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Sociologia dell’identità

Davide Sparti
30 marzo 2023

L’identità incompiuta
Paradossi dell’improvvisazione musicale

Proseguendo l’analisi dell’improvvisazione come forma di agire generativo avviata


alcuni anni fa, questo libro intreccia tre assi: la pratica dell’improvvisazione jazz, il suo campo
di applicazione ed un lavoro individuale del soggetto che intende assecondare i requisiti della
pratica. Al centro del libro sta un paradosso, una tensione che emerge in rapporto all’esercizio
dell’improvvisazione. Se la tappa iniziale della formazione del jazzista consiste nel trovare la
propria “voce” musicale, un’identità sonora unica e distintiva, il jazzista non dovrebbe
arrestarsi a questo punto. Ma il consolidare uno stile implica, nella percezione del jazzista,
una stagnazione e un’incapacità di assecondare il processo di sviluppo e trasformazione
costante dello stile. Ed è qui che interviene il paradosso; il jazzista deve perdere la sua identità
anche mentre la trova. Colui che improvvisa corre due rischi. Il primo è quello di fallire nel
trovare l’originalità, ossia il rischio della stagnazione, il secondo è quello di smarrirsi nel
perseguire la ricerca di qualcosa di nuovo ed irripetibile. Quest’ultimo è poi il rischio dell’
irriconoscibilità e dunque dell’isolamento (della follia) Il jazzista è esposto ad un “doppio
vincolo”: se asseconda la norma dell’originalità, differendo il compimento della propria
identità musicale e sovvertendo l’egemonia dei codici estetici consolidati contraddice quella
dell’intelligibilità. Se d’altra parte si esprime in modo comprensibile rischia di non soddisfare
il requisito che impone di fare nascere qualcosa di nuovo quando suona, e quindi di non
risultare musicalmente interessante. Il quadro storico di riferimento dell’indagine è il periodo
dei primi anni Sessanta del Novecento, un momento in cui la pulsione sperimentale si
estremizza. La condotta del jazzista interessa in questa sede per indagare e seguire la
dinamica dell’identità. In secondo luogo, il jazz è una pratica collettiva, in seno alla quale
l’improvvisazione corrisponde all’esito di un’emergenza collaborativa. Si analizza
l’acquisizione di un habitus jazzistico all’interno di una comunità storicamente radicata, e si
scopre che la spontaneità è il risultato di un lungo tirocinio di tipo relazionale che ha iscritto
un sapere nel corpo del musicista. Un assolo non è mai un evento isolato, è ri essivo ed
integra le risposte suscitate presso gli altri dal suo stesso svolgersi, costruendo con il contesto
una relazione di reciprocità.
Dal processo di socializzazione riceviamo non solo il riconoscimento mediato dallo
sguardo ma anche l'idea di agire di fronte ad altri e dunque dell'essere visibili e visti. Se ci
domandiamo da dove viene la nostra identità, scopriamo che essa non è data o scelta ma

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coincide piuttosto con il prodotto dell'insieme delle scelte e degli atti di un attore in quanto
riconosciute da un osservatore. Di qui la necessità del riconoscimento o, meglio, la tendenza a
mantenere relazioni stabili entro cerchie di riconoscimento. Eppure, chi improvvisa, volendo
essere inventivo, non si accontenta di distinguersi dagli altri poiché cerca di sottoporre la
propria identità a mutamento, ma nel farlo mette a repentaglio l’intelligibilità della propria
condotta, compromettendo il riconoscimento della propria identità. Sospendendo
intenzionalmente la certezza dei codici musicali acquisiti, il jazzista ricerca una conversazione
permanente, una conversione verso nuovi suoni e nuove forme spogliandosi tuttavia di una
parte del riconoscimento acquisito. La domanda che emerge è: come è possibile sottoporre
un’identità al differimento? È possibile avvalendosi di quelle che Foucault de nisce
“tecnologie del sé”.
I

