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Daniele Nigris
Nella nostra vita abbiamo a che fare con spazi, oggetti, animali e piante, con altre
persone, con il nostro stesso corpo, e con un'immagine di noi stessi (per quanto precaria e
suscettibile di ridefinizione) che ci deriva dalla nostra capacità di riflessione autocosciente.
Quest'immagine è in relazione continua e strettissima con gli altri aspetti dell'esperienza
soggettiva: sia con quelli materiali, come gli spazi e gli oggetti, sia con quelli sociali, le
dinamiche dell'interazione con altri individui. Quest'idea della nostra unicità ha ricevuto i nomi
più svariati: anima, ragione, mente, self. In questo scritto, propongo un'analisi della relazione
tra l'esperienza che l'individuo fa del mondo e di se stesso in relazione con il mondo, e gli
aspetti materiali e sociali che fanno da contorno interattivo alla sua fisicità: il caso
dell'ambiente ospedaliero, analizzato dal punto di vista del paziente, è un mezzo per mettere in
luce quanto la stabilità di ognuno di noi dipenda dagli spazi, dai tempi e dai modi nei quali gli
altri interagiscono con lui. Le analisi e le considerazioni qui riportate nascono dalle
osservazioni fatte durante un periodo di degenza in ospedale, e da svariati colloqui e interviste
con medici e infermieri, e con persone che hanno fatto l'esperienza dell'ospedalizzazione.
Cooley (1902), a proposito delle emozioni che proviamo nell'interagire con gli altri,
parlava di sensazioni come "orgoglio o mortificazione" [pride or mortification]. Goffman
(1956) usava il termine "imbarazzo" [embarassment], utilizzandolo in diretta relazione con la
gerarchia strutturata delle dimostrazioni di deferenza proprie delle situazioni sociali che
compongono l'interazione quotidiana. Il mio fine è quello di descrivere la condizione in cui ci
troviamo quando ci sentiamo spogliati, diminuiti, misconosciuti, trovandoci in una situazione
dove, a dispetto di ciò che noi sappiamo - o crediamo - di essere e di valere, nessuno, almeno di
primo acchito, sembra tenerne conto.
In questo paragrafo e nel successivo, definisco alcuni concetti di cui farò uso: identità
autopercepita, immagine autopercepita, immagine presentata e identità percepite; cercherò di
delineare i loro legami con l'esperienza microsociale e materiale dell'individuo.
La traduzione delle opere di Erving Goffman, soprattutto di Presentation of self in
everyday life (1959), ha recato con sé l'abitudine ad un uso disinvolto del termine self,
variamente tradotto ma raramente definito da parte di chi lo utilizzava. Di fatto, tale termine è
stato spesso usato in modo per così dire evocativo, connotativo, tale da non far comprendere in
modo chiaro quale fosse l'estensione del concetto cui gli autori si riferivano.
È stato recentemente sottolineato con grande autorevolezza da Giovanni Jervis (1994)
come l'equivoco nasca alla radice da un problema di carattere semantico: self in inglese non è
termine appartenente al linguaggio scientifico (se non nell'uso particolare che alcuni autori -
principalmente psicologi - ne hanno fatto; però in quei casi si tratta di un uso interno ad un
certo contesto teorico, e il termine viene definito formalmente). Self è prima di tutto una
1
Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
1"(...) the integrated unity of subjective experience specif. including those characteristics and
attributes of the experiencing organism of which it is reflexively aware".
2["(...)the subjective sense of his own situation and his own continuity and character that an
individual comes to obtain as a result of his various social experiences"].
3["(...) aspect of one's personality predominant at a certain time or under certain conditions <his
better ~> <his weaker ~>". Il Webster fornisce poi un'altra accezione significativa: self come "(...) qualità
o modo del comportamento considerato come tipico di un particolare individuo <il suo vero ~ (...)>"
["(...) a personality or mode of behavior regarded as typical of a particular individual <his true ~
(...)>"]. Si tratta evidentemente di un'idea di carattere sostanzialistico dell'individualità, difficilmente
accettabile all'interno di un quadro di riferimento empirico.
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
Il legame tra la nostra percezione della nostra identità e del nostro status sociale, e le
percezioni che di queste caratteristiche si fanno le altre persone è uno dei nodi teorici di
maggiore interesse per una sociologia della quotidianità, e si lega alle acquisizioni e alle
problematiche aperte di altre scienze dell'uomo e della società. Le categorie di elementi che
giocano un ruolo in proposito sono tre: corpo, abiti e oggetti, spazi.
Innanzitutto, il corpo. Goffman ha posto alla base della sua proposta analitica un
concetto di individuo che si segnala per una caratteristica: l'incessante lavoro di produzione
segnica (Eco 1975) che pone in essere, e la forte coscienza - che a tratti assume caratteri di
cosciente manipolazione - che del suo lavoro semiotico egli possiede. (Preciso che d'ora
innanzi, quando faccio uso del termine semiotico, il riferimento è sempre ad una semiotica
situazionale, e cioè sociale, i cui limiti sono culturalmente definiti, secondo quanto Goffman
stesso suggeriva in Mental symptoms (1964) ).
