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(1840-1926)
nel 1872 ma venne presentata al pubblico solo due anni più tardi, nel 1874, in occasione di una mostra collettiva tenutasi
presso lo studio del fotografo Nadar, nella quale vennero esposte oltre 160 opere dello stesso Monet e di un gruppo di suoi
amici pittori.
Leggiamo un passaggio dell’articolo, in cui Leroy finge di commentare i quadri della mostra dialogando con Joseph Vincent,
un pluripremiato paesaggista: «è raschiatura di tavolozza distribuita uniformemente su di una tela sporca. Non c’è capo né
coda, né alto né basso, né davanti né didietro. […] Qui c’è dell’impressione, se ben me ne intendo… soltanto, mi dica, che
cosa rappresentano quelle innumerevoli linguette nere, là in basso? […] Quelle macchie sono quelle degli imbianchini che
dipingono il finto marmo: pif paf, plic plac!».
[ Il termine “impressione” non era nuovo: faceva già parte del vocabolario tecnico usato per distinguere i vari stati preparatori
di un’opera. In particolare, denominava il primo strato di colore applicato alla tela: dunque, esso indicava i bozzetti di rapida
esecuzione, che servivano a fissare l’immediata reazione dell’artista a un soggetto. È però vero che impression era, come nel
nostro linguaggio corrente, un sinonimo di sensation, ‘sensazione’, e che Monet, scegliendo quel titolo così particolare, aveva
chiaramente voluto giocare con il doppio significato della parola. ]
Un altro critico, Jules-Antoine Castagnary (1830-1888), colse questa finezza e accettando il neologismo scrisse che i pittori
che avevano esposto le proprie opere da Nadar, «sono impressionisti nella misura in cui non rappresentano tanto il paesaggio
quanto la sensazione in loro evocata dal paesaggio stesso». Il gruppo accettò il termine “Impressionismo”, che a suo parere
ben si adattava al nuovo stile.
Il dipinto di Monet, Impressione, levar del sole, mostra un paesaggio marino: il porto di Le Havre immerso nella foschia
dell’alba. In primo piano, due barche con i pescatori emergono dalla luce diffusa come ombre scure dal disegno
estremamente semplificato. Sullo sfondo, la banchina del porto, il veliero, le gru, le ciminiere fumanti sono appena accennate
con poche pennellate grigiastre. La luce del sole, presentato come un cerchio di colore puro, si diffonde su tutto il quadro,
unendo acqua e cielo e rendendo il paesaggio difficile da decifrare. I riflessi del sole, delle barche e degli edifici sul mare sono
ottenuti con tratti rettangolari netti e marcati. Il soggetto dell’opera non è dunque l’alba in sé stessa ma, come indica
correttamente il titolo scelto da Monet, l’impressione dell’alba.
Impressione, levar del sole è, prima di tutto, una suggestiva composizione di vibrazioni luminose, ottenuta attraverso
l’adozione di una tavolozza molto semplificata. I brillanti colori dello spettro solare sono usati puri, stesi a piccole pennellate,
non mescolati ma giustapposti: è infatti l’occhio di chi osserva da un’adeguata distanza, a compiere la sintesi necessaria.
Monet applicò la sua rivoluzionaria tecnica impressionista, ispirato dalla ricerca scientifica sulla visione contemporanea.
Tuttavia, nonostante l'uso intuitivo delle leggi ottiche dei colori complementari, mancava del rigore scientifico del
Neoimpressionismo successivo. I suoi quadri, concepiti come giochi di luci e ombre, furono inizialmente fraintesi come
abbozzi scombinati, lontani dagli standard accademici. Questa incomprese iniziali, però, contribuirono a definire Monet come
il simbolo dell'Impressionismo.
Nel 1883, Claude Monet (1840-1926), indiscusso maestro dell’Impressionismo francese, acquistò una vecchia casa colonica
presso Giverny, borgo a metà strada tra Parigi e la Normandia. Trasferitosi con tutta la sua famiglia, visse in questa casa più
di quarant’anni, fino alla morte, dedicandosi totalmente alla pittura e alla cura del proprio giardino. L’artista-giardiniere coltivò
le sue piante accostando le tinte dei fiori come in una gigantesca tavolozza.
Proprio al tema dei fiori che galleggiano sull’acqua l’artista, quasi cieco,
lavorò con accanimento nel
corso degli anni Novanta, ma
anche più avanti nei primi decenni del XX secolo.
Lo stagno delle ninfee (1899): Monet dipinge li suo giardino nella campagna di Giverny. in questo giardino fece scavare un
fosso per ricavare uno stagno, che decorò con ninfee di diversi colori. L'artista le dipingeva di continuo cogliendo iloro aspetti
cromatici a causa d e l cambiamento della luce e dei suoi riflessi
nell'acqua. La protagonista dell'opera è l'acqua, che con i suoi riflessi dal cielo ci dà la sensazione di movimento.
A metà di questo secolo la cultura del Giappone venne diffusa in Europa. Fu nel 1867 durante l’esposizione universale di
Parigi che vennero esposte le stampe ukiyo-e (pittura/pitture) del mondo fluttuante. Questi dipinti rappresentavano scene di
vita quotidiana. Erano rappresentate gita in barca, scene teatrali e scene teatrali di geishe, cioè cortigiane. I dipinti giapponesi
ebbero una grande influenza sugli impressionisti e anche su Monet. Furono i soggetti naturali e le scene di paesaggio con
figure ad interessare l’artista francese. Anche le inquadrature suggerirono a Monet nuovi dipinti con colori piatti e privi di
chiaroscuro.
