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DOMANDE ESAME STORIA DEL BRAND

1. Facendo riferimento alle letture del corso sapresti illustrare in modo schematico i passaggi storici più importanti
nell’evoluzione da proto-brand a brand?

- Definizione di trademark
- Definizione di brand + definizione marca di Kotler

Il brand come lo intendiamo oggi, è uno strumento complesso, pieno di significati, ruoli e funzioni, incorporati nel corso
della storia. Il punto fondamentale che spiega la differenza tra marchio/trademark e brand è la distinzione tra ciò che è
segno e ciò che è simbolo. Il segno è un nome, un termine, un disegno che denota le caratteristiche di un prodotto, e le
distingue da quelle di altri prodotti concorrenti. Il simbolo è sempre un nome, un termine, un disegno o logo che crea un
sentimento di familiarità, crea dei simboli, delle emozioni, narrazioni verso chi utilizza un certo prodotto brandizzato. In
altre parole il simbolo connota qualcosa. Alcuni dei primi esempi di protobrand risalgono alla civiltà Harappa, o alla
civiltà dei Greci e dei Fenici, il cui vasellame era spesso arricchito di informazioni come l’origine, il produttore, ma anche di
immagini che in un certo senso avevano l’obiettivo di invogliare l’acquisto, come la rappresentazione della dea della
passione Afrodite: ciò è essenzialmente il motivo per cui molti autori utilizzano il termine protobrand, in quanto si ha già
una presenza, seppur scarsa, di strumenti adatti ad evocare emozioni.

Un’altra tappa storica è dettata dal marchio medioevale/moderno, uno strumento utilizzato dagli artigiani (dei tessuti o
delle armi, soprattutto), con l’obiettivo di risolvere la grande asimmetria informativa che era presente nei mercati,
andando ad informare sulla qualità del prodotto, l’origine e la reputazione del produttore, ma anche sul rispetto di una
serie di standard qualitativi dettati dagli statuti delle corporazioni. Queste ultime erano non altro che accordi tra un gruppo
di artigiani di una certa zona geografica, che decidevano sulla qualità standard dei prodotti, registravano e gestivano i
marchi dei corporati. In questo contesto, dunque, il marchio non si è ancora trasformato in brand, in quanto ha
essenzialmente il compito di denotare un prodotto.

Un altro passo fondamentale riguarda il periodo storico della rivoluzione industriosa e della rivoluzione dei consumi: tra
600 e 700, infatti, i mercati iniziavano ad allargarsi, i trasporti a svilupparsi, e ci fu un sostanziale cambiamento nella pratica
dei consumi. Iniziava ad assumere più importanza non tanto la qualità del prodotto ma il design e la moda, dunque
strumenti come il marchio individuale o collettivo dell’epoca moderna non poteva più essere utilizzato, in quanto troppo
legato al concetto di qualità, ormai obsoleto. Nacque il concetto di marca, come strumento volto a rappresentare un
mercante imprenditore, in una società dettata dai consumi, con l’obiettivo di creare un’identità di impresa e un rapporto
di fiducia tra consumatore e produttore, ormai soggetti sempre più distanti. Nella stessa epoca, iniziarono ad essere
praticate le prime strategie di marketing, come avvenne nel settore dei medicinali: in Inghilterra si utilizzarono le trade
cards, delle etichette, dei packaging o dei manifesti con l’obiettivo da una parte di informare sulle caratteristiche del
prodotto, il suo produttore, ma dall’altra cercare di informare sulla sicurezza stessa del prodotto, la sua utilità per la salute,
e il fatto che già molti altri consumatori lo avevano già provato. In altre parole, si iniziò ad associare al brand non soltanto
un ruolo informativo, ma anche un ruolo di guida all’acquisto del consumatore.

Tra ‘800 e ‘900, con lo sviluppo della grande impresa e della seconda rivoluzione industriale, il marchio iniziò ad essere
considerato come un reale asset per l’impresa, segnando dunque il suo riconoscimento legale. Il fatto è che lo sviluppo dei
mercati su scala internazionale, la crescita dell’impresa soprattutto per quanto riguarda i suoi investimenti,
rappresentarono la ragione fondamentale per il riconoscimento dell’importanza del marchio: esso doveva rappresentare
la giustificazione ai grandi investimenti effettuati nella produzione, nell’organizzazione e distribuzione; oltretutto era
l’unico fattore che poteva far conoscere un prodotto o il suo produttore ai consumatori sempre più distanti, per via dei
mercati internazionali.

Il periodo tra inizio ‘900 e 1950 può essere considerato quello in cui nasce il brand vero e proprio: le imprese iniziano a
capire l’importanza di orientare le scelte di consumo degli individui, facendo leva su simboli, emozioni, narrazioni che
possano essere utilizzate dal consumatore per costruire una propria identità o stile di vita; le attività e pratiche di marketing
e comunicazione si svilupparono in questo senso. GM o Shell, ad esempio, hanno utilizzato delle narrazioni basate su valori
come la famiglia, il patriottismo, o concetti come l’utilità, sicurezza e modernizzazione per rendere la loro stessa azienda,
e il prodotto da loro offerto, accettato tra la collettività, che era ancora molto scettica sull’immagine delle corporates. Oggi
si può dire che il brand incorpora moltissimi significati, e ciò è dovuto e spiegato dalle evoluzioni storiche, culturali
economiche e sociali. Un punto interessante su cui molti studiosi si sono soffermati è l’elevata probabilità con cui il marchio
potrà cambiare nel futuro, sulla base di nuovi contesti e nuove sfide.

