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Aborto spontaneo ricorrente (RPL o RM)

Definizione: perdita di 2 o più gravidanze cliniche (visualizzazione della camera gestazionale con l’ecografia) [ad oggi
vengono incluse anche le gravidanze biochimiche] o documentate con l’istopatologia.
L’incidenza è del 2-5% ma è in aumento, in ragione soprattutto dell’aumento dell’età materna. Inoltre, in assenza di fattori
di rischio, la probabilità di successo nelle successive gravidanze è del 35-70%.
Il problema di questa condizione è anche legato al disaccordo fra le linee guida (nelle diverse versioni e nei diversi Paesi),
sia in ambito diagnostico circa i test da eseguire, che terapeutico (per cui si tende ad adottare un evidence-based
management).
[Nell’ambito della evidence-based medicine, il valore degli studi scientifici si valuta in livelli di evidenza che ne
definiscono la qualità (ad es. revisioni sistematiche o meta-analisi di studi randomizzati controllati sono di livello I); ne
risulta, quindi, che la forza delle raccomandazioni dipenderà dal livello degli studi da cui originano (ad es. raccomandazioni
di grado A originano da studi di livello I)]
Linee guida internazionali:
- RCOG (Royal College of Obstetrician and Gynaecologists) 2013, update 2017: in ambito diagnostico prevedono:
- Studio del cariotipo di entrambi i partner (Ia)
- Valutazione della morfologia genitale con ecografia pelvica bi- o tri-dimensionale (Ia)
- Esami diagnostici per la sdr da anticorpi antifosfolipidi (Ia)
- Test tiroidei, OGTT, dosaggio PRL (Ib)
- Esami diagnostici per la trombofilia ereditaria (Ib)
- Ricerca di autoAb tiroidei (III)
- Valutazione delle cellule NK e dei Th1 (III)
- TORCH (III)
- ESHRE (European Society of Human Reproductive and Embriology) 2006, update 2022: in ambito diagnostico prevedono:
- Anamnesi familiare ed personale (fisiologica, ostetrica e patologica) (es. età, BMI, esposizione a tossine)
- Studio del cariotipo di entrambi i partner
- Valutazione della morfologia genitale con ecografia pelvica bi- o tri-dimensionale
- Esami diagnostici per la sdr da anticorpi antifosfolipidi
- Ulteriori indagini: casi particolari, programmi di ricerca
- ASRM (American Society for Reproductive Medicine) 2008, update 2012 [update 2021 relativo solo alla parte anatomica] in
ambito diagnostico prevedono:
- Anamnesi familiare e personale (soprattutto in relazione alle patologie autoimmuni e ad eventi trombotici)
- Studio del cariotipo di entrambi i partner
- Studio del cariotipo del prodotto dell’aborto
- Valutazione della morfologia genitale con ecografia pelvica bi- o tri-dimensionale
- Esami diagnostici per la sdr da anticorpi antifosfolipidi
- Esami tiroidei e
dosaggio della
PRL

Nota: trattandosi di un centro di riferimento, le pazienti che giungono Nota: la sovrapposizione di fattori eziologici
all’osservazione sono già selezionate. rende difficile valutare quale/i delle strategie
Un’elevata % dei casi in cui la causa resta misconosciuta è riconducibile terapeutiche adottate è risultata
effettivamente risolutiva della

Percent of abnormal tests in controls

Nota: da questo studio si evince che la


percentuale di test anormali è
maggiore nelle donne con poliabortività rispetto ai controlli, ma che tali percentuali non variano significativamente in
relazione al numero di aborti.

Fattore genetico nella poliabortività

In base al meccanismo patogenetico possono verificarsi:


- Alterazioni della meiosi nel gamete (le più frequenti) [la maggior parte delle aneuploidie scaturisce da un errore
nella maturazione degli ovociti; la formazione di un ovocita aneuploide è strettamente legato all’età materna,
infatti gli ovociti delle donne di età più avanzata sono più inclini a produrre errori durante la divisione dei
cromosomi durante la mutazione dei gameti, cioè la meiosi]
- Alterazioni della mitosi dopo la fecondazione [il mosaicismo dell’embrione consiste nella compresenza in esso
sia di cellule euploidi che di
cellule aneuploidi; questo
accade quando l’errore non è
già presente nella prima
cellula, ovvero in uno dei due
gameti, ma si verifica durante
le divisioni cellulari successive
dell’embrione, cioè la mitosi]
Dallo studio del materiale abortivo, è
emerso che il 60% era associato ad
alterazione cromosomica (età
dipendente).
Il rischio di aborto fra la 6° e la 12°
settimana in donne < 35 anni è del 9-12%, ma aumenta oltre i 35 anni, a causa soprattutto di un aumento di incidenza delle
trisomie; in donne > 40 anni il rischio arriva al 50%.

Un’anomalia cromosomica in uno o in entrambi i partners è una causa indiscussa di RM. La frequenza di anomalie del
cariotipo, fra cui le traslocazioni bilanciate, è maggiore nelle coppie con storia di RM (2-5%) rispetto che nella
popolazione generale (0,3%). Una maggiore incidenza si è riscontrata inoltre nei casi di RM rispetto ai casi di aborto
sporadico. Un individuo con traslocazione (quella robertsoniana bilanciata t(13;14) è la più frequente) produrrà, per
anomala segregazione durante la meiosi, il 50-70% di gameti sbilanciati, che, se fecondati da gameti normali, produrranno
zigoti con delezioni (monosomie parziali) o duplicazioni (trisomie parziali). Quindi in una coppia in cui un componente è
portatore di traslocazione le possibili conseguenze sono: il prodotto del concepimento può essere non vitale con
conseguente aborto precoce (28%), vitale ma con sviluppo di malformazioni (9%), o vitale con sviluppo normale (62%).
L’elevata percentuale di aborti comporta subfertilità, cioè un significativo aumento del tempo necessario a finalizzare il
concepimento (22 mesi).

Un’altra possibile problematica genetica è quella dell’aneuploidia ricorrente: alcune donne sembrano avere una maggiore
tendenza a formare embrioni sbilanciati indipendentemente dall’età. Un’attenta review della letteratura conferma
l’esistenza di questa condizione, che si traduce in RM correlati a triploidie e trisomie del prodotto del concepimento. La
PMA con PGS (screening genetico preimpianto) [vengono cioè selezionati solo gli embrioni senza alterazioni
cromosomiche] è efficace nel prevenire un nuovo episodio abortivo dovuto a trisomie e poliploidie ricorrenti.

La consulenza genetica prevede un’accurata anamnesi familiare e lo studio dei cariotipo dei partner.
Nel caso uno dei due risultasse portatore di una traslocazione bilanciata, è indicato un esame diagnostico invasivo
(amniocentesi o villocentesi) [il NIPT rileva solo alterazioni numeriche dei cromosomi e microdelezioni] o la PMA con
PGS.
Nel caso uno dei due risultasse portatore di una traslocazione non bilanciata, cioè con perdita di materiale genetico (i cui
gameti saranno sbilanciati nel 100% dei casi), l’unica opzione è la donazione dei gameti.
Nel caso di RM inspiegato, la PGT-A (diagnosi preimpianto per le aneuploidie cromosomiche) [=PGS], permettendo di
scegliere gli embrioni euploidi da impiantare, migliora notevolmente la prognosi (56%).