La grande presenza di strade ferrate, palazzi e nuovi scorci permise al maestro di osservare nuovi effetti della luce sulle
architetture e di registrarne l’impressione sulle proprie tele. La stazione ferroviaria si dimostrò da subito un soggetto
interessante. Ottenuta l’autorizzazione a dipingere in loco, Monet ne riprodusse dunque ogni ambiente, dalla hall ai binari
passando per le singole locomotive. I quadri suscitarono l’immediata approvazione di personalità importanti come Renoir e lo
scrittore Émile Zola, che ne trasse ispirazione per La bestia umana. Le opere sono oggi raccolte in svariati musei in Europa e
in America, ma la più famosa è indubbiamente la tela conservata al Museo d’Orsay di Parigi.
La stazione di Saint-Lazare riproduce il parco binari della stazione ferroviaria parigina. La prospettiva adottata da Claude
Monet è centrale e dà grande risalto all’architettura che funge da riparo per le locomotive e i viaggiatori. Grazie ai grandi
pannelli di vetro, infatti, permetteva alla luce di inondare l’intero ambiente sottostante producendo effetti sempre nuovi sui
mezzi di trasporto in transito. Al centro della raffigurazione spicca la riproduzione dello skyline di Parigi, incorniciato proprio
dalla tettoia metallica che appare così come un’immensa cattedrale della modernità. Il paesaggio urbano è inoltre mitigato
dalla presenza del fumo emesso dai treni, che rende lo sfondo sfocato e appena percepibile. In primo piano dominano lo
sviluppo esile dei binari su cui scorrono i treni in entrata e in uscita. Tutt’attorno compaiono infine le sagome di vari
personaggi, ora uomini che nella stazione lavorano, ora cittadini per i quali il luogo è solo un punto di passaggio verso altre
destinazioni.
Come anticipato, la realizzazione di La stazione di Saint-Lazare permise a Claude Monet di registrare le minime variazioni di
luce nelle sue tele. Rimbalzando sulle architetture, sui binari, sui treni e sui singoli viaggiatori, infatti, i raggi solari
modificarono l’aspetto del luogo costantemente, fornendo materiale sempre nuovo alla ricerca artistica del pittore.
Nel 1877, peraltro, Monet aveva già 37 anni. L’opera permette dunque di osservare lo stile pittorico più maturo dell’artista, al
tempo già passato attraverso capolavori come Colazione sull’erba, Regate ad Argenteuil e Il carnevale al boulevard des
Capucines. Ogni soggetto quindi viene suggerito attraverso il semplice accostamento dei colori, applicati sulla tela con
pennellate veloci e dinamiche. La tettoia e i palazzi sullo sfondo, inoltre, risultano solamente accennati, mitigati dai vapori resi
con campiture materiche e tridimensionali.
L’opera è ovviamente realizzata en plein air per riuscire a registrare un’impressione istantanea e non riproducibile in atelier.
Sulla tela, infine, trovano spazio i caratteristici contrasti tra cromie complementari, che rendono il quadro brillante, vivo e
quasi in movimento.
Fu tra il 1892 e il 1894 che Monet dipinse le molte riproduzioni della Cattedrale di Rouen, un’imponente costruzione gotica
iniziata intorno al 1145 e terminata nel 1250. Studiò questo grandioso monumento in una cinquantina di tele (48 in tutto), al
variare delle condizioni atmosferiche, osservandolo in più fasi da punti di vista differenti. Questa ossessiva ripetizione di un
medesimo soggetto consentiva all’artista, restio a considerare conclusa un’opera, una continua rielaborazione del tema.
L’effetto di “istantaneità”
Egli stesso spiegò le ragioni di questa sua pittura in serie. Raccontò che all’inizio aveva programmato di dipingere solo due
tele, una sotto il cielo grigio e l’altra durante una giornata di sole. Poi scoprì che gli effetti della luce cambiavano
continuamente, con il trascorrere delle ore e anche dei minuti; così, decise di registrare la successione di questi mutamenti in
una serie di quadri, destinandone uno ad ogni specifico effetto. Ogni volta che l’effetto della luce cambiava, Monet smetteva
di lavorare ad una tela e continuava su un’altra, «in modo da ottenere l’impressione vera di un aspetto della natura e non un
dipinto composito». In questo modo poteva raggiungere un effetto di “istantaneità”.
È chiaro che, per quanto ammirasse la magnifica costruzione gotica, Monet non era interessato alla chiesa in sé, né ai suoi
specifici caratteri architettonici, anche se si tratta di uno dei più importanti monumenti gotici di Francia, una vera e propria
icona nazionale; egli scelse questo soggetto unicamente come un pretesto per indagare le problematiche relative alla luce ed
al colore, in quanto colpito dal come i chiaroscuri e gli effetti cromatici della facciata, così plastica e articolata, mutassero al
variare delle stagioni, delle condizioni atmosferiche e delle ore del giorno. «Ogni giorno», osservò Monet, «aggiungo e scopro
qualcosa che non avevo ancora visto». «Le tele avrebbero potuto essere cinquanta, cento, mille, tante quante i minuti della
vita», chiosò, a lavoro concluso, Georges Clemenceau.
Qualche settimana dopo, tornò a Rouen per riprendere la sua serie e questa volta scelse come punto di vista il camerino di un
ex negozio di lingerie, molto vicino alla sua precedente abitazione. Nel 1893, si trasferì al numero 81 di rue du Grand-Pont,
dove realizzò le ultime tele della Cattedrale. Le diverse inquadrature della chiesa, nelle varie tele della serie, dipendono
proprio da queste differenti fasi esecutive.
Le tele più famose vedono la facciata dell’edificio parzialmente inquadrata, leggermente di scorcio, con l’ampio portale
centrale in basso affiancato dai due ingressi minori, il grande rosone visibile in alto, i pilastri e le guglie sovrastanti. Le due
grandi torri laterali, tagliate superiormente e lateralmente, si intravedono appena.