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LA DEMOCRAZIA KELSEN

Scienza Politica
Università degli Studi di Bari Aldo Moro (UNIBA)
69 pag.

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La democrazia
Hans Kelsen

Indice

Introduzione
ESSENZA E VALORE DELLA DEMOCRAZIA
Prefazione
I. La libertà
II. Il popolo

III. Il Parlamento

IV. La riforma del Parlamento

V. La rappresentanza professionale
VI. Il principio di maggioranza

VII. L’amministrazione
VIII. La scelta dei capi
IX. Democrazia formale e democrazia sociale

X. Democrazia e concezioni della vita

IL PROBLEMA DEL PARLAMENTARISMO


I FONDAMENTI DELLA DEMOCRAZIA
I. Democrazia e filosofia

II. Democrazia e religione

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III. Democrazia ed economia

INTRODUZIONE
I testi kelseniani spiegano quell’insieme di credenze e di
valori l’ideologia liberaldemocratica, appunto che dopo il
1989 ha finito per rappresentare poco meno che il senso
comune politico dell’Occidente. Kelsen resta anzitutto un
giurista: Nelle tre sezioni di questa introduzione si cercherà
appunto di mostrare, prima, come la stessa teoria del
diritto kelseniana la Dotirina pura abbia un implicito
significato politico; poi, come tale significato diventi del
tutto esplicito nei lavori sulla democrazia;
Kelsen: un teorico del diritto
La teoria del diritto di Kelsen presenti forti connotazioni
politiche. Nell’attuale situazione degli studi kelseniani si
può forse fornire un’interpretazione più meditata del
significato politico della Dottrina pura: un’interpretazione
che ne ritrovi il senso politico sin nei presupposti teorici.
Kelsen scrive: che è «un errore qualificare la Dottrina pura
del diritto come una prosecuzione della dottrina liberale-
individualistica dello Stato di diritto, come democraticismo
politico e pacifismo» Per Kelsen: una dottrina non può
pretendere di essere pura, e al contempo liberale,
democratica e pacifista Gli studi kelseniani imboccato la
strada della storicizzazione e della periodizzazione: oggi
non è più possibile parlare della teoria di Kelsen senza
specificare di quale Kelsen del Kelsen di quale periodo si
stia in realtà parlando.
Bulygin distinguendo fra un primo Kelsen “europeo”, o
“tedesco”, o meglio ancora “austriaco”, prevalentemente
neokantiano un secondo Kelsen “americano”, in cui il
neokantismo è largamente controbilanciato da influenze
empiristiche e neopositivistiche, e l’ultimo Kelsen, nel
quale non solo l’empirismo tende a soppiantare il

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neokantismo, ma alcune importanti tesi precedenti
vengono platealmente rigettate.
Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico
(1911):
• Il primo grande testo giuridico kelseniano.

Qui Kelsen afferma di voler reagire all’ipertrofia del


concetto di Stato che accomunerebbe giuspubblicistica
tradizionale e teorie socialiste nei termini seguenti: Nel
primo o primissimo Kelsen l’assimilazione del diritto a
legislazione sembra ancora subordinata alle esigenze di
fondazione metodologica della giurisprudenza: le leggi
prodotte dal Parlamento sembrano solo il materiale bruto
che la scienza giuridica trasforma in diritto conoscendolo
come tale. Eppure, questo Kelsen neokantiano è poi lo
stesso autore che si sbarazza del concetto di sovranità, che
equipara Stato e diritto e che teorizza la democrazia. La
lettura del Kelsen filosofo politico è indispensabile a
comprendere il Kelsen teorico del diritto: perché
quest’ultimo, a partire dagli anni Trenta, si è dedicato
soprattutto a generalizzare e a purificare ulteriormente la
Dottrina pura, occultando i presupposti che la legano alle
istituzioni liberaldemocratiche, e rischiando per ciò stesso
di farla apparire come l’involontaria apologia di qualsiasi
potere effettivo.
Quest’opera di purificazione, astrazione e generalizzazione
procede di pari passo con la sconfitta della democrazia in
Germania. Il progressivo ritiro di Kelsen nella cittadella
fortificata della Reine Rechtslehre diviene ancora più
manifesto nel secondo periodo della sua produzione, dopo
l’emigrazione negli Stati Uniti e la vittoria degli alleati sul
nazismo e sul fascismo. Nel contesto americano, Kelsen
appare soprattutto interessato a estendere la Dottrina pura
trasformandola in una teoria generale nel senso della
general jurisprudence, piuttosto che in quello
dell’allgemeine Rechtslehre.

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Il giurista Kelsen finisce per abbandonare gli originari
interessi costituzionalistici per concentrarsi soprattutto
sugli studi di Diritto internazionale. Il secondo Kelsen,
l’autore della Teoria generale dei diritto e dello Stato della
seconda Dottrina pura diverrà così il bersaglio preferito del
neogiusnaturalismo postbellico, ma anche del
neocostituzionalismo liberale. In Italia la Dottrina pura
verrà assimilata a «concezione del diritto come nuda forza»
non solo da Giuseppe Capograssi, ma anche da Nicola
Matteucci. Se l’ultimo Kelsen, l’autore di Diritto e logica e
della postuma Teoria generale delle norme non ha subito
attacchi consimili, è solo perché si è occupato soprattutto
di logica delle norme e dei sistemi normativi, sicché si è
preferito minimizzarne il contributo teorico e/o denunciarne
l’irrazionalismo normativo: anche se queste stesse
obiezioni teoriche lasciano trasparire motivi politici, non
troppo dissimili da quelli che sorreggono gli attacchi rivolti
alla Teoria generale del diritto e dello Stato.
Molto spesso l’ultimo Kelsen non fa altro che ribadire tesi
sostenute sin dagli anni Venti. Si pensi alla concezione
kelseniana della scienza giuridica, che sin dagli esordi
neokantiani si pone in contrasto con la tradizione
savignyana del Juristenrecht; l’ultimo Kelsen rompe
definitivamente con questa tradizione, negando alla
scienza giuridica persino la possibilità di intervenire sul
diritto con strumenti logici, o pseudologici, quali la regola
d’inferenza, il principio di non contraddizione e il criterio
della lex posterior. Si pensi alla tesi, implicita già negli
scritti kelseniani sulla giustizia costituzionale e solo ribadita
dall’ultimo Kelsen, per cui una legge incostituzionale
sarebbe perfettamente valida, in quanto posta da un
organo autorizzato a porla, se, e sinché, una Corte
costituzionale non la annulli. Qui ancora si rivelano i nessi
fra le tesi teorico-giuridiche considerate sin qui, e quelle
teorico-politiche, cui è dedicato il prossimo paragrafo.
Kelsen: un teorico della politica

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Kelsen resta anzitutto un teorico del diritto, ma lo resta
anche quando si occupa di politica conforme alla sua
concezione dello Stato come ordinamento giuridico. Kelsen
cercherà sempre di presentare la propria teoria politica,
analogamente a quella giuridica, come scientifica o
avalutativa. Il Kelsen teorico della democrazia sembra
praticamente sconosciuto agli scienziati politici, sia
americani sia europei, mentre le sue tesi sono discusse
soprattutto da filosofi politici e storici delle dottrine
politiche. Il primo Kelsen opera in un contesto politico nel
quale il termine «democrazia» non designa più un valore
largamente condiviso, com’era stato fra gli intellettuali
europei nella seconda metà dell’Ottocento, e non designa
ancora un fenomeno da studiare empiricamente, quale
diverrà per la scienza politica statunitense, ma un oggetto
di discussione: forse l’oggetto di discussione per
antonomasia, nel dibattito politico fra le due guerre. Lo
stesso Kelsen ricorda che «da sempre, accanto ai problemi
della dottrina del diritto e dello Stato, mi sono occupato di
quelli di teoria politica» Il primo lavoro che egli menziona
a questo riguardo trascurando il libro giovanile su La
dottrina dello Stato di Dante Alighieri risale agli anni
precedenti la prima guerra mondiale, e s’intitola
Concezione politica del mondo ed educazione ; ma i lavori
su cui egli insiste di più sono ovviamente gli scritti sulla
teoria della democrazia, che verranno privilegiati anche in
questa introduzione, e quelli di critica del marxismo, che
compaiono negli stessi periodi; nel 1920, ad esempio,
escono sia la prima versione di Essenza e valore della
democrazia, sia la prima edizione di Socialismo e Stato Nel
primo Essenza e valore della democrazia si trovano già
molti dei motivi che torneranno in tutti i lavori successivi:
dall’esordio sulla crisi dei valori della «grande Rivoluzione
francese questa fonte eterna della democrazia
continentale»; alla riconduzione della democrazia all’idea di
libertà e non a quella di eguaglianza; dalla critica della
sovranità e della rappresentanza all’opposizione fra

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democrazia e autocrazia, sino all’apologo finale di Cristo e
Barabba
Nella Democrazia dell’amministrazione Kelsen respinge la
richiesta di estendere il principio elettivo ai funzionari-capo
dei distretti amministrativi: se si vuole garantire il principio
della legalità nell’amministrazione il diritto
democraticamente prodotto dovrebbe essere
autocraticamente eseguito Kelsen segnala la tensione fra
l’ideale democratico dell’identità di governanti e governati,
ideale che giustificherebbe solo la democrazia diretta la
realtà moderna della divisione del lavoro, che imporrebbe
invece la democrazia rappresentativa referendum,
iniziativa popolare delle leggi, controllo degli eletti da parte
degli elettori, limitazione dell’immunità parlamentare.
Kelsen non sembra però disposto a transigere sui principi di
una rappresentanza (non corporativa, ma) parlamentare, e
di un sistema elettorale (non maggioritario, ma)
proporzionale. L’ultima sezione del saggio, in cui Kelsen
attacca Schmitt, e i lavori del 1926 preparano quello che
può considerarsi il maggiore contributo kelseniano in
argomento: la seconda versione del saggio del 1920,
intitolata anch’essa Essenza e valore della democrazia.
La democrazia, che a partire dall’Ottantanove è stata la
parola d’ordine di liberalismo e socialismo, deve ormai
difendersi da attacchi provenienti da entrambi i campi.
L’argomentazione di Essenza e valore della democrazia
lungi dall’assumere i toni dell’apologia, si presenta come
un’analisi realistica della situazione politica. «se c’è una
forma politica che offre la possibilità di risolvere
pacificamente questo conflitto di classi, questa forma non
potrà essere che quella della democrazia parlamentare»
Nel 1930 Kelsen si trasferisce all’Università di Colonia, dove
si getta a corpo morto nella polemica con lo Smend di
Costituzione e diritto costituzionale lo Schmitt del Custode
della costituzione la replica kelseniana a quest’ultimo
testo, intitolata Chi deve essere il custode della
costituzione?, potrebbe anzi annoverarsi anch’essa fra i

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testi sulla democrazia, se è vero, com’è stato osservato,
che l’autentico oggetto della polemica era la forma di
governo, e non la giustizia costituzionale. La polemica
Kelsen-Schmitt era ancora interna al campo democratico:
e non perché Schmitt aderisse a una forma di democrazia,
ma perché la sua proposta di contrastare l’ascesa nazista
attribuendo poteri eccezionali al Presidente del Reich era
allora condivisa da molti democratici. La polemica torna in
due lavori scritti quando ormai si delinea la vittoria di
Hitler, Difesa della democrazia Forme di Stato e
concezioni del mondo i più significativi fra quelli non
ricompresi in questa raccolta.
Il primo costituisce una sorta di ultimo appello in favore
della costituzione di Weimar, appello che peraltro rifiuta
l’estrema risorsa rimasta ai suoi sostenitori: ovvero
difenderla con metodi antidemocratici. Forme di governo
e concezioni del mondo sviluppa invece un’analogia fra
teorie politiche e gnoseologiche: al razionalismo e al
relativismo tipici della democrazia si opporrebbero
l’irrazionalismo e l’assolutismo tipici dell’autocrazia.
La fine di Weimar vede l’espulsione di Kelsen
dall’Università di Colonia e l’inizio delle sue peregrinazioni
fra Ginevra, dove insegna Diritto internazionale fino al
1940, Praga, dove tiene corsi di Filosofia del diritto negli
anni 1936- 38, e gli Stati Uniti, dove finirà per riparare nel
1941. In questi anni Kelsen si occuperà soprattutto di
Diritto internazionale; Nel 1955 dopo l’assunzione
dell’insegnamento di Scienza politica a Berkeley, Kelsen
pubblicherà la Teoria comunista del diritto e soprattutto i
Fondamenti della democrazia, il suo terzo grande
contributo in materia. Non si tratta affatto della mera
riproposizione ad un pubblico di lingua inglese di dottrine
sostenute negli anni Venti: non solo il secondo e terzo dei
tre capitoli del saggio polemizzano con autori e correnti
contemporanei, come vediamo fra un attimo, ma lo stesso
primo capitolo, che pure riprende tesi del periodo
weimariano, le riformula in modo nuovo. La democrazia,

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secondo Kelsen, non richiederebbe la fede «nell’esistenza
di un bene comune, obiettivamente determinabile»; se si
cercasse di fondarla su una fede siffatta, anzi, «la
democrazia non sarebbe possibile. Se il primo capitolo,
intitolato «Democrazia e filosofia», si segnala per
l’insistenza sul carattere metodico o procedurale della
democrazia, i due capitoli restanti sono dedicati alla
polemica con alcune significative correnti del pensiero
politico dell’epoca.
Il secondo capitolo, intitolato «Democrazia e religione»,
polemizza con la teologia democratica, sia protestante sia
cattolica, e più in generale con il neogiusnaturalismo
postbellico; il terzo capitolo, intitolato «Democrazia ed
economia», polemizza invece con le rivendicazioni, sia
liberistiche sia collettivistiche, di un primato dell’economia
sulla politica: la democrazia, come procedura o metodo
politico, non avrebbe legami necessari né con il socialismo,
come Kelsen sostiene contro i marxisti, né con il
capitalismo, come egli sostiene contro l’Hayek della Strada
per la servitù.
Kelsen: un teorico del diritto e della politica
Per valutare l’attualità della teoria kelseniana della
democrazia bisogna anzitutto tener conto di questo:
• che non si tratta di una brillante improvvisazione, quali
quelle di cui ci gratificano giornalmente politici,
politologi e ingegneri costituzionali, ma di qualcosa di
terribilmente più ambizioso.
Kelsen è stato davvero uno degli autori più influenti sulla
nostra prima costituzione repubblicana, e posizioni come
quelle appena menzionate hanno fatto parte per decenni
della costituzione materiale, se non di quella formale.
Quella di Kelsen è una concezione relativistica della
democrazia: una concezione che si candida come adeguata
all’epoca del crepuscolo degli idoli e del politeismo dei
valori. Il carattere metodico e procedurale della teoria
kelseniana della democrazia si fonda proprio su questo