La PGS è stata proposta per migliorare la prognosi gestazionale in pazienti con RM inspiegato o correlato a traslocazioni. Il
razionale alla base di questa proposta è la riduzione degli episodi abortivi attraverso l’eliminazione degli embrioni
sbilanciati. Vi sono però ancora controversie legate al suo impiego; inoltre in Italia non è a carico del SSN.
La diagnosi genetica preimpianto viene impiegata dal 1989, mentre risale al 2009 l’applicazione della metodica Array-
CGH (e più tardi della NGS) alla PGS risale al 2009. In passato l’analisi veniva effettuata su una singola cellula
(blastomero) prelevata al terza giornata, mentre più recentemente è stata introdotta la tecnica della biopsia allo stadio di
blastocisti in quinta giornata, che consiste nel prelievo di un frammento (5-6 cellule) di trofoectoderma. Tale operazione,
quando effettuata a questo stadio di sviluppo, non compromette la vitalità della blastocisti, né le sue possibilità di impianto,
oltre a garantire un’analisi decisamente più accurata sia dal punto di vista tecnico che genetico.
Con l’impiego della PGS ai casi di RM da traslocazione, si ottiene, rispetto al ciclo spontaneo, una diminuzione
dell’intervallo di concepimento (1,4 cicli o inferiore a 4 mesi) e un miglioramento della prognosi gestazionale (87%),
maggiormente in relazione al pregnancy loss rate (↓), e meno all’implantation rate (↑). Anche l’impiego ai casi di RM
inspiegato è ugualmente vantaggioso.
Quindi le indicazioni all’impiego della PGS ai casi di RM sono:
- RMs portatori di traslocazioni
- RMs di età> 35/38 aa
- RMs con precedente aborto aneuploide, indipendentemente dall’età
- RMs con anomalie cromosomiche nello spermatozoo (teratospermia)
Secondo le linee guida americane (2012): Non ci sono dati sufficienti che dimostrino che la PMA/PGD migliora il tasso di
natalità nelle coppie con RM e un'anomalia genetica strutturale. Sulla base di limitati dati citogenetici, il 36%-39% degli
aborti spontanei nelle coppie con RM associato a un fattore genetico strutturale ha un riarrangiamento strutturale
sbilanciato. Lo screening di routine dell'aneuploidia embrionale preimpianto non è giustificato.
Secondo le linee guida europee (2017): Lo studio del cariotipo della coppia non è raccomandato di routine nei casi di RM.
Potrebbe essere effettuato dopo una valutazione individuale del rischio. Tutte le coppie con risultati di un cariotipo fetale o
parentale anormale dovrebbero ricevere una consulenza genetica ed essere informate sulle possibili opzioni di trattamento
disponibili, compresi i loro vantaggi e svantaggi.

Fattore anatomico nella poliabortività

Una malformazione uterina congenita (mulleriana) si riscontra nel 12,6% delle pz con RM, ma solo nel 4,3% dei
controlli.
Le tecniche diagnostiche comprendono:
- Isterosalpingografia: esame radiografico ottenuto mediante l’opacizzazione con mdc dell’utero e delle tube,
inserendo un catetere in vagina.
- Sonoisterosalpingografia: esame ecografico ottenuto mediante la dilatazione con una soluzione fisiologica sterile
dell’utero e delle tube, inserendo un catetere in vagina.
- Isterosalpingoscopia: esame endoscopico mininvasivo che permette di vedere all’interno della cavità uterina e
delle tube, inserendo l’isteroscopio dotato di telecamera in vagina.
- Ecografia bidimensionale: non consente una diagnosi di certezza (il sospetto diagnostico nasce dall’osservazione
di due atri endometriali e nel mezzo un tessuto fibroso, ipoecogeno, scarsamente vascolarizzato).
- Ecografia tridimensionale e risonanza magnetica: sono gli esami che garantiscono una migliore caratterizzazione
anatomica.
- Laparoscopia: impiegata solo a scopo terapeutico.

La classificazione delle malformazioni uterini elaborata dall’American Fertility Society (AFS) nel 2005 è stata sostituita da
quella elaborata nel 2013 dal gruppo di lavoro CONUTA (CONgenital Uterine Anomalies) istituito dalle società europee
ESHRE/ESGE. I presupposti generali del nuovo sistema classificativo sono:
- l’anatomia è la base per la classificazione sistematica delle anomalie;
- le deviazioni dell’anatomia uterina derivanti dalla stessa origine embriologica sono la base per la definizione delle
classi principali [l’utero si forma per la fusione delle porzioni inferiori dei dotti di Muller e successivi processi di
canalizzazione e riassorbimento del setto mediano];
- le variazioni anatomiche delle principali classi che esprimono diversi gradi di malformazione uterina clinicamente
significativi sono la base per la definizione delle principali sottoclassi;
- le anomali cervicali e vaginali sono classificate in sottoclassi supplementari indipendenti.
Schema per la
classificazione
delle anomalie
del tratto
genitale
femminile
secondo
ESHRE/ESGE

Classe U0 utero
normale, con profilo
esterno convesso e
cavità triangolare.

Classe U1 utero
dismorfico, con profilo
esterno convesso ma
forma anomala della
cavità uterina. Si
distinguono 2
sottoclassi:
- U1a, utero a T: cavità uterina sottile dovuta all’ispessimento delle pareti laterali [eccesso miometriale su cui si può
intervenire chirurgicamente]; rapporto corpo/cervice di 2:1
- U1b, utero infantile:
cavità uterina sottile,

senza ispessimento
delle pareti laterali, e
profilo esterno concavo; rapporto corpo/cervice di 1:2.

Classe U2 utero settato, con profilo esterno convesso e protrusione mediana del profilo fundico interno maggiore del 50%
dello spessore di parete. Questa protrusione si presenta come un setto che può dividere in due la cavità uterina in parte o del
tutto. Risulta dalla dall’anomalo riassorbimento del setto mediano [queste pazienti devono essere trattate tramite sezione
per via isteroscopica del setto, in ragione del suo difetto di vascolarizzazione che potrebbe compromettere l’impianto].

Classe U3: utero bicorporale, con un profilo esterno anomalo per la presenza di un’incisura esterna mediana del profilo
fundico che eccede il 50% dello spessore della parete. Chiaramente questa incisura si associa con una protrusione interna
mediana che può dividere in due la cavità uterina in parte o del tutto. Risulta da un difetto di fusione dei dotti di Muller
[queste pazienti non necessitano di intervento chirurgico correttivo]. Si distinguono tre sottoclassi:
- U3a, utero bicorporale parziale
- U3b, utero bicorporale totale (in passato didelfo)
- U3c, utero bicorporale settato: al difetto di fusione si aggiunge un difetto di riassorbimento [queste pazienti
devono essere trattate tramite sezione per via isteroscopica della parte settata del difetto].
-
Classe U4 emiutero, cioè un utero formato solo unilateralmente, mentre la parte controlaterale può essere rudimentale o
assente. Si distinguono due sottoclassi:
- U4a, emiutero con una cavità rudimentale, caratterizzato dalla presenza di un corno funzionale comunicante
[queste pazienti necessitano di intervento chirurgico per prevenire la migrazione in essa della gravidanza dopo
l’impianto] o non comunicante
- U4b, emiutero senza cavità rudimentale, caratterizzato dalla presenza di un corno controlaterale non funzionale o
dall’aplasia della porzione controlaterale.

Classe U5 utero aplastico, cioè assenza di qualsivoglia cavità completamente o unilateralmente sviluppata. Si distinguono
due sottoclassi:
- U5a, utero aplastico con cavità rudimentale
- U5b, utero aplastico senza cavità rudimentale.

Classe U6 casi non altrimenti classificabili.

Per distinguere l’utero settato (che necessita di intervento chirurgico correttivo) da quello bicorporale (che non necessita di
intervento chirurgico correttivo) si può utilizzare l’ecografia 3D per misurare in sezione sagittale:
- la distanza interostiale, cioè tra i due osti tubarici (in altre parole la larghezza della cavità uterina);
- la profondità di interdentazione fundica dalla linea interostiale, cioè la distanza tra la linea interostiale e l’estremità
distale (apice) del setto (in altre parole, la lunghezza del setto, che è > del 50% dello spessore di parete) [nel caso
dell’utero bicorporale questa distanza è > 5 mm];
- lo spessore della parete uterina al fondo, cioè la distanza tra la linea interostiale e il contorno esterno fundico o la
sierosa uterina;
- la lunghezza della cavità uterina libera dal setto, cioè la distanza tra l’estremità distale del setto e il livello
dell’orifizio uterino interno.

