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BEETHOVEN:
op.
31
n.
2,
I
-‐
“LA
TEMPESTA”
1. AMBIGUITÀ
E
CONTRASTO
Tra
le
prime
osservazioni
che
si
possono
fare
sul
primo
movimento
della
Sonata
per
pianoforte
in
re
minore
op.
31/2,
composta
tra
il
1801
e
il
1802,
vi
è
sicuramente
quella
che
Beethoven
abbia
voluto
mettere
in
evidenza
come
caratteristiche
predominanti,
quelle
dell’ambiguità
e
del
contrasto.
Il
primo
movimento
della
Sonata
-‐
oggetto
di
una
discussione
che
molto
probabilmente
non
si
concluderà
mai,
se
non
abbandonando
il
controverso
desiderio
di
molti
teorici
di
far
derivare
ogni
elemento
tematico
e
motivico
da
un’unica
“cellula”
(Dahlhaus,
1987/2021)
–
si
apre
con
un
Largo
di
due
battute
che
arpeggia
l’accordo
di
dominante
al
quale
segue
in
risposta,
un
Allegro
di
quattro
battute
in
un
crescendo
di
rapide
figurazioni,
culminanti
con
una
prima
cadenza
alla
dominante.
Beethoven
ripropone
un
passaggio
simile
alla
relativa
maggiore,
e
l’ascoltatore
si
può
dire
piuttosto
confuso
per
quanto
finora
ascoltato,
in
quanto
non
si
è
certi
se
questa
fosse
un’Introduzione
o
l’esposizione
di
un
primo
tema.
Il
passaggio
è
armonicamente
e
sintatticamente
“aperto”,
non
delineando
chiaramente
la
tonalità
fondamentale;
soltanto
la
sezione
formale
che
inizia
a
b.
21
ci
mostra
una
linea
melodica
ben
più
definita
e
regolare,
che
al
contrario
conferma
la
tonica
in
modo
più
chiaro,
e
che
ci
porta
a
pensare
che
è
questa
l’esposizione
del
primo
tema.
Tuttavia,
fermandoci
ad
osservare
la
natura
di
questo
tema
differito,
notiamo
che
l’arpeggio
che
lo
compone,
è
stato
già
anticipato
(al
tono
della
dominante)
proprio
nelle
bb.
1-‐2.
La
domanda
sorge
dunque
spontanea:
dobbiamo
interpretare
le
bb.
1-‐2
come
esposizione
del
tema
o
come
Introduzione
preludiante?
Inoltre,
a
battuta
31
inizia
un
processo
modulante
che
ci
porta
verso
la
tonalità
della
dominante
a
battuta
41,
dove
potremmo
individuare
una
nuova
sezione
tematica.
Pertanto,
se
dovessimo
considerare
le
battute
1-‐2
come
tema,
la
sezione
delle
battute
21-‐40
si
può
intendere
come
Transizione?
Stando
alle
tesi
di
Dahlhaus
(1987/2021),
il
dubbio
è
più
che
lecito,
ma
il
punto
è:
dobbiamo
effettivamente
trovare
una
risposta
netta
a
tali
quesiti?
Quesiti
che
forse
nascono
da
una
concezione
teorica
di
forma
sonata
innestatasi
nella
coscienza
comune
negli
ultimi
secoli,
basata
su
fondamenti
schematici
e
sommari
contraddetti
quasi
quotidianamente
dallo
studio
analitico
delle
opere
dei
grandi
maestri,
in
particolar
modo
di
Beethoven.
La
domanda
più
consueta
del
metodo
analitico
è
quella
di
chiedersi
in
cosa
consista
il
senso
armonico
e
sintattico
di
una
frase
musicale;
Dahlhaus
(1987/2021)
propone
un
diverso
punto
di
vista,
ovvero:
“Come
si
costituisce
una
frase
musicale
nella
consapevolezza
di
un
ascoltatore?”.
Il
quesito
forse
è
posto
in
modo
provocatorio,
per
via
della
maggiore
difficoltà
nel
trovare
una
risposta
rispetto
al
primo,
eppure
ha
perfettamente
senso,
specialmente
se
posto
durante
lo
studio
analitico
di
questa
particolare
Sonata,
in
cui
Beethoven
costruisce
una
struttura
paradossale,
con
elementi
ambigui
e
contraddittori
messi
a
contrasto
che
colgono
di
sorpresa
l’ascoltatore.