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assunto relativistico: non c’è più qualcosa come un bene
comune, e in sua assenza si può solo mediare fra una
pluralità di valori in conflitto.
«la democrazia non funziona quando l’antagonismo tra
maggioranza e minoranza è così forte da rendere
impossibile ogni compromesso»
Quella di Kelsen, poi, è una concezione non solo formale,
ma anche procedurale della democrazia: «democrazia»
indica anzitutto quel metodo per prendere decisioni
politiche consistente nel discutere e nel votare a
maggioranza. Si tratta cioè di concezione più prossima a
quella avanzata da Schumpeter negli anni quaranta, e
oggi d’uso comune soprattutto fra gli scienziati politici, che
alle varie teorie procedurali della giustizia o
dell’argomentazione proposte negli ultimi vent’anni da
autori come John Rawls, Jùrgen Habermas e Robert
Alexy.
Kelsen si è opposto a soluzioni siffatte sin dagli anni Venti,
qualificando come «intollerabile» l’attribuzione alla Corte
costituzionale del potere di annullare le leggi sulla base di
valori costituzionali come quello della giustizia: «la
concezione della giustizia della maggioranza dei giudici»,
osserva Kelsen, «potrebbe contrastare del tutto con quella
della maggioranza della popolazione, e contrasterebbe
evidentemente con quella del Parlamento che ha voluto la
legge» Kelsen mira a mostrare la distanza che corre fra la
realtà politica e l’ideologia. Si tratta di concezione
elitistica, poi, nel senso dell’elitismo politologico: Kelsen
rifiuta come altrettante ideologie le dottrine della
rappresentanza e della sovranità popolare, mostrando di
considerare la democrazia «reale» come procedura per la
scelta dei capi.
Si tratta di concezione ne individualistica, infine, nel senso
dell’individualismo metodologico: Kelsen critica concetti
come quelli di Stato o di popoio in quanto i fenomeni
collettivi ad essi corrispondenti potrebbero studiarsi solo
riducendoli a soggetti e rapporti individuali. Kelsen non

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riesce a concepire il sistema presidenziale, ad esempio, se
non come forma più o meno mascherata di autocrazia: e
questo non solo nel caso di presidenzialismi plebiscitari à la
Schmitt, ma anche in quello del presidenzialismo
all’americana, da lui ridotto a razionalizzazione della
monarchia costituzionale inglese. È una concezione
pacifistica della democrazia: anzitutto per quanto riguarda
i rapporti interni ai singoli Stati, nei quali la democrazia si
presenta appunto come strumento per risolvere
pacificamente i conflitti sociali ma anche per quanto
riguarda i rapporti fra gli Stati, a proposito dei quali il
Kelsen interposte nazionalista persegue dichiaratamente
l’ideale kantiano della «pace attraverso il diritto».
È una concezione liberale della democrazia, per la quale
«la democrazia moderna non può essere separata dal
liberalismo politico», cioè dal principio per cui «il governo
non deve interferire in certe sfere di interessi proprie
dell’individuo» La Dottrina pura oggi sembra prestarsi
piuttosto a storicizzazioni che a prosecuzioni, la teoria
kelseniana della democrazia non sta poi molto meglio:
mentre dal punto di vista filosofico-politico, e anche da
quello dell’ingegneria costituzionale, è francamente
impossibile presentarla come una sorta di dernier cri, per i
suoi aspetti di political science essa rischia di non reggere il
confronto con le teorie politiche che le sono più prossime,
come quella di Schumpeter.
Essenza e valore della democrazia
Prefazione
Liberalismo e socialismo non presentano differenza
ideologica sotto questo aspetto. Democrazia è la parola
d’ordine che, nei secoli XIX e XX, domina quasi
universalmente gli spiriti; ma, proprio per questo, essa
perde, come ogni parola d’ordine, il senso che le sarebbe
proprio. Si presenta il problema della democrazia di fronte
alla dittatura di partito di sinistra e di destra così come un
tempo si presentava di fronte all’autocrazia monarchica.

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Capitolo primo
La libertà
Nell’ idea di democrazia si incontrano due postulati della
nostra ragione pratica, reclamano soddisfazione due istinti
primordiali dell’essere sociale. In primo luogo la reazione
contro la costrizione risultante dallo stato di società, la
protesta contro la volontà esterna davanti alla quale ci si
deve inchinare, la protesta contro il tormento
dell’eteronomia. È la natura stessa che, nell’esigenza di
libertà, si ribella alla società. L’ideologia politica non
rinuncia ad unire la libertà con l’uguaglianza. La negazione
assoluta di ogni legame sociale in generale e perciò dello
Stato in particolare,porta al riconoscimento di una
particolare forma di questo legame, la democrazia, che, col
suo contrario dialettico, l’autocrazia, rappresenta ogni
possibile forma della stato, anzi della società in generale.
La libertà naturale si trasforma in libertà sociale o politica.
Dal punto di vista della natura, libertà significa,
originariamente, negazione della legalità naturale o
causale. Alla libertà concepita come autodeterminazione
politica del cittadino si suole contrapporre l’idea di libertà
dei Germani per i quali libertà voleva dire assenza di
qualsiasi dominio, di qualsiasi Stato. L’importanza davvero
enorme dell’idea di libertà nell’ideologia politica sarebbe
inesplicabile se essa non provenisse dal profondo
dell’anima umana, da dove proviene pure quell’istinto
primitivo ami- statale che spinge l’individuo contro la
società. Dalla libertà dell’anarchia, si forma la libertà della
democrazia.
Rousseau, forse il più importante teorico della
democrazia, pone il problema dello Stato ideale che è per
lui il problema della democrazia in questi termini:
• « Trovare una forma di associazione che difenda e
protegga ogni membro ad essa appartenente e nella
quale l’individuo, pur unendosi a tutti gli altri, ubbidisca
soltanto a se stesso e resti libero come prima »

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La democrazia rinuncia all’unanimità che, ipoteticamente,
si sarebbe applicata alla sua fondazione per contratto e si
accontenta delle decisioni prese dalla maggioranza,
limitandosi ad avvicinarsi al suo ideale originario. La
fondazione dello Stato, la creazione originaria dell’ordine
giuridico o della volontà dello Stato, non rientrano nella
pratica sociale. Il problema che si presenta è soltanto
quello del perfezionamento di quest’ordine, delle modifiche
da apportare ad esso. Il principio maggioritario si può
dedurre da tale idea, non, come si è soliti fare, dall’idea di
uguaglianza. Questo principio presuppone che le volontà
degli individui siano uguali. L’uguaglianza come postulato
fondamentale della democrazia: è chiaro infatti che si
cerca di assicurare la libertà non di questo o di
quell’individuo perchè questo vale più di quello, ma del
maggior numero possibile di individui. La trasformazione
del concetto di libertà il quale si trasforma in
partecipazione dell’individuo al potere dello Stato, segna
contemporaneamente la separazione della democrazia del
liberalismo. L’ideale democratico sarà indipendente dalla
misura nella quale quest’ordine dello Stato abbraccia gli
individui che lo creano, vale a dire indipendente dal grado
fino al quale riduce la loro « libertà . Anche se l’estensione
del potere dello Stato sull’individuo fosse illimitata, nel
caso la democrazia sarebbe ancora possibile, purché tale
potere statale fosse creato dagli individui ad esso
sottomessi. La libertà dell’individuo la quale si rivela come
irrealizzabile, finisce per restare in secondo piano, mentre
la libertà della collettività le succede in primo. In regime
autocratico è considerato come un capo. In regime
democratico è lo Stato stesso che appare come soggetto
del potere. La personificazione dello Stato diventa la base
della teoria del diritto pubblico contemporaneo, ha le sue
radici in questa ideologia della democrazia. L’individuo che
crea l’ordine dello Stato è libero proprio nel legame di
questa unione e in essa soltanto. L’idea di Rousseau che il
suddito rinunci a tutta la sua libertà per riaverla di nuovo
come cittadino è caratteristica, poichè questa distinzione

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fra suddito e cittadino indica un intero cambiamento del
punto di vista sociale e il completo spostamento del
problema. Il suddito è l’individuo isolato di una teoria
individualistica della società; Alla libertà dell’individuo
viene a sostituirsi, come esigenza fondamentale, la
sovranità popolare o, che è lo stesso, lo Stato autonomo,
libero.
Capitolo secondo
Il popolo
La metamorfosi dell’idea di libertà porta alla realizzazione
della democrazia. La democrazia è una forma di Stato o di
società in cui la volontà generale o, senza tante metafore,
l’ordine sociale, vengono realizzati da chi è a quest’ordine
sociale sottomesso, cioè dal popolo. Diviso da contrasti
nazionali, religiosi ed economici, il popolo appare, agli occhi
del sociologo, piuttosto come una molteplicità di gruppi
distinti che come una massa coerente di uno e di un
medesimo stato di agglomerazione. Il « popolo » è un
sistema di atti individuali, determinati dall’ordine giuridico
dello Stato. Tutti coloro che fanno parte del popolo come
individui sottoposti a norme dell’ordine statale, non
possono partecipare al processo di creazione di queste
norme non possono rappresentare il popolo come soggetto
del potere. Il popolo come insieme dei titolari dei diritti
politici rappresenta soltanto una piccola frazione della
cerchia degli individui sottoposti all’ordine statale, del
popolo come oggetto del potere. La moderna democrazia
si fonda interamente sui partiti politici la cui importanza è
tanto maggiore, quanto maggiore applicazione trova il
principio democratico La democrazia può quindi esistere
soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro
affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà
generale verso i loro fini politici, cosicché, fra l’individuo e
lo Stato, si inseriscono quelle formazioni collettive che,
come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei
singoli individui È sufficiente dare uno sguardo
all’evoluzione di tutte le democrazie storiche, respinge la

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tesi, oggi ancora assai diffusa, secondo la quale vi sarebbe
un’incompatibilità essenziale fra i partiti politici lo Stato
secondo la quale lo Stato, per la sua natura stessa, non si
potrebbe edificare su di una base costituita da formazioni
sociali quali i partiti.
I partiti non rappresentano che interessi di gruppi di
individui; hanno quindi per base l’egoismo. Lo Stato invece,
che rappresenta l’interesse comune, è al di sopra degli
interessi dei gruppi e quindi al di là dei partiti che li
organizzano. In primo luogo, accanto ai partiti, fondati su
una comunione di interessi, esistono anche partiti fondati
su una comunione di convincimenti, partiti che hanno un
ruolo importante nella vita politica tedesca. In secondo
luogo, gli stati storici appaiono in maggior parte, ad uno
sguardo realista che penetri attraverso la nube delle
apparenze ideologiche che ogni organizzazione di forza
diffonde intorno a sé, come funzionanti, innanzi tutto,
nell’interesse di un gruppo dominante. L’ideale di un
interesse generale superiore trascendente gli interessi dei
gruppi e perciò partiti, l’ideale di una solidarietà di interessi
di tutti i membri della collettività senza distinzione di
confessione, di nazionalità, di ceto, etc., è un’illusione
metafisica; più esattamente parlando, questo ideale è una
illusione che chiameremo « meta politica » che si è soliti
esprimere, abitualmente, con una terminologia
estremamente oscura di un essere « organico » collettivo
o di una struttura « organica » di questo essere, ed opporre
al cosiddetto Stato di partiti, alla democrazia meccanica.
La formazione del popolo in partiti politici è, in realtà,
un’organizzazione necessaria affinché questi compromessi
possano venir realizzati, affinché la volontà generale possa
muoversi lungo una linea media.
L’ostilità alla formazione dei partiti serve consciamente a
forze politiche che mirano al dominio assoluto “degli
interessi di un solo gruppo e che, nello stesso grado n cui
non sono disposte a tener conto degli interessi opposti,

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cercano di dissimulare la vera natura degli interessi che
esse difendono, sotto la qualifica di interesse collettivo
• Organico

• Vero

• bene inteso

La democrazia vuole che la volontà generale sia soltanto la


risultante della volontà dei partiti stessi, può rinunciare alla
finzione di una volontà generale organica superiore ai
partiti. La realtà della vita dei partiti, nella quale possono
prender risalto personalità notevoli di capi più
vigorosamente che nei limiti una Costituzione democratica,
questa vita dei partiti dunque, ove funziona ancora la
cosiddetta disciplina di partito, offre in genere all’individuo
un’autonomia democratica assai scarsa, mentre, nel
rapporto tra i partiti, e cioè nella sfera di formazione della
volontà parlamentare, non si può pensare seriamente ad
un’analoga disciplina dello Stato. Soltanto nella democrazia
diretta l’ordine sociale viene realmente creato dalla
decisione della maggioranza dei titolari dei diritti politici, i
quali esercitano il loro diritto nella Assemblea del popolo.
La democrazia dello Stato moderno è la democrazia
indiretta, parlamentare, in cui la volontà generale direttiva
non è formata che da una maggioranza di eletti dalla
maggioranza dei titolari dei diritti politici. I diritti politici si
riducono ad un semplice diritto di voto. Di tutti gli elementi
finora considerati che limitano l’idea della libertà e, con ciò,
quella della democrazia, il parlamentari sempre è forse il
più importante.
Capitolo terzo
Il Parlamento
La lotta condotta contro l’autocrazia verso la fine del secolo
XVIII e l’inizio del XIX fu una lotta per il parlamentarismo. Il
parlamentarismo, forma politica dei secoli XIX e XX, poteva
indubbiamente reclamare al suo attivo risultati realmente
importanti, quale l’emancipazione completa della classe
borghese mediante la soppressione dei privilegi;

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La democrazia moderna vivrà soltanto se il
parlamentarismo si rivelerà uno strumento capace di
risolvere le questioni sociali del nostro tempo. Certo,
democrazia e parlamentarismo non sono identici. Il
parlamentarismo non sia l’unica forma reale possibile
dell’idea di democrazia. La cosiddetta crisi del
parlamentarismo non è, infine,il risultato di una
interpretazione inesatta di questa forma politica e perciò di
un falso giudizio sul suo valore. Il parlamentarismo è la
formazione della volontà direttiva dello Stato attraverso un
organo collegiale eletto dal popolo in base al suffragio
universale ed ugualitario, vale a dire democratico, secondo
il principio della maggioranza. La lotta per il
parlamentarismo fu una lotta per la libertà politica.
Nel principio del parlamentarismo la libertà appare
combinata con due elementi che ostacolano la sua forza
originaria: uno di questi è costituito dal principio
maggioritario l’altro il quale risulta ad un’analisi del
parlamentarismo, è rappresentato dalla formazione
indiretta della volontà, per cui la volontà dello Stato non è
più opera diretta del popolo, ma di un Parlamento che,
d’altronde, è dal popolo eletto. Il parlamentarismo si
presenta dunque come un compromesso fra l’esigenza
democratica di libertà e il principio della distribuzione del
lavoro. Il Parlamento, che forma la volontà dello Stato. Da
un lato, non si poteva seriamente accettare, per la
complessità dei rapporti sociali, la forma primitiva della
democrazia diretta, poiché non era possibile rinunciare ai
vantaggi della divisione del lavoro. Da un altro lato, si
voleva da re l’illusione che, anche nel parlamentarismo,
l’idea di libertà democratica ed essa sola viene ad
esprimersi integralmente.
Nasce il Parlamento moderno, che si distacca dalla
istituzione analoga degli Stati antichi, i cui membri erano
notoriamente legati da mandati imperativi dei loro gruppi
di elettori e responsabili nei loro confronti. La finzione della
rappresentanza deve legittimare il Parlamento dal punto di

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vista della sovranità popolare. Così la finzione della
rappresentanza, a lungo andare, non è più stata in grado di
adempiere al suo, compito vero e proprio, quello di
giustificare il Parlamento dal punto di vista della sovranità
popolare; Se si concepisce il parlamentarismo come il
necessario compromesso fra l’idea semplicistica della
libertà politica e il principio della differenziazione del
lavoro, si potrà anche chiaramente comprendere quale
direzione debba seguire una eventuale riforma del
parlamentarismo. Il tentativo di eliminare completamente
il Parlamento dall’ organismo dello Stato moderno non
potrebbe avere a lungo andare, che uno scarso successo. In
fondo, ci si chiede soltanto in qual modo il Parlamento
debba venir convocato, come esso debba essere composto
e quali debbano essere la natura e i estensione della sua
competenza In effetti tutti quei tentativi diretti ad una
organizzazione corporativa dello Stato o ad una dittatura,
non mirano che ad una pura e semplice riforma del
parlamentarismo per quanto nei loro programmi, essi ne
reclamino l’abolizione.
Capitolo quarto
La riforma del Parlamento
La riforma del parlamentarismo potrebbe essere tentata
nel senso di un nuovo rinforzamento dell’elemento
democratico. Sarebbe nell’interesse del principio
parlamentare stesso che gli uomini politici professionali,
che oggi sono parlamentari, rinunciassero alla loro
avversione e che non ammettessero soltanto il cosiddetto
referendum costituzionale, ma anche un referendum
legislativo se non obbligatorio almeno facoltativo.
Fra le istituzioni figura anche la cosiddetta iniziativa
popolare, per Cui un certo numero minimo di cittadini
elettori può proporre un progetto di legge in merito al quale
il Parlamento dovrà deliberare. Che un deputato possa
essere perseguito dai tribunali e arrestato per un reato
commesso, soltanto dietro consenso del Parlamento, è un
privilegio che risale all’epoca della monarchia feudale, vale