La classificazione CUME 2018 considera tre criteri ultrasonografici (ecografia 3D):


- lo spessore della rientranza (o indentatura) laterale ≥ 7mm
- l’angolo (d’indentatura) laterale ≤ 130°
- l’arcuatura fundica (o angolo T) ≤ 40°
per discriminare fra:
- un utero normale con una cavità triangolare [massimo 1 criterio]
- un utero con una cavità con una piccola arcuatura fundica e laterale (borderline) [2 criteri]
- un utero con una cavità con spiccate arcuature fundica e laterale (utero a T) [3 criteri]

L’utero a T necessita di intervento chirurgico correttivo perché può determinare problemi di impianto per la difettiva
vascolarizzazione delle pareti uterine, ma anche un parto pretermine per la ridotta cavità uterina.

La patogenesi alla base della RM da anomalie congenite dell’utero non è ancora propriamente chiarita, si suppone però che
il difetto di placentazione sia correlato a:
- vascolarizzazione anomala in corrispondenza setti/ispessimenti fibrosi
- alterata recettività endometriale (per ridotta numerosità dei recettori per gli estrogeni e il progesterone)

La terapia dell’utero settato è l’asportazione del setto uterino o metroplastica isteroscopica. Tale intervento è
raccomandato da tutte le linee guida in quanto garantisce nei casi di RM una drastica riduzione del tasso di aborti spontanei
e un drastico aumento del tasso di nati vivi, quindi un miglioramento della prognosi gestazionale. La metroplastica
isteroscopica si esegue impiegando un’ansa bipolare per la sezione del setto (l’utilizzo alternativo della micro-forbice di
Bertocchi rappresenta una procedura dolorosa per la paziente ma ha il vantaggio di una gestione ambulatoriale). Si esegue
in seguito un controllo ecografico (per appurare anche di aver resecato a sufficienza).
Raccomandazioni ESHRE 2017:
- A tutte le donne con RM si dovrebbe eseguire una valutazione dell'anatomia uterina.
- La tecnica migliore per valutare l'utero è Transvaginal 3D US, che ha un'alta sensibilità e specificità, e può
distinguere tra utero setto e utero bicorporeo con cervice normale (ex utero bicorne AFS).
- La sonoisterosalpingografia è più accurata della isterosalpingografia nella diagnosi delle malformazioni uterine e
può essere utilizzata per valutare la morfologia uterina quando la US 3D non è disponibile o quando è necessario
indagare la pervietà tubarica.
- Se viene diagnosticata una malformazione uterina mulleriana, devono essere prese in considerazione ulteriori
indagini (comprese quelle sui reni e sulle vie urinarie).
- La RMN non è raccomandata come opzione di prima linea per la valutazione delle malformazioni uterine nelle
donne con RM, ma può essere utilizzata dove 3D US non è disponibile.
- Se la metroplastica isteroscopica del setto abbia effetti benefici (migliorando i tassi di nati vivi e di aborto
spontaneo, senza risultare dannosa) dovrebbe essere valutato nel contesto di
trials chirurgici in donne con RM e utero settato [questa raccomandazione è
però ormai datata; va inoltre sottolineato la non eticità di condurre studi
randomizzati, penalizzando le pazienti nel gruppo di controllo]
- La metroplastica isteroscopica non è raccomandata per l’utero bicorporeo con cervice normale (ex utero bicorne
AFS) e RM.
Fattore endocrino nella poliabortività

Diabete e PCOS

Il diabete mellito si correla con RM solo se scompensato.

Le donne con RM hanno un’incidenza di PCOS maggiore rispetto a quelle fertili (20-40% vs 10-20%).
Nelle donne con RM la prevalenza di insulino-resistenza è maggiore rispetto a quella nei controlli.
L’ESHRE non raccomanda il dosaggio degli androgeni nelle donne con RM; infatti il ruolo principale nella patogenesi
della RM correlata a PCOS è rappresentato dall’insulino-R piuttosto che dagli androgeni (che influiscono negativamente
sulla qualità ovocitaria, essendo responsabili di atresia follicolare). L’insulino-R si associa ad infiammazione sistemica
cronica, condizione che coinvolge anche l’apparato genitale: a livello endometriale si modifica l’assetto immunologico,
influenzando la decidualizzazione (per es. diminuiscono la galectina-1 e la glicodelina) e la recettività all’impianto.
Benché sia accertata l’associazione fra PCOS ed RM e si possa considerare la PCOS un fattore contribuente, l’uso della
metformina è ancora oggetto di controversie. Fino a poco tempo fa le linee guida ne controindicavano l’uso in fase iniziale
di gravidanza, ma da una recente metanalisi è emerso che l’uso della metformina in donne con RM e insulino-R diminuisce
il rischio di un successivo aborto, e non ci sono evidenze teratogenicità (non è stato rilevato un incremento di
malformazioni congenite o aborti nelle donne che hanno assunto metformina da prima della gravidanza e per tutta la sua
durata). La metformina va comunque sospesa nel 2° trimestre, quando la paziente ha raggiunto un buon equilibrio con la
dieta e l’attività fisica, per il rischio di basso peso fetale. Secondo l’ESHRE (nel 2017, prima dell’uscita della metanalisi),
non ci sono sufficienti evidenze per raccomandare una supplementazione di metformina in gravidanza per prevenire
l’aborto in donne con RM e alterazioni del metabolismo glucidico.
L’impiego alternativo di myo e dichiro inositolo, efficace nella PCOS e nell’insulino-R, non è stato valutato nella RM.

Insufficienza luteinica

L’insufficienza luteinica è l’inadeguata maturazione dell’endometrio dovuta ad un deficit qualitativo (durata della fase
luteinica <10 gg, quindi il corpo luteo va precocemente incontro a luteolisi) o quantitativo del corpo luteo (valori di
progesterone < 10 mg/ml, che correlano con una riduzione del n° di gravidanze/ciclo), responsabile di perdite pre-impianto.
Per la diagnosi è quindi possibile dosare il progesterone dopo 7-8 gg dall’ovulazione (individuata ecograficamente o con i
test di ovulazione ad uso domestico) oppure individuare ecograficamente i segni di fase post-ovulatoria (luteale-secretoria)
e quindi di recettività endometriale, cioè l’ispessimento dell’endometrio che appare iperecogeno (per la reazione deciduale)
e la presenza di corpo luteo ovarico con il tipico flusso periferico rilevato tramite color-Doppler, detto “anello di fuoco”. In
passato si eseguiva la datazione ovulatoria valutando le modificazioni istologiche endometriali secondi i criteri di Noyes;
con la diagnosi di ovulazione istologica è stato comunque dimostrata una maggiore attendibilità dell’ecografia o del picco
di LH, rispetto alla data dell’ultima mestruazione.
Secondo l’ESHRE, non è raccomandata l’esecuzione di test per l’insufficienza luteinica nelle donne con RM. Questo è
giustificato dal fatto che non è stata dimostrata l’associazione o che sia un fattore contribuente la RM.
È comunque possibile una terapia che comprende due protocolli terapeutici:
- Induzione all’ovulazione con clomifene citrato o gonadotropine (correzione della fase follicolare)
- Supplementazione di progesterone per via endovaginale (correzione della fase luteinica) [strategia più usata]
Secondo l’ESHRE, non ci sono sufficienti evidenze per raccomandare l’uso del progesterone per migliorare il tasso di nati
vivi in donne con RM e insufficienza luteale. Anche questa raccomandazione è giustificata dalla non dimostrata
correlazione fra insufficienza luteinica ed RM e quindi necessita di ricercarla come fattore causale.
[Le raccomandazioni dell’ESHRE sono però antecedenti all’uscita di una metanalisi che ha invece dimostrato
l’associazione fra insufficienza luteinica ed RM e che la somministrazione di progesterone in questo contesto garantisce un
miglioramento della prognosi gestazionale]

Distiroidismo

La gravidanza influenza la patologia tiroidea e i distiroidismi influenzano: la gestante, la placentazione e il feto in sviluppo.
[Così come la placenta contribuisce all’incremento degli ormoni tiroidei in gravidanza con la produzione di deiodinasi tipo
III (enzima che trasforma T4 in T3 e T2 molto attivo durante la vita fetale), gli ormoni tiroidei influenzano la
placentazione, inibendo l’apoptosi delle cellule trofoblastiche e favorendo l’approfondarsi della placenta, oltre stimolando
il rilascio del vasodilatatore NO.
Il feto, nelle prime 20 settimane di gravidanza, dipende dagli ormoni tiroidei materni che riceve per via transplacentare, in
quando non ancora in grado di produrli autonomamente; essendo gli ormoni tiroidei essenziali per il corretto sviluppo del
SNC fetale, un ipotiroidismo materno nelle prime 20 settimane ha ripercussioni maggiori sullo sviluppo neurologico che se
insorge più tardivamente.]