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2. Basandosi sui due casi analizzati dalle letture di Higgins e Belfanti, illustra i limiti e le contraddizioni nell’utilizzo dei
trademark\marchio in età medievale e nella prima età industriale (1600-1800).

Il marchio del medioevo/età moderna nacque per un’esigenza fondamentale di quel periodo: risolvere l’asimmetria
informativa subìta dai consumatori, soprattutto per i beni quali i tessuti e le armi, la cui qualità non poteva essere valutata
al momento dell’acquisto. Per questo motivo, sotto la registrazione e gestione delle corporazioni medievali, nacquero i
marchi, volti a denotare, e quindi informare sulla qualità delle materie prime, altre volte sull’origine, o ancora con lo scopo
di certificare il rispetto di determinati standard produttivi. Le pratiche di marchio, poi, erano diverse da zona a zona e sulla
base del settore: in quello dei coltelli, ad esempio era più famoso il marchio individuale, che certificava la qualità garantita
dall’artigiano della corporazione, mentre nel settore tessile era più famoso il marchio collettivo, in quanto si aveva la
necessità di proteggere il lavoro di più fasi produttive distinte, per ciascuna zona geografica (quest’ultima come sinonimo
di qualità).

I limiti più importanti per questa prima forma di marchio erano due: la mancanza di un’omogeneità qualitativa e il
fenomeno della contraffazione. Per quanto riguarda il primo, è opportuno considerare degli esempi: a Thiers, in Francia,
molti artigiani di coltelli preferivano esportare prodotti senza marchio in paesi esteri, spacciandoli per locali: si può capire
come secondo alcuni fosse più importante soddisfare le reali esigenze del mercato, che richiedeva prodotti di bassa qualità
a basso prezzo, piuttosto di accontentare una piccola nicchia di mercato, ripudiando dunque lo strumento del marchio
collettivo o individuale. A Sheffield, con motivazioni seppur diverse, accadde lo stesso: a causa della contraffazione, la
corporazione cercò di sviluppare e creare un marchio collettivo, da affiancare a quello individuale; non fu accettato in
quanto veniva utilizzato solo da coloro i quali producevano coltelli di bassa qualità, con lo scopo di ottenere la reputazione
della città. Nonostante vi fossero delle esigenze che spinsero allo sviluppo di vari tipi di marchio, questi ultimi, secondo
l’opinione di vari studiosi, rappresentavano non un asset bensì un vero e proprio ostacolo all’innovazione: l’imposizione di
standard qualitativi non consentiva di soddisfare le reali esigenze di mercato, per lo più orientate verso un prodotto più
scadente, e anche per questo motivo presero sempre più piede pratiche di imitazione, copia e infine contraffazione. Le
prime due erano attività promosse dagli stessi stati come forma di competizione, per togliere potere al monopolio delle
corporazioni.

Nell’epoca preindustriale avvenne un importante cambiamento: si sviluppo la cosiddetta rivoluzione industriosa, di


ampliamento dei mercati, e la rivoluzione dei consumi, che prevedeva nuove pratiche di consumo basate non più sulla
ricerca della qualità del prodotto, bensì sul design e sulle pratiche di moda, fattori che cambiavano regolarmente. In questo
contesto il marchio diffuso in epoca moderna rappresentava uno strumento inutile e inadatto per rappresentare un
prodotto o un produttore: esso accertava solamente sulla qualità o sull’origine, cioè aspetti ormai superati. Si sviluppo
dunque la cosiddetta marca, che andava a rappresentare il mercante imprenditore, in una società orientata ai consumi,
con lo scopo di creare un rapporto di fiducia con i consumatori, sempre più distanti in un mercato in espansione. Nel
settore dei medicinali brevettati, ad esempio, si svilupparono prime pratiche di marketing e comunicazione, come l’utilizzo
di trade cards, etichette, elementi del packaging con i quali si cercava di rassicurare il consumatore sull’utilità del prodotto
per la propria salute, e il fatto che il suo consumo era, ad esempio, certificato dal monarca, o consigliato da individui che
lo avevano già testato. Tali pratiche non servivano per informare sulla qualità del prodotto, bensì per orientare le scelte
del consumatore, per indurre quest’ultimo a considerare l’utilità del prodotto stesso.

Il fenomeno della contraffazione, tuttavia, non si risolse, anzi si adattò al nuovo contesto. Ciò può essere spiegato dal fatto
che la marca non era ancora uno strumento di protezione legale. La stessa Sheffield è considerata il precursore delle
pratiche di tutela del marchio, ma i provvedimenti nel lungo periodo erano pressoché inefficaci. I problemi, in questo caso,
riguardavano essenzialmente la mancanza di un’armonizzazione sui provvedimenti a livello internazionale e i costi legali
alti, e ciò per gli artigiani significava intraprendere delle cause giudiziali molto costose e dall’esito incerto. Oltretutto, come
abbiamo già sottolineato, vi era un conflitto di interessi all’interno della stessa Sheffield, che rendeva dunque impossibile
accordarsi su uno standard qualitativo, ritardando ancora di più la protezione legale stessa.

Come afferma Mira Wilkins, si dovrà aspettare lo sviluppo della grande impresa, periodo nel quale il marchio iniziò ad
essere considerato come un asset, per ottenere la tutela legale dello stesso, e finalmente la contraffazione iniziò ad essere
perseguibile penalmente in maniera efficacie (costi legali più bassi ed esiti delle cause più certi).