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a dire all’epoca in cui l’opposizione fra Parlamento e
governo regio era la più accanita. Ma in una repubblica
parlamentare voler proteggere il Parlamento dal suo
governo è un nonsenso. Per quanto riguarda il principio
dell’irresponsabilità dei deputati di fronte ai loro elettori, vi
si trova già una deroga in alcune costituzioni recenti che
dispongono che i deputati, anche se non sono legati al
mandato avuto dai loro elettori, lo perdano non appena
lascino il partito per o dal quale essi furono eletti o non
appena vengano esclusi da esso.
La Costituzione della Russia Sovietica va assai più oltre.
Essa permette che gli elettori revochino, in ogni momento,
i loro deputati ai diversi Consigli, il che ha attirato a tale
Costituzione le simpatie di un gran numero di lavoratori
stranieri. Sul principio della divisione del lavoro, si vuole
sostituire il corpo legislativo centrale ed universale che,
eletto secondo principi democratici, non è effettivamente
qualificato per un’attività particolare, con Parlamenti tecnici
per i diversi campi della legislazione, i quali potrebbero
innestarsi su di una distribuzione dei dicasteri
nell’amministrazione e di cui si trovano già le basi nelle
commissioni speciali parlamentari. Oggi ci si orienta
particolarmente verso l’idea di istituire un Parlamento
economico. L’idea di affidare ad un Parlamento politico
generale è problematica sotto molti punti di vista. Nella
maggior parte dei casi, non si può fare una distinzione
netta fra il punto di vista « politico » e quello «economico».
Capitolo quinto
La rappresentanza professionale
I conservatori chiedono spesso una sostituzione di esso
con un’organizzazione corporativa. Se si considera
l’organizzazione corporativa che molti vorrebbero sostituire
al parlamentarismo da essi considerato come sorpassato, ci
si accorge che la realizzazione di quest’idea incontra
difficoltà enormi, anzi, in parte insolubili. Quest’idea
corporativa non potrebbe eliminare il sistema
rappresentativo e, con ciò, il parlamentarismo. ma soltanto

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sostituire il sistema democratico con un altro sistema di
rappresentanza. La differenza sarebbe che fungerebbero da
corpo elettorale i gruppi professionali. Si tratta dunque
soltanto della realizzazione di un Parlamento professionale.
Bisognerebbe stabilire chi debba determinare il grado di
importanza di ogni gruppo professionale. Anche se si
costituisse un’Assemblea rappresentativa professionale in
cui i diversi gruppi professionali trovassero una
rappresentanza in relazione alla loro importanza,
resterebbe sempre da decidere secondo qual principio si
potrebbe formare una volontà unitaria in seno a tale
Assemblea rappresentativa. Se nell’Assemblea
rappresentativa è la maggioranza che concordemente o in
parte decide contro minoranza, è molto più sensato
stabilire un tale Par mento su un sistema di nomina che
consideri ogni elettore non semplicemente come membro
di una determinata professione, ma come membro del
complesso dello Stato che lo supponga interessato non
soltanto a questioni professionali ma, per principio, a tutte
quelle questioni che possano costituire l’oggetto del
regolamento dello Stato. L’idea di un’organizzazione
professionale non può essere sufficiente a risolvere il
problema della forma dello Stato;
Capitolo sesto
Il principio di maggioranza
Impedire il dominio di classe è ciò che il principio
maggioritario nell’ambito del parlamentarismo è in grado
di fare. La maggioranza presuppone, per definizione,
l’esistenza di una minoranza e, in conseguenza, il diritto
della maggioranza presuppone il diritto all’esistenza di una
minoranza. Da ciò risulta la possibilità di proteggere la
minoranza contro la maggioranza. Questa protezione della
minoranza è la funzione essenziale dei cosiddetti diritti
fondamentali e libertà fondamentali, o diritti dell’uomo e
del cittadino, che vengono garantiti da tutte le moderne
Costituzioni delle democrazie parlamentari.

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La forma tipica di qualificazione di tali leggi costituzionali
rispetto alle leggi ordinarie, è rappresentata da un aumento
del quorum e da una maggioranza speciale di due terzi o
di tre quarti. Se in origine sembrava che fosse il principio
della maggioranza assoluta a rispondere relativamente di
più all’idea democratica in via di realizzazione, oggi risulta
che il principio di una maggioranza qualificata, in
determinate circostanze, può costituire un’approssimazione
dell’idea di libertà ancor maggiore, rappresentando una
certa tendenza all’unanimità nella formazione della volontà
generale.
La procedura parlamentare ci insegna infatti che bisogna
distinguere fra ideologia e realtà. Ideologicamente questo
principio sta a rappresentare la formazione della volontà
generale col più grande accordo possibile fra la medesima
e la volontà individuali; Prescindendo dalla finzione
secondo la quale la maggioranza rappresenterebbe anche
la minoranza e la volontà della maggioranza sarebbe una
volontà generale, il principio di maggioranza apparirebbe
come il principio del dominio della maggioranza sulla
minoranza. Nella realtà, la maggioranza numerica non è
sempre decisiva: può anche avvenire che la minoranza
numerica domini la maggioranza numerica sia
occultamente in quanto il gruppo dominante è gruppo di
maggioranza soltanto in apparenza, in seguito ad artifici
della tecnica elettorale che apertamente, cioè nel caso di
un cosiddetto governo di minoranza.
Il significato del principio di maggioranza non è che la
volontà della maggioranza numerica abbia il sopravvento,
ma che, ammessa questa idea, tale ideologia esercitando il
suo influsso, i membri della comunità sociale si organizzano
essenzialmente in due gruppi. L’importante è che, dalla
tendenza a formare una maggioranza, a conquistare una
maggioranza non sono che due i gruppi che
essenzialmente si oppongono, che lottano per il potere, in
quanto gli innumerevoli fattori di differenziazione e di
scissione che agiscono nell’interno della società, vengono

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neutralizzati fino a non lasciar sussistere che un’unica
opposizione fondamentale. Una dittatura della
maggioranza sulla minoranza non è possibile, a lungo
andare, per il semplice fatto che una minoranza,
condannata a non esercitare, nel modo più assoluto,
nessuna influenza, finirà col rinunciare alla sua
partecipazione soltanto formale e perciò per lei senza
valore e perfino dannosa alla formazione della volontà
generale, togliendo con ciò alla maggioranza che già per
definizione non è possibile senza la minoranza il suo
carattere stesso di maggioranza. Tutta la procedura
parlamentare tende a creare un medio termine fra gli
interessi opposti, una risultante delle forze sociali di senso
contrario.
I diversi interessi dei gruppi rappresentati in Parlamento,
potranno esprimersi, manifestarsi in una procedura
pubblica trovando, in quella parlamentare, le garanzie
necessarie. È da questo punto di vista che bisogna stabilire
su quale sistema elettorale si debba fondare il Parlamento,
quale sistema elettorale sia preferibile per una democrazia
parlamentare: sistema elettorale maggioritario o sistema
elettorale proporzionale. Bisogna decidere a favore di
quest’ultimo. Se si pretende un sistema elettorale tale che
ogni partito, nelle elezioni, possa affermarsi in virtù della
propria forza, si desidera, come soggetto dell’atto
elettorale i corpi elettorali che vengono formati non
secondo il principio antinaturale di territorialità, ma
secondo un principio di personalità.
Nell’interno di un corpo elettorale non si ha lotta.
Nel sistema proporzionale, come la somma dei voti dati agli
appartenenti ad un partito non si oppone alla somma dei
voti ottenuti da un altro partito, ma vi si giustappone, così i
voti dati ai diversi candidati di uno stesso partito sono
paralleli, vale a dire si sommano insieme per concorrere al
risultato totale. Nel caso ideale di elezione proporzionale,
non ci sono vinti, poichè non c’è ricorso alla maggioranza.
Per essere eletti non è infatti necessario ottenere una

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maggioranza di voti, ma è sufficiente ottenere un « minimo
» il cui calcolo costituisce la caratteristica della tecnica
proporzionale. L’idea di proporzionalità sarà tanto meglio
realizzata, quanto maggiore sarà il numero dei mandati da
distribuire in rapporto ai voti dati.
L’influsso che la minoranza esercita sulle decisioni della
maggioranza deve essere necessariamente tanto più
importante quanto più forte è la rappresentanza di questa
o di queste minoranze in Parlamento. Il sistema
proporzionale, indubbiamente consolida questa tendenza
alla libertà, che deve impedire un dominio incontestato
della volontà della maggioranza su quella della minoranza.
Il sistema della proporzionale presuppone l’organizzazione
dei cittadini in partiti politici e, ove l’organizzazione dei
partiti non è ancora sufficientemente evoluta, ha una forte
tendenza ad accelerarne e a rinforzarne l’evoluzione. La
proporzionale ha prodotto un effetto che noi abbiamo
riconosciuto essere il risultato di quel gioco di forze che
costituisce l’essenza dello Stato di partiti democratico.
Se si è compreso il senso vero e proprio del principio di
maggioranza che domina nella procedura parlamentare, ci
si potrà fare un’idea esatta anche di uno dei problemi più
scabrosi e più pericolosi del parlamentarismo:
• l’ostruzionismo

Finché si ricorre a procedimenti ostruzionistici conformi al


regolamento, come discorsi prolungati, richiesta di scrutini
per appello nominale, mozioni d’urgenza da discutersi
prima delle questioni iscritte all’ordine del giorno etc., si
parla di ostruzione tecnica »;
si parla invece di ostruzione fisica quando si paralizza la
procedura parlamentare facendo uso diretto o indiretto di
mezzi violenti, come rumori, distruzione di oggetti di
arredamento etc.
L’ostruzione « violenta » è assolutamente ingiustificabile
per il solo fatto che è illegale; ma anche l’ostruzione «
tecnica » deve esser giudicata contraria al senso e allo

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spirito del regolamento parlamentare, in quanto ostacola la
formazione della volontà del Parlamento
L’applicazione del principio di maggioranza comporta certi
limiti quasi naturali. Maggioranza e minoranza debbono
potersi intendere vicendevolmente, se debbono accordarsi.
Il principio di maggioranza viene respinto perché viene
respinto il compromesso costituente una premessa per la
realizzazione di tale principio. Proprio perché il
compromesso è l’approssimazione dell’unanimità che
l’idea di libertà esigerebbe per la creazione dell’ordine
sociale da parte dei sottomessi a questo ordine sociale
stesso, il principio maggioritario, anche a questo riguardo,
si rivela come sostegno dell’idea di libertà politica.
Capitolo settimo
L’amministrazione
Rivendicando un regime democratico ci si era finora
accontentati di chiedere una particolare organizzazione
dell’organo legislativo, cioè dell’organo incaricato della
creazione delle norme generali:
• suffragio generale ed ugualitario, referendum.

Una volta realizzato questo programma, si presentò il


problema della democratizzazione de secondo stadio del
processo della formazione della volontà dello Stato, si pose
il postulato di un’organizzazione democratica di quegli atti
individuali della volontà dello Stato che vengono
raggruppati nell’amministrazione e nella giurisdizione sotto
il nome di funzione esecutiva. La creazione delle norme
individuali s’adatta alla decentrazione e ne abbisogna
maggiormente di non la creazione delle norme generali, la
cosiddetta legislazione. Se il territorio dello Stato viene
diviso in ampie circoscrizioni amministrative e queste, a
loro volta, vengono divise in circoscrizioni ancor più piccole,
per esempio in distretti, e se l’amministrazione di tali
territori viene affidata a collegi eletti dai cittadini di questi
territori stessi, in modo che immediatamente sotto al
governo centrale vengano a trovarsi le rappresentanze

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della provincia e, sotto queste, le rappresentanze dei
distretti, sarà più che probabile che, in tale caso, questi
organi dell’amministrazione autonoma particolarmente se
la loro composizione politica e i loro rapporti di
maggioranza sono diversi da quelli dell’ente legislativo
centrale non considereranno la legalità dei loro atti come
fine supremo, ma si metteranno troppo facilmente in
consapevole contrasto con le leggi votate dal Parlamento
centrale.
La legalità dell’esecuzione è senza dubbio meglio
assicurata, nei gradi medi ed interiori, da agenti speciali
nominati dal potere centrale e responsabili davanti ad esso,
cioè da un’organizzazione autocratica di questa parte della
formazione della volontà dello Stato. Democrazia e
burocrazia sembrano opporsi in modo assoluto solo da un
punto di vista ideologico, ma non se si consideri la realtà.
La burocratizzazione significa, anzi, in certe condizioni,
mantenimento della democrazia. Il principio democratico si
può applicare agli strati superiori e non può penetrare negli
strati più profondi di un processo nel quale il corpo dello
Stato si crea e si rinnova incessantemente
Ma oltre alle norme individuali stabilite dagli atti
amministrativi anche le norme generali dei regolamenti e,
in particolare, delle leggi possono e debbono essere
sottoposte ad un controllo giurisdizionale, le prime in base
alla loro conformità alla legge e le seconde in base alla loro
conformità alla Costituzione. Tale controllo è compito della
giustizia costituzionale. Questa funzione, poi, è
importantissima per la democrazia, in quanto il rispetto
della Costituzione, nella procedura legislativa, rappresenta
un eminente interesse della minoranza poiché come
abbiamo già visto le disposizioni sul quorum, sulla
maggioranza qualificata etc. esercitano una funzione
protettiva nei confronti della minoranza stessa. La
democrazia senza controllo è impossibile. Essa infatti,
senza quell’autolimitazione che rappresenta il principio
della legalità, si autodistrugge. Il principio di legalità che

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domina ogni atto esecutivo, esclude ogni influsso politico
sull’esecuzione delle leggi sia da parte dei tribunali che da
parte delle autorità amministrative.
Capitolo ottavo
La scelta dei capi
Tensione fra ideologia e realtà
E l’ideologia democratica della libertà di fronte alla realtà
dei legami sociali che vi corrisponde, avere lo stesso ruolo
che l’illusione etica del libero arbitrio ha di fronte al fatto,
stabilito dalla psicologia, dell’ ineluttabile determinazione
causale di ogni volere umano. Fra questi due gruppi di
problemi non esiste un parallelismo esteriore.
L’idea di democrazia implica assenza di capi. Interamente
nel suo spirito sono le parole che Platone, nella sua
Repubblica fa dire a Socrate:
• «Noi l’onoreremmo come un essere degno d’adorazione,
meraviglioso ed. amabile; ma dopo avergli fatto notare
che non c’è uomo di tal genere nel nostro Stato, e che
non deve esserci, untogli il capo ed incoronatolo, lo
scorteremmo fino alla frontiera ».
La realtà sociale è il dominio, l’esistenza di capi.
Il governo può influenzare sostanzialmente la legislazione.
Il meccanismo dell’apparato parlamentare costituisce
anche un ostacolo reale ed efficace per un governo
appoggiato alla maggioranza. Dal punto di vista
dell’ideologia, una separazione dei poteri, l’attribuzione
della legislazione e dell’esecuzione ad organi diversi, non
corrisponde affatto all’idea che il popolo non debba esser
governato che da se stesso. Il dogma della separazione dei
poteri, fatto valere già da Montesquieu è quello di
conservare al monarca la possibilità di esercitare ancora un
potere proprio nel campo dell’esecuzione. Il dogma della
separazione dei poteri è il nocciolo dell’ideologia della
monarchia costituzionale. Se il potere esecutivo è affidato
ad un monarca e viene messo sullo stesso piano di quello
legislativo invece di essergli subordinato, questo monarca