Linee guida su tiroide e gravidanza:


- Associazione Medici Endocrinologi e International Sociiety of Gynecological Endocrinology, 2007
- ATA (American Thyroid Association), 2017

L’ATA ha definito i range di normalità in gravidanza per:


- TSH < 2,5 (1° trimestre), < 3 (2° trimestre), < 3,5 (3° trimestre) μUI/ml
In gravidanza l’incidenza dell’ipotiroidismo conclamato è dello 0,2-1%, mentre di quello subclinico del 6,8%; tali
condizioni possono essere responsabili di complicanze gravidiche (ipertensione gestazionale, eclampsia, ritardo di crescita,
parto pretermine, diabete gestazionale, riduzione del QI del bambino, ed RM), quindi devono essere trattate.
- TSH > 0,1 (1° trimestre), > 0,2 (2° trimestre), > 0,3 (3° trimestre) μUI/ml
L’ipertiroidismo in gravidanza può associarsi ad iperemesi gravidica transitoria (3%) e Morbo di Graves (0,5%).

Le complicanze materne correlate all’ipotiroidismo sono: aborto (rischio 2 volte più elevato), ipertensione, preeclampsia,
mortalità perinatale, distress respiratorio [l’ormone tiroideo influisce sul rapporto lecitina/sfingomielina del surfactante,
quindi in alcuni casi a rischio di parto pretermine viene somministrato il TRH], anomalie congenite (sdr di Down), tiroidite
postpartum. Le pazienti con un deficit, anche subclinico, della funzione tiroidea presentano un aumentato rischio di
complicanze materno-fetali la cui gravità si correla con: entità del deficit, momento della diagnosi, adeguatezza della
terapia. Tra le cause di ipotiroidismo in gravidanza ci sono: tiroidite autoimmuni e deficit di iodio.
La tiroidite autoimmune rappresenta la malattia autoimmune più frequente (5-10% delle donne in età fertile) ed è
caratterizzata da un elevato titolo di autoAb organospecifici e non organospecifici diretti contro Tireoglobulina (TG
Ab>55) [glicoproteina principale costituente della colloide] e Tireoperossidasi (TPO Ab>10) [enzima che media
l’incorporazione dello iodio inorganico nello scheletro della TG, portando alla formazione di monoiodiotirosina e
diiodiotirosina, dalla cui condensazione si ottengono gli ormoni tiroidei]. Anche in condizione di eutiroidismo, la presenza
di Ab anti-tiroide si associa ad un aumentato rischio di aborto e complicanze ostetriche, perché questi autoAb costituiscono
il fattore che più frequentemente determina o si associa ad un’inadeguata funzione tiroidea (oltre che un’azione diretta
contro i loro specifici bersagli, gli Ab anti-TPO determinano un danno diretto alle cell tiroidee attraverso l’attivazione della
cascata complementare)
Da una metanalisi è emerso che nelle donne con RM la prevalenza di tiroidite autoimmune è significativamente più alta
rispetto ai controlli; la presenza di Ab anti-tiroide comporta infatti una minore riserva funzionale tiroidea e quindi una
minore capacità di adattamento della tiroide ai cambiamenti imposti dalla gravidanza. È stato inoltre riscontrato un
progressivo aumento della % delle pz con Ab anti-tiroide e TSH>3 (dal 10% al 40%) nel corso della gravidanza (dalla 10°
sett al PP).
Oltre ad essere stata evidenziata la correlazione tra TSH>3 ed RM (la percentuale dei casi di RM è >10% nelle donne con
TSH>3 e <10% nelle donne con TSH<3), è stato anche dimostrato che l’incidenza degli episodi di interruzione precoce
della gravidanza aumenta significativamente per valori di TSH>3 e rimane ugualmente elevata anche per valore di TSH fra
3 e 10 e >10; questo suggerisce la necessità di trattare anche i casi di ipotiroidismo subclinico.
Uno studio ha infine rilevato valori di fT4 < 0,8 ng/dl (limite inferiore del range di normalità) al termine della gravidanza
nelle donne con Ab anti-TPO positivi (mentre l’fT4 era in range nelle donne con Ab anti-TPO negativi), dimostrando
l’effetto negativo di questi autoAb sulla funzione tiroidea.
È stato dimostrato che con una terapia adeguata si riducono drasticamente i casi di aborto e di parto pre-termine in favore
dei parti a termine, in uguale misura nei casi di ipotiroidismo conclamato e subclinico.
Secondo l’ESHRE, nelle donne con RM è raccomandato uno screening tiroideo comprendente TSH e Ab anti-tiroide, e, in
caso si riscontrino valori anormali, anche del T4.
L’apporto iodico durante la gravidanza dovrebbe essere di 250 μg/die. Per valutarne i livelli vengono frequentemente
utilizzate le concentrazioni urinarie mediane di iodio: un valore >500 μg/L è considerato eccessivo, un valore compreso tra
150 e 250 μg/L è adeguato e non richiede una particolare integrazione di iodio, mentre un valore <150 μg/L è insufficiente
e richiede un’integrazione di iodio [spesso il quantitativo presente nei multivitaminici non è sufficiente; inoltre bisogna
tener conto della provenienza geografica della donna per sospettare una carenza ed adottare l’opportuna strategia per
garantirle l’adeguato apporto giornaliero].

In caso di ipotiroidismo neo diagnosticato in gravidanza è previsto l’inizio immediato della terapia sostitutiva con
levotiroxina a dose piena. Nelle gestanti ipotiroidee da Tiroidite di Hashimoto la dose è di 1,9 μg/kg/die, mentre in quelle
ipotiroidee da tiroidectomia (o da radioterapia con iodio radioattivo) è necessaria la dose piena di 2,3 μg/kg/die per
ricostituire il pool. La levotiroxina va somministrata 20 minuti prima di colazione e 4h prima dei preparati polivitaminici
(in quanto ferro e calcio potenzialmente ne diminuiscono l’assorbimento).
In caso di ipotiroidismo preesistente in gravidanza, considerando che la richiesta di tiroxina aumenta dal 30-50% in
gravidanza:
- in fase preconcezionale deve essere aumentata la dose di levotiroxina fino a che il TSH>1
- in gravidanza l’aumento della dose deve essere tale da mantenere il TSH nella norma (nelle gravide con
ipotiroidismo post-ablativo l’aumento sarà del 45%, cioè di 50 μg/die, mentre in quelle con ipotiroidismo
autoimmune del 30%, cioè 2 cp/settimana).
Il dosaggio di fT3, fT4 e TSH deve essere poi effettuato alla fine del 1° trimestre, a 20-24 settimane e a 28-32 settimane.

Le raccomandazioni dell’ESHRE prevedono che l’ipotiroidismo conclamato insorto prima del concepimento o all’inizio
della gravidanza in donne con RM dovrebbe essere trattato con levotiroxina, mentre ci sono evidenze contrastanti in merito
al trattamento dell’ipotiroidismo subclinico, che potrebbe ridurre il rischio d’aborto (ma oltre ai potenziali benefici vanno
considerati anche gli eventuali rischio [praticamente nulli se la terapia è ben bilanciata]). Se una donna con ipotiroidismo
subclinico o tiroidite autoimmune ed RM resta nuovamente incinta, i livelli di TSH dovrebbero essere controllati
precocemente (7-9 settimane) e l’ipotiroidismo conclamato dovrebbe essere trattato con levotiroxina. Non ci sono ancora
sufficienti evidenze, al di fuori di trial clinici, a supporto del trattamento con levotiroxina di donne eutiroidee con Ab anti-
tiroide ed RM. In conclusione, uno screening universale per distiroidismi (TSH, fT4) nel 1° trimestre è raccomandando ed
economicamente vantaggioso; l’ipotiroidismo conclamato deve essere immediatamente trattato mentre in merito a quello
subclinico i dati non sono univoci, quindi un’eventuale terapia va discussa con la paziente in base al rapporto
rischio/beneficio.