La
forma
di
questo
primo
movimento
si
può
definire
processuale
nel
carattere,
se
consideriamo
il
fatto
che
l’accordo
spezzato
nelle
prime
due
battute
non
si
è
ancora
concretizzato,
e
quando
lo
ritroviamo
a
battuta
21,
in
un
certo
senso,
è
già
passato.
Evidentemente,
gli
elementi
tematici
del
movimento,
assumono
un
significato
nel
presente
e
un
altro
se
interpretati
retrospettivamente,
e
dunque
l’indagine
si
sposta
sul
piano
della
memoria
dell’ascoltatore;
in
questo
la
domanda
posta
da
Dahlhaus
(1987/2021)
trova
la
sua
fondatezza:
analizzando
l’elemento
musicale,
non
bisogna
chiedersi
cosa
esso
sia,
ma
come
agisce.
Procedendo
con
l’ascolto
ci
chiediamo
quale
relazione
ci
sia
tra
la
sezione
tematica
che
inizia
a
battuta
41
con
l’Allegro
delle
prime
battute.
Certamente
le
figurazioni
per
quanto
modificate,
rimandano
all’inizio
della
Sonata,
e
la
chiarezza
nell’affermare
il
tono
della
dominante
ci
porta
a
pensare
ad
un
secondo
tema.
Ma
quanto
è
corretto
chiamare
questo
“secondo
tema”?
Il
termine
viene
dalla
popolare
definizione
di
forma-‐sonata,
che
tuttavia
presenta
non
poche
problematiche
nell’applicazione
pratica
allo
studio
analitico
delle
opere
di
questo
periodo.
2. FUNZIONI
FORMALI
Come
riporta
Sanguinetti
(2020),
il
termine
“forma”
viene
utilizzato
in
riferimento
alla
musica
solo
dopo
il
1780.
Oggi
siamo
più
che
abituati
ad
associarlo
alla
struttura
di
una
composizione
musicale,
eppure
la
sua
definizione
presa
da
un
qualunque
dizionario,
a
tutto
fa
pensare
tranne
che
a
qualcosa
che
descriva
un
fatto
musicale.
Infatti
si
utilizza
per
descrivere
l’aspetto
esteriore
di
un
oggetto,
la
sua
proiezione
nello
spazio,
quindi
qualcosa
che
rientri
nella
sfera
visiva
e
non
quella
uditiva.
Eppure
il
termine
“forma”,
a
partire
dagli
scritti
di
Heinrich
Christoph
Koch
di
fine
Settecento,
inizia
a
far
parte
del
lessico
musicale
teorico,
anche
se
il
concetto
di
questa,
come
lo
intendiamo
oggi
(quello
riferito
specialmente
alla
“forma
sonata”)
si
afferma
principalmente
nell’Ottocento,
in
quanto
prima
questo
aspetto
era
ancora
considerato
di
scarsa
importanza.
Con
l’affermarsi
dell’editoria
e
della
didattica
musicale,
nascono
invece
delle
esigenze
differenti:
il
dilettantismo
portò
alla
stesura
di
innumerevoli
trattati
teorici
che
avevano
lo
scopo
di
spiegare
in
maniera
comprensibile
la
composizione
ad
un
vasto
bacino
di
utenza.
Occorreva,
dunque,
trovare
una
formula
chiara,
“scolastica”
per
spiegare
ciò
che
i
grandi
maestri
(ovviamente
Haydn,
Mozart
e
Beethoven
in
primis)
eseguivano
automaticamente
come
prassi
dell’epoca.
Questo
portò
a
una
serie
di
teorie
schematizzate
e
superficiali,
che
trovano
poca
valenza
analitica.
In
modo
particolare
la
teoria
della
forma-‐sonata
(che
tuttora
viene
considerata
valida
nei
corsi
di
Storia
della
musica
dei
conservatori),
mostra
molte
incongruenze
con
le
opere
che
dovrebbero
avere
tale
struttura.
