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SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE (LIBRO F.

BONI)
CAPITOLO 1

L’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA


La prima prospettiva che esaminiamo è quella che si occupa dell’interazione faccia a faccia. Cosa si
intende per questo?
Uno dei padri fondatori della sociologia, Emile Durkheim sostiene che tutte le religioni hanno in
comune almeno due elementi:
 Insieme di credenze: sono stati di opinione, ovvero qualcosa in cui si crede
 Insieme di riti: sono comportamenti, o più precisamente dei modi di agire determinati
rigidamente.
Ervin Goffman si occupa dei rituali dell’interazione quotidiana, che definisce come:

“una standardizzazione, ottenuta attraverso il processo di socializzazione, del comportamento


corporeo e vocale, una standardizzazione che consente a tale comportamento di assumere una
funzione comunicativa specializzata.”

A partire dagli insegnamenti di Durkheim, Goffman sostiene che, nella società contemporanea, il
culto dell’individuo ha sostituito il culto della divinità.

Goffman distingue due tipi di rituali della vita quotidiana:


1. DEFERENZA: quella componente dell’attività che funziona come strumento simbolico col
quale si esprime regolarmente a una persona il proprio apprezzamento nei confronti di
qualcosa di cui questa persona è assunta come simbolo, estensione o agente.
2. CONTEGNO: è l’elemento del comportamento cerimoniale dell’individuo tipicamente
manifestato mediante l’atteggiamento, il modo di vestire o il muoversi e che serve a
comunicare a coloro che sono in sua presenza che egli è una persona che possiede certe
qualità desiderabili o indesiderabili.

La deferenza si può esprimere attraverso due forme molto importanti rappresentate dai rituali di
discrezione e rituali di presentazione

Implicano una serie Consistono in una serie di


di proscrizioni, ovvero prescrizioni. Sono come i
quello che non bisogna rituali positivi. Si presentano
fare. Sono come i rituali sotto forma di rituali di ratifica
negativi. e rituali di accesso.

VIOLAZIONI E RIPARAZIONI RITUALI


«Quando distinguiamo fra quel che si può dire e fare a un destinatario e quello che non si può,
dovrebbe essere chiaro che fra queste due forme di deferenza vi è un implicito contrasto e conflitto.
Chiedere a una persona come sta, se i suoi familiari stanno bene, o come vanno gli affari, significa
testimoniarle il proprio affettuoso interesse. Tuttavia, dimostrare questo interesse significa anche
invadere la sfera personale dell’individuo, come diviene evidente se queste domande vengono
rivolte da una persona di status sociale inferiore, oppure se un fatto recente rende dolorosa la
risposta» (Goffman 1967).

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TIPI DI TERRITORIO (TERRITORI DEL SE’)
 Lo spazio personale: spazio che circonda l’individuo; è una sorta di bolla la cui intrusione da
parte degli altri genera un notevole fastidio.
 La nicchia: spazio ben delimitato all’interno del quale l’individuo ha pretese temporanee ma
esclusive (es. cabina telefonica, posto nel bus, treno o in aula universitaria).
 Lo spazio d’uso: è un territorio che un individuo può rivendicare per una necessità
strumentale.
 Il turno: si tratta dell’“ordine in cui in una situazione specifica un rivendicante riceve
rispetto ad altri un bene di qualche tipo”.
 La guaina: corrisponde alla pelle e ai nostri vestiti.
 La riserva di possesso: insieme di oggetti che può venire identificato con il sé, e che “sta
per” il possessore (es. effetti personali o la giacca che avevamo lasciato sulla poltrona del
cinema e indicare il nostro posto).
 La riserva di informazione: è il controllo che l’individuo esercita su un insieme di fatti che
lo riguardano quando è insieme ad altri. Possiamo definirla come la nostra “privacy”.
 La riserva conversazionale: è la pretesa rivendicata da ciascuno di “controllare chi può
invitarlo alla conversazione e il momento in cui può essere invitato a farlo”.