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3. Sulla base di quanto detto in classe e delle slides, sapresti illustrare quando il marchio diventa un «intangible asset»
e cosa significa?

Si può affermare che il marchio diventi un asset intangibile con lo sviluppo della grande impresa. Essa nasce durante la
seconda rivoluzione industriale, un periodo storico nel quale i mercati si allargano, i trasporti si evolvono, vi sono nuove
fonti di energia (fossile) che consentono una maggiore velocità produttiva, e si affermano nuovi settori, quali il
metallurgico, il chimico e il farmaceutico. In questo contesto le dimensioni dell’impresa crescono sempre di più, e si afferma
una nuova figura al suo interno: i managers; essi gestiscono ciascuna divisione aziendale separatamente, e hanno il compito
di assumere le decisioni imprenditoriali, poi ratificate dai proprietari. E’ possibile sintetizzare questa nuova
configurazione d’impresa con il suo triplice investimento:

- organizzativo: il sistema impresa con le divisioni è molto più complesso rispetto a prima
- produttivo: l’allargamento dei mercati e la maggiore velocità produttiva fanno aumentare la scala dei volumi di
produzione, ma ciò consente di ottenere vantaggi come le economie di scala e di scopo
- distributivo: sono necessarie competenze di marketing e distribuzione per i mercati in espansione, e anche un
flusso di informazioni per quanto riguarda le preferenze dei consumatori.

Tutto ciò costituisce la “compelling reason” che spinge ad ottenere la registrazione non come mera accettazione ma attiva
protezione legale: essa è necessaria per poter giustificare il grande investimento effettuato dalle imprese, ci deve essere
uno strumento che permetta ad esse di incorporare la loro reputazione, di mantenere un rapporto di fiducia con i
consumatori, sempre più distanti, il quale era precedentemente garantito dagli scambi diretti. Nel caso di Sheffield,
sebbene fosse credenza ormai comune la necessità di ottenere la registrazione del marchio, vi erano troppi conflitti interni
e legali, e, cosa più importante, non vi era ancora la “compelling reason”.

Tuttavia, la protezione legale del marchio, e quindi la sua trasformazione in asset intangibile, non fu così veloce e scontata.
Molti continuavano a considerare il marchio come uno strumento che bloccava l’innovazione, a differenza del brevetto,
che invece la stimolava. Essi erano entrambi degli asset intangibili: dei beni senza consistenza fisica, che prevedono per la
loro costituzione il sostenimento di un investimento, e da cui, nel futuro, ci si attende un ritorno economico per il loro
utilizzo. Sono però molto diversi: il brevetto si ottiene sulle nuove invenzioni, impedisce a terzi la realizzazione del prodotto
brevettato; mentre il marchio si ottiene su prodotti esistenti, ed impedisce a terzi non la realizzazione di un prodotto
uguale, bensì l’utilizzo dello stesso nome che costituisce il marchio. Ritornando alla storia legale del marchio, è possibile
affermare che quella americana fu a tratti travagliata. Nel 1870 si ottenne la protezione legale del marchio, come diritto di
proprietà intellettuale assimilabile al brevetto. Questo scatenò l’ira di tutti coloro che consideravano il brevetto più
importante: quest’ultimo assicurava le innovazioni in quanto era posto sulle nuove invenzioni, mentre il marchio non
riguardava un’opera dell’ingegno, era solamente uno strumento che proteggeva chi per primo utilizzava un certo nome o
segno. Nel 1881, dopo il riconoscimento dell’incostituzionalità della clausola che assimilava il marchio al brevetto, se ne
introdusse una nuova che riguardava il commercio: si ottenne la registrazione legale sui marchi destinati al commercio
internazionale, il più importante in America.

Il trattamento differente dei due strumenti ha in realtà permesso di comprendere l’importanza stessa del marchio rispetto
al brevetto, che aveva invece una durata limitata. Col passare degli anni il numero di marchi registrati crebbe sempre di
più, la stessa Campari decise di puntare tutto su questo strumento, che le permetteva la riconoscibilità nei diversi mercati.
Nei primi decenni del ‘900 l’idea comune era quella che tutti i soggetti che registravano il marchio dovevano ottenere una
protezione legale equiparabile a quella ottenibile per qualsiasi altro investimento in beni fisici, in quanto considerevoli
erano gli investimenti effettuati in marketing e promozione del marchio stesso in mercati sempre più vasti. In conclusione,
si può affermare che il marchio era l’unico strumento che permetteva alle grandi imprese di poter contare su mercati in
espansione, con alti volumi produttivi, in quanto senza di esso non si sarebbe potuta veicolare la reputazione, non
ottenendo la riconoscibilità. Secondo molti, inoltre, per il successo di un’impresa era più importante puntare su un marchio
efficacie piuttosto che sull’innovazione tecnologica. Questa fondamentale tappa costituirà le basi per la nascita del brand
con le funzioni e i significati con cui lo intendiamo ancora oggi.

In questo contesto, la registrazione del marchio diventa una priorità, non solo come mera accettazione ma come attiva
protezione da parte delle istituzioni. Si può dire che la nascita della grande impresa rappresenti la compelling reason: era
necessario uno strumento che giustificasse i grandi investimenti effettuati dalla grande impresa; il marchio doveva perciò
incorporare la reputazione dell’impresa, e permettere a essa di creare un rapporto di fiducia con il consumatore, ormai
sempre più distante a causa dell’allargamento dei mercati. Il marchio, dunque diventa un asset intangibile.