Il mondo fisico descritto da Goffman è permeato di valori, è un mondo morale in senso
durkheimiano, ed è esclusivamente in base all'onnipervasività delle regole morali che
l'interazione possiede quel carattere di forte strutturazione che appare essere la sua caratteristica
principale. Già in Presentation si ritrova la statuizione fondamentale: l'azione, che è sempre
anche azione comunicativa (ha luogo nell'interazione, e cioè in compresenza) è radicalmente
morale, poiché la pretesa di essere trattati dagli altri per come si appare, poggia sulla
promessa implicita di essere veramente ciò che sembriamo. Ma l'esistenza di una regola
implica la possibilità che chi la conosce la usi per mentire. Ecco dunque la natura
potenzialmente amorale dell'interazione: l'apparenza visibile, che è nella maggior parte degli
incontri che facciamo ogni giorno tutto ciò che abbiamo a disposizione per "farci un'idea" di chi
4Non possiamo presentare un'identità. Presentiamo una configurazione materiale di elementi che,
interpretati, danno luogo ad inferenze circa la nostra identità possibile. L'identità autopercepita è un puro
costrutto mentale, di grande importanza come guida per l'azione dell'essere umano nell'arco della vita, ma
privo di qualsiasi connotazione sostanzialistica.
5Quello che la persona presenta è un'immagine. Quello che gli altri vedono è un'immagine sulla base
della quale (e dell'informazione biografica di cui dispongono) costruiscono inferenze. Il sé contenuto
nell'espressione presentazione di sé è tutto quello che è nella nostra possibilità di presentare al mondo, e
cioè appunto un'immagine. È in questo senso che Goffman aveva perfettamente ragione quando sosteneva
che il self, lungi dall'essere un'entità e una causa, è un effetto drammaturgico, che sorge dalla, nella e per
effetto dell'interazione faccia-a-faccia. Quello che dall'analisi di Goffman non sempre appare con
chiarezza è quale sia secondo lui la natura dell'attività inferenziale nella durata, e cioè all'interno di una
relazione che si protragga nel tempo.
6Parlando dei risultati degli atti inferenziali che gli altri compiono sulla base della nostra apparenza,
dobbiamo chiaramente parlare al plurale: il risultato - l'identità che chi ci osserva inferisce - è frutto sì
della nostra immagine presentata, ma è alla radice, come qualunque atto inferenziale di carattere non
esclusivamente logico, frutto dell'interpretazione di un soggetto che ragiona a partire dai suoi valori, idee,
preferenze, interessi, e via dicendo.
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
abbiamo davanti, è anche il più importante mezzo semiotico per mentire sfruttando a nostro
favore le regole morali che soggiaciono alla quotidianità7.
C'è però a mio parere una distinzione da fare all'interno del concetto goffmaniano di
social identity. Noi non ci limitiamo a possedere un senso della nostra unità biografica e delle
nostre caratteristiche caratteriali e morali, ma coltiviamo anche un'immagine - perlopiù
imprecisa - della nostra apparenza fisica. Non mi riferisco tanto all'idea che abbiamo del nostro
corpo come entità più o meno stabile nel tempo, quanto - in modo molto più banale -
all'apparenza fisica che una persona ritiene di avere in un momento dato. Chiamerò questo
elemento immagine autopercepita.
La distinzione è semplice: passeggiando per la strada, io penso di apparire come una
persona con certe caratteristiche, di tipo sia morale, sia fisico. Le caratteristiche inerenti alla
sfera morale e biografica si assommano in quella che ho definito come identità autopercepita.
La mia apparenza fisica per come l'immagino in quel dato momento, è ciò che definisco
immagine autopercepita.
D'altronde, io posso benissimo non essermi accorto di avere la camicia macchiata, o la
cerniera dei pantaloni abbassata. E mentre io mi considero appena un po' robusto, a chi mi
incontra potrei sembrare poco meno che obeso. Tutti questi elementi concorrono a formare
quello che gli altri vedono di me, e cioè la mia immagine presentata, che coincide in gran
parte8 con quello che vedrei in quel momento io stesso, se avessi uno specchio di fronte. Ma gli
altri si fanno un'impressione di me proprio in base a quello che vedono incontrandomi. Ecco le
immagini percepite: ciò che le persone inferiscono a proposito delle nostre qualità biografiche,
morali, lavorative, etniche, religiose... in base alle proprie personali mediazioni della nostra
apparenza visibile per come esse la percepiscono.
La fisicità presenta due aspetti, in merito sia alle nostre microattività semiotiche, sia alla
nostra percezione della nostra stessa immagine: da un lato, il corpo è un oggetto deperibile, un
involucro la cui caratteristica è di recare man mano su di sé i segni del tempo, e delle
esperienze di vita che facciamo. Ma da un altro lato, il corpo è anche un sostegno di abiti,
ornamenti, acconciature dei capelli, svariati tipi di pitture del viso o del corpo. Chiamo
(processo di) iscrizione spontanea il progredire delle tracce del tempo sulla carne -
comprendendo naturalmente ogni aspetto visibile, dalla maturazione del corpo dell'adolescente
al deperimento del corpo del morente; definisco invece costruzione temporanea le componenti
non corporee facenti parte dell'immagine presentata. Fino ad un paio di decenni fa, potevamo -
in linea di massima - intervenire esclusivamente sul secondo ordine di fattori. Oggi, grazie ai
progressi9 della chirurgia estetica, le nostre possibilità di manipolazione al riguardo si sono
decisamente allargate - e si sono allargate di converso le frontiere del desiderio nei confronti di
un altro io che potrebbe, un giorno, guardarmi dallo specchio. In questo modo, le due categorie
sopra proposte si sono certamente in qualche modo confuse, eppure c'è una valida ragione per
mantenerle separate: nel momento in cui l'individuo si ritrova sottoposto ad una serie di
7Eco definisce la semiotica: "disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire" (Eco
1975, p. 17). Qualsiasi cosa è suscettibile di attribuzione di significato (dal livello dei significati condivisi
da un'intera area culturale sovranazionale, al livello dei significati immaginati da una sola persona). Ma,
nel momento in cui un significato è condiviso da almeno due persone, si apre la possibilità dell'inganno: la
cosa può stare per ciò che l'altro si aspetta, oppure può apparire come se stesse per ciò che l'altro si
aspetta (ma in realtà sta per qualcosa d'altro).