TIPI DI MARCA
Le marche sono dei contrassegni che indicano che li c’è un territorio.
Possono essere:
 Centrali: come la giacca “segnaposto” sulla poltrona del cinema
 Di confine: come il bracciolo della poltrona del cinema
 Incorporate: come quando “marchio” un oggetto per rivendicarlo quale parte del mio
territorio (es. possono firmare un libro, o marchiare un animale).

TIPI DI VIOLAZIONE
 La posizione: quando un individuo si trova troppo vicino
 Il tocco: quando un corpo viola le parti di un’altra persona
 La penetrazione visiva: attraverso lo sguardo
 La penetrazione sonora: attraverso la voce
 La penetrazione conversazionale: qualcuno che si rivolge ad una persona che non conosce
importunandola o anche quando un individuo si intromette in una conversazione
 Le secrezioni corporee: mediante odore, starnuti

Secondo Goffman, l’interazione faccia a faccia è spesso definita in senso stretto come ciò che
traspira unicamente nelle situazioni sociali, cioè in ambiti nei quali due o più individui sono
fisicamente l’uno alla presenza dell’altro.

TIPICHE SITUAZIONI DELL’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA


 I singoli come “unità veicolari”: regole del traffico: esternazione ed esplorazione
 Gli insiemi come “unità di partecipazione”: vantaggi, svantaggi, “segni di legame”
 “interazioni non focalizzate”: il coinvolgimento
 “interazioni focalizzate”: incontri, disattenzione civile.

“INTERAZIONI NON FOCALIZZATE”

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Quando gli individui si trovano l’uno in presenza dell’altro, in circostanze in cui non è richiesta una
comunicazione verbale, essi si impegnano in una comunicazione di un certo tipo, nel senso che in
ogni situazione la comprensione è legata ad alcuni elementi non per forza connessi, per via diretta,
alle comunicazioni verbali. Questi comprendono l’aspetto fisico e gli atti personali: il modo di
vestirsi, il comportamento, il movimento e la posizione, il volume della voce, gesti fisici come
salutare con la mano o salutare militarmente, il trucco del volto e l’espressione generale delle
proprie emozioni.

“INTERAZIONI FOCALIZZATE”
L’interazione focalizzata riguarda i gruppi di individui che si «trasmettono l’un altro una particolare
autorizzazione a comunicare, e mantengono un tipo particolare di attività reciproca che può
escludere altri, presenti nella situazione»

LA “DISATTENZIONE CIVILE”
«La disattenzione civile non equivale al semplice ignorarsi reciprocamente. Ciascuno segnala
all'altro di aver preso atto della sua presenza, ma evita qualsiasi gesto che potrebbe essere
interpretato come troppo invadente. Assumere questo atteggiamento nei confronti degli altri è
qualcosa che facciamo più o meno inconsciamente, ma risulta di fondamentale importanza nella
nostra vita quotidiana. Lo studio di queste forme di interazione sociale apparentemente
insignificanti è di grande importanza per la sociologia e costituisce una delle aree più ricche di
spunti per l'indagine sociologica» (Giddens, Sutton, 2014)

In primo luogo, quell[a] standard, per cui due passanti si guardano tra loro finché non giungono a
due o tre metri l’uno dall’altro, quando abbassano gli occhi, come due macchine che incrociandosi
smorzano i fari. In termini linguistici si direbbe che questo sia il comportamento non marcato,
quello più normale. Ma esiste anche una quantità di variazioni sul tema, che sono invece marcate e
che permettono di esprimere significati particolari. Per esempio, il trattamento della «non-persona»,
che consiste nell’ignorare manifestamente la presenza dell’altro, come spesso facciamo se qualcuno
ci importuna per strada; l’attenzione incivile, attraverso la quale si sottopone qualcuno a un giudizio
impietoso, come avviene spesso nei riguardi degli stigmatizzati; l’approccio sessuale, segnalato con
uno sguardo intenzionale che indugia più del dovuto» (ibidem).