Nella parte iniziale di “La condizione umana”, dedicata all’analisi delle diverse forme
dell’agire, Hannah Arendt delinea quella che potremmo de nire la tesi della
consequenzialità : poiché il senso dell'azione risulta dall'esibirsi di esseri unici su una scena
plurale, per stabilire il signi cato di un atto non devo descrivere l'intenzione che a mosso
l'attore bensì ricostruire le risposte che vi si sono allacciate, le reazioni che esso ha suscitato
presso una comunità di ricezione. Queste risposte non dipendono dall’attore; certamente
ciascuno di noi agisce con l'aspettativa della condivisione dei criteri di attribuzione di
signi cato ai propri atti, ma non si può presupporre congruenza interpersonale (coincidenza tra i
criteri con cui i diversi attori rispondono agli esiti delle azioni) e costanza intertemporale
(anticipazione di chi sarò al tempo t +1). Qualunque azione porteremo a compimento farà
una differenza, ma non sappiamo che tipo di differenza. Ogni agire, osserva a sua volta
Wittgenstein, è indirizzato come fosse una specie di ordinazione diretta agli altri e rivolta al
futuro, un futuro che come attori non anticipiamo mai pienamente. Non si può dunque
assumere che gli attori sappiano anticipare le risposte degli interpreti. Per Arendt, è mentre
interagiamo che scopriamo il signi cato del nostro agire, in un contesto di altri esseri umani
che partecipano, rispondono e reagiscono a noi. L’identità, allora, non è una proprietà
incapsulata in me né un'affermazione del soggetto davanti agli altri, quanto un attributo che
emerge fra noi, in un ambito di reciproca esposizione generato dall’interazione. Nell’agire
interveniamo per de nizione in una rete di relazioni umane e questa circostanza produce
imprevedibili. Per Arendt, l’identità è l’esito provvisorio dell’agire pubblico ed è, quindi,
relazionale. Per poter agire con un’identità distinta bisogna che qualcuno riconosca che
esistiamo e ci dia, per accettazione o per ri uto, un nome con il quale riconoscerci”.
Incontriamo qui la tesi della precedenza del riconoscimento sull’identità, priorità non tanto
cronologica quanto logica. Il riconoscimento è iscritto nell’atto di nascita dell’identità, la
quale si con gura solo nella relazione. L’attore è imprescindibile - ma mai sovrano - incipit e
medium dell’agire, in virtù del quale il signi cato dell'agire si condensa ma anche si
ridetermina e disloca. Siamo soggetti dell'azione, agenti ma non autori; l’attore va pensato
come soggetto che dischiude la capacità di prendere l'iniziativa, punto di partenza di una