8In parte, perché su molte cose, come ad esempio la valutazione sul nostro grado di pinguedine, siamo
molto indulgenti con noi stessi, e di fatto spesso non vediamo alcuni aspetti di noi stessi.
9Talvolta sono effettivamente dei progressi. Altre volte, è arduo impiegare questo termine per
descriverne gli effetti. Cfr. Alexander (1990).
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
culturalmente codificato dello spazio tra gli individui in quanto appartenenti a diversi gruppi,
classi sociali, caste, ha un valore simbolico onnipervasivo e cogente. Del resto, come
sottolineato da Goffman (1971) e da Henley (1977), lo spazio ha una caratteristica affatto
particolare: è appropriabile. Appropriabile sia dal punto di vista delle caratteristiche di
contiguità con il corpo (mi prendo dello spazio con il mio stesso corpo; estendendo gli arti in
varie direzioni; muovendomi), sia secondo codici culturali variabili: tra culture diverse, e
all'interno di una stessa cultura, i diritti legittimamente rivendicabili sullo spazio pericorporeo e
intercorporeo sono distribuiti in modo ineguale (e prevalentemente secondo linee che ricalcano
le divisioni di status vigenti all'interno dell'organizzazione sociale globale).
Ricavo dalla vasta tassonomia spaziale dei "territori del sé" di Goffman (1971, cap. 2)
due importanti categorie: il territorio possedibile [possessional territory], e la riserva
conversazionale [conversational preserve]. Il territorio possedibile è individuato da "(...)
qualunque insieme di oggetti10 che possa essere identificato con la propria persona e disposto
attorno al corpo, ovunque esso si trovi"11. Il territorio possedibile è dunque una sorta di
estensione di diritti legittimi, ancorché solo temporanei (ma su questa temporaneità potremmo
discutere), che una persona reclama su una porzione di spazio di uso comune. La riserva
conversazionale è quel tipo di diritto che gli individui riuniti possono pretendere di veder
riconosciuto a proposito dell'inviolabilità delle loro interazioni dialogiche. La conversazione
può non venire udita, ma deve anche sembrare che non venga udita: quando due persone
parlano tra loro, non è sufficiente che una terza persona estranea, ma presente al colloquio, non
stia ascoltando: è previsto che dia dei segnali visibili del fatto che non sta ascoltando quanto
viene detto.
Definiti i termini di fondo del quadro d'analisi, li riassumo in tre affermazioni:
1) Tra la percezione che noi abbiamo di noi stessi come continuità biografica e posizione
sociale, e le impressioni che gli altri ricevono di noi nell'interazione, non c'è corrispondenza
necessaria.
2) L'immagine che presentiamo - base percettiva per le altrui inferenze su di noi - è
composta dal nostro corpo, dagli oggetti in nostro possesso, e dal nostro uso dello spazio.
3) Tra la nostra immagine che gli altri percepiscono nell'interazione, e la nostra
percezione della nostra stessa immagine, non c'è corrispondenza necessaria. Rimane un fatto: la
base ineliminabile per le inferenze degli altri su di noi è costituita dall'immagine che
presentiamo12.
Possiamo suddividere le situazioni di interazione a seconda che il riconoscimento sociale
venga negato all'individuo perché ha mancato nel presentare l'immagine che il suo ruolo
prevede (un'insegnante che si presenta ubriaca in classe), oppure perché, mancando
un'informazione inequivoca, o essendo l'informazione valutata come ininfluente, il ruolo sociale
di maggiore significatività per la persona, e con esso la sua stessa immagine autopercepita,
vengono sminuiti - o direttamente ignorati. La situazione dell'essere ricoverati in ospedale porta
spesso a fare la conoscenza di questi meccanismi.
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
In Asylums (1961), Goffman sottolinea la funzione svolta dagli oggetti personali e dagli
ornamenti del corpo per il mantenimento di una presentazione efficace della propria immagine,
oltre che per la conservazione dell'immagine - e della stessa identità - autopercepita. Lo studio
di Goffman va alla radice del problema13, illustrando ciò che accade all'individuo quando si
trova inserito all'interno di una struttura sociale (quella dell'ospedale psichiatrico) dove i suoi
diritti comunicativi e relazionali sono fortemente limitati rispetto a quelli di un'altra categoria di
persone (lo staff medico); dove la sottrazione programmata di oggetti e abiti, e il taglio dei
capelli riducono a zero la sua possibilità di presentare al prossimo un'immagine di se stesso che
non sia quella dell'alienato; dove però paradossalmente questo non ha una grossa importanza,
poiché il ricoverato viene comunque definito e percepito come una non-persona14, privo di uno
status comunicativo ed interazionale pari a quello degli individui considerati conclamatamente
razionali.