LA GESTIONE DEL SELF


Modi in cui, mediante gesti, parole e segni del corpo, tentiamo di rendere le apparenze il più
possibile normali, a beneficio non solo della nostra incolumità, ma dell’apparente normalità
dell’interazione stessa
 “distanza dal ruolo”
Stigma: controllo dell’informazione
 Senso cognitivo degli attori
La loro possibilità di definire unicamente la situazione: le apparenze normali sono il
prodotto di una costruzione, a cui partecipano tutte le persone coinvolte in un’interazione.

STIGMA
Secondo Goffman è la società a stabilire quali strumenti debbano essere usatti per dividere le
persone in categorie e quel complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali nel
definire l’appartenenza a una di quelle categorie.
Quando ci troviamo davanti ad un estraneo, è probabile che il suo aspetto immediato ci consenta di
stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e quali sono i suoi attributi, qual è la sua identità
sociale; in questo contesto attributi personali come l’onestà si presentano insieme ad attributi
strutturali come l’occupazione.

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Ci fidiamo delle supposizioni che abbiamo fatto, le trasformiamo in pretese normative e quindi in
pretese inequivocabili.

Il termine “stigma” e i suoi sinonimi contengono in sé una doppia prospettiva:


L’individuo stigmatizzato presuppone che la propria diversità sia già conosciuta, o a prima vista
evidente: si tratta dello SCREDITATO;
Lo stigmatizzato presuppone che la propria diversità non sia conosciuta dai presenti né
immediatamente percepibile: si tratta dello SCREDITABILE (controllo dell’informazione relativa
all’attributo stigmatizzante).

SCREDITATO: quando l’estraneo che ci troviamo di fronte ha dei segni che lo rendono in qualche
modo “diverso” dagli altri, ci facciamo subito un’idea di lui. Un segno di questo tipo è chiamato da
Goffman “stigma”, che possiamo dividere in almeno tre categorie:
1. Le deformazioni fisiche
2. Gli aspetti criticabili del carattere, che vengono percepiti come mancanza di volontà,
passioni sfrenate o innaturali, credenze malefiche e dogmatiche, disonestà.
3. Gli stigmi tribali della razza, della nazione e della religione.

CAPITOLO 2

LE CORNICI E LE PARENTESI DELLA COMUNICAZIONE

Facendo riferimento alla distinzione tra comunicazione e informazione parliamo di informazione


espressa e informazione comunicata.

Nel caso dell’informazione espressa rientrano tutte le informazioni che trasudiamo tipo nel tempo e
queste informazioni hanno delle caratteristiche particolari.
L’interazione faccia a faccia non è l’unica situazione in cui un individuo può esprimere
informazioni. Anche l’interazione mediata assolve a tale compito in maniera eccellente.

L’informazione comunicata è quel tipo di informazione in cui gli individui non offrono espressioni,
ma comunicazioni.

Nel flusso dell’interazione faccia a faccia abbiamo un misto di comunicazione e informazioni,


l’individuo trasuda espressioni e trasmette comunicazione.

IL CONTESTO
Bisogna dare importanza al contesto per poter comprendere qualunque scambio comunicativo, così
come di una qualunque situazione. È solo grazie al contesto che siamo in grado di dare un senso a
ciò che avviene nell’interazione faccia a faccia.

La prospettiva sociologica ci aiuta ad analizzare il contesto, restituendone tutta la complessità,


facciamo così riferimento al FRAME (elaborato da Goffman).
Cos’è il “frame”?

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 È una cornice, che mettiamo intorno agli eventi e ci permette di rispondere alla domanda
“che cosa sta succedendo qui?” Le cornici danno un significato a ciò che avviene al loro
interno. Orienta la comprensione dei messaggi e indica quale tipo di ragionamento
impiegare per la loro corretta interpretazione. Quando mettiamo delle cornici cognitive
attorno a delle situazioni, esse possono cambiare ma con lo stesso contenuto.