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Tuttavia, il riconoscimento legale non fu immediato né scontato. Molti continuavano a considerare importante il brevetto,
come unico strumento che potesse assicurare l’innovazione; in realtà erano entrambi diritti di proprietà intellettuale, dei
beni senza consistenza fisica, che prevedono un investimento per la loro creazione, e dai quali ci si attende un ritorno
economico futuro. Presentavano delle differenze: il brevetto era concesso sulle nuove invenzioni, impedendo a terzi di
creare uno stesso prodotto, per attivarlo bastava utilizzarlo. Il marchio è concesso su prodotti già esistenti, e impedisce a
terzi non la realizzazione di uno stesso prodotto ma l’utilizzo di uno stesso nome o termine.

La storia americana del marchio fu abbastanza travagliata, in quanto, agli inizi (1870) si ottenne una legge sulla
registrazione e tutela legale del marchio, che prevedeva una clausola che lo assimilava al brevetto. Ben presto tale clausola
fu considerata incostituzionale: il pensiero comune era quello che il brevetto assicurava l’innovazione, e il marchio non
poteva essere regolamentato allo stesso modo, perché non riguardava nessuna opera dell’ingegno. La clausola fu cambiata
nel 1881, con una che riguardava il commercio: venivano registrati e protetti i marchi destinati al commercio
internazionale. Negli anni successivi il numero di marchi registrati crebbe molto, e nel 1920 in moltissimi consideravano il
marchio come uno strumento più importante del brevetto, che aveva una scadenza; tutti coloro che registravano il marchio
avevano il diritto di ottenere una tutela legale assimilabile a quella che avrebbero ottenuto con l’investimento in beni
tangibili. Questo perché il marchio comportava elevati investimenti in promozione e marketing, per renderlo conoscibile
nei mercati in espansione, e con l’obiettivo di creare un rapporto di fedeltà con il cliente. Prime pratiche di brand identity,
narrazioni, simboli…

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4. I casi della Shell, della GM mostrano che la grande impresa non si limita a cercare e ottenere la protezione legale del
proprio marchio\TM ma che usa il marchio come base per suggerire significati, emozioni, associazioni a gruppi di
potenziali clienti. Potresti in modo sintetico indicare a chi si rivolgono e che tipo di messaggi le loro narrazioni di questi
due brand intendono veicolare? (anche altri esempi)

La grande impresa nasce tra il 1850 e il 1950, periodo nel quale si sviluppa e prende forma la seconda rivoluzione
industriale, caratterizzata dall’espansione internazionale dei mercati, dallo sviluppo di nuovi settori, e dalla crescita delle
dimensioni della stessa impresa. Quest’ultima, parallelamente, si vede coinvolta in un problema riguardante la sua
immagine: essa è vista dalla società, ma anche dagli stessi dipendenti, come un’organizzazione distante, anonima,
senz’anima, pericolosa e promotrice di pratiche monopolistiche. Dunque, fin da subito è chiaro alle grandi imprese che è
necessario costruire un marchio che non sia un mero trademark, ma un vero e proprio corporate brand. Esso doveva essere
uno strumento volto ad identificare e rappresentare l’impresa, e non il singolo prodotto, incorporandone la reputazione,
a sostenere comunque i singoli brand di prodotto, e ad unire gli stessi quando erano percepiti come distanti. L’idea era
perciò quella di creare una corporate identity: utilizzare vari strumenti comunicativi, come le public relations, con lo scopo
di veicolare immagini, simboli ed emozioni che potessero essere utilizzati dalla collettività, e dai dipendenti, per la
creazione di un rapporto di fiducia con gli stessi, e migliorare l’immagine dell’impresa. Vi era la convinzione che un brand
poteva ottenere un successo, se solo la sua impresa fosse accettata dalla società, e quindi si utilizzarono narrazioni e
associazioni a sentimenti nazionali come l’idea di famiglia, patriottismo o fattori come la velocità e il progresso con il fine
di rendere l’impresa come umana, vicina agli individui.

Un esempio fondamentale di corporate brand è Shell. Essa era una grande impresa che nei primi anni del ‘900 controllava
il mercato petrolifero assieme all’American Standard Oil; la sua immagine era associata all’idea di pericolosità (per
l’inquinamento) e anonimità sia per la società sia per i lavoratori stessi. L’impresa decise di attuare una duplice strategia:

- All’interno promosse e pubblicò una rivista chiamata “House journal”, dedicata ad argomenti quali la cultura, i
film, la politica o lo sport, e in parte attuando del marketing sul prodotto di Shell. L’obiettivo era quello di creare
una vicinanza con i dipendenti, trasformandoli in veri e propri ambasciatori dei valori della stessa corporate.
- Con la collettività attuò una serie di strategie. Decise di promuovere i viaggi e le gare di aerei, non tanto per
incentivare l’utilizzo di quel mezzo di trasporto, ancora troppo poco accessibile, bensì con l’intento di associare
Shell all’idea di progresso, modernità, velocità, sicurezza, e di creare una sorta di esperienza di cui la collettività
potesse ricordarsi in futuro, quando sarà stata chiamata a scegliere che benzina comprare.