Nell'ospedale generale l'ambiguità è maggiore, per una serie di ragioni, che nel caso
dell'ospedale psichiatrico. Nel reparto ospedaliero, infatti, la sottrazione dei supporti materiali
dell'identità è ben minore che nell'altro caso, e la definizione sociale del paziente non arriva in
genere alla riduzione al livello della non-persona. Nonostante questo, però, in ospedale i diritti
comunicativi e relazionali del paziente sono asimmetrici rispetto a quelli dei membri dello staff;
la sua possibilità di far valere il suo status personale è molto ridotta; e la sua possibilità di
gestire la presentazione della propria immagine è pressoché impedita sia dalla patologia in sé,
sia dalla situazione di interazione nei confronti di medici ed infermieri, sia dalle caratteristiche
socio-spaziali del reparto. L'ambiguità di questa situazione risiede, principalmente, nel fatto che
il paziente sa di dover trascorre in quel luogo un periodo transitorio e generalmente piuttosto
limitato, e dunque tende a vedere una sostanziale continuità tra il dentro ed il fuori, e proprio
per questo percepisce con fastidio la propria impossibilità a fornire quell'immagine di se stesso
che in genere è abituato a fornire.
Sul piano descrittivo, l'ingresso nell'istituzione avviene secondo modalità abbastanza
standardizzate. Si viene accolti, tranne i casi di ricovero per urgenze come gli incidenti stradali,
direttamente nel reparto dove avverrà la degenza; il primo momento consiste nella
compilazione della scheda d'ingresso. Le domande sono quelle che ogni organizzazione
porrebbe ragionevolmente a qualcuno della cui custodia temporanea dovesse farsi carico: in
questo la differenza con gli enti militari, o con altre pubbliche amministrazioni, è quasi
insignificante. Espletata questa formalità, non si è più persone con un vissuto, un lavoro, una
storia personale: si è diventati dei pazienti, si è passati dal mondo della differenza a quello
dell'uniformità. Il passaggio è sancito definitivamente dalla fase di stripping (Coe 1978): la
spoliazione dagli abiti personali e la vestizione con pigiami o, nel caso delle donne, vestaglie.
Gli abiti personali vengono riposti in stipetti o, se lo spazio è carente, portati via da chi
ha accompagnato il paziente all'ospedale. Gli oggetti personali che il paziente voglia trattenere
con sé, che potranno comunque essere pochi e non ingombranti, vengono collocati in comodini
a fianco dei letti. In queste operazioni il paziente viene in genere aiutato dagli accompagnatori,
che una volta terminate le operazioni devono abbandonare il reparto, e sospendere
13Ancora più alla radice andò Bettelheim già nel 1943, con il suo primo articolo (Bettelheim, 1943)
sull'esperienza da lui subita della reclusione concentrazionaria ad opera dei nazisti. Le sue parole non
hanno perso a tutt'oggi nulla della loro atroce capacità di metterci in guardia sugli effetti comunque tragici
di ogni tipo di eliminazione delle differenze interindividuali.
14Sul concetto di non-persona (nonperson), cfr. Goffman (1959), cap.4 e Goffman (1963a), cap. 3,
par. 3.
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pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
temporaneamente la collocazione cognitiva del parente nel mondo di fuori (tanto che diventa
pratica discorsiva normale spiegare agli amici che il parente "è dentro in ospedale").
Lasciato solo (è in genere quella la sensazione, indipendentemente da quante persone
condividano la stanza), il paziente prova l'immediato disagio di una presenza comune, in abiti
che non lasciano trapelare alcunché sulle sue caratteristiche personali, sui suoi hobbies, sui suoi
gusti, sul suo lavoro; in una parola: sulla sua identità autopercepita. In più il paziente è
cosciente del fatto che la sua apparenza fisica non è in grado di agevolarlo affatto nel presentare
un'immagine di sé che lo aiuti a superare quel gap: in fondo, in pigiama ci assomigliamo un po'
tutti, e dopo poche ore di letto la capigliatura è ridotta a mal partito. E del resto, gli ambiti
discorsivi sono condizionati fortemente dalla comunanza di destino cui tutti i compagni di
camerata sono soggetti: al di là delle loro differenze individuali, che hanno valore al di fuori,
essi si trovano in quel reparto per una ragione che li accomuna - temporaneamente - più di
quanto le personali biografie li dividano. (Questo punto di vista si rivela peraltro ingenuo
quando si osservino casi in cui il degente è un membro dello stesso staff medico dell'ospedale).
Così, le prime ore di ricovero trascorrono, per quanto la malattia o il dolore lo consentano, in
una situazione di attenzione non evidente, finalizzata a capire dal discorso, dagli atteggiamenti
o dall'aspetto dei compagni di stanza chi o che cosa essi siano, e che cosa ci si possa aspettare
da loro (i compagni di stanza naturalmente staranno, ognuno per conto proprio, adottando
un'identica strategia nei confronti del nuovo arrivato).
Se nella stanza si è avviata un'interazione dialogica, il problema è parzialmente risolto; il
paziente inizia a fornire, o quantomeno a lasciar trapelare informazioni su se stesso e sulla
propria vita reale; in questo modo può ridurre la frattura con la normalità, riuscendo a
riacquistare almeno in parte le caratteristiche di collocazione sociale nel flusso del discorso cui
è abituato. Fino al momento della prima visita dei medici, si ristabilisce pertanto una (falsa)
comunità di eguali: la comunità degli accomunati dalla patologia (che sono e restano dei
differenti, quanto lo possono essere un giudice e un mendicante che si trovino in due letti
affiancati, entrambi in attesa della medesima cura o del medesimo intervento).