A questo punto va fatta una distinzione: quella tra frames primari e frames secondari:
 Frames primari: riguardano cornici che organizzano il mondo della realtà quotidiana e
possono a loro volta essere suddivisi in:
 Frames primari naturali: determinati dal mondo fisico (es. distinzione tra luce e buio,
età, sesso)
 Frames primari sociali: riguardano il mondo sociale
 Frames secondari: riguardano proprio quelle operazioni di aggiustamento dei frames
primari, che avvengono nel momento in cui noi ci rendiamo conto che il significato che
abbiamo attribuito ad una cornice è sbagliato; quindi, c’è la necessità di avere una nuova
cornice, una nuova chiave interpretativa della situazione dove siamo inseriti. Si possono
trasformare in due categorie:
1. Keying: riguarda quelle situazioni in cui le persone presenti sono consapevoli della
trasformazione in atto (es. quando si gioca, quando si prende parte a una
competizione sportiva).
2. Fabrication: riguardano quei casi in cui non tutte le persone sono al corrente della
trasformazione avvenuta. Ci sono quindi degli ingannatori e dei beffati.
FABBRICAZIONI “BENIGNE”: sono quelle che si definiscono come ideate
nell’interesse della persona «contenuta» in esse, o, se non proprio nel suo interesse,
almeno non contro il suo interesse. Qui la rivelazione involontaria fa crollare il
progetto rivelato e può rendere l’ingannato in qualche modo sospettoso nei confronti
della stessa operazione in futuro, ma non dovrebbe portare grande danno al carattere
morale dell’operatore dell’inganno» (ex: l’inganno scherzoso; la «beffa
sperimentale»; le «beffe di formazione»; i «test vitali»; le «costruzioni
paternalistiche»).
FABBRICAZIONI “SPERIMENTALI”: si deve ora considerare la seconda categoria
di fabbricazioni, il tipo sperimentale: una parte che contiene altri in una costruzione
che è chiaramente ostile ai loro interessi privati, qui definiti «interessi privati» nel
senso in cui sarebbero definiti dalla comunità» (Ex: camuffamento; barare a carte;
truffa)
Per preparare una fabrication è necessario che due o più individui comunichino tra
loro di nascosto, questo tipo di comunicazione è la comunicazione collusiva.

LE SCATOLE CINESI DELLA COMUNICAZIONE


Il parlare è come un mucchio di letame strutturale, un mucchio d’immondizia nel quale si
troveranno frammenti e scarti di tutti i modi di incorniciare attività nella cultura (le tecniche,
strutturalmente diverse, per indurre esperienze negative sembrano essere tutte impiegate, anche se
solo in una forma fugace).

Ma cosa può essere detto del mucchio di letame oltre a riconoscere la competenza
comunicativa che dobbiamo avere per produrlo e per sopravvivere a ciò che abbiamo
prodotto?

Un’importante differenza che si può trovare, e che rende l’interazione verbale diversa da tutte le
attività dell’interazione faccia a faccia, è che proprio gli enunciati linguistici, e soprattutto le

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normali conversazioni (quelle che si portano avanti ogni giorno, in maniera informale e spesso
casuale), sono connessi con il mondo circostante in maniera debole e vaga. Questo rende il parlare
più vulnerabile di altre attività alle trasformazioni, siano esse lecite o illecite.

Spesso ciò che i parlanti intraprendono non è fornire informazioni a un ricevente, ma un presentare
drammi a un uditorio, passando gran parte del tempo ad essere impegnati non a dare informazioni,
ma a dare spettacoli.
Le cornici possono sovrapporsi tra di loro, es. due persone che litigano: un primo frame è il litigio,
però rimanendo sul posto e guardando i dettagli della conversazione possiamo avere un cambio di
frame, le parole posson essere dette con un affare scherzoso, quindi avremo un significato
differente.
Queste trasformazioni possono essere categorizzate in due tipi di trasformazioni:
Trasformazioni lecite: tipo di trasformazioni in cui tutti i partecipanti sono consapevoli di questo
passaggio di cornice (es. combattimento di wrestling, c’è un ring, riflettori, persone…, non stanno
litigando, ma lo stanno facendo in modo performativo, altro frame, tutti d’accordo.
Trasformazioni illecite: inganni, truffe
Analisi del frame legati agli atti del parlare, così come noi possiamo incominciare comportamenti,
le parole che utilizzano le persone in una conversazione. Diversi modi (insulti scherzosi, riletti e
incominciati in un altro frame).