Il
termine
forma-‐sonata
si
riferisce
alla
struttura
di
composizioni
musicali
di
vario
genere,
quali
alcuni
movimenti
di
Sonate
per
strumenti
solisti,
trii,
quartetti
e
anche
movimenti
di
sinfonie.
Nonostante
diverse
evoluzioni,
la
versione
ottocentesca
arrivata
fino
ad
oggi
si
definisce:
bitematica
tripartita.
La
tripartizione
si
riferisce
alle
macro-‐sezioni
dell’Esposizione,
dello
Sviluppo
e
della
Ripresa.
Nella
prima
sezione
vengono
esposti
i
due
temi
principali
che
dovevano
essere
per
definizione
contrastanti
a
livello
ritmico-‐melodico,
solitamente
il
primo
più
incisivo
e
ritmicamente
marcato
e
il
secondo
più
dolce.
Ma
principalmente
dovevano
sottolineare
due
piani
tonali
differenti:
il
primo
quello
della
tonalità
di
impianto,
il
secondo
quello
della
dominante,
o
della
relativa
maggiore
qualora
quella
di
impianto
fosse
minore.
A
separare
i
due
temi
vi
era
un
Ponte
o
Transizione
(modulante),
e
dopo
il
secondo
tema
una
codetta
che
portava
alla
fine
dell’Esposizione
con
un
segno
di
ritornello
che
faceva
ascoltare
da
capo
l’intera
sezione.
Questo
serviva
a
imprimere
meglio
nella
memoria
dell’ascoltatore
i
due
temi.
Nella
sezione
di
Sviluppo
(o
Elaborazione),
i
temi
(solitamente
più
il
primo)
venivano
frammentati,
rielaborati
e
trasposti
con
modulazioni
a
toni
lontani,
per
poi
tornare
come
all’inizio
nella
Ripresa,
con
la
differenza
che
nel
finale
il
secondo
tema
veniva
proposto
alla
tonalità
di
impianto.
Infine
una
coda
conclude
il
movimento.
Questa
teoria
non
è
totalmente
errata,
ma
risulta
essere
approssimativa
nell’attento
studio
analitico
di
un’opera,
il
quale
fa
emergere
incongruenze
non
trascurabili.
Secondo
Sanguinetti
(2020)
verso
la
prima
metà
del
Novecento,
divenne
chiaro
che
questa
descrizione
di
forma-‐sonata
non
poteva
essere
adattata
alla
maggior
parte
della
musica
del
classicismo,
pertanto
si
formarono
due
diverse
tendenze.
La
prima,
attraverso
un’attenta
analisi,
andava
a
ricercare
i
caratteri
più
profondi
di
un’opera,
che
potevano
essere
figure
elementari
individuali
o
strutture
tonali
universali.
La
seconda
tendenza
invece,
fu
quella
di
indagare
a
livello
archeologico
l’idea
di
forma
classica,
analizzando
gli
scritti
teorici
del
Settecento.
Un
fattore
che
emerse
da
questa
ricerca
fu
quello
che
all’epoca
aveva
molta
più
importanza
l’aspetto
tonale
che
non
quello
tematico.
Il
numero
dei
temi
e
il
loro
carattere
erano
aspetti
poco
considerati,
rispetto
a
quello
del
contrasto
fra
due
aree
tonali.
Dalle
ricerche
dei
trattati
settecenteschi,
emerse
una
teoria
interessante
che,
solamente
utilizzando
una
terminologia
diversa
e
individuando
sezioni
diverse,
offre
un
punto
di
vista
alternativo
su
come
descrivere
la
forma-‐sonata.
La
teoria
è
quella
di
Francesco
Galeazzi
(1768
–
1819),
violinista
e
compositore,
che
descrive
la
forma-‐sonata
(mai
chiamandola
Sonata,
bensì
Melodia)
dividendola
in
due
parti,
che
possono
essere
separate
da
un
ritornello
o
meno.
La
prima
parte
era
costituita
da
questi
elementi:
1. Preludio
(poteva
anche
non
essere
presente)
2. Motivo
principale
3. Secondo
motivo
4. Uscita
a’
Toni
più
analoghi
5. Passo
Caratteristico,
o
Passo
di
mezzo
6. Periodo
di
Cadenza
7. Coda
La
seconda
parte
dai
seguenti
elementi:
1. Motivo
2. Modulazione
3. Ripresa
4. Replica
del
Basso
[Passo]
caratteristico
5. Replica
del
Periodo
di
Cadenza
6. Replica
della
Coda.