Fattore immunologico nella poliabortività


La gravidanza consiste nella simbiosi tra individui parzialmente diversi o semi-allogenici; il feto infatti porta un corredo
genetico per metà di derivazione paterna. Questo tipo di coesistenza richiede una raffinata e complessa regolazione del
sistema immunitario, sia materno che fetale, il cui scopo è ad un tempo quello di garantire una efficiente protezione contro
eventuali infezioni e di consentire il processo di l’invasione del tessuto embrionale “estraneo” nel contesto di quelli materni
evitando che i fisiologici meccanismi di reazione immunitaria, messi in atto dall’organismo della madre, risultino dannosi
per l’embrione. Anni di studi e ricerche hanno solo in parte chiarito le modalità attraverso le quali si realizza questo
riassetto immunologico.
Ciò che è stato dimostrato è che a) il feto ha proprietà immunogene; b) in gravidanza la risposta immunitaria materna non è
depressa; c) l’utero non rappresenta un sito “immunoprivilegiato”. Quindi l’interfaccia materno-fetale, piuttosto che una
‘barriera immunologica’ elaborata dalla placenta, è un sito nel quale operano attivamente fenomeni di tolleranza
immunitaria.

L’embrione, percorrendo la tuba, incontra anticorpi e cellule del sistema immunitario ma evade la risposta immunitaria
grazie alla zona pellucida, una membrana lipoproteica che ne maschera gli Ag che verrebbero riconosciuti come non-self.
Arrivato in utero (day 5) come blastocisti, però, la perdita della membrana (hatching) ai fini dell’adesione all’epitelio
endometriale rappresenta un primo momento critico per la buona riuscita della gravidanza, causa di buona parte degli
aborti.
Dopo l’impianto, un altro momento critico è rappresentato dalla placentazione. Per un corretto sviluppo della placenta è
necessario il processo di invasione trofoblastica delle arterie spirali e la loro dilatazione. Dopo l’adesione, il trofoectoderma
invade l’epitelio endometriale oltre la membrana basale fino alla matrice extracellulare; alcune cellule trofoectodermiche
penetrano all’interno della decidua, intorno ed all’interno delle arterie spirali, provocandone modificazioni tali per cui
queste ultime perdono la loro tonaca muscolo-elastica e si trasformano in vasi beanti, detti vasi uteroplacentari, che si
aprono direttamente negli spazi intervillosi. Questo passaggio è fondamentale per la formazione dei villi e quindi la
placentazione, quindi se non avviene correttamente comportare aborto, preeclampsia, ritardo di crescita e parto pre-termine.
A questo punto, tra i vari meccanismi locali attraverso i quali il trofoblasto riesce ad evitare l’attacco da parte del sistema
immunitario materno, un posto di rilievo spetta alla particolare configurazione delle molecole HLA espresse sulla
superficie, coinvolte nella presentazione antigenica al sistema immunitario materno. Il trofoblasto non esprime molecole
MHC di classe Ia (polimorfe), con l’eccezione delle molecole HLA-C (in parte di origine paterna) che sono state rinvenute
sul citotrofoblasto extravilloso, dove sono presenti anche molecole MHC non classiche di classe Ib (monomorfe), HLA-E,
HLA-F e HLA-G.
All’inizio della gravidanza l’endometrio subisce una consistente modificazione del traffico cellulare locale e della
distribuzione delle popolazioni cellulari a livello deciduale con un afflusso di linfociti T, cellule NK e macrofagi che
risultano, a questo livello, le popolazioni cellulari predominanti.
Assieme alle cellule NK, i macrofagi sono tra i principali elementi cellulari della risposta immunitaria innata e, a livello
dell’interfaccia maternofetale, sono abbondantemente rappresentati. In questa sede, sorprendentemente, i macrofagi
coabitano in stretta vicinanza con le cellule trofoblastiche, senza attaccarle, lasciando supporre che svolgano importanti
funzioni immunoregolatorie associate allo stato gravidico, al di là del loro abituale ruolo “scavenger”. È stato dimostrato
che il legame e l’ingestione di cellule apoptotiche da parte dei fagociti si traduce in una modulazione in senso
immunosoppressivo ed anti-infiammatorio, risultando inibita la produzione di TNF-α e stimolato invece il rilascio di
citochine di tipo 2 (shift ad un fenotipo tollerogenico).
Un altro subset di cellule immunocompetenti presenti nella decidua materna, con un ruolo rilevante nella risposta
immunitaria gravidica, è rappresentato dai linfociti T. Anche questi elementi cellulari sono in stretto contatto con il
trofoblasto, ma non riconoscendo come estranee le cellule trofoblastiche MHC Ia-negative, non lo attaccano. Le cellule
Th1 secernono IFN-γ, TNF-α e IL-2 (pattern di tipo 1) e sono implicate nelle reazioni cellulo-mediate. Le cellule Th2
secernono IL-3 IL-4, IL-10 (pattern di tipo 2) e sono maggiormente coinvolte nella produzione anticorpale. Le cellule Th1
e Th2 svolgono attività mutualmente inibitoria. Durante la gravidanza risulta potenziata la risposta umorale (tipo 2) mentre
è attenuata quella cellulo-mediata (tipo 1). Diverse evidenze hanno dimostrato che le citochine di tipo Th1 hanno un effetto
negativo sulla gravidanza: a livello deciduale esse promuovono l’aborto inibendo l’invasione trofoblastica; al contrario, le
citochine di tipo Th2 stimolano la crescita e l’invasione del trofoblasto favorendo lo sviluppo della gravidanza. Durante la
gravidanza predominano le cellule Th2, come risultato di uno shift Th1-Th2 sotto l’influenza prevalente, ma non esclusiva,
di fattori ormonali. Ai fini del buon esito della gravidanza, ciò che appare maggiormente rilevante sembra essere il rapporto
tra i livelli relativi delle diverse citochine, dei loro recettori ed antagonisti. La predominanza di un determinato ambiente
citochinico all’interfaccia materno-fetale, al momento della presentazione degli antigeni fetali al sistema immunitario
materno, è probabilmente il fattore principale in grado di orientare la risposta immunitaria verso un clima cellulare ed
umorale prevalentemente Th1 o Th2. Appare pertanto intuibile come l’occorrenza di eventi in grado di modificare questo
delicato equilibrio, come ad esempio processi infettivi anche subclinici, possano determinare il fallimento della gravidanza.
Una volta indotto, lo shift Th2 si mantiene per tutta la gestazione e, tra i fattori ormonali, il progesterone, favorendo lo
sviluppo di linfociti T che producono citochine di tipo 2, contribuisce a mantenere la polarizzazione in questa direzione.