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costellazione di circostanze a cui gli altri rispondono. Siamo soggetti dell'agire ma anche
oggetti delle reazioni che quell'agire ha suscitato. Inoltre, la condizione umana, è legata alla
messa in circolazione dei corpi, resi visibile ed esposti. Tale esposizione che mi de nisce
costituisce quindi la mia singolarità. Se i corpi non si distinguessero, peraltro, non saremmo
nemmeno degli individui ma dei “dividui” . Sta qui la più fondamentale, ontologica
condizione di possibilità di esserci. La stessa identità personale si basa sulla legge "un corpo,
un'identità", e l'incorporazione ne rappresenta la contromarca. Come direbbe Foucault l
visibilità si situa all’incrocio tra un dominio estetico (ciò che percepisco) ed un dominio
politico (ciò che riconosco come simile o dissimile, superiore o infeririore, normale o abietto).
Finora quindi si è sottolineata la priorità del riconoscimento sociale sull’identità
personale, si è rilevato l’esistenza di una situazione di “incertezza di valore” (incertezza
quanto ai criteri di valutazione a cui saranno destinati i miei atti e le mie scelte). La vita
sociale inoltre è punteggiata da norme che permettono di controllare o ridurre quella che
Goffman chiama la "fatidicità" dell'azione, ossia il suo carattere aleatorio e l'imprevedibilità
delle sue conseguenze. L'accesso ad una cerchia sociale diventa la prestazione speci ca che
permette di realizzare una riconoscibilità duratura e da luogo a processi di formazione di
rapporti che si prestano a fornire conferme di identità costanti. La questione cruciale appare
non l'individuazione di un fatto in cui l'identità personale debba consistere, ma piuttosto la
continuità di quei riconoscimenti interpersonali che ci assicurano una re-identi cabilità sociale
come membri di una comunità. In gioco non è la certezza o incertezza della propria identità,
ma quella dell’io agente su quale sarà l’io oggetto di riconoscimento nel lungo periodo, a
seconda di coloro con cui avrà a che fare. Se la sopravvivenza come continuità di
riconoscimento ha a che fare con la garanzia anticipata dell'essere identi cati con una relativa
stabilità, allora l'accesso a cerchie sociali rappresenta una sorta di polizza assicurativa contro il
misconoscimento. Se affermo di riconoscere qualcosa o qualcuno è perché fra due atti
conoscitivi vi è un intervallo temporale, che richiede una nuova determinazione di quanto
conosciuto in precedenza. Attraverso la ripetizione di un atto di conoscenza avvenuto in
passato tale distanza viene colmata ripristinando qualcosa di precedentemente noto (il gatto
rientra nella stanza dalla terrazza facendo irruzione nel nostro campo percettivo: lo
riconosciamo come lo stesso nonostante il lasso di tempo nel quale era stato assente).
Riconoscere signi ca circoscrivere qualcuno qualcosa e signi ca stabilizzare la sua immagine
in modo che diventi uno schema che trascende la singolarità e la temporaneità della
percezione. Un’ identità viene a condensarsi attraverso il ripetersi di un’identi cazione o
attraverso la reiterazione del riferimento al “questo” di una distinzione questo/altro. Con il
termine “autoriconoscimento”, invece, ci si riferisce all'operazione ri essiva compiuta nei
confronti della memoria delle risposte suscitate dalle mie azioni dentro le cerchie presso le
quali ho operato, risposte che vengono rielaborate e ricombinati tra loro. È tale operazione
che impedisce all’individuo di assumere un numero inde nito di forme alternative. Il termine
riconoscimento ha però una declinazione ulteriore: non la re -identi cazione di qualcosa o
qualcuno nel tempo ma l'attribuzione di considerazione sociale. Riconoscere signi ca sia
notare qualcosa, sia lasciare che quanto notato intervenga sulla nostra condotta. Noi facciamo

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qualcosa quando prestiamo riconoscimento a qualcuno (tributiamo onore, ad esempio) ;
incontriamo qui un altro registro del riconoscimento, in cui l'accento cade non tanto
sull'inquadratura cognitiva quanto sugli atteggiamenti assunti nel prestare e ricevere
riconoscimento. Possiamo denominare questa forma "riconoscimento estimativo" perché
trasmette risorse simboliche che convalidano un’identità. Riconoscere non signi ca solo
individuare e distinguere qualcosa o qualcuno rispetto a quanto lo circonda ma signi ca
anche condividere dei criteri di valutazione che permettono ad un determinato insieme di
attori di interpretare il senso dell'agire, dunque di essere inclusi in un gruppo come soggetti
che conferiscono intelligibilità a cose simili e ricercano analoghi segni per classi care atti ed
attori.