Ed
ecco
che
con
il
solo
uso
di
una
terminologia
differente,
vediamo
schiarirsi
le
idee
su
alcuni
punti
che
risultavano
pieni
di
incongruenze
con
la
più
popolare
teoria.
Secondo
l’idea
di
Galeazzi,
il
motivo
principale
è
quello
che
poi
prenderà
il
nome
di
primo
tema,
che
ha
come
caratteristiche
fondamentali
la
stabilità
tonale
e
la
riconoscibilità.
A
seguire,
troviamo
il
secondo
motivo
che
evidentemente
non
corrisponde
al
nostro
“secondo
tema”,
ma
potrebbe
essere
il
principio
di
un
Ponte;
poi
l’uscita
di
tono
che
indica
la
Transizione,
il
ponte
modulante
che
ci
conduce
al
“Passo
di
mezzo”
o
“Passo
caratteristico”,
ovvero
quello
che
noi
conosciamo
come
“secondo
tema”.
Questa
sezione,
in
contrasto
con
il
Motivo
Principale,
deve
risultare
più
dolce
ed
espressiva.
Il
periodo
di
cadenza
ci
porta
verso
la
conclusione
della
prima
parte;
qui
hanno
luogo
passaggi
più
virtuosistici
e
di
difficile
realizzazione,
in
contrasto
con
l’espressività
del
passo
di
mezzo,
che
culminano
poi
con
la
cadenza
finale.
Di
seguito
alla
cadenza,
tutto
ciò
che
precede
il
ritornello
è
considerato
Coda
e
serve
a
incatenare
le
idee
finora
presentate.
La
seconda
parte,
ovvero
quella
che
noi
chiamiamo
Sviluppo,
ha
inizio
con
un
Motivo
che
può
essere
realizzato
in
diversi
modi:
alcuni
poco
originali,
come
la
ripetizione
trasportata
alla
quinta
del
Preludio,
o
la
ripetizione
sempre
alla
quinta
del
Motivo
principale;
e
altri
modi
più
inattesi,
come
un
passo
preso
a
piacere
dalla
prima
parte
nel
tono
in
cui
questa
termina,
o
addirittura
una
nuova
idea
totalmente
estranea
a
quanto
presentato
fino
a
quel
momento.
Successivamente
ha
inizio
la
fase
della
modulazione,
ovvero
un
“lavoro
tematico”
con
la
concatenazione
di
idee
prese
dal
primo
o
secondo
motivo,
o
il
motivo
della
seconda
parte;
il
tutto
esplorando
toni
lontani,
per
poi
gradualmente
riavvicinarsi
a
quello
principale
ed
arrivare
alla
Ripresa.
Il
modo
con
cui
approcciare
questa
sezione
dipende
dalla
lunghezza
del
brano:
per
un
pezzo
lungo
si
poteva
riprendere
il
tema
principale
nel
tono
di
impianto;
se
invece
si
aveva
necessità
di
accorciare
la
struttura,
si
poteva
iniziare
la
Ripresa
dal
passo
caratteristico,
trasportato
però
nel
tono
principale.
Galeazzi
sosteneva
fortemente
che
un
tema
non
doveva
essere
necessariamente
bello
per
funzionare,
infatti
una
buona
composizione
doveva
crescere
di
effetto
nell’arco
del
pezzo.
Pertanto,
era
certo
che
un
motivo
mediocre,
ma
ben
condotto,
avrebbe
sicuramente
portato
ad
un
risultato
ben
più
efficace;
e
Beethoven
ha
dato
conferma
a
questo
pensiero
utilizzando
spesso
nelle
sue
composizioni
idee
semplici,
ma
rielaborate
con
tale
raffinatezza
da
dare
vita
a
dei
capolavori
sui
quali
ancora
oggi
studiamo
ed
indaghiamo.
Una
domanda
che
spesso
si
pongono
storici
e
teorici
è:
quanto
fossero
familiari
a
Beethoven
queste
teorie.