Le cellule dNK (NK deciduali) rappresentano un subset cellulare specializzato e specifico dell’utero, costituendo circa il
70% della popolazione leucocitaria nel primo trimestre di gravidanza; hanno funzioni NK-simili, ma fenotipo differente: le
cellule dNk, a differenza delle pNL, sono CD16- (recettore di attivazione) ma CD56+ ed esprimono i KIR (Killer cell Ig-
like Receptors). Le cellule dNk esprimono selettivamente galectina-1 e glicodelina, proteine dotate di attività
immunosoppressiva. Il principale meccanismo che impedisce alle cellule dNk di attaccare il citotrofoblasto extra-villoso è
correlato alla interazione tra i KIR espressi sulla loro superficie con le molecole HLA presenti sul trofoblasto (allo-
riconoscimento). A seguito di questa interazione l’attività litica delle cellule dNk viene inibita (quindi, a differenza delle
pNK, sono non killers) e la produzione di citochine risulta modulata in senso Th2. Quindi le cellule dNk intervengono nei
complessi meccanismi di regolazione che presiedono alle prime fasi di impianto ed ai fenomeni di placentazione mediante
la secrezione di svariate citochine (GM-CSF, VEGF) con un
profilo diverso rispetto a quello delle cellule NK periferiche. In
definitiva, le tre principali funzioni di questi elementi sono:
1) regolazione citochino-mediata della crescita
placentare e del trofoblasto;
2) immunomodulazione locale (mediata dall’interazione
dei KIR con molecole HLA di classe I “non-
classiche” e da proteine immunomodulatorie quali la
galectina-1 e la glicodelina);
3) controllo dell’invasione del trofoblasto mediata da
fenomeni di citotossicità.
Come già detto, le cellule dNK sono dotate di una classe di
recettori polimorfici chiamata KIR in grado di interagire con
l’antigene HLA-C, la molecola d’istocompatibilità più
polimorfica presente sulla superficie delle cellule del
citotrofoblasto extra-villoso (alloimmunità). Ciascuna
gravidanza, quindi, è caratterizzata da una diversa
combinazione di HLA-C fetale (che sono in parte di origine paterna) e recettori KIR materni, e, poiché alcune di queste
combinazioni non sono in grado di inibire sufficientemente il fenotipo citolitico delle NK, ne risulterebbe un’attivazione
della risposta infiammatoria che andrebbe a ripercuotersi sull’invasione trofoblastica (e l’adeguata sostituzione
dell’endotelio delle arterie spirali) e sulla placentazione. Quindi:
- l’interazione tra KIR-BB / -AB e HLA-C1 ha un effetto stimolatorio sulle cellule dNK, che producono citochine
come VEFG e TGFβ2, e quindi viene favorita la placentazione [l’interazione tra KIR-BB e HLA-C2 si traduce
invece in un eccesso di placentazione e conseguente macrosomia fetale];
- l’interazione tra KIR-AA [frequenza del 30% in UK] e HLA-C2 [frequenza del 40% in UK] ha un effetto
inibitorio sulle cellule dNK, e quindi viene compromessa la placentazione (si correla con Preclampsia, restrizione
di crescita fetale, RM).
Tutt’oggi le esatte funzioni delle molecole HLA-G e HLA-E sono note solo parzialmente, ma si ritiene che giochino un
ruolo nella resistenza del citotrofoblasto extra-villoso alla lisi mediata dalle cellule dNK a livello dell’interfaccia materno-
fetale inibendone l’attività citolitica. L’HLA-G è caratterizzata da scarso polimorfismo e scarsa distribuzione tissutale
(citotrofoblasto villoso ed extra-villoso, sinciziotrofoblasto, sangue, fluido follicolare, seme, ovocita fertilizzato); 50 alleli
del gene HLA-G codificano per 16 isoforme proteiche, fra cui HLA-G1/G4 di membrana e HLA-G5/G7 solubili. Il ruolo di
HLA-G nell’impianto si esplica attraverso 3 meccanismi:
- il legame a KIR2DL4 sulle cellule dNK, che stimola la placentazione
- il legame a TLR4 sui macrofagi, che ne stimola lo shift da M1 a M2
- il legame a ex-FOXP3 sui linfociti T, che induce l’attivazione dei CD4 in T-reg.
Un polimorfismo di inserzione o delezione di 14 paia di basi nel gene HLA-G si associa a livelli più bassi espressione
(aplotipo iposecernente), e quindi a RM [diagnosticare questa condizione non ha però ancora risvolti terapeutici].
Secondo l’ESHRE (in riferimento ai dati disponibili nel 2017), benché sia evidente un’associazione fra HLA-G ed RM, non
è ancora chiaro come e quanto influisca sulla prognosi gestazionale; relativamente all’associazione fra HLA-C ed RM le
evidenze sono invece controverse. In ogni caso, non è disponibile alcuna terapia.

Ruolo delle citochine:


Da una metanalisi è emerso che determinati polimorfismi di alcune citochine (INF-γ, IL-6, IL-10, IL-1β) hanno una
maggiore prevalenza nelle donne con RM rispetto ai controlli. Il loro ruolo però dev’essere ancora confermato.
Secondo l’ESHRE non dovrebbero essere eseguiti nella pratica clinica test per le citochine in donne con RM, perché, pur si
chiara l’associazione fra citochine ed RM, non è altrettanto chiaro il loro contributo e la conseguente prognosi gravidica. I
test per i polimorfismi delle citochine non dovrebbero essere effettuati nelle donne con RM in quanto non è dimostrata
alcuna associazione. In ogni caso, non sono ancora disponibili terapie specifiche.

Le cellule T-regolatrici (CD4+, CD25+, FOXP3+) aumentano e si attivano nella fase secretiva del ciclo e nella gravidanza
normale per effetto di estradiolo e progesterone. Nelle donne con RM le cellule T-reg non aumentano e hanno una minore
espressione di FOXP3 con minore attività immunoregolatrice.

La terapia corticosteroidea ha costituito il principale trattamento in passato, e tutt’oggi è impiegata empiricamente nei
centri di fecondazione medicalmente assistita. In realtà, il suo razionale d’uso si basa sulla presenza del recettore per i
glucocorticoidi sulle cellule T e NK, che oggi sappiamo essere importanti per l’impianto e la placentazione, per questo non
andrebbero inibite. Inoltre alla terapia corticosteroidea sono associati numerosi effetti collaterali (diabete, ipertensione,
rottura prematura delle membrane, suscettibilità alle infezioni) e non sono presenti studi randomizzati in doppio cieco che
ne giustifichino l’utilizzo. Quindi secondo l’ESHRE, i glucocorticoidi non sono raccomandati nel trattamento di RM
inspiegata o con determinati biomarkers immunologici; infatti alcuni effetti benefici del prednisolone in donne con RM
selezionate in base alla positività a determinati biomarkers (es. elevata conta delle NK periferiche), sono vanificati dagli
effetti collaterali.

La terapia progestinica è impiegata in quanto è stato dimostrato che in presenza di progesterone i linfociti di donne
gravide producono una proteina immunoregolatoria denominata PIBF (progesterone-induced blocking factor) che inibisce
diversi tipi di risposta Th1-mediata e l’attività citotossica delle cellule KN periferiche. Durante la gravidanza il priming e la
maturazione delle cellule T avviene in un microambiente progressivamente arricchito di progesterone caratterizzato da
bassi livelli di IFN-γ e IL-2 ed elevate concentrazioni di IL-4 e IL-10, realizzandosi in tal modo condizioni favorenti lo
sviluppo degli elementi Th2. Una metanalisi dimostra inoltre un miglioramento dell’esito gestazionale in pazienti trattate
con progesterone, in termini di riduzione del tasso d’aborto e aumento del tasso di nati vivi. Quindi non si deve tener conto
della raccomandazione dell’ESHRE (in quanto risalente al 2017) di non somministrare progesterone per via vaginale in
donne con RM.

Il razionale d’uso della terapia con anti-TNFα si basa sul blocco di un’eccessiva quantità di TNFα, deleterio per la
gravidanza. Il TNFα stimola l’apoptosi delle cellule trofoblastiche e anche l’attività macrofagica a livello deciduale
inducendo la produzione di fattori potenzialmente embriotossici. Uno studio sugli animali ha dimostrato che la
somministrazione di anti-TNFα blocca il riassorbimento embrionico, mentre studi caso controllo sull’uomo hanno
dimostrato che la somministrazione di anti-TNFα (etanercept, adalimumab) in donne con RM inspiegato o elevata conta
delle NK periferiche (razionale ad oggi sbagliato) migliora la prognosi gestazionale. Essendo però emerso, negli studi sugli
animali, anche un effetto teratogeno, in particolare sullo sviluppo degli arti, questa terapia non può essere impiegata.
Il razionale d’uso della terapia con G-CSF si basa sugli effetti di questa citochina: migliora l’apposizione, l’adesione e
l’invasione dell’embrione e controlla l’apoptosi e la risposta immunitaria. Uno studio su donne con RM ha dimostrato che
il G-CSF garantisce un miglioramento della prognosi gestazionale. È inoltre utilizzato nei protocolli di PMA (off-label) e
uno studio ha dimostrato che somministrandolo in donne con RM ed un mismatch KIR/HLA-C dall’embrio-transfer alla 9°
settimana di gravidanza non aumenta il rischio di complicanze gravidiche o neonatali. Secondo l’ESHRE, non ci sono
ancora evidenze sufficienti (fino al 2017) per raccomandare la somministrazione di G-CSF in donne con RM inspiegato.