II
Parlare di improvvisazione nell’ambito della musica jazz implica di fare una preliminare
distinzione tra composizione (musica come prodotto di scrittura) e improvvisazione (pratica
anomala situata tra composizione ed esecuzione). Tale distinzione può essere ricondotta a due
forme di creatività, quella orientata al prodotto e quella che si risolve in processo e dunque è
proprio il processo a costituire il prodotto di questa declinazione. La prima forma di creatività
è contrassegnata da tre aspetti:
- Un lungo lavoro che eventualmente condurrà ad un prodotto perfezionato
- Possibilità virtualmente illimitate di revisione
- Circostanza che questa opera di concezione, edizione e revisione resta largamente
nascosta al pubblico
Nel caso della composizione, dunque, bisogna tenere conto non solo del tempo
performativo ma anche del tempo di attesa, di incubazione e correzione. La caratteristica
fondamentale della condotta improvvisata è la sua natura situazionale. Un assolo
improvvisato luogo senza avvalersi del bene cio di uno spartito che per stabilisca la
collocazione delle note. A differenza della composizione, che è programmata ed ha valore
prescrittivo, l'improvvisazione rinuncia al supporto e alla coerenza forniti da uno spartito.
Proprio perché non si risolve in un prodotto esterno, l'improvvisazione è costantemente
produttiva ed espone i problemi che amente la propria pratica ossia un processo in corso.
L’improvvisazione esige originalità, un'originalità situazionale e trae la sua forza non dalla
fedeltà nei confronti di una tradizione che le garantisce sacralità e autorità, ma dal suo
carattere di atto unico non iterabile. È indicativo che Arendt paragoni la facoltà di azione-
ricondotta soprattutto alla categoria della possibilità-al miracolo dell’inatteso. Si evince
dunque l’importanza attribuita al carattere generativo dell’agire umano. La competenza di
improvvisa non deve essere misurata in termini di virtuosismo ma in rapporto alla sua
capacità di mobilitare strategie che assecondino la uidità dell'improvvisazione, la sua natura
di evento e la sua tensione verso un’ ulteriorità. Gran parte della letteratura manualistica
dedicata a chi improvvisa tratta il concetto della paura e delle tecniche per aggirarla poiché il
rischio di fallimento e la paura della nullità non devono essere vinte quanto rese esteticamente

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produttive. Ed è per questo che proprio l’elemento del fallimento costituisce il fulcro della
pratica di improvvisazione.
Si è visto come il problema dell’identità implichi due domande: in primo luogo, cosa
rende una certa persona la stessa in due spazio-tempi distinti? (Problema della reiterabilità
dell’identi cazione). In secondo luogo, che cosa distingue due individui af ni per classe ?
(Problema della singolarizzazione). Ricoeur riprende due termini latini quando parla di
“identità idem”, che pone l'accento sulla reidenti cazione dello stesso nel tempo (una
consistenza diacronica che si oppone alla discontinuità temporale) e un’ “identità ipse”, che
pone invece enfasi sul chi ossia sull’unicità del titolare di un’azione. Per quanto riguarda la
seconda forma, si può riassumere nell’espressione utilizzata da Miles Davis quando ha
affermato “Abbi fede nel tuo suono”. In pratica, il suono diventa l’equivalente della “voce”,
della differenza espressiva tra individui. Per quanto riguarda l’identità idem applicata al
jazzista, possiamo dire che egli deve risultare diverso non solo da tutti gli altri, ma anche da se
stesso. Si tratta quindi non di scoprire se stessi ma di creare le condizioni di vulnerabilità
necessarie a declinare ciò che già si è. “Il jazzista deve perdere la sua identità anche mentre la
trova” (Ralph Ellison). L'idea di un'identità che differisce invece di consolidarsi del tempo può
apparire sorprendente ma non bisogna confondere il concetto biologico di individuo con quello
di soggetto performativo. In quanto musica del non-del-tutto-atteso, il jazz è contrassegnato
dall’impatto di ciò che Barthes ha denominato il “punctum”, quel raro Veneto che irrompe
nella percezione e infrange il quadro delle nostre attese. Una piccola puntura sonora o quel
“guizzo” - di cui parla Italo Calvino - strappando dalla fruizione passiva.

III
È bene porsi i quesiti: come deve trasformarsi il jazzista per soddisfare i requisiti della
sua forma d’arte? Dove sta il luogo dell’agire generativo?
In una performance improvvisata vi sono vari indizi contestuali, indizi che musicisti
imparano presto a rilevare spesso in modo inconsapevole sentendoli più che rappresentandoli
cognitivamente. La musica generata no ad un certo momento risulta essere il parametro
contestuale per la musica successiva, che si dispiegherà secondo un processo autocatalitico.
Ogni momento della performance è dunque anticipatori e rappresenta l’inizio di un futuro
musicale a venire, pre gura un possibile modo di andare avanti. Anticipatori ma non ovvio o
prevedibile. Infatti, un aspetto cruciale dell’improvvisazione è la capacità di fare spazio
all’alterità, creando una distanza tra musicista e musica, avviando quella che Foucault chiama
“l’esperienza del fuori”.
È bene esaminare le varie “tecniche” che assecondano l’esigenza di differire l’identità e
generare degli “inizi”. Per tecniche si intende pratiche (tekhnē, nel senso in cui Foucault
interpreta questo termine) per mezzo delle quali i musicisti cercano di sottoporre se stessi a
trasformazione. Musicisti la cui preoccupazione principale è di diventare nuovi modi di
soggettivazione, ossia comprendere quali siano le condizioni per la produzione estetica di un
nuovo se. Foucault propone , negli anni 1980-1983, un'indagine volta non tanto a ricostruire
l'epistemologia di una formazione discorsiva avente per oggetto l’ uomo, quanto ad analizzare