Sul piano analitico, i momenti del processo di istituzionalizzazione nell'ospedale sono
tre: livellamento, limitazione e riduzione. Il livellamento coincide in massima parte con la
spoliazione. La sottrazione degli accessori, degli abiti, di una gran parte degli oggetti di cui ci si
circonda abitualmente ha un impatto comunque significativo sull'individuo, e tanto più
significativo quanto più la persona dipende cognitivamente dai supporti materiali della sua
immagine. Ognuno deve essere solo e semplicemente un paziente; e se vi sono delle evidenti
ragioni di carattere pratico per l'uso dei pigiami, delle ciabatte e delle vestaglie, ciononostante
non ci possiamo nascondere l'importanza del momento simbolico che essi sottendono: gli abiti
del paziente sono anche degli abiti da paziente, una sorta di uniforme che livella, eguaglia
(apparentemente) le differenze sociali e personali tra i ricoverati.
L'ospedale può del resto essere definito come una distribuzione organizzata di tempi,
spazi e corpi finalizzata alla cura e al ristabilimento fisico e psichico della popolazione di un
sistema sociale. Nel concetto di distribuzione organizzata, è insito il concetto di limitazione, e
cioè di controllo: alle limitazioni di carattere motorio che le varie patologie implicano di per sé,
si accompagnano quelle limitazioni di movimento per i pazienti che sono considerate necessarie
per il buon funzionamento dei reparti, e le limitazioni alla libera disponibilità del tempo dei
pazienti stessi: l'ospedale è un'organizzazione le cui componenti lavorano con un alto grado di
autonomia, ma al tempo stesso con un alto grado di compenetrazione organizzativa. Ciò implica
una pluralità di sequenze di operazioni che si intrecciano vicendevolmente con altre sequenze,
fino a permettere il raggiungimento del risultato operativamente migliore con il minore
dispendio teorico di energie (tempo compreso), e con il minimo tasso di errori operativi
possibile. Oggetto - non soggetti - di questa rete complessa di procedure sono naturalmente i
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pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
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pazienti ricoverati, che fanno in questo modo un'interessante esperienza della condizione
sociale dell'uomo: quella di aver ceduto una parte rilevante della propria sfera di libertà15 in
cambio della garanzia sociale che il collettivo si prenda cura di noi in modi che a nessuno di noi
individualmente sarebbero possibili.
Per riduzione intendo il particolare processo che ognuno dei ricoverati percepisce
avvenire attorno a sé e riguardarlo: nel reparto, chiunque è un individuo parziale,
tendenzialmente coincidente con la patologia di cui è latore, e possessore di limitati diritti a far
valere di sé delle definizioni che non siano in linea con quella di "malato"; incidentalmente, del
resto, bisogna far notare come da un punto di vista strettamente funzionale non ci sia nulla di
strano in questo, dal momento che l'eguaglianza formale del paziente con un altro paziente è
anche presupposto - teorico - di eguale trattamento tra i due. Ciò che è singolare, è che tutti
sono eguali nel senso che sono egualmente ridotti al rango di corpi malati, sia dal punto di
vista dell'organizzazione formale dei reparti, sia dal punto di vista delle pratiche discorsive e
relazionali.
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pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
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frequente all'interno della situazione comunicativa strutturata che possiamo chiamare "visita
dell'équipe dei medici".
Solitamente, i medici paiono essere convinti che l'uso della seconda persona singolare nel
rivolgersi ai pazienti sia un modo per mettere immediatamente a loro agio le persone ricoverate.
Di fatto, quello che avviene è un'interazione discorsiva ineguale, all'interno della quale una
parte è titolata ad usare allocutivamente16 la seconda persona singolare, il "tu", mentre all'altra
viene riservata la situazione di minore diritto, che si esprime nell'attesa di un allocutivo
deferenziale, e cioè della terza persona singolare, il "lei". Il problema, naturalmente, non è
quello di rivendicare un utilizzo paritario delle forme dell'allocuzione, quanto quello di
comprendere come, attraverso una pratica discorsiva strutturata in questa maniera, si aggiunga
un altro piano al livellamento: non solo più corpi e tutti eguali in quanto corpi, ma tutti
pazienti17, e tutti eguali in quanto pazienti, di fronte a quella classe a parte che in questo modo
appaiono i medici. Il livellamento delle differenze interindividuali tra i pazienti singolarmente
presi si accompagna qui alla loro sussunzione discorsiva come categoria inferiore alla categoria
medica collettivamente considerata.
Una seconda pratica discorsiva che pare estremamente diffusa consiste nell'uso della
terza persona riferita al paziente adoperata da parte dei membri dello staff medico con il
paziente presente. Il significato della comunicazione non può sfuggire: scienza e razionalità
stanno da una parte, ansia e ignoranza dal'altra. I modi per ridurre l'impatto di questo tipo di
comunicazione, estremamente svilente per l'identità autopercepita del paziente, non sembrano
in genere ottenere grandi effetti, anche perché le spiegazioni che vengono fornite sono spesso di
carattere estremamente riduttivo sia dal punto di vista del lessico usato, sia dal punto di vista
del contenuto - una sorta di "medicina spiegata al popolo" che in un'età di vasta diffusione
dell'informazione scientifica divulgativa può fare sorridere, se non addirittura risultare
derisoria.