Inoltre, la stessa impresa fece leva su eventi, sponsorship e mostre con l’obiettivo di associarsi alla modernità dell’arte e
della cultura, settore che interessava molto i cittadini inglesi di quel periodo. Essa realizzò anche una county guide, per
promuovere i paesaggi rurali inglesi e convincere gli stessi cittadini a visitarli con la loro auto e con la benzina Shell.
Quest’ultima fece leva su sentimenti nazionali forti, sull’idea che nonostante l’Inghilterra stesse attraversando un periodo
difficile dal punto di vista politico e di lotta tra classi, restava comunque un paese pieno di bellezze, e che le visite di quei
paesaggi rurali di campagna potessero rappresentare un luogo autentico, per evadere dai problemi delle città. Si può
affermare, perciò, che l’intento di Shell non fu quello di pubblicizzare direttamente il suo prodotto, e le sue caratteristiche
qualitative, bensì il creare un rapporto di fiducia con la società, facendo leva sui sentimenti nazionali, su quanto lo stesso
prodotto fosse utile per la società, e potesse essere associato al progresso, alla sicurezza e alla velocità.

Anche la General Motors fu in grado di costruire un corporate brand di successo. Essa nei primi decenni del ‘900 era la
rivale di Ford, ed era nata come holdings, che riuniva una serie di piccoli marchi di auto, indipendenti, che erano stati
cacciati dal mercato dalla stessa Ford. La GM aveva un grosso problema di immagine, in quanto era considerata dai singoli
marchi inferiore alla somma delle sue parti, e, come tutte le grandi imprese, non era accettata nemmeno dalla società.
Alfred Sloan, suo presidente, per tentare di risolvere il problema interno tra divisioni, attuò una strategia riorganizzativa,
basata sul coordinamento e la cooperazione e in parte riuscì a risolvere il problema. Ma fu con l’alleanza con Bruce Barton
che GM creò una corporate identity efficacie. Egli era di grande cultura, carismatico ed empatico, considerato l’uomo delle
pubblicità: riusciva a mischiare sacro e profano, usare la fede e la mistica applicandola al business; egli stesso affermava
che lo strumento della pubblicità serviva per cogliere e prelevare l’anima delle imprese. Ciò che si realizzò fu quello di
associare la GM a fattori come il patriottismo, la famiglia e all’idea che la stessa impresa, data le sue grandi dimensioni,
era per forza sinonimo di sicurezza. Barton associò la costruzione dell’America come stato federale, alla costituzione della
GM, dove l’unione fosse considerata maggiore della somma delle parti. Inoltre, associò all’impresa l’idea di famiglia di
brand, e che la stessa GM rappresentasse un membro della famiglia americana. Si cercò di fare leva sulla reputazione del
marchio più conosciuto, Cadillac, per trasferirla a quella dell’organizzazione.

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Si può affermare che nel 1925 le varie strategie diedero i suoi frutti: GM era ormai una corporate affermata e riconosciuta
sia all’interno delle singole divisioni, sia tra l’intera collettiva; inoltre, si sfruttarono gli investimenti e gli sforzi compiuti per
realizzare una brand extension, introducendo una linea di frigoriferi che acquisì ben presto la reputazione del marchio di
fabbrica.

In conclusione, è possibile affermare che questi due brand siano riusciti a risolvere il problema di accettazione e di
immagine, creando una corporate identity efficacie, che facesse leva su sentimenti nazionali, su simboli e narrazioni che
sono stati in grado di avvicinarli alle esigenze dei consumatori e dei lavoratori, portando gli stessi brand ad essere più
umani e fedeli: queste strategie di marketing e di branding rappresentano le basi per il successo dei brand nei decenni
futuri.

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5. Il caso dello Scandinavian Design: Hansen analizza in modo dettagliato il processo di costruzione di country\nation
image tramite narrazioni. Puoi fare un esempio di Come possa essere usata la nation image dai brand e quali pro e quali
contro?

Come sappiamo, il significato del brand non si esaurisce nel suo ruolo denotativo, bensì esso connota, viene costruito
attraverso l’utilizzo di simboli, emozioni e narrazioni che vengono utilizzati dai consumatori stessi per la costruzione di una
loro identità, stile di vita che dipende dal loro contesto culturale, e quindi da quell’insieme di simboli e valori culturali che
riguardano il luogo in cui si vive. Il significato di un brand, dunque, non è fisso in un prodotto, ma viene assegnato sulla
base di queste narrazioni, che rappresentano delle storie, anche inventate che hanno l’obiettivo di dare un senso, un ordine
in un mondo caotico e frammentato. E’ importante, dunque considerare questo meccanismo di costruzione del sé: lo stesso
Hansen afferma che un brand di successo è quello che riesce a far coincidere esso stesso alla sua brand image, cioè al
significato che i consumatori gli assegnano, che vengono utilizzati come marchi per costruire la loro identità sulla base della
loro cultura (cultura materiale).