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risalterà come potere superiore alla rappresentanza
nazionale che partecipa con lui alla legislazione.
La separazione dei poteri agisce talvolta anche in senso
democratico: in primo luogo in quanto essa significa una
divisione del potere di cui impedisce una concentrazione
favorevole all’espansione e all’esercizio arbitrario; in
secondo luogo, in quanto essa tende a sottrarre lo stadio
importante della formazione della volontà generale dello
Stato all’influenza diretta del governo permettendo ai
sudditi di influenzarla direttamente e riducendo la funzione
del governo alla ratificazione legislativa delle leggi.
L’ idea di una direzione dei capi viene ottenebrata dal fatto
che il governo viene immaginato come subordinato ad un
Parlamento di diverse centinaia di membri; dal fatto che al
capo unico, unico solo rappresentante del dominio, si
sostituisce una pluralità di persone che si dividono la
funzione del comando. cioè la creazione della volontà
direttiva. La creazione di questi numerosi capi diviene il
problema centrale della democrazia reale che, in
opposizione alla sua ideologia, non è una collettività senza
capi la quale si distingue dall’autocrazia reale non, tanto
per l’assenza quanto, piuttosto, per il gran numero di capi.
E così, un metodo particolare di selezione dei c dalla
collettività dei governati appare come elemento essenziale
della democrazia reale.
Questo metodo è l’elezione.
Nella ideologia democratica, l’elezione deve essere una
delegazione di volontà dell’elettore all’eletto.
L’interpretazione obiettiva dell’elezione non può lasciarci
fuorviare dall’ideologia subiettiva dell’elezione stessa.
L’interpretazione reale di questa funzione è diversa.
Essa si presenta come un metodo di creazione di organi
che si oppone ad altri metodi per due tratti caratteristici:
• prima poichè essa non è una funzione semplice, ma
composta, alla costituzione della quale concorre una
moltitudine di organi incompleti;

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• poi, perchè l’organo creato dall’elezione è superiore agli
organi creatori dato che, alla elezione, si forma un
organo che crea la volontà dominatrice che sottomette
gli elettori, le norme che li legano.
Il secondo di questi tratti caratteristici dell’ elezione è
precisamente uno dei motivi che porta alla finzione della
delegazione a volontà. L’autorità sociale viene immaginata
come un’autorità paterna.
L’autorità sociale viene sentita come la prima autorità che
fa la sua comparsa nella vita dell’individuo:
• come padre della patria

• come Dio-padre.

Quello che Max Weber chiama «autocefalia» è


spiccatamente e caratteristico della democrazia reale e la
distingue da quella organizzazione politica che veniva
chiamata autocrazia che ora si preferisce chiamare
dittatura. Nel sistema dell’ideologia autocratica le questioni
dell’origine, della designazione, della creazione del capo,
non sono questioni lecite che si possano porre od anche
risolvere mediante la conoscenza razionale.
Nel sistema dell’ideologia democratica il problema della
creazione dei capi sta al centro di considerazioni razionali.
La democrazia reale presenta l’immagine di un
cambiamento dei capi più o meno rapido. La
razionalizzazione della funzione di capo l’idea della libera
creazione dei capi, rendono impossibile che essi divengano
amovibili. Una delle caratteristiche della democrazia reale
è un’ascensione costante della massa dei governati alla
posizione di capo. La democrazia, come l’autocrazia, sono
soltanto metodi per la creazione di un ordine sociale, i
difensori dei due principii credono ugualmente che il
principio da loro propugnato consenta il raggiungimento
dell’ordine migliore.
Il sistema autocratico non conosce alcun metodo di
creazione di capi, ma stende sui più importante problema
della politica quel velo mistico-religioso che cela ai volgo

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profano la nascita dì quell’eroe divino. La democrazia
facilita l’ascesa al potere garantendo, nel medesimo
tempo, la rapida rimozione del capo che non faccia buona
prova, mentre l’autocrazia, coi suoi principii della funzione
a vita o persino dell’eredità delle funzioni, agisce in senso
esattamente contrario.
L’educazione alla democrazia diviene una delle principali
esigenze della democrazia stessa. Ogni educazione vada
considerata come un rapporto fra maestro e discepolo,
come direzione spirituale da un e aderenza spirituale
dall’altro, il problema della democrazia tuttavia, nella
pratica della vita sociale, diviene un i problema
d’educazione del più grande stile.
Capitolo nono
Democrazia formale e democrazia sociale
I marxisti oppongono la democrazia sociale o proletaria,
cìoè un ordine sociale che garantirebbe agli individui non
soltanto una partecipazione, formalmente uguale, alla
formazione della volontà della collettività, ma anche una
uguale quantità di ricchezze. La lotta per la democrazia è
una lotta per la libertà politica, vale a dire per la
partecipazione del popolo alle funzioni legislativa ed
esecutiva. L’idea di uguaglianza non ha niente a che fare
con l’idea di democrazia. La teoria marxista vuole sostituire
all’ideologia della libertà l’ideologia della giustizia,
servendosi della parola « democrazia ». Ma è chiaro che è
un abuso adoperare la parola «democrazia». Il socialismo,
fin da Marx e da Engels, parte dall’ipotesi finora
d’importanza capitale per la sua dottrina non soltanto
politica, ma anche economica che il proletariato sfruttato e
immiserito costituisca la stragrande maggioranza della
popolazione e che basti che esso prenda coscienza della
propria situazione classista, per organizzarsi nel partito
socialista onde prepararsi ad una lotta di classe contro una
minoranza sparuta. La cosiddetta geometria elettorale, le
difficoltà di esercizio del diritto di voto per certe categorie
di elettori ed altre simili evenienze ma, in modo particolare

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la notevole influenza esercitata dalla stampa capitalista,
non bastano a giustificare tale situazione. Se la democrazia
borghese rimane allo stadio dell’uguaglianza
esclusivamente politica lo si deve al fatto che,
contrariamente ad una tesi sostenuta per diversi decenni
dal socialismo, il proletariato, interessato all’uguaglianza
economica e alla nazionalizzazione o socializzazione della
produzione, non costituisce o, per lo meno, non costituisce
ancora la schiacciante maggioranza del popolo.
Capitolo decimo
Democrazia e concezioni della vita
Una regola specifica di creazione, con una determinata
forma sociale o di governo, non si risolve affatto l’assai più
importante questione del contenuto dell’ ordine statale. Per
la soluzione del problema sociale sembra essere
importante stabilire come l’ordine politico o zie debba
essere costituito, se su base socialista o capitalista. Il
democraticismo ha precisamente la spiccata tendenza a
porre il problema decisivo in questo senso, mentre
l’autocratismo, per i motivi precedentemente esposti
respinge la forma politica in secondo piano. La democrazia
farebbe la figura dell’asino nella pelle del leone. Non
bisogna essere proprio pessimisti e credere a quanto
amaramente asserisce Ibsen, cioè che la maggioranza
abbia sempre torto, che perciò il popolo sia assolutamente
incapace di discernere ciò che sia giusto da ciò che non lo
sia; La fiducia nell’esistenza della verità asso- iuta e di
valori assoluti pone le basi di una concezione metafisica e,
particolarmente, mistico-religiosa del mondo. La
democrazia stima la volontà politica di ognuno, come
rispetta ugualmente ogni credo politico, ogni opinione
politica di cui, anzi, la volontà politica è l’espressione.
Perciò la democrazia dà ad ogni convinzione politica la
stessa possibilità di esprimersi e di cercare di conquistare
l’animo degli uomini attraverso una libera concorrenza. Il
dominio della maggioranza si distingue da ogni altro tipo di
dominio perché, secondo la sua più intima essenza, non

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soltanto presuppone, per definizione stessa, un’opposizione
la minoranza, ma anche perché riconosce politicamente
tale opposizione e la protegge coi diritti fondamentali e con
le libertà fondamentali.
Il problema del parlamentarismo
Venne combattuta alla fine del secolo XVIII ed al principio
contro l’autocrazia fu essenzialmente una lotta dell’istituto
parlamentare.
Dai partiti dell’estrema destra come da quelli dell’estrema
sinistra il principio parlamentare viene sempre più
risolutamente avversato, e sempre più imperiosa si fa
l’invocazione alla dittatura o ad un ordinamento
corporativo. Sulla bontà del principio parlamentare furono
già affacciati dubbi intorno alla metà e sulla fine del secolo
scorso.
Per una repubblica democratico - parlamentare il problema
del parlamentarismo è un problema di esistenza:
• dal fatto che il parlamento sia o no uno strumento atto a
risolvere i problemi sociali del nostro tempo dipende
l’esistenza stessa della moderna democrazia.
Una delle crisi del parlamentarismo è imputabile ad una
critica, che fraintende la vera natura di questa forma
politica, e di conseguenza ne apprezza falsamente il valore
Parlamentarismo è:
• formazione della volontà normativa dello Stato mediante
un organo collegiale eletto dal popolo in base al suffragio
universale ed eguale per tutti, cioè dunque
democraticamente, secondo il principio della
maggioranza.
La lotta per il parlamentarismo fo lotta per la libertà
politica, e questo è troppo facile dimenticare oggi, quando
si muove al parlamento una critica sotto molti riguardi
ingiusta. Nel parlamento l’idea di libertà ci appare in una
doppia combinazione che ne limita la primitiva forza. Con il
principio di maggioran.ca accettato dal parlamento, l’idea

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d libertà, allo scopo di rendere possibile in qualche modo
un ordinamento sociale, rinuncia alla esigenza della
unanimità dei voti nella creazione della volontà collettiva.
Il concetto di libertà si combina con la ineluttabile necessità
della divisione del lavoro, della differenziazione sociale:
• cioè dunque con una tendenza, che è in contraddizione
con il carattere’ fondamentale dell’idea democratica di
libertà.
Il parlamento si presenta dunque per parlare del secondo di
questi elementi come un compromesso fra postulato
democratico della libertà ed il principio della divisione
differenziale del lavoro, che è la condizione di ogni
progresso della tecnica sociale.
Con le nuove elezioni verrebbe così a formarsi un nuovo
parlamento, del quale se non si può asserire ancora che sia
la genuina espressione della volontà popolare, si potrà
perlomeno meno affermare con sicurezza che con questa
volontà non si è già messo in contrasto. Il corpo elettorale
può impartire ai suoi fiduciari in parlamento istruzioni
impegnative, è necessario che sussista almeno la
possibilità che dal seno del popolo possano manifestarsi dei
suggerimenti, secondo i quali possa il parlamento orientare
la sua attività legislativa. Al mandato imperativo nella sua
forma sarà assai difficile che si possa tornare, ma le
innegabili tendenze odierne in questo senso si possono
forse concretare in forme fino ad un certo punto conciliabile
con la struttura dell’apparato politico moderno. La
possibilità tecnico-giuridica di esercitare un controllo di
questo genere esiste ed un contatto permanente e
garantito dalla legge tra elettori e deputati varrebbe a
riconciliare le masse col principio parlamentare.
La irresponsabilità del deputato di fronte ai suoi elettori,
che è indubbiamente una delle principali cause
dell’avversione oggi dominante contro l’istituto
parlamentare non è allatto, come ha mostrato di credere la
dottrina del diritto pubblico del secolo XIX, un elemento

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essenziale ed inseparabile dal sistema parlamentare, e già
in alcune costituzioni vigenti vi sono a questo riguardo dei
tentativi degni di considerazione e suscettibili di uno
sviluppo ulteriore. Quanto poi alla irresponsabilità dei
deputati verso i loro elettori, rappresenta già una prima
infrazione di questo principio la disposizione contenuta in
molte costituzioni recenti, in virtù della quale il deputato,
pur non essendo vincolato ai mandati dei suoi elettori,
decade però dal suo mandato se abbandona
volontariamente il partito per il quale o dal quale fu eletto,
o ne viene escluso.
La costituzione russa dei sovieti va molto più in là. Per essa
i membri dei diversi consigli possono essere in qualunque
momento revocati dai loro elettori. Con una riforma si
ovvierebbe ad un’altra novissime obbiezioni che, dopo
quella dell’«estraneità popolo», viene con maggior
frequenza portata in campo contro il parlamentarismo. Ai
parlamentari moderni si rimprovera infatti, che mancano ad
essi, già per il modo come sono formati, tutte quélle
cognizioni specifiche che sono indi‘pensabili per fare delle
buone leggi nei diversi campi della vita pubblica. Mentre
con la prima affermazione, cioè che la volontà del
parlamento voglia a torto passare per volontà del popolo, si
fa appello all’idea di libertà, libertà che il parlamentarismo
dunque non realizzerebbe o soltanto in un modo
sufficiente, la seconda accusa, cioè quella della mancanza
di qualità specifiche, mira in un senso opposto: quello del
divisione differenziale del lavoro.
Questi parlamenti tecnici non vengono espressi con
elezioni generali dalla collettività, ma dovrebbero essere
l’emanazione di gruppi di elettori organizzati per
competenze cioè secondo un principio corporativistico,
non può ancora vedersi una abolizione della democrazia e
del parlamentarismo in particolare, ma soltanto un loro
riforma nei senso di una organizzazione corporativa del
creazione della volontà statale. Non si riesce a vedere che
senso sia nel voler comporre un organo legislativo con due

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organi parziali, ciascuno formato secondo principi
radicalmente diversi.
Da parte dei conservati si reclama la sostituzione del
parlamentarismo democratico una organizzazione
corporativistica. All’inquadramento meccanico del popolo si
vuoi sostituire un inquadramento «organico» di esso;
Non possiamo non riconoscere che l’inquadramento del
popolo secondo le categorie professionali non può
abbracciare di fatto la totalità degli interessi che hanno
importanza per la creazione della volontà statale, nella
quale gli interessi di ordine corporativo sono in concorrenza
con interessi, spesso vitali, di tutt’altra natura, ad esempio
religiosi, di etica generale, estetici. Nell’inquadramento
corporativo è immanente la naturale tendenza ad una
differenziazione sempre più minuziosa, perché l’ideale
corporativo non trova la sua perfetta attuazione se non
sulla base di una piena e totale comunanza degli interessi
del gruppo. Fra i singoli gruppi corporativisticamente
inquadrati, per natura, sussiste non una comunanza
sibbene un antagonismo di interessi, e questo antagonismo
viene precisamente acuito dalla organizzazione degli
interessi comuni in gruppi.
Il principio corporativistico non potrebbe abolire il sistema
rappresentativo democratico e perciò< il parlamentarismo,
ma soltanto sostituirlo con un sistema. I rappresentativo di
altra natura.
Tutta la differenza consisterebbe in questo:
• che come corpi elettorali non funzionerebbero più, come
nella democrazia, direttamente o indirettamente, i partiti
politici, ma bensì i gruppi corporativisticamente
organizzati; perché la creazione diretta ed immediata
della volontà statale non è attuabile neppure nell’ambito
del gruppo corporativo.
Il principio della organizzazione corporativa non può
bastare da solo a risolvere il problema della forma dello
Stato.