La situazione di "prima visita" non è la sola che mette in luce l'utilizzo di pratiche
comunicative spersonalizzanti nei confronti dell'identità autopercepita dei pazienti. Alcune
pratiche di questo tipo riguardano il rapporto con il personale paramedico: un'analisi di un
reparto geriatrico, e al suo interno delle pratiche tattili aventi funzione espressiva utilizzate da
parte del personale infermieristico (Watson 1975), offre l'occasione per una riflessione. L'uso
del tatto, assieme allo sguardo, è la più importante fonte di riconoscimento dell'altro a livello
non-verbale (Argyle 1988). Attività come quelle di servizio corporale richiedono un'alto livello
di manipolazione. Ma naturalmente la manipolazione non deve necessariamente rispecchiare
una situazione di necessità, dal momento che il tocco interpersonale assolve anche una
importantissima funzione a livello affettivo, di rassicurazione, di rilassamento dalla tensione.
Quello che Watson evidenzia nella sua ricerca è che al crescere del rango all'interno della
categoria infermieristica corrispondeva un calo dell'uso espressivo del tatto, che veniva sempre
più limitandosi alle necessità funzionali. La cosa è tanto più singolare e grave, se si tiene conto
che l'ambiente della ricerca era una casa di riposo, dove la dimostrazione di una dimensione
affettiva nel trattamento può assumere un'importanza affatto particolare. In genere, comunque,
credo si possa dire che il comportamento tattile degli infermieri assume difficilmente caratteri
di manifestazione espressiva, tendendo piuttosto a configurarsi come una manifestazione
puramente operativa, una manipolazione del corpo, al di là del significato che quel gesto
potrebbe avere per la persona. Chiaramente, vi sono delle situazioni in cui le parti sembrano
rovesciarsi: l'atto dell'assistenza all'evacuazione intestinale da supini richiede ovviamente una
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pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
forte spersonalizzazione del tocco per ridurre al massimo sia l'imbarazzo del paziente, sia la
possibile connotazione sessuata dei gesti, dato il tipo di zone corporee che vengono in quel caso
a costituire il fulcro dell'azione tattile. Ciò non toglie però che le pratiche tattili del personale
infermieristico sembrano essere ispirate in ogni occasione da un'idea del tatto incentrato sulla
patologia, e non sulla centralità della persona, ammalata o menomata.
Una seconda situazione particolarmente dura per il paziente è stata definita riferimento
metonimico da Young (1989). Il personale infermieristico, quando ritiene di non essere udito
da parte dei pazienti, si riferisce abitualmente alle persone ricoverate sotto la fattispecie
retorica, appunto, della pars pro toto: "il bacino della stanza 6", o "l'ernia del letto 12". C'è
anche un altro modo di riferirsi ai paziente, che chiameremo riferimento metaforico: ad
esempio, "il letto 32". Il paziente viene cioè oggettivizzato e spersonalizzato sotto la specie
della patologia, o del numero di letto, o di entrambi. Il fatto che questo tipo di pratica a livello
discorsivo non corrisponda realmente ad un atteggiamento di distacco dalla sofferenza dei
pazienti, non può farci ignorare la caratteristica affatto particolare di reificazione dell'umano
che un dialogo improntato su quel tipo di riferimenti appare contenere. Si pensi poi che simili
scambi di battute sono spesso facilmente captati da parte degli stessi pazienti, poiché finiscono
per costituire materia delle comunicazioni che il personale si scambia anche a distanza, come
ad esempio da un capo all'altro del corridoio.
Diversi filoni di studio hanno messo in luce l'importanza dello spazio, del suo uso e della
sua appropriazione ("comportamento territoriale") da parte degli esseri umani. La situazione
sociale del ricovero presenta interessanti aspetti a questo proposito.
Noi tendiamo in maniera del tutto spontanea ad appropriarci degli spazi e degli oggetti, e
a farne delle piccole riserve - non di caccia, ma di caccia simbolica: caccia di una sicurezza, di
un già noto che ci aiuti a mettere ordine nel flusso caotico dell'esperienza. Così facciamo nostro
un angolo particolare della casa; andiamo a sederci sempre nel nostro tavolo (che poi è nostro
come di altri innumerevoli clienti, ma per il mondo cognitivo di ognuno di noi è il nostro
tavolo) al ristorante; e riproduciamo questo tipo di meccanismi anche e soprattutto in situazioni
in cui la nostra insicurezza nei confronti dell'esperienza è alta, e minima la nostra possibilità di
porvi rimedio. Esaminerò tre casi: il letto del paziente; le parti comuni della camerata e le parti
percepite come riservate; i locali del reparto.