Se ci si sposta nel contesto internazionale, perciò, è facile pensare come la costruzione del product brand, e del suo
successo dipenda da un aspetto: l’immagine della nazione d’origine, e dal concetto di nation brand. Quest’ultimo si è
diffuso con lo sviluppo della globalizzazione, che ha reso necessario per le nazioni in competizione, poter promuovere la
propria immagine e i propri prodotti all’estero. Tale strumento, dunque, si concretizza in una serie di attività, che, in base
ai diversi scopi, possono promuovere il turismo, gli investimenti diretti esteri o le esportazioni della nazione. E’ uno
strumento molto complesso da gestire, in quanto in ciascuna nazione esistono differenti gruppi di individui, ciascuno con
una propria narrazione da veicolare, che spesso entra in contrasto con le altre. In generale, si dovrà cercare di promuovere
un’immagine della nazione generale, per evitare di creare conflitti tra i diversi gruppi di interessi. L’autore, perciò, afferma
che la costruzione di un product brand e il suo successo all’estero sia messo in relazione all’immagine della nazione
d’origine negli stessi paesi esteri. A volte è possibile creare una relazione positiva tra i due, una sorta di cobranding: è il
caso rappresentato dal Danish Modern. Altre volte la nazione d’origine funziona semplicemente come una celebrity, che
riesce a trasferire la sua reputazione e la sua immagine ai brand della sua nazione (è un po’ quello che succede con il Made
in Italy e i brand di moda). Altre volte, ancora, ciò che si crea è una relazione negativa: l’esistenza di stereotipi negativi su
una certa nazione, sviluppatisi per una serie di motivi molto spesso non controllabili, può precludere il successo del brand
di prodotto. In quel caso converrà cercare di nascondere la nazione d’origine del product brand.

Ciascuna nazione dovrà poter comunicare la sua strategia di nation brand sia all’interno che all’esterno, sapendo che ciò
che verrà percepito all’estero non per forza coinciderà con ciò che si vuole costruire: il nation brand si scontrerà con altre
narrazioni presenti nei paesi esteri, e insieme ai significati assegnati dai consumatori, dipendenti dal loro contesto
culturale, si formerà la nation image (=nation brand+ narrazioni, stereotipi già presenti+ significati che dipendono dalla
cultura). E’ importante, perciò, l’utilizzo di narrazioni che siano le più inclusive e semplici possibili, per poter minimizzare
l’interpretazione dei consumatori.

Secondo Hansen, per poter attivare un rafforzamento a catena tra product brand e nation brand, è necessario utilizzare le
narrazioni. Esse, come abbiamo detto, sono degli strumenti fondamentali per la creazione di un brand, rappresentano un
ponte tra il progetto identitario dell’individuo e le ideologie nazionali veicolate dagli stessi brand; è necessario che esse
facciano leva su sentimenti quali le speranze e le paure degli individui, sulla base di un determinato contesto storico. Un’
impresa, insieme alla nazione d’origine, dovranno perciò creare delle narrazioni coerenti con la cultura dei consumatori da
incastonare sul prodotto, e che verranno prelevate, nel momento del consumo, dai destinatari, i quali assegneranno al
brand di prodotto determinati significati. Se l’intero processo è coerente, il brand otterrà successo. Il caso fondamentale,
in questo senso, è quello del Danish Modern. Esso rappresenta uno stile di mobili danesi, molto famoso in America negli
anni 30-40 del secolo scorso. Tale nazione era nel pieno sviluppo del sistema taylorista e della produzione di massa: una
categoria di americani, giovani e di alta cultura, non riusciva ad identificarsi in quel contesto, aveva l’esigenza di distinguersi
dalla massa. In questo senso, la narrazione veicolata dal Danish Modern, insieme alla coerente immagine veicolata dalla
Danimarca come nazione, vennero in aiuto a questi americani. Il Danish Modern era raccontato come uno stile semplice,
funzionale, ma unico, fatto a mano, elegante e con un prezzo più alto rispetto ai prodotti di massa. La Danimarca in quel
periodo veniva vista come una nazione democratica, con buoni sistemi di assistenza sociale, non ancora coinvolta dalla
produzione di massa, era dunque un paese in cui si poteva vivere felici. Si può affermare che questo rappresenti un caso
di cobranding efficacie, in quanto le narrazioni condivise dal Danish Modern, assieme a quelle della sua nazione, sposarono
le esigenze culturali di quel giovane gruppo di americani, portando lo stile di mobili ad avere un successo anche dopo
parecchi decenni, quando il contesto politico e culturale delle due nazioni era presto cambiato (la narrazione è rimasta
quella).

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Il concetto di Made in Italy creato da Giorgini può rappresentare un altro caso di successo. La moda italiana prima degli
anni ’50 non era molto famosa all’estero. Il governo fascista attuò varie strategie ed iniziative volte allo sviluppo
internazionale di tale settore, ma furono pressoché inefficaci. Nel 1951 Giorgini, imprenditore che conosceva molto bene
il mercato americano, decise di creare la prima sfilata collettiva in Italia, sostituendo le classiche sfilate individuali di
ciascuna casa di moda. Riuscì ad invitare anche la stampa americana che fu in grado di rappresentare una cassa di risonanza
per l’evento. Per portare al successo la moda italiana, la strategia di Giorgini fu quella di puntare sugli stereotipi positivi
dell’Italia, uno di questi è appunto il Rinascimento: si riuscì ad associare l’eleganza e la creatività dell’arte di quell’epoca
storica alla moda italiana di quel momento, il tutto senza far avvertire ai potenziali consumatori quell’incoerenza temporale
tra la stessa epoca d’oro rinascimentale e il dopo guerra italiano. D’aiuto fu anche lo stile rinascimentale del Palazzo Pitti,
sede dell’evento. Giorgini riuscì a creare il concetto di Made in Italy attraverso un evento che ha rappresentato un
rafforzamento dell’effetto del country of origins, ma allo stesso tempo migliorò l’immagine della stessa Italia.