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un insieme di pratiche e procedure a partire dalle quali gli individui compiono su se stessi "un
certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima al ne di trasformarsi per
raggiungere un certo stato di felicità, saggezza, perfezione o immortalità”. Lo scopo di
un'indagine su tali processi di soggettivazione o "tecnologia del sé“- espressioni usate da
Foucault per indicare quei procedimenti proposti o prescritti agli individui per ssare la loro
identità, trasformandola in funzione di un certo numero di ni - è quello di suggerire una
storia dei differenti modi in cui nella nostra cultura occidentale gli esseri umani non sono solo
resi soggetti assoggettandosi ad altri ma sono chiamati ad assumere se stessi come oggetto di
conoscenza e campo di azione. Per Foucault a fare importante de nire la distinzione tra
virgolette tecnologie del sé" e "tecnologie disciplinari "ma anche sottolineare come questi
diversi tipi di tecniche non operino in opposizione o in isolamento le une rispetto alle altre. In
secondo luogo, Foucault, a chiarito l'opportunità di rinunciare all'assunto che vi sia un'identità
fondamentale ma repressa per effetto di un insieme di processi storico-sociali e dunque
all'idea che il solo fatto di svelarla ponga il titolare del disvelamento al di fuori delle pratiche
discorsive. Le sue considerazioni rappresentano pertanto un tentativo di rimuovere l'illusione
secondo cui il se corrisponde ad un nucleo sepolto in noi che si tratterebbe di liberare. Per
questo Foucault distingue le tecnologie del se dal fatto di conoscere la verità su di sé, sulla vita,
sul corpo, sul desiderio e le collega alle pratiche di trasformazione di sé, alla creatività piuttosto
che all'autenticità o al disvelamento. Invece di attribuire autenticità al genere di relazione che
un individuo a consistessero, si tratta di ricondurlo ad un'attività creativa. Non tanto un
processo di liberazione da qualcosa (il potere) o di qualcosa (la propria vera identità), quanto
piuttosto pratiche di libertà. Per quanto riguarda la musica jazz, tra le pratiche di alterazione o
trasformazione di sé vi è innanzitutto la ricerca di una forma di amnesia nei confronti di
quanto acquisito, una tecnica dello "svuotamento". Invece di concentrarsi sulle proprie idee
musicali, ci si decentra, rilassando il controllo sulla direzione la musica (af ne a ciò che
Nietzsche ha de nito “oblio attivo”). Si è quindi assorbiti in un usso di attività, in un agire
portato a compimento in maniera quasi passiva e che tuttavia risulta espressivo. Come se
l’improvvisazione avesse un carattere impersonale o, comunque, precategoriale piuttosto che
centrato sulla manifestazione della soggettività. Una seconda tecnica per vincere l'inerzia e la
memoria motoria, evitando il rischio di stagnazione ed incoraggiando i musicisti a dislocarsi
musicalmente, consiste nel ricorrere a strumenti inconsueti (es. in plastica, che assorbe meno
suono rispetto all’ottone o al metallo) o strumenti diversi dal proprio strumento. Un’ulteriore
tecnica consiste nel saper sfruttare la spaziatura tra suono e ignoto. Al ne di rendere insolito
un linguaggio divenuto familiare, Thelonious Monk, ad esempio, affrontava standard ben noti
con esitazione come se fossero qualcosa di assolutamente strano, come se incontrasse quei
brani per la prima volta, espediente che permetteva di offrirne una sua visione. Inoltre, il
jazzista si deve dimostrare propenso a supporre che qualcosa ritenuta impossibile possa invece
avvenire. Si tratta di soggettività capaci di de-soggettivazione. Nella prospettiva di Foucault si
tratta di rimettere in gioco e rendere malleabili le condizioni che de niscono i modi in cui
siamo rappresentati, generando nomi e categorie per riconoscere e riconoscerci in modi

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inediti. Inoltre, non si tratta di liberarsi dal “potere”, dallo stato o dai condizionamenti sociali,
ma semmai dal tipo di individualizzazione che tali istituzioni promuovono.

