistico, basati su frequenze e tassi di insorgenza; a questo proposito occorre
fare chiarezza su alcuni termini:

- Tasso di mutazione: è la frequenza con cui si passa dalla condizione wild-type a quella
alterata.
- Frequenza di mutazione: è il rapporto tra il numero di individui che presentano una determinata
variante e il totale della popolazione presa a campione. Le varianti possono essere frequenti in
modo diverso nelle popolazioni, tant’è vero che ognuna di esse viene associata a tutta una serie
di polimorfismi tipici, sfruttati poi dalla genetica come marcatori selettivi.
- Frequenza allelica: definisce quanto la variante è presente nel genotipo di un singolo individuo.
Ciò che fa è valutare in quanti alleli sia presente la variante, e quindi se si trova in eterozigosi
(50%) o in omozigosi (100%), permettendo ad esempio di studiarne la dominanza o la
recessività (come si approfondirà nelle lezioni successive).

Il costo di queste tecnologie è crollato negli ultimi anni fino a qualche migliaia di euro a
sequenziamento; per lo Stato Italiano, che vanta un sistema sanitario nazionale, questo è un gran
vantaggio perché permette di prescrivere il test genetico per qualunque paziente a un prezzo
estremamente ragionevole. Si apre quindi la possibilità di utilizzare un approccio definito come
“medicina personalizzata”, la quale comprende dei sistemi che verificano la malattia da un punto
di vista genetico (quindi inoppugnabile) e contemporaneamente forniscono dati utili ai fini di una
terapia adatta alla fisiologia del singolo paziente.
L’importanza di una cosa del genere si percepisce soprattutto in ambito oncologico: se tempo fa la
chemioterapia era una prassi quasi obbligatoria per tutti i pazienti, adesso c’è la possibilità di
programmare ex novo un percorso terapeutico completamente individuale, che nella maggior parte
dei casi si rivela meno rischioso e più efficace della classica chemioterapia.

La scelta mirata di un trattamento personalizzato sulla base di risultati genetici ha soprattutto lo


scopo di ovviare ad un problema molto diffuso, che è la resistenza parziale o totale ad alcuni
farmaci, dovuta proprio alla presenza di determinate varianti rintracciabili. Sono di questo tipo le
cosiddette varianti condizionali, chiamate così perché dimostrano un reale impatto sul fenotipo
(ad esempio una resistenza) solo in presenza di determinate condizioni esterne come, appunto,
l’assunzione di un farmaco in particolare. Un tipo di varianti condizionali che è bene conoscere, a
questo proposito, sono le varianti di suscettibilità, che rispondono a uno stimolo esterno
aumentando la probabilità di contrarre una malattia o esserne colpito.

È davvero conveniente una lettura per intero del genoma, dal punto di vista diagnostico?
Se i costi non sono un problema e i tempi nemmeno, in realtà una difficoltà sta nel fatto che,
effettivamente, solo piccole percentuali di DNA sono davvero chiare fino in fondo alla comunità
scientifica, in termini di funzionalità: la maggior parte del DNA è comunemente definito
“regolatorio”, perché si dà per scontato che abbia una funzione (anche se non è ancora
assolutamente chiaro quale sia). Quindi avere sotto mano un sequenziamento completo è
solitamente sconsigliato, perché la maggioranza delle varianti che si identificherebbero non
avrebbero una reale valenza clinica.

Per questo motivo in medicina si tende a fare dei sequenziamenti mirati detti “a pannello”, che
sono concentrati solo sulle porzioni codificanti o regolatorie di interesse, a seconda della malattia
riscontrata. Per esempio, se il soggetto ha sviluppato un tumore al seno, sapendo che i geni
responsabili sono solamente due (malattia poligenica), conviene procedere a un sequenziamento
mirato di quegli unici due geni, per un costo di poche decine di euro e qualche minuto di attesa dei
risultati.

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