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Il dilemma:
• democrazia od autocrazia, rimane intatto.
Il principio di maggioranza è il secondo elemento che
risulta da una analisi del parlamentarismo. Anche il
principio di maggioranza deve appunto considerarsi come
un compromesso dello stesso genere. Se libertà equivale
ad autodeterminazione politica, occorrerebbe veramente
che l’ordine sociale venisse creato dalla volontà concorde
di tutti quelli che a quest’ordine che costituisce appunto la
collettività sociale sono soggetti;
La democrazia, promovendo l’evoluzione dell’ordine sociale
si accontenta di una semplice approssimazione al concetto
originario di libertà. Da questo punto di vista il principio
della maggioranza assoluta è quello che rappresenta
l’approssimazione relativamente maggiore all’idea di
libertà. Infatti se a modificare l’ordine vigente si richiedesse
meno della maggioranza assoluta degli assoggettati
all’ordine stesso, vi sarebbe la possibilità che la volontà
statale al momento della sua creazione si trovi in contrasto
con un numero maggiore di volontà individuali, e che di
conseguenza, avvenuta la modificazione dell’ordine sociale,
vi sia un minor numero di individuali.
Se invece per la modificazione dell’ordine vigente si
richiedesse più della maggioranza assoluta, vi sarebbe la
possibilità che una minoranza riesca a creare una volontà
statale con l’impedirne in contrasto con la volontà di una
maggioranza la modificazione, ed anche in questo caso vi
sarebbe un numero maggiore di individui non liberi. Il
principio di maggioranza tende dunque ad ottenere che, se
non tutti, siano liberi almeno il maggior numero possibile
degli individui. Il principio di maggioranza crea la possibilità
di un compromesso.
Compromesso significa:
• posposizione di ciò che divide gli associandi, a vantaggio
di ciò che li unisce.

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Una volta afferrato il vero significato del principio di
maggioranza che informa il procedimento parlamentare,
diventa possibile anche la retta valutazione di uno dei più
difficili e pericolosi problemi del parlamentarismo:
• quello dell’ostruzionismo.

Si parla di ostruzionismo «tecnico»


■ finché vengono impiegati all’uopo mezzi contemplati dal
regolamento, come discorsi a getto continuo,
provocazione di appelli nominali, presentazione di
mozioni di urgenza sulle quali occorre discutere prima di
passare all’ordine del giorno, e altri simili metodi;
mentre si designa con il nome di ostruzionismo «fisico»
■ l’arresto della funzione parlamentare ottenuto con’ mezzi
violenti, diretti o indiretti, come rumori, demolizione degli
oggetti di arredamento, ecc.
L’ ostruzionismo è stato non di rado un mezzo efficace, più
che di rendere difficile la formazione della volontà
parlamentare, di condurre in definitiva questa volontà
verso un compromesso fra maggioranza e minoranza.
Esistono alla applicabilità del principio di maggioranza dei
limiti per così dire naturali. Maggioranza e minoranza
debbono potersi capire fra di loro, se si vuole giungere ad
una reciproca tolleranza. Si rifiuta il principio di
maggioranza perché si rifiuta il compromesso del quale
esso costituisce la premessa. Ma appunto dal fatto che il
compromesso non è che l’approssimazione reale alla
postulata dall’idea di libertà per la creazione dell’ordine
sociale da parte degli assoggettati a questo ordine, risulta
la legittimità del principio di maggioranza anche dal punto
di vista dell’idea della libertà politica. La fede nel
parlamentarismo con la sua procedura specificamente
antitetico- dialettica avrebbe, secondo quanto è stato
affermato di recente, le sue radici nella ideologia del
liberalismo;
Il relativismo filosofico si trova fatalmente spinto verso
quel metodo dialettico che deve prima lasciar libero giuoco

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alle opinioni antitetiche per poi cercare una compensazione
mediatrice fra due punti di vista, nessuno dei quali può
essere adottato integralmente e senza riserve, con la
negazione totale dell’altro.
La dittatura invece che taluni avversari del
parlamentarismo invocano, può essere voluta sul serio
ammesso che sia conciliabile con l’idea di dittatura il fatto
che essa sia voluta dagli assoggettati, e di conseguenza
legittimata dalla loro volontà soltanto da chi possieda la
fède metafisico-religiosa che il suo dittatore sia giunto per
via misteriosa in possesso della verità assoluta e a qualche
segno riconoscibile, e del valore assoluto in quanche modo
tangibile.
I fondamenti della democrazia
Capitolo primo
Democrazia e filosofia
LA DEMOCRAZIA COME GOVERNO DEL POPOLO :
UNA PROCEDURA POLITICA
L’ idea del diciannovesimo secolo fu la democrazia. Il futuro
apparteneva ad un governo del popolo. Nel ventesimo
secolo la situazione intellettuale e politica è tuttavia
cambiata. L’effetto immediato della prima guerra mondiale
sembrò, è vero, una vittoria del principio democratico; i
nuovi Stati costituitisi adottarono costituzioni democratiche
e il Reich tedesco, il più potente bastione della monarchia,
diventò una repubblica. E sebbene il fascismo ed il
nazional-socialismo siano stati distrutti, come realtà
politiche, nella seconda guerra mondiale, le loro ideologie
non sono sparite e si oppongono ancora, direttamente o
indirettamente, al credo democratico. Un avversario più
pericoloso del fascismo e del nazional-socialismo è il
comunismo sovietico che combatte democratica sotto la
maschera di una terminologia democratica. Se il fascismo
si introducesse negli Stati Uniti lo si chiamerebbe
democrazia.

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Il significato originale del termine «democrazia», coniato
nella teoria politica dell’antica Grecia, era:
■ governo del popolo.

Già nell’antica Grecia, avversari della democrazia come


Platone e Aristotele sostenevano che un governo del
popolo, cioè un governo di uomini inesperti nella pratica
del governo e privi della necessaria conoscenza dei fatti e
dei problemi della vita politica, possa non essere affatto
nell’interesse del popolo e perciò rivelarsi contrario al
popolo. Ma la forma di governo definita come «governo del
popolo» non presuppone una volontà del popolo volta a
realizzare ciò che, secondo l’opinione di questo, costituisce
il bene comune. Il termine sta a designare un governo a cui
il popolo partecipa direttamente indirettamente, vale a dire
un governo esercitato mediante decisioni prese a
maggioranza da un’assemblea popolare o da uno o più
gruppi di individui o anche da un solo individuo eletto dal
popolo. Il termine indica la relazione, costituita mediante
l’elezione, tra l’elettorato e l’eletto.
La democrazia è diventata democrazia di massa. La
democrazia liberale o moderna è soltanto un particolare
tipo di democrazia.
Il liberalismo significa limitazione del potere governativo,
qualsiasi forma il governo possa assumere, e significa
anche limitazione del potere democratico.
Come metodo o procedura, la democrazia è una «forma» dì
governo. Infatti la procedura attraverso la quale si crea e si
attua in pratica un ordinamento sociale è considerata
formale per distinguerla dal contenuto dell’ordinamento
che è un elemento materiale o sostanziale. L’argomento
del «formalismo», spesso usato per screditare una certa
corrente di pensiero e specialmente uno schema politico, è
soprattutto un espediente per nascondere un interesse
antagonistico che è la vera ragione dell’opposizione.
La dottrina politica che fornisce l’ideologia appropriata a
tale tendenza mette in risalto il punto che l’essenza della

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democrazia è un governo nell’interesse della massa del
popolo e che la partecipazione popolare al governo è un
fattore d’importanza secondaria.
LA DOTTRINA SOVIETICA SULLA DEMOCRAZIA
La tendenza a mettere in primo piano l’interesse delle
masse appare già nel Manifesto Comunista, dove
l’istituzione della dittatura del proletariato, scopo
immediato del movimento socialista, è presentata come la
vittoria della democrazia.
Il «movimento proletario» è definito come «il movimento
cosciente e indipendente dell’immensa maggioranza,
nell’interesse dell’immensa maggioranza».
Lenin dichiara che la dittatura del proletariato, e cioè la
«organizzazione dell’avanguardia degli oppressi», è «una
immensa espansione della democrazia, perchè essa
diventa democrazia per il povero, democrazia per il popolo,
e non democrazia per il ricco».
Lenin dichiarò che «la democrazia socialista non esclude in
alcun modo la direzione individuale e la dittatura e che la
volontà di una classe può in certi casi essere attuata da un
dittatore, il quale talvolta può fare di più proprio perché
solo e può essere frequentemente più necessario».
«Democrazia significa uguaglianza», ma la democrazia
borghese significa soltanto uguaglianza «formale», mentre
la democrazia socialista «va oltre l’uguaglianza formale
verso l’uguaglianza reale, vale a dire verso l’applicazione
della regola:
■ da ognuno secondo la sua capacità, ad ognuno secondo
i suoi bisogni» .
UNA NUOVA DOTTRINA SULLA RAPPRESENTANZA
Il pervertimento del concetto di democrazia ora definito
non si limita alla dottrina politica sovietica o a quella
nazional-socialista. L’autore distingue un tipo di
rappresentanza meramente « elementare » da un tipo di
rappresentanza «esistenziale», proprio come i teorici

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sovietici distinguono una democrazia meramente «formale
a da una democrazia «reale». Per tipo elementare di
rappresentanza si intende quella rappresentanza in cui e i
membri dell’assemblea legislativa assolvono la loro
funzione ha virtù di un’elezione popolare». Il tipo di
rappresentanza « elementare » si identifica più o meno con
quella che nella teoria politica sovietica si chiama la
democrazia puramente « formale » degli Stati borghesi.
L’ordinamento giuridico determina non soltanto la funzione,
ma anche l’individuo che deve assolvere la funzione, cioè
l’organo. Vi sono vari modi di determinare l’organo.
Nelle cosiddette democrazie rappresentative, gli organi
sono considerati dalla teoria politica tradizionale come
rappresentanti dello Stato quando rappresentano il popolo
dello Stato. Il principio che l’organo legislativo, il
parlamento, e il supremo organo esecutivo, il presidente in
uno Stato democratico, rappresentano il popolo, significa
soltanto che gli individui soggetti all’ordinamento giuridico
costituente lo Stato esercitano un’influenza decisiva sulla
creazione degli organi legislativi ed esecutivi in questione,
nei limiti in cui la costituzione li autorizza ad eleggere
questi organi. È vero che rappresentanza dello Stato e
rappresentanza del popolo dello Stato sono due concetti
diversi che la teoria politica tradizionale non sempre
distingue con sufficiente chiarezza; Molto più importante
del doppio significato della rappresentanza è il fatto che il
termine «rappresentanza» può pretendere di significare
non solo rappresentanza dello Stato, ma anche
rappresentanza del popolo dello Stato, soltanto ed
esclusivamente quando ci si riferisca alla rappresentanza
basata su organi eletti in modo democratico.
Il tipo democratico di rappresentanza è definito meramente
elementare non perché non esaurisce il problema della
rappresentanza, ma per un altro motivo:
■ perché esso non ha alcun significato.

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L’Italia fascista e la Germania nazional-socialista furono, e
la Russia comunista è tuttora, tipici «Stati a partito unico».
Questo termine non può avere altro significato. Una
democrazia non può essere uno Stato a partito unico.
Uno Stato a partito unico può, come vedremo, offrire un
esempio ideale di rappresentanza «esistenziale». Il tipo più
caratteristico di Stato a partito unico è l’Unione Sovietica.
Il governo sovietico rappresenta la società sovietica perché
controlla effettivamente il popolo sovietico. L’autore
sottolinea che in questo contesto il significato di
rappresentanza » è «basato su di una effettiva
imputazione», il che può unicamente significare che l’
imputazione allo Stato degli atti del governante ha luogo
solo se il potere di questi è efficiente. Il principio
dell’efficienza si riferisce all’ordinamento che costituisce lo
Stato, non agli organi dello Stato. L’efficacia come qualità
dell’ordinamento è condizione dell’esistenza dello Stato.
Il governo sovietico rappresenta la società sovietica «come
società politica» nel modo più efficiente perchè «gli atti
legislativi e amministrativi del governo sovietico sono
efficaci all’interno nel senso che gli ordini del governo sono
obbediti dal popolo» e il «governo sovietico può
efficacemente produrre una enorme macchina militare
alimentata dalle risorse umane e materiali della società
sovietica»;
ASSOLUTISMO E RELATIVISMO FILOSOFICO
Da quando Aristotele presentò la sua Politica come seconda
parte di un trattato la cui prima parte era l’Etica, è cosa
ormai pacifica che la teoria politica e quella parte della
filosofia chiamata «etica» siano fra loro in stretta
connessione. Il maggior problema della teoria politica è la
relazione tra il soggetto e l’oggetto del potere;
L’antagonismo tra assolutismo e relativismo filosofico trova
il suo posto tra l’epistemologia e la teoria dei valori ed è
analogo all’antagonismo tra autocrazia e democrazia che

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rispettivamente rappresentano l’assolutismo e il
relativismo politici.
La radice comune del credo politico e della convinzione
filosofica rimane sempre la mentalità dell’uomo politico e
del filosofo, la natura del suo ego, cioè il modo in cui
questo ego sperimenta se stesso nel suo rapporto con un
altro che pretende a sua volta di essere un ego e con gli
oggetti che non avanzano tale pretesa. Una tipologia delle
dottrine politiche e filosofiche deve alla fine comportare
uno studio dei caratteri, o almeno la prima deve cercare di
unire i suoi risultati a quelli del secondo. La mente umana
non è completamente dominata dalla ragione e perciò non
è sempre logica. L’assolutismo filosofico consiste
nell’opinione metafisica secondo cui vi è una realtà
assoluta, vale a dire una realtà che esiste
indipendentemente dalla conoscenza umana, e che si trova
al di là dello spazio e del tempo, termini cui la conoscenza
umana è limitata.
Il relativismo filosofico:
■ sostiene la dottrina empirica secondo la quale la realtà
esiste soltanto entro i limiti della conoscenza umana e,
come oggetto di tale conoscenza, è relativa al soggetto
cosciente.
Al riconoscimento dell’assoluto corrisponde la possibilità
della verità e dei valori assoluti, negati dal relativismo
filosofico che riconosce solo le verità relative e i valori
relativi. L’esistenza assoluta si identifica con l’autorità
assoluta come fonte di valori assoluti.
Il relativismo filosofico, d’altra parte, come empirismo
antimetafisico insiste su di una netta separazione tra realtà
e valore, distingue tra proposizioni relative al reale e
genuini giudizi di valore che, in ultima analisi, non sono
basati su una razionale conoscenza della realtà, ma sui
fattori emotivi della coscienza umana, sui desideri ed i
timori dell’uomo. Lo specifico carattere della teoria
relativistica della conoscenza implica due pericoli.