Dallo
studio
di
Drabkin
(1991)
sappiamo
che
il
termine
forma-‐sonata
si
consolidò
a
pieno
nell’Ottocento,
e
che
mai
fu
usato
dal
compositore
per
descrivere
la
struttura
delle
sue
opere.
Eppure,
per
quanto
sia
celebre
l’approccio
beethoveniano
di
far
crescere
e
“fiorire”
un
intero
brano
partendo
da
una
semplice
idea
iniziale,
vi
sono
diverse
tracce
negli
abbozzi
del
compositore,
che
mostrano
una
particolare
attenzione
ad
un’idea
strutturale
dell’opera,
con
annotazioni
specifiche
per
delineare
varie
sezioni.
Sui
quaderni
di
abbozzi
di
Beethoven,
sembra
molto
frequente
la
presenza
di
abbreviazioni
come
“d.c.”,
ovvero
da
capo,
che
venivano
utilizzati
in
diverse
circostanze:
poteva
indicare
il
ritorno
alle
battute
iniziali
di
un
tema
(come
poteva
essere
in
un
Rondò),
o
il
ritorno
all’inizio
del
movimento
dopo
il
segno
di
ritornello,
o
anche
il
ritorno
ad
un’idea
musicale
iniziale
come
poteva
avvenire
nella
Ripresa.
L’abbreviazione
appare
con
molta
frequenza
negli
abbozzi
intorno
al
1800,
ma
non
è
l’unica
traccia
che
rimanda
a
un’idea
di
forma.
In
molti
abbozzi
di
questo
primo
periodo
troviamo
la
dicitura
“prima
parte”
(spesso
abbreviata
con
“1ma
p.”),
e
“seconda
parte”
(2da
p.).
Spesso
Beethoven
utilizzava
queste
annotazioni
per
separare
le
due
parti
di
un
movimento
di
sonata,
alla
fine
dell’Esposizione.
Tuttavia,
vi
sono
alcuni
casi
particolari
in
cui
segna
“2da
p.”
in
un
punto
dove
non
vi
sono
interruzioni,
pause
o
fermate;
questa
si
può
interpretare
come
una
annotazione
di
tipo
analitico/strutturale,
e
può
volere
indicare
un
cambio
della
funzione
musicale
da
quel
punto
in
poi.
Infine,
un’altra
scoperta
che
può
essere
considerata
rilevante,
è
l’abbreviazione
m.g.
posta
sopra
quello
che
in
un
movimento
di
sonata
chiamiamo
“secondo
tema”
(o
“passo
caratteristico”
per
utilizzare
la
terminologia
del
Galeazzi).
Non
si
è
certi
per
cosa
stia
l’abbreviazione,
ma
con
buona
probabilità
potrebbe
essere
Mittel-‐Gedanke,
ovvero
“pensiero,
idea
di
mezzo”
(Passo
di
mezzo).
Non
è
un
caso,
e
non
sorprende
che
questa
abbreviazione
scompaia
negli
abbozzi
di
qualche
decennio
più
tardi,
avendo
perso
importanza
il
concetto
di
“secondo
tema”
per
il
Beethoven
più
maturo.
Tuttavia,
per
quanto
sia
difficile
stabilire
se
questi
indizi
trovati
negli
abbozzi
possano
offrire
o
meno
uno
spunto
valido
nello
studio
analitico
dell’opera
di
Beethoven,
con
più
sicurezza
ci
permettono
di
dire
che
il
concetto
di
forma-‐sonata
(con
la
terminologia
che
si
voglia
ritenere
più
appropriata)
era
una
realtà,
e
per
quanto
con
la
sua
brillante
maestria
i
suoi
lavori
trascendano
le
schematiche
categorie
formali,
è
anche
da
queste
che
le
idee
vengono
concepite
e
inserite
nel
suo
discorso
musicale.
3. CONCLUSIONI
Adottando
le
indicazioni
forniteci
dal
Galeazzi,
si
può
probabilmente
fare
più
luce
in
merito
alla
forma
che
compone
la
Sonata
in
re
minore
op.
31/2.
Nella
prima
parte
possiamo
chiamare
le
bb.
1-‐20
Motivo
principale;
le
bb.
21-‐28
Secondo
motivo
(anche
se
deriva
dal
primo
come
abbiamo
visto
precedentemente);
le
bb.