DALLE CORNICI AL “SELF”


Solitamente, gli individui impegnati in una qualsiasi situazione comunicativa sono molto attenti a
segnalare quali siano le cornici giuste da applicare e quanto stanno dicendo. A questo proposito,
Goffman usa il termine di “brackets”, parentesi, per indicare i segni che demarcano i “limiti
dell’interpretazione”, forniscono a chi ascolta le principali coordinate per interpretare correttamente
ciò che si sta dicendo.
Ad ogni status corrisponde un ruolo: insieme delle aspettative relative allo status, ad esempio gli
studenti che devono studiare, insegnanti che devono spiegare e seguire gli studenti.

Come si articola meglio l’emittente, possiamo pensare a 3 funzioni che identificano 3 diverse entità:
1. ANIMATORE: chi fisicamente emette il messaggio (es. presentatrice televisiva), una specie
di megafono, di messaggi che però sono elaborati da altre persone. L’animatore è il messo,
colui o colei che trasmette il messaggio al destinatario.
2. AUTORE: colui che prende l’idea e la trasforma in messaggio, chi scrive le parole e le
battute.
3. RESPONSABILE: individuo a cui si può attribuire la maternità, paternità (es. “Simpson”,
creatore Matt Groening; azienda che assume agenzia che fa pubbliche relazioni. Pubbliche
relazioni in questo caso diventa animatore, qualcuno scrive le parole e diventa autore, ma il
responsabile rimane il presidente dell’azienda.
La ratifica è un punto molto importante, il fatto di non essere non ratificati non significa che non si
può partecipare, ma semplicemente non si è un destinatario ufficiale (passanti, il sentire persone che
parlano ad alta voce). Non ratificati possono partecipare pur senza pieno diritto.

Il ricevente viene “scomposto” in quello che Goffman chiama “schema di partecipazione” e che
vede gli ascoltatori ratificati e non ratificati.

1. Ascoltatori ratificati: sono coloro che hanno un accesso ufficiale ad ascoltare (es. il
professore con gli studenti).
2. Ascoltatori non ratificati: sono destinatari del messaggio che però non è rivolto a loro (es.
passo per strada e sento una coppia che sta litigando, un passante che vede può intervenire).
Gli ascoltatori non ratificati si distinguono in astanti e origlianti (es. spie, ficcanaso).
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Quali sono le conseguenze dell’adozione dei concetti di “formato di produzione” e “schema di
partecipazione” per l’approccio sociologico allo studio della comunicazione interpersonale?

È possibile vedere come tale distribuzione delle nozioni di emittente e ricevente comporti che la
posizione del parlante nei confronti dei suoi interlocutori possa cambiare con una certa frequenza
nel corso dell’interazione, e quindi debba venire definita e ridefinita ripetutamente. Goffman
chiama questa attività FOOTING: attività di ridefinizione e allineamento della posizione del
parlante nei confronti dei suoi interlocutori, caso in cui si sposta in una cornice ad un’altra rispetto
non al significato, ma alla posizione di chi parla; egli può rivestire allo stesso tempo dalla posizione
di animatore a quella di autore e poi responsabile del messaggio.
Un’altra prospettiva che Garfinkel propone di studiare nel contesto di un fatto comunicativo è
quella dell’etnometodologia: studio dei metodi utilizzati dagli individui per spiegare la realtà che li
circonda. Facciamo riferimento quindi ad un approccio sociologico che si concentra sui metodi con
i quali noi spieghiamo ciò che facciamo nella vita quotidiana. Sono metodi e risorse dei gruppi
specifici delle organizzazioni sociali, che hanno a disposizione per portare a termine i compiti della
vita quotidiana.