IV
Ciò che i casi storici relativi a grandi gure come Oriette Coleman, Coltrane e tanti altri
fanno emergere relativamente all’improvvisazione jazz è la questione relativa i criteri di
intelligibilità. Il jazz è l’ambito per eccellenza del non-del-tutto-atteso, del bilico tra
riconoscibilità e irriconoscibilità e ancora, esperienza di spaiamento. Quando non esiste una
teoria in grado di legittimare quello che certi artisti fanno, emerge una situazione entro la
quale nasce la domanda di una teoria ulteriore poiché le categorie con cui si interrogano i
signi cati dell'agire non sono riferibili all'evento in questione. Monk, Coltrane, Coleman o
Ayler sono stati misconosciuti, osteggiati e ridicolizzati dai loro pari all’interno del mondo
jazz. Cerchiamo di delineare le caratteristiche principali del jazz sperimentale: rispetto al
bebop ci si affranca innanzitutto dal riferimento obbligato ad un motivo tematico e a una
trama armonica. Non vi è dunque una linea melodica che ricalchi la struttura degli accordi
né una ricapitolazione del tema. In secondo luogo, il jazz sperimentale si emancipa dal
riferimento ad una regolarità ritmica (ad esempio una struttura metrica di 12 o 32 battute,
sostituita da un ritmo non cadenzato ma elastico e imprevedibile). In terzo luogo, il jazz
sperimentale respinge la separazione tipicamente euroamericana tra solista ed
accompagnamento. In ne si ha la valorizzazione dei suoni considerati parassitari.
È l’onnipresente rischio del fallimento (la sua possibilità e non la sua effettiva occorrenza )
che rende l’improvvisazione un’impresa interessante, e che in ultima analisi attira l’uditorio.
Ma nel momento in cui il jazzista individua nell’evento dell’improvvisazione il proprio unico
criterio, sembra condannarsi al misconoscimento e alla marginalità musicale e sociale.
Bourdieu parla di “investimento a fondo perduto”, una forma di indifferenza verso il
riconoscimento o , meglio, un affrancamento dai giudizi di riconoscimento accumulati senza
tuttavia accedere ad un’altra comunità di riferimento.
Data la dinamica descritta dal “paradosso di Ellison”, i jazzisti rischiano di essere
estromessi dal processo di riconoscimento, come se venisse meno la disponibilità a farsi
riconoscere. Per riassumere, si può dire che: sospendendo intenzionalmente la certezza dei
codici musicali acquisiti, il jazzista ricerca una conversione a nuovi suoni nuove forme,
spogliandosi di parte del riconoscimento acquisito. ogni identità, dipendendo dal
riconoscimento è quindi oggetto di minaccia. Qui siamo di fronte ad un comportamento che
sembra deliberatamente annullare gli investimenti passati, interrompendo l’identità
consolidata e andando incontro all’angoscia di trovarsi improvvisamente privi di chi ci
riconosca per come riteniamo di essere diventati. Tale minaccia intacca le relazioni
interpersonali di mutuo riconoscimento. Gli effetti dell’irriconoscibilità diventano così anche
materiali, incidendo sulla retribuzione e la possibilità di contare sulla propria attività musciale.
Cavell parla di un “risk of isolation”, ossia l’essere costretti a ritirarsi nell’autoreferenzialità
solipsistica di un mondo non condiviso con altri.