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6. Brand globali: perché e come lo diventano, come si evolvono o si ringiovaniscono? Quali sono le conclusioni sulle
traiettorie da seguire? Esempi?

I brand globali si può dire si sviluppino nel corso degli anni ’80 del secolo scorso: in quel contesto, i mercati iniziarono ad
assumere un livello globale, e si affermarono le imprese multinazionali. Lo studio di Casson e Da Silva Lopes riguarda
l’evoluzione globale di alcuni brand del settore degli alcolici, della moda di lusso e agroalimentare, settore in cui l’identità
del brand deve essere creata attraverso la capacità evocativa, e quindi l’utilizzo di simboli e narrazioni che permettano di
creare un rapporto di fedeltà tra consumatore e produttore, ormai sempre più distante per via dei mercati in espansione.
L’innovazione non riguarda la tecnologia, bensì la promozione stessa del brand, e l’utilizzo di tecniche di marketing e
distribuzione evolute, che permettano di soddisfare le esigenze di un mercato in continua evoluzione.

I brand globali, secondo gli autori, sono quelli che hanno ottenuto una leadership di mercato nei settori di riferimento, e
sono state applicate loro delle strategie di marketing standardizzate su tutti i mercati. Ma il fattore più importante del
successo resta l’utilizzo di competenze di marketing evolute, che possono essere possedute solamente dai manager. Un
primo passaggio importante, perciò, riguarda quello tra imprenditore personality centered e quello organizational
centered. Il primo è normalmente il fondatore del brand, con competenze imprenditoriali molto limitate, il secondo è
invece colui che comprende la necessità di servirsi di manager per poter puntare all’espansione del successo del brand.

Esistono, varie strategie che possono portare un brand al successo globale: a volte esso può essere gestito da un’unica
impresa orientata alla crescita, come è avvenuto con Gucci, in cui vi è comunque un passaggio da imprenditore personality-
centered a quello organizational-centered, nel giro di una o due generazioni dal fondatore. Il brand Gucci, tuttavia, è
riuscito ad ottenere un successo globale solamente con l’acquisizione da parte di una multinazionale francese, puntando
molto sull’utilizzo dell’heritage. Un’altra strategia può riguardare la fusione tra due aziende, che consente loro di
condividere le risorse e le competenze destinabili allo sviluppo di prodotti o a tecniche distributive; altre volte grandi
imprese multi-brand possono creare e gestire loro stesse un nuovo brand, grazie alle competenze già acquisite con tutti gli
altri marchi, oppure possono decidere di acquisire in licenza un brand il cui proprietario originario possedeva delle
competenze non idonee allo sviluppo del brand stesso. Altre volte è possibile ottenere un successo mondiale attraverso
una strategia di rebranding/ringiovanimento: grandi aziende multi-brand possono sfruttare l’opportunità di acquisto o
controllo di un brand locale, promettente, ma con grosse difficoltà di adattamento alle esigenze del mercato in
cambiamento.

Dunque, per poter espandersi, potrebbe essere necessaria una strategia di brand extension: creare una nuova linea di
prodotto con lo scopo di soddisfare i bisogni di una nuova generazione di consumatori, diversa da quella precedente. Ciò
si coniuga bene con l’esigenza dei brand globali di operare su una larga scala di volumi: una nuova linea di prodotti può far
sfruttare alla grande azienda delle economie di scopo soprattutto a livello distributivo. Un esempio fondamentale in questo
senso è la strategia di estensione e ringiovanimento ottenuta dal marchio Smirnoff: dopo vari tentativi falliti, le competenze
manageriali hanno permesso la creazione di un nuovo brand di prodotto, lo Smirnoff Ice, un cocktail destinato per lo più
ai giovani, e che ha permesso di portare lo stesso Smirnoff ad un successo globale.

In conclusione, è possibile analizzare l’evoluzione del successo di un brand sulla base di una relazione tra vita dei brand,
vita delle imprese ed imprenditoria, suddivisa in tre fasi distinte:

- nella prima fase l’imprenditore fondatore è di tipo personality-centered, riesce a sviluppare il suo brand solo a
livello locale, a causa dei limiti riguardanti le sue capacità imprenditoriali
- nella seconda fase il brand si espande sui mercati internazionali, e ciò è spiegato dal passaggio verso un
imprenditore organizational-centered, e quindi dall’assunzione di manager competenti in marketing e
distribuzione, o alla vendita del brand o dell’impresa a soggetti che queste competenze ce le hanno
- nella terza fase il successo mondiale di un marchio è invece spiegato dal necessario affidamento a multinazionali
o società di consulenza, le uniche organizzazioni che detengono competenze di marketing, adattabili anche a
diversi brand del loro portafoglio, che permettono il soddisfacimento delle esigenze di un mercato globale.

Per concludere, i due autori hanno notato che le multinazionali che gestiscono un brand globale, generalmente hanno sede
presso paesi sviluppati, con buone istituzioni, facilità di accesso al credito e buon regime fiscale: tutto ciò è importante per
lo sviluppo di un brand. Oltretutto, un curioso aspetto è la vecchiaia stessa dei brand: molti di loro hanno origine nell’800,
e ciò spiega la necessità di tempo per poter evolvere ed espandersi, e che è sempre più conveniente estendere,
ringiovanire, o globalizzare brand esistenti, piuttosto che intraprendere una strategia da zero.