21-‐40
sono
l’Uscita
a’
toni
analoghi;
da
b.
41
inizia
il
Passo
caratteristico;
il
Periodo
di
cadenza
invece
potrebbe
iniziare
a
b.
55
o
a
b.75,
se
consideriamo
le
battute
precedenti
parte
del
Passo
caratteristico;
infine
più
chiara
è
la
Coda
da
b.
87
fino
al
ritornello.
Nonostante
la
visione
strutturale
sembra
essere
più
chiara,
va
sempre
tenuto
conto
del
fatto
che
molte
sezioni
assumono
un
significato
diverso
se
osservate
retrospettivamente.
Il
concetto
introdotto
da
Schoenberg
della
“variazione
in
sviluppo”,
evidenzia
queste
problematiche:
il
secondo
motivo
di
questa
sonata,
ma
soprattutto
l’uscita
ai
toni
analoghi,
sono
sviluppo
del
motivo
principale
e
al
tempo
stesso
mediazione
tra
tonalità
fondamentale
e
relativa.
Pertanto
il
tipo
di
variazione
in
sviluppo
a
cui
viene
sottoposto
un
motivo,
dipende
dalla
funzione
che
assolve
(Dahlhaus,
1987/2021).
Questa
ambiguità
pervade
anche
la
Seconda
parte
(Sviluppo
e
Ripresa).
Da
b.
93,
Beethoven
ripropone
l’accordo
spezzato
per
tre
volte,
modulando
fino
al
tono
di
Fa#
minore,
dove
attacca
il
Secondo
motivo
modulante,
fino
a
b.121
con
quella
che
sembra
una
variazione
del
Periodo
di
cadenza
della
prima
parte
e
una
nuova
coda
che
evidenzia
la
nota
sib
contrapposta
all’accordo
di
La:
questo
si
rifà
a
quanto
già
sentito
da
b.
55,
con
il
sib
che
appare
estraneo,
ma
viene
semplicemente
adottato
dal
tono
principale
di
Re
minore.
Proseguendo
a
b.
139,
la
figurazione
discendente
sembra
un’espansione
della
prima
Coda
e
ci
porta
ad
un
nuovo
Largo
(b.
143)
in
cui
Beethoven
ci
propone
un
Recitativo.
Questo
recitativo,
che
sconcertò
non
pochi
musicologi
contemporanei
di
Beethoven
(ma
anche
più
recenti),
si
espande
dall’iniziale
accordo
spezzato,
e
crea
un’atmosfera
di
forte
emotività
ed
espressività,
come
se
si
fermasse
il
tempo.
Riprendendo
l’inizio
della
sonata
gli
accordi
spezzati
sono
due
(gli
stessi),
e
da
entrambi
nasce
un
recitativo.
Beethoven
sembra
concentrare
una
forte
intensità
in
queste
battute
che
si
potrebbero
dire
il
cuore
della
Sonata,
non
sappiamo
se
per
una
motivazione
psicologico-‐biografica.
Spesso
Beethoven
ha
utilizzato
la
tecnica
di
presentare
un
motivo
quasi
“occultato”
all’inizio,
per
poi
successivamente
presentarlo
di
nuovo
in
maniera
esplicita;
e
il
dubbio
che
in
questa
sonata
abbia
prima
concepito
i
due
recitativi
centrali,
e
che
poi
ne
abbia
svelato
soltanto
una
porzione
nella
parte
iniziale,
per
prepararci
alla
“sbocciatura”,
è
un
dubbio
che
trovo
lecito.
Fatto
sta
che
l’accordo
spezzato,
arrogandosi
ormai
di
diritto
la
funzione
di
tema,
si
può
presentare
liberamente
in
forma
primaria
(come
all’inizio),
in
forma
più
eloquente
(b.
21),
o
infine,
infrangendo
le
convenzioni,
in
forma
di
recitativo
come
un
intervento
esterno,
senza
avere
bisogno
di
una
motivazione
musicale
o
“extramusicale”
che
sia
(Dahlhaus,
1987/2021).