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V
Per ampliare l’orizzonte di ciò che è contemplato e risultare originale, il jazzista
sottopone la propria identità sonora ad una sorta di differimento. Facendolo, però, va
incontro alla minaccia di irriconoscibilità. E il riconoscimento, oltre ad istituire l’identità,
alimenta la reputazione, la sedimentazione che un attore lascia dietro di sé in forma di
giudizio sulla propria condotta da parte di altri.
In alcuni casi, come per i membri di Arkestra (Sun Ra), l'agire comune diventa
grati cante perchè, stando insieme, si realizza una solidarietà interpersonale che elimina ogni
esigenza di riconoscimento esterno. Nel quadro di questa strategia volta a fare comunità, può
essere interpretato pure l’emergere dei numerosi centri comunitari d’arte che proliferano nel
corso degli anni Sessanta. Si delinea la volontà di cambiare lo status del jazzista, non come
entertainer che da spettacolo ma artista che sperimenta, curatore che documenta e attivista che
si impegna sul fronte comunitario. Questi esempi non attestano solo l’istituzione di una
versione consapevolmente razziale dell’identità collettiva. Il punto chiave è che si ripara al
senso di ingiustizia raggruppandosi sotto una medesima insegna identi cante. La reiterazione
del rapporto, poi, conferma e rafforza il riconoscimento di identità. Inoltre, il proposito di
questi gruppi si lega anche alla politica dei “luoghi” poiché emerge il desiderio di risituare la
pratica performativa al di fuori dello spazio deputato (il jazz club, posto solitamente in
quartieri bianchi e comunque gestito da bianchi) radicandosi nei luoghi di lotta delle
comunità afroamericane. La musica assume gradualmente una funzione rituale e cessa di
essere solo merce di intrattenimento, diventando “esecuzione” culturale che “realizza” la
comunità. Una comunità performativa, priva di territorio e sovranità, che però connette
musicisti e uditorio in qualcosa che trascende i singoli individui e con gura anche un’altra
ipotesi di società.

Conclusione: stretto in una morsa tra l’esigenza di sottoporre a differimento la propria


identità per risultare originale e la necessità di riconoscimento, il jazzista si trova esposto ad
una dialettica da cui non può uscire, non su un piano esclusivamente individuale ma legato al
macrolivello dell’identità afroamericana. Data la vicenda drammatica della deportazione,
poiché “scegliere” una musica così ef mera come quella improvvisata? Sullo sfondo della
deportazione nel continente americano, la musica diventa la prestazione speci ca che
permette di riprodurre socialità e formare le condizioni per ottenere una de nizione diversa
rispetto allo stigma offensivo. L’afroamericano, spogliato dei dispositivi che normalmente
funzionano da spunto o segnale attraverso il quale il riconoscimento si può realizzare (lingua,
vestiti, nomi, ornamenti,ecc.). ed è proprio il venir meno dello spazio dell’apparire che riduce
la vita dello schiavo, il “bios” a vita meramente biologica, a “zoe”. La musica ha fatto sì che gli
afroamericani fossero percepiti non solo come vittime ma come attori contrassegnati dalla
capacità di azione comune e di "dare inizio" a qualcosa di nuovo, dalla potenza del
cominciare. L'effetto della musica è quello di portare una collettività a riconoscersi quale
radicata in una continuità e in un tempo proprio che, per quanto doloroso, permette di
innescare il processo di riconoscimento grazie al quale la stessa comunità si con gura. La

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musica jazz diventa così produttrice della coscienza di una continuità e la conferma di
un'identità che riesce a perdurare nel tempo. Inoltre, il jazz manifesta la sua portata
identitaria opponendosi alla de- singolarizzazione, la tendenza razzista a trattare ogni
individuo come “specimen” di un tipo (l'attributo "nero" si riferisce ad un'intera classe di
individui ritenuti equivalenti e dunque sostituibili). La musica jazz pertanto diventa dimora e
lingua comune ma anche dispositivo identitario per umanizzare e riscattare l'esperienza
subita. Dovrebbe essere una compensazione reattiva alla ferita ontologica del mancato
riconoscimento e la pratica dell'improvvisazione musicale è basata sull'accettazione di quella
che è al tempo stesso la fatale vulnerabilità e la caratteristica essenziale più bella della musica
ossia la sua transitorietà. Se l'identità corrisponde ad un tentativo di esorcizzare la
transitorietà, di combatterla, l'improvvisazione vi convive.

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