Gli “esperimenti di rottura” di Garfinkel sono situazioni sociali controllate che infrangono le regole
sociali, violando i modelli di comportamento consolidati.
Garfinkel cerca di capire quali siano le pratiche attraverso cui le persone producono l’intelligibilità
e l’oggettività del mondo sociale, intendendo tale produzione come il risultato di pratiche sociali e
non processi psicologici.

Le pratiche di accountability sono delle pratiche con cui rendiamo descrivibile e intelligibile il
mondo. Secondo Garfinkel sono due le caratteristiche principali:

1. INDICALITA’: termine che viene preso prestito dalla linguistica, in cui si definiscono come
indicali quelle espressioni comprensibili solo se le collochiamo all’interno di una specifica
situazione comunicativa (es. pronomi personali, il “tu”, che non ha un suo significato ma lo
assume in base a come lo usiamo noi in una conversazione).
2. RIFLESSIVITA’: (essere riflessibili) indica che le persone tendono inconsciamente a
interpretare ciò che accade in una determinata situazione come qualcosa di più generale.

Procedure del ragionamento di senso comune:

 Reciprocità delle aspettative


 Forme normali
 Principio degli “ed cetera”: tendenza delle persone a semplificare le implicazioni del loro
ambiente o delle proprie azioni mediante l’allusione, tacitamente condivisa ma mai provata,
ad una capacità di scendere più nel dettaglio (es. se in un teatro c’è il cartello “vietato
fumare” e gli attori si accendono una sigaretta sul palco, capisco che sono oggetti di scena e
che non devi mettermi ad urlare...)
 Vocabolari descrittivi come espressioni indicali

CAPITOLO 3

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LA CONVERSAZIONE

La conversazione è un’attività che presuppone anzitutto la cooperazione tra i partecipanti, ma la


sua natura è anche pianificante e contrattuale: chi interviene in una conversazione si impegna
infatti in uno scambio, accordandosi a portare avanti un discorso e questo discorso può essere
ovviamente una sfida.
La conversazione è anche negoziabile, dove i partecipanti devono avere il controllo della
situazione, ma lo possono fare tenendo conto della natura collettiva della situazione in corso.
Dunque, la conversazione, è un’attività sociale regolata, che prevede un’organizzazione sequenziali
delle fasi in cui si articola:

- l’apertura: è quella delle sequenze di apertura, e costituisce un momento critico poiché


rappresenta l’inizio della conversazione, determinandone le premesse per il suo svolgersi.
- lo sviluppo: avviene tramite il cosiddetto “meccanismo del turno”, che sovrintende a
un’attività molto ordinaria ma che è in realtà straordinaria.
Va inoltre considerato anche il silenzio all’interno della conversazione: se questo si trova
all’interno del turno di un parlante viene considerato una pausa e quindi il turno non viene
interrotto, ma se si trova tra un turno e l’altro viene percepito come una “scorrettezza
rituale” che va “riparata” al più presto.
- la chiusura: va negoziata coordinatamente, e chi attacca bottone impedendoci di sospendere
il meccanismo del turno non ci permette di portare a termine tale negoziazione. Per arrivare
alla chiusura della conversazione, si passa attraverso i “turni di pre-chiusura” di cui sono
tipiche forme verbali come “bene”, “allora”, “ok”, arrivando ai turni finali veri e propri.

Le strategie conversazionali sono piuttosto complesse, perché il locutore dovrà innanzitutto


assicurarsi di avere lo spazio necessario e perché gli interlocutori dovranno prodursi, in brevi turni
in cui manifesteranno la loro disponibilità a continuare ad ascoltare la storia, o le loro reazioni a
questa. Per prima cosa avremo una “premessa”, dove il locutore introdurrà la sua storia con frasi
del tipo “ieri mi è capitato qualcosa di davvero stravagante”. A questo punto il locutore
s’interrompe e i presenti possono prendere la parola per acconsentire alla sua richiesta di raccontare
la storia, oppure respingerla. Detto questo, rimane ancora da capire come sia possibile la perfetta
sincronia nel passaggio da un turno all’altro, tramite un meccanismo essenziale dell’organizzazione
della conversazione:
- le coppie adiacenti: sequenze composte da due enunciati collocati l’uno accanto all’altro da
due locutori diversi. Si tratta di un’organizzazione conversazionale molto comune, che
possiamo ritrovare nelle coppie “domanda-risposta”, “saluto-saluto”, “lamentela-scusa” …