Un termine con cui gli americani si riferiscono talvolta a quella che Hall (1966)
chiamava la zona intima (la zona immediatamente pericorporea dello spazio) è quello di bolla
[bubble]. Ma la nostra percezione dello spazio corporeo tende ad estendersi a particolari
categorie di oggetti con cui il corpo appare essere in strettissimo contatto. Un chiaro esempio a
proposito è offerto dal letto in ospedale: probabilmente per la ragione che il corpo - essendovi
disteso - percepisce qualsiasi movimento della superficie, il paziente tende a sentire quasi come
un'appendice della propria materialità la superficie sulla quale poggia. Possiamo, allora, parlare
di bed-bubble, la bolla-letto, dove la distinzione tra confine del corpo e confine del letto non è
dopotutto così netta. Una delle ragioni di questo tipo di percezione è dato probabilmente dal
fatto che il corpo - più debole, più vulnerabile - risponde con maggiore sensibilità agli stimoli
esterni; ma non è da escludere una particolare importanza da attribuirsi anche ad una volontà di
carattere etologico di mantenere saldi i propri confini cognitivi nel momento in cui si è stati
costretti a vivere e dormire con dei perfetti sconosciuti. A questo proposito, le differenze di
comportamento tra i pazienti che si possono muovere e quelli che sono bloccati a letto sono
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
piuttosto vistose; il problema della territorialità si manifesta in tutta la sua importanza quando si
viene costretti a cambiare stanza: si deve iniziare da capo una negoziazione sociale, ma ci si
deve allo stesso tempo adattare nuovamente ad un letto che non è quello di casa propria, ad un
nuovo comodino, ad un nuovo panorama da una nuova finestra,...
Un altro aspetto interessante è quello relativo ai territori possedibili e alle riserve
conversazionali (nella terminologia di Goffman): queste due categorie assumono rilevanza
nell'analisi della camerata come spazio comune. Analizzerò tre elementi: due dinamiche di
carattere centripeto, e una di carattere policentrico.
La prima dinamica di carattere centripeto può essere osservata al momento dei pasti, e
consiste nell'abbandono dei letti per portarsi (dove sia presente) sul tavolo al centro della
stanza. In questo caso il tavolo è vissuto come uno spazio comune, ma i singoli posti no. Come
in qualsiasi situazione sociale ripetuta nel tempo, si assisterà nella maggior parte delle
situazioni, all'appropriazione di un posto tendenzialmente fisso a tavola, che la persona
mantiene - salvo cause di forza maggiore - per tutta la durata della sua permanenza in quella
camerata, e questo anche se il numero delle persone nell'ambiente è basso. In genere, il posto
che si raggiunge è quello più vicino al proprio letto in linea d'aria. La caratteristica di territorio
possedibile è rafforzata dal fatto che talvolta i pazienti lasciano al loro posto sul tavolo un
oggetto personale18.
Una seconda dinamica di carattere centripeto consiste nell'appropriazione temporanea del
tavolo al centro della camerata da parte di uno dei pazienti, e di una o più persone venute in
visita. In questo caso, il centro della stanza assume una caratteristica di territorio posseduto (ne
viene, sia pure pro tempore, fatto un uso esclusivo), e al tempo stesso di riserva
conversazionale: due usi di carattere marcatamente privato. Gli altri pazienti si trovano a
disagio in questo caso: dal momento che i letti puntano verso il centro della stanza, ed essendo i
loro sguardi puntati sul tavolo, si trovano nell'imbarazzante situazione di essere al tempo stesso
estranei al colloquio che si svolge di fronte a loro, e di non poter di fatto non osservare ed
ascoltare le persone sedute al tavolo.
Diverso è il caso delle visite in cui i visitatori si siedono accanto al letto del paziente: la
dinamica in questo caso è di carattere policentrico; si creano cioè delle piccole riserve
conversazionali comprendenti i letti e lo spazio circostante ad ognuno di essi, che vengono
vissute come parti private della stanza19 per tutta la durata dell'interazione dialogica. Ciò
permette a chi in quel momento non riceve visite di poter assumere una posizione naturale sul
letto, puntando lo sguardo verso il centro della stanza e scambiando occhiate con chi gli sta di
fronte, senza essere costretto a dare prova di rispetto rituale delle conversazioni in atto.
Il reparto è d'altro canto - per chi è in grado di muoversi - un territorio diviso in aree
accessibili, ed aree che sono riservate a particolari categorie di persone. Le sale operatorie,
quando siano interne al reparto, gli ambulatori dei medici, le sale di medicazione, le sale di
ricovero dei pazienti appena operati e le stanze degli infermieri sono ambienti dove l'ingresso
dei pazienti non è previsto. I diritti territoriali sono ineguali; le ragioni sono di carattere pratico,
ma anche direttamente collegate alle divisioni in termini di status e di ruoli all'interno del
reparto. Il diritto è cioè ineguale tra le categorie (medici, caposala, infermieri, inservienti,
pazienti) in rapporto a differenti tipi di ambiente, e anche tra le diverse categorie in rapporto al
medesimo ambiente. A proposito del primo caso: un medico può entrare nell'ambulatorio dove
un collega sta visitando un paziente, un inserviente non può farlo; un inserviente può entrare in
uno stanzino di disbrigo, ma un paziente dovrebbe giustificare la ragione per cui vi si trovasse;
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
in tutti gli ambienti, i pazienti sono in ogni caso la categoria di persone i cui diritti territoriali
sono maggiormente limitati. Per quanto riguarda il rapporto tra i diritti delle varie categorie e
un medesimo ambiente, la ricerca di Rawlings (1989) è interessante a riguardo: l'autrice ci
mostra come, all'interno di un'unità di sterilizzazione, i medici non rispettino sempre le norme
riguardanti l'asetticità degli indumenti da lavoro, cosa cui tutti gli infermieri sono
rigorosamente tenuti. Rawlings, che ha condotto la sua analisi in base a presupposti
etnometodologici, sostiene che questo atteggiamento non viene stigmatizzato dagli addetti alle
operazioni di sterilizzazione in base ad una pratica implicita soggiacente, che consisterebbe
nell'equazione "medico uguale persona che conosce le regole meglio di chiunque altro, uguale
persona che può violarle perché sa ciò che sta facendo". Se si può muovere un appunto a questa
ricercatrice, è nell'aver sottovalutato la possibilità che la dimensione potere gerarchico giochi
un ruolo importante: i medici sono i responsabili dei reparti, ed è ben difficile che un infermiere
si metta nella difficile situazione di riprendere un superiore, correndo il rischio di esporsi a
ritorsioni di vario tipo. Ovviamente, ciò vale a maggior ragione per i pazienti, privi per
definizione di competenze di carattere scientifico.