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1. Il primo è un solipsismo paradossale, vale a dire
l’assunto che l’ego come soggetto della conoscenza è
l’unica realtà esistente, l’impossibilità di riconoscere
l’esistenza simultanea di altri ego, la negazione
egotistica del tu.
2. Il secondo pericolo è un pluralismo non meno
paradossale. Dato che il mondo esiste soltanto nella
conoscenza del soggetto, secondo tale punto di vista
l’ego è, per Così dire, il centro del proprio mondo.
Il relativismo filosofico evita deliberatamente sia il
solipsismo che il pluralismo. Considerando
L’IDEA DI LIBERTÀ NATURALE E SOCIALE
Libertà ed uguaglianza, infatti, sono le idee fondamentali
della democrazia e i due istinti primitivi dell’uomo come
essere sociale, desiderio di libertà e senso di uguaglianza,
sono quindi alla base di essa.
Il simbolo di libertà deve subire un fondamentale
mutamento di significato per diventare una categoria
sociale. La libertà naturale si trasforma in libertà sociale o
politica. Essere liberi socialmente o politicamente significa,
è vero, essere soggetti ad un ordinamento normativo,
significa libertà sottoposta alla legge sociale;
L’IDEA METAFISICA DI LIBERTÀ
La transizione dalla libertà naturale alla libertà sociale,
fondamentale per l’idea di democrazia, implica il dualismo
fra natura è società che è in stretta relazione con la
distinzione tra realtà e valore, caratteristica di una filosofia
relativistica. L’antropologia metafisica considera la libertà
umana come un attributo essenziale dell’uomo in quanto
membro della società, vale a dire soggetto ad obblighi e
responsabilità.
L’idea di libertà naturale:
nel senso di assenza di ogni forma di governo, deve essere
trasformata nel concetto di libertà politica, nel senso di
partecipazione al governo, così l’idea di libertà metafisica,

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come punto di partenza della causalità, deve essere
trasformata nell’idea di libertà razionale, come punto finale
dell’imputazione.
LA DOTTRINA DELLA DEMOCRAZIA DI ROUSSEAU
La definizione di libertà come autodeterminazione politica
del cittadino, vale a dire come partecipazione al governo,
viene di solito contrapposta, parificandola all’idea di libertà
prevalente tra gli antichi Greci, all’idea individualistica,
vagheggiata dal primitivo popolo germanico, di una libertà
dal governo, di uno stato di anarchia più o meno
pronunciata. L’importanza straordinaria dell’idea di libertà
nell’ideologia politica può trovare spiegazione solo nel fatto
che essa ha origine nel profondo dell’animo umano,
nell’istinto primitivo che spinge l’individuo contro la
società. La libertà dell’anarchia diventa la libertà della
democrazia. Rousseau parte dall’idea della libertà
naturale, la libertà dell’anarchia, incompatibile con la
società. Egli si limita a respingere la democrazia
parlamentare soltanto perchè non riconosce la possibilità di
una rappresentanza;
Rousseau sostiene di conseguenza il principio di
democrazia diretta.
Di conseguenza la limitazione di ogni possibilità di essere
dominati, sembra corrispondere al principio democratico di
libertà: come garanzia di essa, quindi, si richiede una
maggioranza qualificata e, se possibile, l’unanimità. La
limitazione del principio di unanimità al contratto
costitutivo non è giustificata soltanto da ragioni di
convenienza.
L’ idea della libertà naturale è possibile solo se la sua
validità non dipende, fino ad un certo grado, dalla volontà
di coloro che vi sono soggetti.
Rousseau introduce il concetto di «volontà generale»
distinguendolo da quello di «volontà di tutti», concetto
molto misterioso che egli non definisce mai chiaramente.

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La libertà è compatibile con la sottomissione alla volontà
generale.
Rousseau distingue tra
■ cittadino

■ suddito

e sostituisce
■ la «libertà naturale»

■ con la «libertà civile».

IL PRINCIPIO DELLA MAGGIORANZA


Se si accetta il principio della maggioranza per lo sviluppo
dell’ordinamento sociale non si può più attuare
completamente l’idea di libertà naturale, ma è possibile l
approssimarsi ad essa. Anche l’individuo che vota con la
maggioranza non è oggetto solo alla propria volontà. Egli è
nuovamente libero, vale a dire non è tetto ad altro che alla
propria, volontà, soltanto se suo cambiamento viene
confermato da una maggioranza.
L’individuo nasce sempre in un ordinamento sociale già
stabilito e di norma anche in uno Stato preesistente alla cui
creazione non ha partecipato. L’idea basilare del principio
di maggioranza è che l’ordinamento sociale sia in accordo
con il maggior numero possibile di soggetti e in disaccordo
con il minor numero possibile di essi. Libertà politica
significa accordo tra la volontà individuale e quella
obbiettiva espresse nell’ordinamento sociale.
Il principio maggioritario presuppone come condizione
essenziale il principio di eguaglianza.
IL TIPO DEMOCRATICO Di PERSONALITÀ
Da un punto di vista psicologico la sintesi di libertà ed
eguaglianza significa che ‘l’individuo, l’ego, desidera la
libertà non solo per se stesso, ma anche per gli altri, per il
tu. La personalità, il cui desiderio di libertà modificato dal
suo senso di eguaglianza, si riconosce negli altri. Essa
rappresenta il tipo altruistico, perchè non considera gli altri

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come nemici, ma è incline a vedere un amico nel suo
simile. Si tratta di un uomo che ama simpatizzare, che ama
la pace, e la cui tendenza all’aggressione è deviata contro
se stesso dalla sua direzione originaria verso gli altri e si
manifesta così in una tendenza all’autocritica, in una
maggiore disposizione al senso di colpa e ad un grande
senso di responsabilità.
Più forte è la volontà di potenza, minore è l’apprezzamento
per la libertà. La negazione totale del valore della libertà, la
massimizzazione del dominio questa è l’idea
dell’autocrazia, il principio dell’assolutismo politico.
Il popolo è soggetto al governante senza partecipare al suo
potere, che per tale ragione è illimitato e contiene in sè la
tendenza al totalitarismo. Il parallelismo esistente tra
assolutismo filosofico e politico è evidente. La relazione tra
l’oggetto della conoscenza, l’assoluto, e il soggetto della
conoscenza, l’individuo umano, è molto simile a quella tra
un governo assoluto ed i suoi soggetti.
Il parallelismo tra assolutismo politico e assolutismo
filosofico non è soltanto esterno; il primo ha in effetti una
inconfondibile tendenza ad usare il secondo come
strumento ideologico. Psicologicamente, l’assolutismo
politico corrisponde ad un tipo di esagerata coscienza di sè.
È tipico il fatto che l’individuo aumenta la consapevolezza
di sè identificando se stesso con il suo super ego, l’ego
ideale, e che il dittatore dotato di potere illimitato
rappresenta ai propri occhi l’ego ideale.
IL PRINCIPIO DI TOLLERANZA
Poiché il principio di libertà e di uguaglianza tende a
minimizzare il potere, la democrazia non può essere un
dominio assoluto e neppure un dominio assoluto della
maggioranza. Il dominio della maggioranza del popolo si
distingue infatti da ogni altro non solo per il fatto che per
definizione presuppone una opposizione, cioè la minoranza,
ma anche perché ne riconosce l’esistenza politica e ne
protegge i diritti. È molto importante considerare che la

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trasformazione dell’idea di libertà naturale, come essenza
di governo, nell’idea di libertà politica, come partecipazione
al governo, non implica un completo abbandono della
prima. La democrazia moderna non può essere separata
dal liberalismo politico. Il suo principio è che il governo non
deve interferire in certe sfere di interessi proprie
dell’individuo, che devono venir protette dalla legge come
diritti umani fondamentali o diritti di libertà; rispettando i
quali le minoranze sono salvaguardate dal dominio
arbitrario delle maggioranze.
L’idea di libertà implica anche il postulato che il
comportamento in- temo dell’individuo, il suo pensiero,
sarà soggetto solo alla sua ragione e non ad una autorità
trascendentale esistente o supposta tale al di là di essa, ad
una autorità alla quale la sua ragione non partecipa perché
inaccessibile.
IL CARATTERE RAZIONALISTICO DELLA DEMOCRAZIA
Il carattere razionalistico della democrazia si manifesta
soprattutto nella tendenza a fare dell’ordinamento giuridico
dello Stato un sistema di norme generali creato secondo
una procedura organizzata proprio a questo scopo. L’ideale
della legalità assume una parte decisiva: si pensa che gli
atti individuali dello Stato possono essere giustificati dalla
loro conformità alle norme generali del diritto.
Nello stato ideale di Platone non vi sono per nulla norme
generali di legge.
IL PROBLEMA DELLA LEADERSHIP
L’antagonismo tra democrazia ed autocrazia appare anche
nella diversità con cui viene interpretata la funzione del
governare. Nell’ideologia autoritaria colui che governa
presenta un valore assoluto. L’origine e la costituzione
governante non sono perciò problemi che potrebbero
essere risolti dalla conoscenza razionale. La realtà politica,
vale a dire l’inevitabile usurpazione del comando, viene
nascosta dal mito del leader.

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La democrazia non è un terreno favorevole al principio di
autorità in generale e all’idea di Fùhrer in particolare. Nei
limiti in cui il padre è l’archetipo dell’autorità, costituendo
l’esperienza originaria in questo campo, la democrazia è, in
accordo con la sua idea, una società senza padre. Il
problema della democrazia non è quello del governo più
efficiente; altre forme possono ben esserlo di più. Esso
invece è il problema di un governo che garantisca la
maggiore libertà individuale possibile.
DEMOCRAZIA E PACE
Il modello di politica interna sopra descritto corrisponde a
un ben definito metodo di politica estera. Il tipo
democratico ha una decisa tendenza ad amare gli ideali
pacifisti laddove quello autocratico mostra manifesti
sintomi di imperialismo.
DEMOCRAZIA E TEORIA DELLO STATO
Le diverse idee sulla relazione che esiste o dovrebbe
esistere tra il proprio Stato e gli altri, sono strettamente
collegate alle teorie sulla natura dello Stato congeniali
rispettivamente al tipo democratico e a quello autocratico
di personalità. Il secondo con la sua ipertrofica
consapevolezza di sé è predestinato a difendere la dottrina
che lo Stato è una entità diversa dalla massa degli esseri
umani individuali, che esso è una realtà super-individuale,
in certo senso collettiva, un organismo mistico e, come
tale, una autorità suprema: la realizzazione del valore
assoluto.
LA DEMOCRAZIA NELLA STORIA DELLE IDEE POLITICHE
Se il risultato della precedente analisi circa la relazione tra
democrazia e relativismo, da una parte, ed autocrazia ed
assolutismo dall’altra, non è ancora abbastanza
convincente, mi appello al fatto storico che quasi tutti i
maggiori esponenti della filosofia relativistica furono
politicamente favorevoli alla democrazia, mentre i seguaci
dell’assolutismo filosofico, i grandi metafisici, furono
favorevoli all’assolutismo politico e contro la democrazia.

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Gli antichi sofisti furono relativisti. Il loro maggiore filosofo
insegnò che l’uomo è la misura di tutte le cose e il loro
poeta più rappresentativo, Euripide, esaltò la democrazia.
Invece Platone sostenne contro Protagora il principio che
Dio è la misura di tutte le cose; e Dio, come bene assoluto,
è al centro della sua dottrina delle idee.
Del tipo di uomo democratico Platone dice:
■ «La sua vita non è soggetta ad alcun ordine o restrizione,
ed egli non aspira a mutare un’esistenza che definisce
piacevole, libera e felice. Ciò descrive bene la vita di uno
il cui motto è libertà ed uguaglianza»
L’odio di Platone per la libertà democratica si manifesta
nella seguente affermazione, ritenuta un serio argomento
contro la democrazia:
■ «La libertà popolare è interamente raggiunta quando gli
schiavi d’ambo i sessi sono liberi quanto i padroni che li
hanno comprati, e quasi dimenticavo di menzionare lo
spirito dì libertà e di uguaglianza nelle reciproche
relazioni fra uomini e donne».
Nella Metafisica di Aristotele l’assoluto appare come
motore primo immobile. Vi deve essere «qualcosa che si
muove senza essere mosso, essendo eterno, sostanza e
attualità».
Aristotele nella sua Politica dichiara che
■ la monarchia è la migliore forma di governo;
■ ma la democrazia viene stigmatizzata come una
corruzione, come la degenerazione di una forma di
governo che egli chiama «politica» e che caratterizza
come uno Stato in cui «i cittadini in genere governano
per il bene comune», mentre in una democrazia il
governo applica il suo potere nel proprio interesse.
L’interpretazione teleologica della natura propria di
Aristotele è in diretta opposizione alla concezione
meccanicistica degli atomisti, che respingevano

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decisamente le cause che fossero al tempo stesso
diventarono, così, i fondatori della scienza moderna.
La teologia di Tommaso d’ Aquino costituisce il classico
esempio di questa coincidenza dell’ assolutismo filosofico
con l’assolutismo politico.
Locke affermò che la monarchia assoluta era incompatibile
con la società civile e non poteva essere in alcun modo una
forma di governo.
LA DEMOCRAZIA COME RELATIVISMO POLITICO
Fu un discepolo di Hegel che durante il diciannovesimo
secolo, formulò la parola d’ordine:
■ Autorità, non maggioranza!

Uno dei principi fondamentali della democrazia è che


ognuno deve rispettare l’opinione politica degli altri,
giacché tutti sono uguali e liberi. Solo il relativismo politico
può ammettere la minoranza deve aver modo di esprimere
liberamente la propria opinione e deve avere ogni
possibilità di divenire maggioranza.
GESÙ E LA DEMOCRAZIA
Nel Capitolo 18 del Vangelo di S. Giovanni è descritto il
processo a Gesù. Questa semplice storia è uno dei più
sublimi brani della letteratura mondiale e, senza averne
l’intenzione, diviene un tragico simbolo dell’antagonismo
tra assolutismo e relativismo.

Capitolo secondo
Democrazia e religione
LA DEMOCRAZIA COME PROBLEMA Dl GIUSTIZIA
L’ esame fin qui fatto della base filosofica della democrazia
non è e non può essere rivolto ad una giustificazione
assoluta di questo tipo di organizzazione politica e non
vuole, né può, intendere di provare che la democrazia è
la migliore forma di governo. Esso è un’analisi scientifica di
un fenomeno sociale e non una valutazione del
medesimo intesa a dimostrare, presupponendo un de

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terminato valore sociale come incondizionatamente valido,
che la democrazia è la realizzazione di questo valore.
La teologia cristiana offre una giustificazione della
democrazia che promette di essere più efficace della
giustificazione problematica, perché condizionale, implicita
nella teoria pienamente scientifica del positivismo giuridico
e politico.
IL POSITIVISMO RELATIVISTICO RESPONSABILE DEL
TOTALITARISMO
Lo Stato non è «l’ineluttabile conseguenza» di un
«positivismo privo di fede e nemico della metafisica e della
religione», «l’inevitabile risultato della perdita, da parte
dell’uomo, della fede in una legge divina, in una giustizia
eterna».
La giustizia è per sua natura un valore assoluto e solo un
valore posto da Dio può essere assoluto.
Brunner riconosce oltre ad una giustizia assoluta e divina,
una giustizia relativa, quella umana della legge positiva.
Egli dice:
■ «È vero che tutti i sistemi sociali che noi creature umane
fondiamo sono giusti solo relativamente».
Gli ideologi totalitari hanno perciò sempre fatto riferimento
all’assolutismo filosofico di Platone e riconosciuto nello
Stato platonico il modello dei loro schemi politici.
LA TEOLOGIA DELLA GIUSTIZIA DI EMIL BRUNNER
Brunner distingue
una giustizia assoluta
una relativa
ma anche due tipi assoluti.
Da una parte
• la giustizia «terrena» o «del mondo»,

• «il dare a ciascuno ciò che gli è dovuto»

• la giustizia del suum cuique

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• il principio di contraccambiare il bene col bene, il male
col male
• la giustizia retributiva
• la «giustizia delle istituzioni di questo mondo»
• la «giustizia dei sistemi sociali»
• la giustizia dello «Stato»
e dall’altra parte
• la «giustizia celeste»

• la «rettitudine di Dio»

•la «giustizia biblica»


• la «giustizia della fede», che ricambia il male col bene
e perdona il peccatore settanta volte sette, il principio
dell’amore divino.
La giustizia è «del mondo» finchè si riferisce a cose
terrene, a cose di questo mondo, soprattutto a ordinamenti
sociali stabiliti dall’uomo.
Secondo Brunner vi sono due giustizie assolute e divine:
• la giustizia divina della legge, che contraccambia il
male col bene
• la giustizia retributiva che contraccambia il bene
col bene ed il male col male.
È difficile comprendere perchè una viene chiamata
«celeste» e l’altra «terrena», dato che entrambe hanno
origine in Dio e quindi in cielo, in una sfera trascendente,
ed entrambe esprimono una volontà divina e
soprannaturale.
Lo stesso Brunner dice:
• «Questo ordinamento primo è per sua natura sovrumano,
soprannaturale ed eterno».
La democrazia è un ordinamento sociale stabilito dall’uomo
per l’uomo e, come ordinamento giuridico è diritto positivo.
LA DOTTRINA CRISTIANA DEL DIRITTO NATURALE

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La giustizia assoluta e divina del primitivo ordinamento
della creazione, la legge cristiana della natura, può essere
conosciuta e l’opera di Brunner costituisce un tentativo di
presentarcela sorge la domanda perché questa giustizia
terrena non è attuata su questa terra, parchè l’uomo,
sebbene conosca o almeno sia capace di conoscere la
giustizia assoluta, ne attua solo una relativa.
Sebbene Brunner sottolinea il carattere statico della
giustizia divina e assoluta della legge naturale cristiana, da
cui deduce il suo antagonismo verso la legge positiva, solo
relativamente giusta a causa dell’antagonismo stesso, i
principi che egli presenta come appartenenti alla legge
naturale cristiana non sono per nulla essenzialmente statici
e certo non necessariamente antagonistici nei confronti
della legge positiva.
Per quanto riguarda la giustizia politica, la volontà di Dio
rivelata attraverso Mosè come pure attraverso Cristo mira
indubbiamente ad una teocrazia, la si concepisca come lo
storico regno di Davide oppure come il futuro Regno di Dio
sulla terra non importa;
I principi obiettivi di giustizia sono in verità giudizi di valore
del tutto soggettivi proiettati nella natura e, se la natura
viene interpretata come espressione della volontà di Dio,
essi sono imputati, da colui che la interpreta, alla
intenzione del creatore divino.
LIBERTÀ ED UGUAGLIANZA SECONDO LA TEOLOGIA
PROTESTANTE
Poichè l’idea di democrazia è l’idea di libertà combinata
con quella di eguaglianza, dobbiamo innanzi tutto
apprendere ciò che la teologia cristiana insegna riguardo a
queste due idee.
Secondo la teologia sociale di Brunner il fatto principale
non è la sua libertà, ma la sua relazione con Dio, con la
sovranità di Dio» 1 La relazione dell’uomo con Dio consiste
nella sottomissione alla Sua volontà sovrana da cui nasce
l’obbligo dell’uomo ad una obbedienza incondizionata.