Il razionale d’uso della terapia con intralipid (emulsione lipidica per nutrizione parenterale, a base di olio di pesce e acidi
grassi) si basa sull’effetto immunosoppressivo sui macrofagi e sulla citotossicità delle NK [che vengono transitoriamente
“ingolfate” dai lipidi]. Studi clinici hanno dimostrato un miglioramento della prognosi gestazionale in pazienti con elevati
livelli/attività delle NK (razionale ad oggi sbagliato) trattate con intralipid, ma sono necessari ulteriori trial clinici
randomizzati per validare la terapia (che tra l’altro aumenta la suscettibilità alle infezioni). Secondo l’ESHRE, quindi, non
ci sono sufficienti evidenze per raccomandare la terapia con intralipid per migliorare il tasso di nati vivi in donne con RM
inspiegato.

Il razionale d’uso della terapia con HCG si basa sugli effetti di quest’ormone: stimolazione dell’angiogenesi, down-
regolazione delle cellule T e reclutamento delle cellule T-reg. In base ai risultati di una systematic review, sembra che
l’HCG possa prevenire futuri aborti, ma al momento la supplementazione con HCG è empirica fino alla realizzazione di
trial clinici randomizzati.

L’efficacia della terapia con IVIG è stata valutata in 5 trial clinici randomizzati e la metanalisi ha dimostrato un
incremento del tasso di nati vivi nei casi di RM secondario (poliabortività dopo la nascita di un figlio vivo), ma non un
incremento altrettanto significativo nei casi di RM primario. Secondo l’ESHRE, non ci sono ancora sufficienti evidenze per
raccomandare una terapia con di IG endovenose per la RM [tra l’altro si tratta di una terapia molto costosa]. Anche
l’ASRM non raccomanda l’uso di IVIG, e sconsiglia inoltre l’impiego dell’immunizzazione con leucociti paterni, in quanto
una metanalisi ha concluso che non ha effetti benefici (anzi la donna viene isoimmunizzata anche nei confronti di altri
determinanti antigenici complicando eventuali successive trasfusioni o trapianti).

Sdr da APS ed RM

L’emostasi è un sistema in costante e delicato equilibrio dinamico tra il sistema della coagulazione e il sistema della
fibrinolisi: nel corso della gravidanza normale compaiono significative variazioni di tutte le componenti del sistema
emostatico (endotelio, piastrine, coagulazione, fibrinolisi). In particolare, durante la gravidanza normale, si riscontra un
aumento dell’attività della maggior parte dei fattori procoagulanti (↑ fattore II, VII, VIII, X, XII, = fattore V e IX), una
diminuzione dell’attività di alcuni inibitori fisiologici (proteina S e C) ed una diminuzione dell’attività fibrinolitica (↑ PAI1
e TAFI), che determinano nel loro insieme una condizione di ipercoagulabilità. Questa condizione, legata soprattutto a
cambiamenti ormonali, protegge la donna dall’emorragia fatale durante il parto ma, nello stesso tempo, la espone al rischio
di manifestazioni tromboemboliche.

Gli Ab antifosfolipidi comprendono una famiglia eterogenea di autoAb accomunati dal fatto di riconoscere fosfolipidi e
complessi formati da proteine e fosfolipidi. Si parla di Sdr da Ab antifosfolipidi (APS) quando la positività di almeno una
delle indagini di laboratorio che identifica gli Ab si associa a trombosi vascolare e/o a complicanze della gravidanza (la
presenza degli Ab non causa necessariamente malattia).

Gli Ab antifosfolipidi sono conosciuti dal 1906, quando si dimostrò che nel siero di soggetti affetti da sifilide esistevano Ab
diretti contro la cardiolipina, un fosfolipide mitocondriale presente in estratti di cuore bovino. Questa fu la base della
reazione di Wassermann e poi della VDRL tradizionalmente impiegate per la diagnosi di sifilide. L’impiego diffuso di
queste reazioni dimostrò l’esistenza di false positività (presenza di Ab antifosfolipidi in soggetti non affetti da sifilide); si
notò poi che questi falsi positivi erano più comuni in pazienti affetti da malattie autoimmuni sistemiche, come il LES. Nel
1983 fu sviluppato un immunoassay su base solida per la dimostrazione degli Ab anticardiolipina (più sensibile della
VDRL) e risultò un aumento del numero di falsi positivi per la sifilide, soprattutto fra soggetti inclini a fenomeni
trombotici. Nel frattempo era stato scoperto l’anticoagulante circolante tipo lupus (LLAC), un fattore presente nel siero
di pazienti con una storia di ipercoagulabilità che allungava in vitro il PTT quando aggiunto al plasma di soggetti normali.
Si osservo l’esistenza di un’associazione frequente, anche se non una perfetta coincidenza, tra la presenza di Ab
anticardiolipina e positività del LLAC. Nel 1990 si osservò che alcuni Ab anticardiolipina reagivano con il loro bersaglio
solo se nel saggio era presente la β2-glicoproteina, una molecola plasmatica cationica e quindi in grado di legarsi ai
fosfolipidi anionici per carica molecolare. Perciò, a differenza che nella sifilide, gli Ab anticardiolipina sono in realtà diretti
contro il complesso fosfolipidi - β2-GPI.

I criteri classificativi (impiegati a scopo diagnostico) per la


APS di Sapporo (1998) sono stati revisionati nell’ambito di
due international consensus conference: Sidney (2006) e
Bradford Hill (2014). La diagnosi di APS prevede la presenza
di almeno un criterio clinico e almeno un criterio di laboratorio.
Criteri clinici:
1. Trombosi: uno o più episodi clinici di trombosi dei vasi arteriosi, venosi o dei piccoli vasi, in qualsiasi organo o
tessuto.
2. Complicanze della gravidanza:
a) Almeno due aborti spontanei consecutivi (RPL) inspiegabili prima della 10° settimana di gestazione.
b) Almeno una morte inspiegabile di un feto morfologicamente normale entro la 10° settimana di gestazione.
Criteri di laboratorio:
1. Presenza nel plasma di Lupus anticoagulante, che interferisca in vitro con test della coagulazione dipendenti
dalla presenza di fosfolipidi, come l’APTT e il tempo di veleno di vipera di Russel diluito (per essere indicativo
della presenza di LAC, l’allungamento non deve essere corretto con l’aggiunta di plasma fresco, come succede nel
caso di difetti dei fattori della coagulazione; al contrario, le alterazioni devono essere corrette con l’aggiunta di
una fonte di fosfolipidi che competono per gli Ab presenti nel seggio sperimentale).
2. Presenza nel siero o nel plasma di Ab anticardiolipina di isotipo IgG e/o IgM, a medio o alto titolo, in due o più
occasioni a distanza di almeno 12 settimane.
3. Presenza nel siero o nel plasma di Ab anti-β2-GPI di isotipo IgG e/o IgM, ad alto titolo (> 99° percentile), in due
o più occasioni a distanza di almeno 12 settimane.
La presenza simultanea di LAC, aCL e anti-β2-GPI caratterizza un gruppo di pazienti con decorso di malattia severo:

Un nuovo test diagnostico APhL ELISA kit, che usa sulle piastre un misto di fosfolipidi e β 2-GPI al posto di cardiolipina,
ha maggiore sensibilità e specificità:

La prevalenza della APS in gravidanza varia in base alla popolazione ed ai criteri di definizione:

I criteri di causalità di Bradford Hill (criteri da trovare nelle associazioni fra due fenomeni per poter inerire un nesso
causale) sono:
- Correlazione forte fra aPL e RM (15-20%)
- Correlazione specificità dell’associazione fra aPL e RM
- Correlazione fra aPL e RM coerente con i risultati sperimentali
- L’effetto biologico dipende dalla quantità: modificazione di aPL alterano l’occorrenza di RM
- Correlazione plausibile: i meccanismi biologici e patogenetici confermano il nesso causale
Quindi l’associazione fra aPL e RM è chiara e ripotata in innumerevoli studi.