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7. Quali sono le possibili ragioni che inducono diversi brand a valorizzare e usare la storia? Qual è la differenza della
storia oggettiva e l’heritage? Puoi fare un esempio di heritage brand (brand che usa il suo heritage)?

Come sappiamo, il brand non è solamente uno strumento che denota delle caratteristiche, ma soprattutto va a creare delle
emozioni, condivide dei simboli e delle narrazioni utili ai consumatori, i quali, sempre più scelgono un brand sulla base del
posto che esso occupa nel loro cuore. In un certo senso possiamo dire che l’utilizzo della storia può essere utile a rendere
un brand unico, in quanto ciascuna impresa e brand è unica per la sua storia; inoltre può essere importante per creare un
rapporto di fedeltà con i consumatori basato sull’autenticità, e sulla sicurezza che trasmette in momenti di incertezza.
Dunque, lo strumento che molti brand utilizzando per creare un successo basato sull’utilizzo della storia è l’heritage: un
elemento, un tratto dell’identità di un brand, che utilizza un’esperienza passata, la rende attuale e disponibile oggi, e la
preserva per le future generazioni. Non si deve confondere con la storia oggettiva dell’impresa, che riguarda solo il passato.
L’heritage ha l’obiettivo di prendere dalla storia alcuni tratti utili per il brand, per poter creare un ponte tra passato,
presente e futuro, rendendo lo stesso brand senza tempo; non per forza, però, è necessario avere una lunga storia in
quanto l’importante è poter creare un mito, una narrazione che dovrà essere comunicata attraverso lo storytelling,
servendosi, ad esempio, di mostre, media, esibizioni e musei, ma anche attraverso lo sviluppo di un prodotto o la
distribuzione.

Esistono dei brand che fondano il loro posizionamento e la loro proposizione di valore sull’heritage, chiamati heritage
brand: ad esempio Patek Philippe, marchio di orologi, comunica ai clienti che quando acquistano un orologio non lo fanno
come mero atto volto a soddisfare un loro bisogno, ma per renderlo disponibile ai loro figli e poi ai loro nipoti. Non tutti i
brand, tuttavia, utilizzano il loro heritage: è possibile identificare il grado di utilizzo dell’heritage, da parte di un brand, sulla
base della misurazione di 5 fattori:

- track record: rappresentano le performance di lungo periodo, le promesse mantenute dal brand ai suoi
consumatori. Esse dipendono dai core values.
- Core values: insieme di valori usati e mantenuti da un brand nel corso del tempo, e fondanti le sue strategie.
L’importante è che la loro narrazione sia coerente e continuativa nel tempo, anche in presenza di un’incoerenza
sulla storia oggettiva.
- uso dei simboli: loghi, motti che hanno il compito di incorporare i valori del brand
- Longevità: il fatto che si necessita del tempo per fare leva sull’heritage, mantenendo sempre la linea di continuità
e coerenza sulla narrazione
- Storia come fattore importante: si intende capire chi e cos’è l’impresa che gestisce il brand, ciò è importante per
la creazione dell’identità e quindi per l’attivazione dell’heritage.

E’ importante sottolineare come sia fondamentale per un brand che intende puntare sull’utilizzo del suo heritage, esserne
consapevoli, attivarlo e proteggerlo. L’attivazione dell’heritage potrebbe avvenire, ad esempio, comunicando che il lancio
di una nuova linea di prodotti incorpora i valori core del brand (creatività, artigianalità, innovazione), adattandoli al
contesto contemporaneo (produzione in chiave sostenibile). Con protezione si intende, invece, l’impegno nella
salvaguardia di ciò che è il brand e la sua storia, esserne responsabili e poterlo dare in eredità alle prossime generazioni.

Un altro esempio fondamentale di heritage brand è Dior. Esso nacque da Christian Dior negli anni ’60 scorsi, divenne
famoso fin da subito come brand di moda incentrato sulla creatività, artigianalità eleganza ed innovazione. Negli anni ’90
l’acquisto da parte di Arnoult ha permesso al brand di fargli ottenere un successo globale, puntando sull’heritage. Insieme
al designer superstar Galliano, sono stati in grado di togliere a Dior quel fattore di retrò, legame con lo stile classico e
tradizionale francese, che gli impediva di adattarsi alla modernizzazione contemporanea. Probabilmente, una parte del
successo globale di Dior è dovuto al fatto che i nuovi mercati asiatici non erano a conoscenza della storia oggettiva
dell’impresa, e della sua difficoltà nell’ adattamento al contesto globale. Ma è proprio questo il punto: essi hanno dato per
scontato l’heritage, non avvertendo quell’incoerenza storica tra ciò che era il brand prima (legato ad uno stile classico, che
bloccava il suo sviluppo), e ciò che è diventato dopo, e il merito va dato all’utilizzo di una narrazione coerente e continuativa
dei valori usati dallo stesso fondatore: eleganza, creatività, innovazione, ma adattandoli al mondo contemporaneo e alla
produzione di massa. Il brand è diventato senza tempo.

In conclusione, si può affermare che lo strumento dell’heritage è molto usato dalle imprese, soprattutto nel settore della
moda di lusso, in quanto è necessario poter creare un legame di fedeltà e autenticità nel consumatore che possa
giustificare l’alto prezzo sostenuto; risulta perciò fondamentale mantenere coerente la narrazione dell’heritage, onde
evitare che i consumatori si sentano confusi e spaesati al punto di rompere il legame con lo stesso brand.

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