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L’uguaglianza di trattamento è possibile solo perchè, e fino
a quando, la effettiva disuguaglianza è posta da parte e
trascurata come insignificante.
L’uguaglianza tra gli uomini risultante dall’insegnamento
delle Scritture, secondo cui l’uomo è stato creato a
immagine di Dio, è la stessa eguaglianza formale che
ritroviamo nel diritto.
L’eguaglianza della dignità o di tutti gli uomini come
persone equivale alla uguaglianza formale di fronte alla
legge dello Stato o alla legge della natura.
Dell’eguaglianza degli uomini come persone, Brunner dice:
• «Questa uguaglianza di dignità è però unita ad una
diversità di specie e di funzione e ciò non è
insignificante, inessenziale, ma elemento del destino
stesso, per cui a ciascun uomo è dovuta non solo
l’eguaglianza:
• il che significa “a ciascuno ciò che gli è dovuto, a
ciascuno sarà reso ciò che inalienabilmente è suo, ciò
che non appartiene ad altri» .
L’idea di libertà non occupa il primo posto nella teologia
sociale la quale si interessa alla sovranità di Dio e perciò
deve concepire l’uomo come soggetto alla volontà di questi
e non come essenzialmente libero. La libertà dell’uomo
soggetto alla volontà di Dio, la libertas christiana, è la sua
obbedienza. La libertà politica, come principio di giustizia,
«ha la sua origine nella struttura dell’ordine creato» .
La democrazia può essere buona o cattiva quanto
l’autocrazia, che la libertà politica, e cioè la partecipazione
dei governati al governo, non è riconosciuta come un
valore da questa dottrina.
L’OPINIONE DI REINHOLD NIEBUHR.
LA RELIGIONE È BASE NECESSARIA DELLA DEMOCRAZIA

Il teologo americano Reinhold Niebuhr ritiene responsabile


del totalitarismo la filosofia positivistica, e cioè areligiosa.

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Egli parla del «Secolarismo che tenta di perseguire una
unità culturale» in una società divisa in opposti gruppi di
interessi materiali ed intellettuali «attraverso la negazione
delle tradizionali religioni storiche» e che, nella sua forma
più sofisticata, rappresenta un tipo di scetticismo che è
conscio della relatività di tutte le prospettive umane.
La critica che Niebhur fa della filosofia democratica
tradizionale non è molto coerente.
• Da una parte la biasima per il suo pessimismo verso la
capacità razionale dell’uomo a riconoscere la giustizia:
• «Una società libera egli dice esige fiducia nell’abilità
degli uomini a raggiungere accomodamenti
sperimentali e tollerabili tra i loro interessi contrastanti
ed a pervenire ad alcune nozioni comuni di giustizia
che trascendano tutti gli interessi parziali»
• D’altra parte egli vede la ragione dell’insufficienza della
giustificazione tradizionale della democrazia
• «da parte della cultura liberale» nelle «valutazioni
eccessivamente ottimistiche della natura e della storia
umane alle quali il credo democratico è stato
storicamente associato».
Il liberalismo non si unisce necessariamente ad una
sopravalutazione ottimistica della natura umana e
certamente non ad «una fiducia troppo grande nella
capacità umana di elevarsi al di sopra dell’interesse
personale».
La critica di Niebuhr è rivolta contro un oppositore
immaginario fabbricato a bella posta. Egli crede « che una
concezione cristiana della natura umana è più adeguata
allo sviluppo della società democratica » i che non la
concezione liberale.
«Il tenace ottimismo della nostra cultura liberale dice
Niebuhr ha impedito alle società democratiche moderne sia
di misurare accuratamente i pericoli della libertà che di
apprezzare pienamente la democrazia come unica
alternativa all’ingiustizia e all’oppressione»

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IL RELATIVISMO RELIGIOSO
A prima vista può sembrare che Niebuhr respinga il
relativismo. Egli ritiene che l’ uso del potere coercitivo» da
parte dei governanti e della comunità sarebbe «del tutto
arbitrario se non fosse guidato da alcuni principi generali di
giustizia che definiscono il giusto ordine della vita in una
comunità». Questi « principi generali di giustizia sono:
• il «diritto naturale»;

Allo stadio attuale del pensiero liberale democratico, la


teoria morale è divenuta troppo relativistica per rendere
l’appello al diritto naturale plausibile come nei secoli
precedenti e di nuovo sottolinea che «ogni società umana
ha effettivamente qualche cosa di simile ad un concetto del
diritto naturale e quindi assume che vi siano principi di
giustizia più immutabili e puri di quelli attualmente
incorporati nelle sue leggi ovviamente relative».
Niebuhr crede nell’esistenza di una legge naturale come
criterio di giustizia per il diritto positivo e che questa legge
naturale ha la sua fonte nella religione. Una legge naturale
basata sulla religione cristiana quindi pretende
necessariamente di rappresentare la giustizia assoluta;
Tutte le leggi positive sono giuste relativamente alla
condizione che sia presupposto qualche valore sociale che
la legge pretende di attuare, senza tuttavia poter dire che
esso è fuor di dubbio il più alto e, perciò, il solo a dover
essere realizzato qualora venga a trovarsi in contrasto con
un altro.
I principi di giustizia o di diritto naturale esistono soltanto
nelle «dichiarazioni storiche». Inoltre i principi di giustizia,
formulati nelle dichiarazioni storiche, mutano non soltanto
da una generazione all’altra, ma anche da una società
all’altra nell’ambito di una stessa generazione, e da un
gruppo all’altro nell’ambito di una stessa società.
Niebuhr evita con cura di fare riferimento ad una giustizia
assoluta. Egli non parla in termini superlativi della giustizia
del diritto naturale in relazione a quello positivo. Dice

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soltanto che i principi del diritto naturale sono «più
immutabili e puri» di quelli incorporati nel diritto positivo
«ovviamente relativo».
La relatività non è una qualità, come il calore, che può
avere gradi diversi. La relatività di un valore consiste nel
suo carattere condizionale, e non è possibile essere più o
meno condizionati. La dottrina di un relativismo relativo
non è sostenibile, come non lo è la dottrina di un
assolutismo relativo, e cioè la dottrina di un diritto naturale
relativo.
LA TOLLERANZA SU DI UNA BASE RELIGIOSA
Niebuhr sottolinea molto giustamente che una delle
condizioni essenziali della democrazia è la tolleranza e
ignora il fatto che la tolleranza presuppone il relativismo.
Niebuhr vede il problema decisivo nella necessità di
mantenere l’armonia sociale, e cioè la libertà e la pace,
nonostante ogni differenza religiosa culturale. Il carattere
«incondizionato» del divino è l’assolutezza di Dio che
costituisce l’oggetto precipuo della fede religiosa. Solo
l’«espressione» della fede religiosa, come iniziativa umana,
è detta condizionata da Niebuhr, cioè relativa.
Niebuhr dice:
«La fede religiosa deve incoraggiare gli uomini a moderare
il loro orgoglio naturale ed a perseguire una decorosa
convinzione della relatività delle loro dichiarazioni anche
per quanto riguarda la verità più sublime».
La distinzione di Niebuhr tra fede religiosa nell’assoluto ed
espressione meramente relativa, perché umana, di questa
fede, ha un significato solo presupponendo che Dio, e cioè
la verità assoluta e il valore assoluto, nella Sua
trascendenza, è talmente al di sopra dell’uomo che, né la
sua cognizione razionale, né la sua fede irrazionale sono
capaci di raggiungerlo, e che quindi ogni espressione di
fede è soggetta ad errore e può pretendere di essere
soltanto una verità relativa. L’errore fondamentale di
Niebuhr è che egli pensa di poter basare il relativismo sulla

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«umiltà religiosa». «Il vero punto di contatto tra
democrazia e religiosità profonda è nello spirito di umiltà
che la democrazia richiede e che deve essere uno dei frutti
della religione». «Secondo la fede cristiana gli dice
l’orgoglio, che cerca di nascondere il carattere condizionato
e limitato di ogni sforzo umano, è la vera quintessenza del
peccato». Ma la religione cristiana, secondo il suo stesso
significato, non è uno sforzo umano, ma divino; essa è
rivelata da Dio e da Lui impressa nel cuore dell’uomo.
L’umiltà religiosa è una emozione troppo ambivalente per
formare la base di una decisione tra democrazia e
autocrazia.
Niebuhr cita la dichiarazione di Chesterton:
• «La tolleranza è. la virtù di quelli che non credono a
nulla».
Una ideologia religiosa della democrazia si basa :
• proprio su questa incoerenza. Ma si deve ammettere
che l’ideologia più coerente non è necessariamente la
più efficace.
Ma il relativismo religioso di Niebuhr non pare molto
diverso da questo sofisticato scetticismo. Secondo Niebuhr,
la differenza consiste nel fatto che questo, secolarismo
scettico «sta sull’abisso del nichilismo morale minaccia la
vita intera di un senso di vacuità. Esso crea in tal modo un
vuoto spirituale nel quale penetrano facilmente religioni
demoniache».
Per religioni demoni egli intende prima di tutto il
Nazional-socialismo.
LA FILOSOFIA DELLA DEMOCRAZIA DI JACQUES MARITAIN
Jacques Maritain asserisce che l’ideale democratico ha la
sua origine nell’ispirazione evangelica , e cioè
nell’insegnamento del Vangelo, e che i principi democratici
si sono formati nella coscienza profana grazie all’azione del
fermento evangelico.

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La democrazia borghese non è la vera democrazia perché
rinnega il Vangelo, perché il principio di democrazia e il
principio del cristianesimo sono stati separati. Sebbene
Maritain sottolinei che l’essenza della democrazia è il
cristianesimo, deve d’altra parte ammettere che il
cristianesimo, in quanto credenza religiosa, è indifferente
riguardo alla vita politica.
Maritain
• non può negare che la Chiesa cattolica, in nome della
religione cristiana, ha sostenuto regimi autocratici e si è
opposta a movimenti democratici fino a che questi non
hanno avuto successo.
• La sua natura però è quella di credo religioso;

• parla di un «cristianesimo secolarizzato», ma si tratta di


una contraddizione in termini.
• Dice: le democrazie occidentali possono vincere la pace
dopo aver vinto la guerra solo «se l’ispirazione cristiana
e l’ispirazione democratica si riconoscono l’un l’altra e si
riconciliano»
Il problema dell’essenza della democrazia non dovrebbe
essere confuso con quello dell’efficienza del governo
democratico.
La democrazia antica fiorì assieme ad una religione del
tutto diversa da quella cristiana e non vi è alcuna ragione
di presumere che un popolo avente una religione non
cristiana non possa creare una vera democrazia.
Henri Bergson:
• «La democrazia è evangelica per natura, la sua forza
motrice è l’amore».
Se l’amore, l’amore di Cristo, fosse veramente la forza
motrice della democrazia, allora, e solo allora, si potrebbe
sostenere che la democrazia è in rapporto essenziale con il
cristianesimo.
DEMOCRAZIA E VANGELO

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Maritain afferma che la coscienza profana ha compreso che
l’autorità del governo «può essere esercitata soltanto con il
consenso dei governanti» che il governo agisce solo come
«delegato o rappresentante» del popolo. Questo è certo il
più importante principio della democrazia. Ma è ben difficile
derivano dal Vangelo. L’insegnamento di Cristo non si
riferiva ad alcuna forma di governo.
In conformità assoluta con l’insegnamento di S. Paolo, la
Chiesa cristiana ha sostenuto l’autorità di ogni governo
effettivo, sia autocratico che democratico. La Chiesa
cattolica non aveva nulla da dire contro la soppressione di
quella protestante da parte del governo e la Chiesa
protestante non aveva alcun motivo per impedire la
soppressione di quella cattolica.
Maritain attribuisce il principio democratico di uguaglianza
all’ispirazione evangelica, riferendosi all’insegnamento del
Vangelo che tutti gli uomini sono figli di Dio e creati a Sua
immagine.
L’uguaglianza democratica implica che l’uguaglianza stessa
si supponga esistente nel rapporto tra coloro che
esercitano il governo e coloro che gli sono soggetti, perché
i governati partecipano al governo e perché democrazia
come autodeterminazione politica significa identità dei
governati con i governanti.
Maritain considera la dignità della persona umana come un
principio democratico e sostiene che anch’esso è un
elemento dell’insegnamento evangelico. Ma questa
dottrina non può sostenersi sull’insegnamento del Vangelo
ed è difficilmente compatibile con l’assunto di una volontà
di Dio onnipotente e che determina ogni cosa, da cui deriva
la credenza nella predestinazione.