Gli oggetti, lungi dall'essere semplici prolungamenti del corpo nello spazio, hanno la
caratteristica di essere potenti estensioni - e proiettori ad un tempo - dell'immagine e
dell'identità. Nelle situazioni di deprivazione emotiva e cognitiva come quella dell'ospedale, gli
oggetti - le piccole proprietà personali - assumono un'importanza affatto particolare.
Innanzittutto: non ci possiamo limitare ad una considerazione dell'oggetto che il paziente
tiene con sé dal solo punto di vista strumentale. L'oggetto - qualunque oggetto, come abbiamo
visto - assume una dimensione intrinsecamente semiotica, che ciò fosse o meno nelle intenzioni
della persona che ne fa uso. Chi legge durante la degenza viene visto in modo diverso da chi
passa il tempo ascoltando musica, e chi legge un romanzo poliziesco, viene visto in modo
diverso da chi legge un ponderoso testo di storia. Chi legge può, naturalmente, leggere per
interesse, oppure può scegliere di leggere quel dato testo in quella situazione per suggerire di sé
una certa immagine - che può essere utilizzata per incoraggiare o, all'opposto, per scoraggiare
tentativi di apertura dialogica. L'esempio del libro vale ovviamente per qualsiasi oggetto che il
paziente tenga con sé: registratori, nastri di musica, giochi elettronici, apparecchi radio o
televisivi, computers portatili, telefoni cellulari, fogli di carta su cui scrivere, oggetti personali
della più svariata natura.
Ma c'è un aspetto, quello affettivo, che a questo riguardo è ancora più interessante. Farò
uso, per illustrarlo, del concetto di nidificazione [nesting]. Per nidificazione, mi riferisco in
questo contesto al processo di ritaglio di proprie dimensioni di libertà all'interno di uno spazio
fisico e relazionale il cui uso sia socialmente definito secondo regole date. L'esempio è
semplice: l'infermiere che tiene nella stanza degli infermieri un testo di sociologia, e durante il
turno di notte approfitta per addentrarsi nei meandri di quest'affascinante disciplina, sta
nidificando: sta, cioè, utilizzando una porzione di tempo libero - di fatto, ma non di diritto - per
un'attività non prevista dalle regole sociali che governano quel luogo, ed il suo ruolo in quel
luogo. Se parliamo di dimensioni affettive o espressive, poi, la nidificazione assume un aspetto
meno direttamente collegato ad un'attività, e più direttamente collegato ad un oggetto: nidifico
ad esempio tappezzando il mio studio di specialista ortopedico con fotografie di mia moglie;
così mi sento immerso in quell'atmosfera calda, rassicurante da cui il mio lavoro mi tiene
lontano per molte ore - eppure, non svolgo in questo modo alcuna attività in senso stretto.
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
I pazienti tengono spesso con sé oggetti cui sono legati con una valenza mediata: oggetti,
cioè, che legano la persona ad un'altra persona non presente. Pupazzi, fotografie, oggettini
apparentemente inutili - soprattutto in un ambiente come la camerata di un ospedale -
compaiono spesso sui comodini, soprattutto se la persona non riceve visite frequenti per ragioni
legate alla distanza da casa. È la libertà dell'uomo che, nidificando, si ribella alla costrizione
della razionalità funzionale, e lo fa attraverso gli oggetti: sfuggiamo alla pressione sociale
mediante queste ingenue, ma accanite contropressioni, le cui dimensioni fisiche consentono
quasi in ogni situazione una fuga dalle miserie della realtà quotidiana: un pupazzetto regalatoci
dall'amata non occupa molto spazio fisico, pur occupando uno spazio forse enorme nel nostro
mondo emozionale. Si tratta di un delicato aspetto della nostra esperienza di vita, un aspetto che
allude in modo non equivoco alla nostra costitutiva debolezza, al nostro non bastare a noi stessi,
quella caratteristica che Crespi (1993) definisce l'insicurezza ontologica dell'essere umano.
7. Conclusioni
20"Alors même que, en fait, je puis m'affranchir de ces règles et les violer avec succès, ce n'est jamais
sans être obligé de lutter contre elles." (Durkheim 1895, cap. I)
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
Bibliografia
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
The presentation of self in everyday life, New York: Doubleday, edizione riveduta e ampliata
della prima edizione (Edinburgh: University of Edinburgh Press,1956); trad.it.: La vita
quotidiana come rappresentazione, Bologna: Il Mulino, 1986 (II ed.)
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Daniele Nigris
pubblicato su «I Fogli di Oriss», 1994, 1/2, pp. 53-78, e su «Psichiatria
generale e dell'età evolutiva», 1994 (XXXII), 2, pp. 169-193
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