Per quanto riguarda il ruolo della predisposizione genetica nella APS è


emerso che:
- alcune famiglie hanno una positività per LAC e aCL con o senza
segni clinici;
- alcuni aplotipi HLA DR e DQ si associano più frequentemente
ad APS;
- alcuni polimorfismi del gene che codifica per la β 2-GPI determinano una sostituzione Val-Leu nella proteina e si
associano a più elevati livelli di Ab anti-β2-GPI.

Patogenesi:
Varie teorie sono state formulate per spiegare l’effetto trombotico degli
aPL:
- gli aPL competono con l’annessina V (che ostacola l’attivazione dei fattori della coagulazione legando i loro siti di
legame fosfolipidici), con effetto pro-coagulante;
- gli aPL alterano il bilancio degli eicosanoidi diminuendo la PGI 2 endoteliale ed aumentando il TXA2 piastrinico,
con effetto pro-aggregante;
- gli aPL hanno un effetto inibitorio sull’attivazione del complesso proteina C-S (che inibisce i fattori V e VIII della
coagulazione), con effetto pro-coagulante.
Un discorso a parte merita la definizione molecolare fine dei meccanismi attraverso i quali gli aPL causano complicanze
della gravidanza, perché in questi casi si tratta di una patogenesi non trombogenica. Un modello sperimentale dimostra un
rapporto causale fra aPL e perdite fetali: l’inoculazione di siero umano con aPL causa il riassorbimento embrionico nei
ratti. Gli aPL agiscono direttamene alterando la formazione del sinciziotrofoblasto, la sua maturazione e la secrezione di
HCG, e aumentando l’apoptosi (caspasi) e l’infiammazione (IL-1, IL-8) e l’attivazione del complemento; ne risulta
un’alterata invasione trofoblastica.

Quindi lesioni istologiche caratteristiche a livello dei vasi placentari comprendono: infarti, villi avascolari, microtrombosi.

Secondo l’ESHRE, nelle donne con RM è raccomandato eseguire uno screening per aPL dopo due aborti.
Per il management a lungo termine della APS:
- aspirina a basse dosi se non controindicata
- evitare la contraccezione ormonale con estrogeni
- evitare il fumo
- mantenere un BMI normale
- informare la paziente riguardo i rischi a lungo termine

L’ESHRE suggerisce, alle donne che rispettano completamente i criteri di laboratorio della APS e hanno una storia di 3 o
più interruzioni di gravidanza, la somministrazione di aspirina a basse dosi già in fase preconcezionale e somministrazione
profilattica di eparina a partire dal test di gravidanza positivo. Suggerisce invece di offrire un trattamento anticoagulante
alle donne con 2 interruzioni di gravidanza ed APS solo nel contesto di ricerche cliniche.

Trombofilie congenite ed RM
Fattori di rischio trombofilico ereditari:
- diminuzione degli inibitori della coagulazione: proteina C, proteina S, antitrombina
- polimorfismi genetici: fattore V (G1691A), fattore II (G20210A), omozigosi MTHFR (C677T)
- resistenza alla proteina C attivata
Manifestazioni cliniche: ampio spettro di complicanze ostetriche che condivide una eziologia comune (RM, ritardo di
crescita intrauterino, preeclampsia severa, distacco di placenta, morte endouterina).

Patogenesi:
In presenza di uno stato trombofilico, la tendenza alla trombosi si può rendere evidente in condizioni di ipercoagulabilità
come la gravidanza. La trombofilia o l’ipofibrinolisi comportano una riduzione del flusso ematico utero-placentare
attraverso trombosi della placenta e questo si traduce nelle complicanze ostetriche citate. Il meccanismo che correla la
trombofilia e le complicanze ostetriche implicano effetti sulla differenziazione del trofoblasto piuttosto che sulla mera
ipercoagulabilità. Il meccanismo patogenetico consiste in un eccesso di fibrina che ha un ruolo fondamentale nell’apoptosi
trofoblastica e l’alterata placentazione.

Osservando la prevalenza dei diversi disturbi trombofilici nelle donne hanno avuto un aborto o aborti ricorrenti, è emersa
un’associazione per tutti i disturbi trombofilici, eccetto che per la mutazione C677T MTHFR. Anche una systematic
review su 25 studi ha riscontrato complessivamente un’associazione positiva fra trombofilia e aborto precoce; inoltre la
metanalisi sottolinea che uno screening selettivo basato su un precedente episodio di TEV o un outcome negativo della
gravidanza ha un rapporto costo-beneficio migliore di uno screening universale.
Sebbene sia stata suggerita un'associazione tra trombofilie ereditarie e perdita fetale, studi prospettici di coorte non sono
riusciti a confermarla; quindi non è attualmente raccomandato dalle linee guida ASMR (2012) il test di routine per le
trombofilie ereditarie in donne con RM. Le indagini per RM includono analisi citogenetiche sui prodotti del concepimento,
studio del cariotipo dei genitori, ecografia pelvica e test per APS; se queste indagini risultano inconcludenti, si può
considerare il test per le trombofilie, in base al pattern di aborti e a fattori clinici come l’istologia placentare.
L’ESHRE non suggerisce di eseguire lo screening per le trombofilie ereditarie in donne con RM, se non nel contesto della
ricerca o in donne con fattori di rischio addizionali per la trombofilia; questo è giustificato dal fatto che non è chiara
l’associazione fra RM e trombofilie, benché queste possano influenzare la prognosi gestazionale; in ogni caso non sono
disponibili terapie.

Terapia:
Una metanalisi di 9 studi su donne con RM, con o senza trombofilia, non ha evidenziato alcun beneficio dell’uso di
aspirina, da sola o in combinazione con eparina a basso peso molecolare (neanche le complicanze ostetriche sono state
modificate dal protocollo terapeutico).
L’ESHRE non suggerisce l’impiego della profilassi antitrombotica in donne con RM e trombofilia ereditaria, se non nel
contesto della ricerca o nel caso sia indicato per la prevenzione di TEV; questo è giustificato dalla mancanza ad oggi di
evidenze in merito agli effetti benefici di una terapia anticoagulante in donne con trombofilia ereditaria.
Secondo la SISET (Società Italiana per lo Studio dell'Emostasi e della Trombosi), lo screening di trombofilia è suggerito
nelle donne con aborti ricorrenti o pregressa morte endouterina fetale (raccomandazione di grado C), ed anche nelle donne
con pregressa pre-eclampsia, HELLP syndrome, distacco placentare, ritardo di crescita intrauterino (raccomandazione di
grado D). Inoltre la SISET suggerisce dosi profilattiche di EBPM ante-partum e nel puerperio per 6 settimane, in donne
asintomatiche con una delle seguenti anomalie trombofiliche (difetto di proteina C o S, doppia eterozigosi o omozigosi la
mutazione del fattore V di Leiden o della protrombina), mentre suggerisce dosi intermedie in donne asintomatiche con
difetto di antitrombina. Infine suggerisce sorveglianza clinica e dosi profilattiche di EBPM ante-partum in presenza di altri
fattori di rischio in donne asintomatiche portatrici della mutazione del fattore V di Leinden o della protrombina in forma
eterozigote; nel puerperio suggerisce dosi profilattiche di EBPM per 6 settimane. Si tratta di tutte raccomandazioni di grado
D.

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