Dice Maritain:
• «È nella sua opposizione radicale alla filosofia della
schiavitù che possiamo vedere più chiaramente le

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caratteristiche essenziali della filosofia democratica
dell’uomo e della società»
Capitolo terzo
Democrazia ed economia
CAPITALISMO E SOCIALISMO
N RELAZIONE ALLA DEMOCRAZIA

Il problema della democrazia e dell’economia risiede nella


domanda se esista o meno un rapporto essenziale tra il
sistema politico che chiamiamo democrazia ed uno dei due
sistemi economici che fra di loro competono nella civiltà
moderna: capitalismo e socialismo. Poichè
Per capitalismo
• intendiamo un sistema economico caratterizzato dalla
proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla libera
iniziativa e dalla competizione:
• un sistema economico, quindi, che presuppone la
libertà economica, cioè l’assenza di interferenze dirette
dal governo nella vita economica.
Per socialismo
• intendiamo un sistema economico caratterizzato dalla
nazionalizzazione e dal controllo pubblico dei mezzi e dei
processi di produzione e distribuzione:
•un sistema economico, perciò, che implica costrizione
e concreta regolamentazione della vita economica.
Il metodo democratico o autocratico non impedisce alcun
contenuto economico dell’ordine stesso. Né il capitalismo,
né il socialismo implicano una determinata procedura
politica, per cui entrambi sono, in principio, compatibili sia
con la democrazia che con l’autocrazia.
LA DOTTRINA MARXISTA SECONDO CUI LA DEMOCRAZIA È
POSSIBILE SOLO NEL SISTEMA ECONOMICO SOCIALISTA
La tesi secondo cui la democrazia è possibile solo nel
sistema economico socialista è un elemento essenziale

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della ideologia marxista ed ha una parte importante nella
propaganda anticapitalistica.
La tesi marxista secondo cui la democrazia è possibile solo
nel socialismo, come migliore sistema economico, è una
applicazione dell’interpretazione economica della società,
secondo la quale i fenomeni politici, come lo Stato e la
legge, sono soltanto una sovrastruttura ideologica costruita
al di sopra della realtà economica, costituita dai rapporti di
produzione:
• il principio del primato dell’economia sulla politica.
Poichè in una società capitalista una minoranza, la
borghesia, possiede i mezzi di produzione ed è, come tale,
il gruppo dominante economicamente, tale minoranza
diventa, di conseguenza, anche il gruppo dominante
politicamente, il che è incompatibile con l’idea di
democrazia quale governo della maggioranza per la
maggioranza.
La dottrina sottolinea che l’unica via per realizzare il
socialismo è quella della instaurazione rivoluzionaria della
dittatura del proletariato, il che è senza dubbio un’azione
politica. L’interpretazione economica della società, dalla
quale il socialismo marxista deriva la sua pretesa ad un
monopolio della democrazia, non può, quindi, formare la
base di tale pretesa. Il socialismo marxista è politicamente,
anarchico e non democratico.
Se noi accettassimo la dottrina marxista potremmo dire che
se vi è un sistema economico con il quale la democrazia è
in ultima analisi incompatibile, esso è il socialismo.
CAPITALISMO E IDEOLOGIA POLITICA
La dottrina secondo cui un governo socialista è per sua
natura «veramente» democratico perché governa
nell’interesse economico del popolo, con la conseguenza
che, solo un governo socialista rappresenta il popolo,
perchè la vera volontà di quest’ultimo è indirizzata alla
realizzazione del proprio interesse economico, è assai
problematico anche dal punto di vista psicologico.

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UNA NUOVA DEFINIZIONE’ DELLA DEMOCRAZIA
Non soltanto i marxisti ortodossi, ma anche i socialisti che
credono in una pacifica evoluzione dal capitalismo al
socialismo, piuttosto che in una sostituzione rivoluzionaria
di un sistema economico con un altro, sostengono la tesi
che la democrazia, nel senso tradizionale del termine, non
è compatibile con il capitalismo.
I diritti politici appaiono oggi irrilevanti in quanto non
conferiscono più il controllo su quei fattori che determinano
le questioni decisive della vita nazionale». Il potere è la
capacità di influenzare gli altri.
Il potere non è quindi
• né politico

• né economico;

mentre politico ed economico è il mezzo con cui si ottiene


tale comportamento.
Il cosiddetto potere economico nelle mani di coloro che
controllano questo processo ed essi lo controllano quando
hanno a loro disposizione i mezzi di produzione. In una
organizzazione politica costituita da un ordinamento
giuridico, vale a dire in uno Stato, la disponibilità dei mezzi
di produzione deve assumere forma legale, la forma della
proprietà.
I mezzi di introduzione possono essere di proprietà di
persone private:
• questo è l’elemento essenziale del sistema capitalista e
comporta una situazione caratterizzata dal fatto che i
mezzi di produzione stessi sono concentrati nelle mani di
gruppo relativamente ristretto, di una minoranza della
violazione.
Nel caso del capitalismo, la vita economica non è al di fuori
del dominio del diritto; essa è regolata da provvedimenti
legali che lasciano l’acquisizione della proprietà, in
generale, e quella della proprietà dei mezzi di produzione

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e dei prodotti stessi, in particolare, al contratto, che è
l’essenza di una economia libera.
I diritti politici possono acquistare significato solo se il
potere economico, e cioè la proprietà dei mezzi di
produzione, è conferito al governo, in modo da poter essere
esercitato conformemente alla volontà della maggioranza
di coloro che possiedono i diritti politici, nel loro interesse,
e cioè nell’interesse di tutto il popolo.
LA ASSERITA INCOMPATIBILITÀ DELLA DEMOCRAZIA CON IL
SOCIALISMO (ECONOMIA PIANIFICATA)
Dall’analisi precedente deriva che la dottrina marxista è
evidentemente errata. Non ne deriva però che la
democrazia non possa essere attuata in un tale sistema e
che il socialismo e la democrazia siano tra di loro
incompatibili perché socialismo significherebbe
necessariamente soppressione di ogni libertà, in senso sia
positivo che negativo, della libertà politica, nel senso di
partecipazione dei governati al governo, come pure della
libertà economica e intellettuale nel senso di libertà dal
governo, con la conseguenza che la democrazia sarebbe
possibile solo in un sistema economico capitalista.
L’economia pianificata richiede la soppressione della libertà
essenziale alla democrazia. Com’è già stato detto, per la
libertà democratica si intendono due diversi principi:
• libertà positiva, o politica, di autodeterminazione, cioè la
partecipazione dei governati al governo, alla creazione e
applicazione quindi dell’ordinamento coercitivo;
• nonchè libertà negativa o intellettuale, la libertà dal
governo e dalla coercizione, garantita da diritti umani
costituzionali.
L’organizzazione democratica della funzione suprema è
molto più importante per il carattere democratico
dell’intero corpo politico che non l’organizzazione
democratica della funzione applicativa dello stesso, e cioè
quella amministrativa e giudiziaria. Il bisogno di una
amministrazione efficiente può condurre alla stessa

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tendenza. Se una amministrazione inefficiente può
danneggiare l’esistenza stessa di uno Stato democratico e
se un grado minore di democratizzazione garantisce una
più efficiente amministrazione, il tipo meno democratico di
organizzazione amministrativa può essere scelto per
mantenere la democrazia dell’insieme.
IL “RULE OF LAW”
Per rule of law si intende il principio che le funzioni
amministrative e giudiziarie dello Stato dovrebbero essere
determinate per quanto possibile da norme generali di
legge prestabilite, in modo da lasciare il minore potere
discrezionale possibile agli organi amministrativi e
giudiziari.
Il principio chiamato rule of law
• non limita il potere legislativo, cioè il potere di emanare
norme giuridiche generali
• non limita quindi il grado fino al quale il comportamento
umano può essere regolato da tali norme
• non garantisce la libertà dell’individuo ma solo la
possibilità di prevedere, fino ad un certo limite, l’attività
degli organi amministrativi e giudiziari chiamati ad
applicare la legge e perciò di adattare il proprio
comportamento a tali attività.
• non garantisce la libertà degli individui soggetti al
governo perché non si riferisce alla relazione tra governo
e governati, ma ad una relazione nell’ambito del governo
stesso, a quella tra funzione creativa e applicativa del
diritto;
• il suo scopo è di uniformare la seconda alla prima.
La tendenza del principio chiamato rule of law è quella di
determinare per quanto possibile, con una norma generale,
il contenuto delle norme individuali che devono essere
emesse dagli organi amministrativo e giudiziario.
DEMOCRAZIA E LIBERTÀ ECONOMICA

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Dall’analisi precedente risulta che, per quanto riguarda la
libertà positiva o politica, la libertà consistente nella
partecipazione dei governati al governo la democrazia è
compatibile con un sistema economico sia socialista che
capitalista. La libertà economica non costituisce però il
problema decisivo fin che si tratta della domanda se la
libertà, essenziale per la democrazia, è compatibile con il
socialismo. Proprietà privata e libero contratto, basi
essenziali del capitalismo liberale, sono, dopo tutto, istituti
giuridici; Lo sviluppo di uno Stato moderno è caratterizzato
da una sempre crescente tendenza ad una disciplina legale
delle questioni economiche;
LA DEMOCRAZIA COME GOVERNO ISTITUITO MEDIANTE
COMPETIZIONE
Uno degli elementi più caratteristici di un sistema
economico capitalistico è il principio della libera
concorrenza, che è invece escluso da un sistema socialista.
La definizione di democrazia come governo del popolo è
sostituita dalla definizione di governo istituito mediante
competizione. La lotta competitiva per il voto del popolo è
la conseguenza delle libere elezioni e non il suo scopo. Il
criterio fondamentale della democrazia è che il potere del
governo risiede nel popolo. La libera elezione con la sua
conseguenza, la lotta competitiva per ottenere il voto del
popolo, è dunque un criterio secondario.
Per essere rappresentato, un gruppo politico non ha
bisogno di comprendere la maggioranza dei votanti, perché
ogni gruppo è rappresentato, anche se non è di
maggioranza, secondo la sua forza numerica. Per essere
rappresentato, un gruppo politico deve avere solo un
numero minimo di membri. Tanto minore è questo minimo,
tanto maggiore è il numero dei membri del corpo
rappresentativo.
Il sistema della rappresentanza proporzionale mostra
un’aperta tendenza in tal senso. Uno dei maggiori vantaggi
del sistema della rappresentanza proporzionale è che non
è necessaria alcuna concorrenza tra candidati di differenti

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partiti politici. Secondo il sistema maggioritario, ogni
delegato è eletto con i voti di un gruppo, la maggioranza,
contro i voti di un altro gruppo, la minoranza.
CAPITALISMO E TOLLERANZA
Un altro argomento addotto a favore dell’opinione che il
capitalismo è un sistema economico più adatto alla
democrazia che non il socialismo è l’affermazione che il
principio di tolleranza è meglio garantito dal primo che dal
secondo.
Recenti esperienze dimostrano chiaramente che in una
democrazia capitalista la tolleranza è il primo principio ad
essere abbandonato quanto il sistema economico
prevalente è messo in pericolo, dall’interno o dell’esterno,
da forze anticapitalistiche.
PROPRIETÀ INDIVIDUALE E LIBERTÀ NELLA DOTTRINA DEL
DIRITTO NATURALE DI JOHN LOCKE.
Se la libertà individuale è il principio fondamentale della
democrazia e la proprietà individuale la base del
capitalismo, si potrebbe affermare che vi è un rapporto
essenziale tra democrazia e capitalismo se fosse
dimostrabile che esiste una unione necessaria tra proprietà
e libertà.
Il valore supremo è l’idea di libertà.
Egli distingue tra
1. «libertà naturale», che definisce come «l’essere libero da
ogni potere superiore sulla terra»,
2.«libertà dell’uomo soggetto ad un governo», che è la
«libertà di seguire la mia volontà in ogni cosa che la
legge non prescrive, e di non essere soggetto
all’incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria volontà di
un altro uomo».
Locke si sforza «di dimostrare come gli uomini possano
giungere ad avere la proprietà di parecchie parti di Ciò che
Dio ha dato in comune all’umanità e ciò senza un patto
esplicito di tutti i partecipanti»

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Libertà significa:
• proprietà dell’uomo su se stesso e, poichè il lavoro è una
funzione della sua personalità, significa anche proprietà
del suo lavoro.
La libertà è la base della proprietà. Ma alla fine l’idea di
libertà passa in second’ordine e prevale quella di proprietà.
Il concetto di proprietà include quello di libertà. Perciò non
sorprende il fatto che Locke consideri la «conservazione
della proprietà» come il fine principale della «società
civile».
L’individuo non ha alcun diritto assoluto alla vita, vale a
dire alcun diritto assoluto ad escludere gli altri dal disporre
della propria vita, ma ha un diritto assoluto alla proprietà,
cioè il diritto di escludere gli altri dal disporre delle cose
che egli possiede.
LA PROPRIETÀ COLLETTIVA NELLA DOTTRINA DEL DIRITTO
NATURALE
Il rapporto essenziale che, secondo Locke, esiste tra il
diritto dell’uomo alla libertà ed il suo diritto alla proprietà
individuale è basato sulla legge di natura dalla quale
derivano entrambi.
Il libro Codice della Natura, l’autore era un certo Morelly,
divenne il «gran libro del socialismo del diciottesimo
secolo»; e Babeuf, capo di un movimento comunista
all’epoca della rivoluzione francese, si riferiva
frequentemente al Codice della Natura che. anticipava
molte idee sviluppate più tardi da Fourier e da altri
comunisti.
Il Codice della Natura, come è un figlio legittimo della
dottrina del diritto naturale.
Morelly sostiene come un «principio incontestabile» che
«la natura è una, costante e immutabile»; che le leggi di
natura sono implicite nei « pacifici sentimenti con cui la
natura dà vita alle sue creature», e che «tutto ciò che devia
da questi affetti amichevoli è innaturale».

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Morelly considera la forma di governo come una questione
di secondaria importanza, purchè la proprietà privata sia
abolita e venga stabilito il principio di proprietà collettiva,
e cioè il comunismo.
PROPRIETÀ INDIVIDUALE E LIBERTÀ NELLA FILOSOFIA DI
HEGEL
La tendenza a stabilire un flesso essenziale tra proprietà e
libertà culmina nella filosofia del diritto di Hegel, al cui
centro sta l’idea di libertà.
Il diritto dice Hegel
• è in generale la libertà in quanto idea.

La libertà del volere è un elemento essenziale della


personalità umana.

La libera volontà, per non restare astratta, deve per prima


cosa dare a se stessa una personificazione e il materiale
immediatamente disponibile ai sensi per tale
personificazione è costituito dalle cose, cioè dagli oggetti al
di fuori di noi.
Tra libertà e proprietà non vi è alcuna relazione. L’unica
relazione che esiste è quella tra un uomo, che può essere
libero o meno, e una cosa; e la relazione consiste soltanto
nella esclusione degli altri dalla disponibilità della cosa.
Senza alcuna base sufficiente Hegel asserisce:
• «La persona ha per suo fine sostanziale il diritto di porre
la sua volontà in ogni cosa, la quale, quindi è sua»
Hegel respinge espressamente l’opinione che la proprietà
sia un mezzo per soddisfare i bisogni dell’uomo. «Dal punto
di vista della libertà, la vera posizione è che la proprietà è
la prima personificazione della libertà e quindi è in se
stessa un fine».
Hegel non consente alcun dubbio sul genere di proprietà
che ha in mente quando la identifica con la libertà e la
ragione.
Hegel distingue

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• tra la persona come fonte dalla quale scaturisce il
possesso, e cioè la proprietà
• la proprietà stessa.

PROPRIETÀ INDIVIDUALE E LIBERTÀ NELLA TEOLOGIA DI


EMIL BRUNNER
L’opinione che la proprietà è una condizione essenziale e
perfino «la vera base della libertà», sostenuta oggigiorno
dai teologi sia cattolici che protestanti.
Riferendosi all’autorità dei Riformatori Brunner cerca di
giustificare questa istituzione come stabilita dall’ordine
divino della creazione, che conferisce all’uomo non solo la
libertà, ma anche la proprietà, poiché la prima non è
possibile senza la seconda.
La libertà è divenuta un’illusione che può essere
sostenutanuta per un certo tempo da una organizzazione
statale pseudo - democratica, ma che, presto o tardi, viene
smascherata ed allora è troppo tardi.
Come il capitalismo non esclude completamente la
proprietà collettiva, così il socialismo non esclude
completamente la proprietà privata. Il risultato dell’analisi
precedente è che i tentativi di dimostrare un nesso
essenziale tra libertà e proprietà sono falliti.
La tesi è che la democrazia,
come sistema politico, non è necessariamente legato ad un
determinato sistema economico.

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