Il
secondo
dei
recitativi
sembra
orientarsi
verso
il
tono
di
Reb
maggiore,
invece
nell’Allegro
che
lo
segue
diventa
enarmonicamente
la
dominante
di
Fa#
minore,
in
un
passaggio
diverso
da
quanto
abbiamo
sentito
finora,
le
dodici
battute
che
seguono
sono
una
nuova
Transizione
verso
la
Replica
del
passo
caratteristico,
questa
volta
nel
tono
principale
di
Re
minore.
Ciò
che
segue
è
facilmente
riconducibile
alla
Replica
del
Periodo
di
cadenza
che
termina
a
b.
217,
dove
ha
inizio
la
Replica
della
Coda.
Nella
coda
dopo
le
tre
minime
di
re,
l’accordo
viene
accompagnato
da
una
figurazione
arpeggiante
della
mano
sinistra
molto
grave.
Forse
le
due
cose
non
sono
relazionate,
ma
le
battute
di
questo
accordo
sono
sei,
rispetto
alle
due
della
prima
Coda
(bb.
89-‐90);
stessa
cosa
nel
Recitativo,
le
battute
sono
sei
rispetto
alle
due
dell’accordo
spezzato
all’inizio
della
sonata.
Si
è
visto
come
pregiudizi
e
preconcetti
nuocciano
all’analisi
di
opere
musicali,
e
come
le
teorie
nella
loro
imperfezione
propongano
tutte
punti
di
vista
con
un
fondo
di
verità
condivisibile.
Tra
i
preconcetti,
che
io
stesso
mi
rimprovero
di
aver
avuto,
c’è
la
convinzione
di
poter
razionalizzare
una
creazione
artistica
solamente
elencandone
gli
ingredienti
e
una
loro
relazione
talmente
evidente
da
poter
essere
considerata
banale;
o
elencando
i
“cassetti”
dentro
i
quali
vengono
posti
tali
elementi.
L’univocità
non
è
un
termine
proprio
di
una
analisi
musicale,
e
per
quanto
si
possa
ammirare
ed
estrapolare
la
tecnica
artigianale
di
vera
e
propria
architettura
musicale
sulla
quale
si
ergono
le
opere
di
grandi
maestri,
bisogna
tenere
conto,
come
ci
suggerisce
Dahlhaus
(1987/2021),
di
come
la
musica
agisca,
come
i
processi
che
un
compositore
concepisce
e
incorpora
nel
frutto
del
suo
lavoro
inneschino
una
serie
di
altri
processi
nelle
menti
di
chi
ascolta.
La
Sonata
in
re
minore
op.
31/2
di
Beethoven
ha
innescato
una
serie
di
processi
che
riverberano
ancora
oggi,
perché
a
distanza
di
più
di
due
secoli
fa
porre
domande
e
dubbi
che
sono
ancora
fonte
di
dibattiti,
e
la
ragione
non
è
univoca.
Beethoven
ci
pone
davanti
degli
“oggetti
musicali”
che,
come
attraverso
un
caleidoscopio,
assumono
forme
e
colori
diversi.
Un
accordo
spezzato
ha
un
significato
ora
e
uno
diverso
poco
dopo,
ma
tutti
i
significati
che
assume
sono
validi.
Tuttavia,
questi
“oggetti”
che
Beethoven
utilizza
sono
semplici
e
senza
una
particolare
originalità
intrinseca;
è
il
modo
inaspettato
e
a
tratti
ambiguo
con
cui
vengono
trattati
dal
compositore
che
li
rendono
carichi
di
vitalità
e
forza.
Solo
l’infrangere
le
convenzioni
si
può
considerare
un
principio
strutturale
di
tutto
diritto
che
non
necessita
di
giustificazioni
alcune.
Pertanto,
porre
un
elemento
in
un
punto
inatteso
a
contrasto
con
un
altro,
trasformarlo
in
un’altra
entità
con
una
diversa
funzione,
anticiparlo
in
forma
implicita
per
poi
farlo
fiorire
nella
sua
reale
essenza
di
più
tardi,
già
solo
queste,
per
rendere
un’opera
come
la
Sonata
in
re
minore
op.
31/2
oggetto
di
discussioni
per
secoli,
sono
caratteristiche
sufficienti
a
conferirle
una
validità
artistica
indiscutibile.
BIBLIOGRAFIA
Dahlhaus,
C.,
(2021).
Beethoven
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(Originariamente
pubblicato
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In
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Libreria
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