Secondo Schegloff, le coppie adiacenti prevedono:


- la non-terminalità: chi riceve una risposta dopo averla sollecitata non può non continuare a
parlare
- la non-repetibilità: non si può ripetere una seconda volta la stessa sequenza (non posso
richiedere che ora è se lo ho appena chiesto!)
- la pertinenza condizionale: ad esempio, a domanda devo rispondere; non mi posso rifiutare
senza venire giudicato negativamente

Le coppie adiacenti funzionano in ogni momento della conversazione, dall’apertura, per tutto lo
svolgimento, fino alla chiusura.

Un’altra caratteristica della conversazione è quella delle sequenze laterali: sono tipiche anche dei
rituali di chiusura di una conversazione. Le sequenze di chiusura sono altrettanto critiche di quelle
di apertura. Una conversazione va pure, ad un certo punto, terminata, tuttavia se costituisce
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un’attività rituale, non può essere interrotta senza alcuni rituali di chiusura. La conversazione è
spesso caratterizzata dalle cosiddette procedure di correzione, che possono essere in genere di due
tipi:

- l’autocorrezione: praticata dal parlante che ha sbagliato


- l’eterocorrezione: praticata da altri partecipanti sul locutore che è stato colto in errore

Si tratta di una serie di procedure piuttosto delicate. Non tutti possono correggere il proprio
interlocutore, di solito lo può fare un superiore, per status gerarchico o per età. Tale situazione
prevede, comunque, una serie di complessi “rituali di riparazione”.

ALCUNI ASPETTI DELLA CONVERSAZIONE

1. ESSERE IN DISACCORDO PER ESSERE D’ACCORDO


Anita Pomerantz compie una serie di osservazioni molto interessanti che riguardano il modo
in cui cerchiamo di mostrarci d’accordo con i nostri interlocutori.
“Ciò è segno di sostegno, di rinforzo, forse di socievolezza, qualcosa che dimostra che
c’è condivisione, che i partecipanti sono a proprio agio.”

In una normale conversazione è tipico esprimere delle valutazioni. Si cerca sempre di evitare
lo stato di disagio, e si cerca una continua conferma delle proprie azioni e delle proprie
considerazioni al fine di mantenere l’allineamento con i propri interlocutori.
Per dimostrarsi d’accordo, l’interlocutore può agire secondo quello che Pomerantz chiama
“accordo preferito”, che consiste nell’essere d’accordo con la valutazione del primo
parlante o nel mostrarsi in disaccordo, proprio per ribadire di essere d’accordo.

ESEMPIO: se io dico: “quella è proprio una bella ragazza, vero?”, il mio interlocutore, per
mostrare il suo accordo, può accentuare o attenuare la mia valutazione.
La valutazione accentuata consisterà in un’espressione del tipo: “si, è veramente
meravigliosa!”.
La valutazione attenuata suonerà più o meno così: “si, è carina…”.
L’interlocutore deve anche mostrarsi in disaccordo. Un altro caso è quello che Pomerantz
chiama “accordo dispreferito”, in cui il parlante si produce un’auto-svalutazione per la
quale è prevista, nel turno successivo, un’espressione di accordo o disaccordo. Mostrare
accordo con il parlante, in questo caso, significherebbe essere scortesi e offensivi.
L’interlocutore può esprimere questo “accordo dispreferito” mediante una serie di
strategie: le ripetizioni, le negazioni, i complimenti.

2. “E ALLORA LUI HA DETTO…”: IL DISCORSO RIPORTATO


Marina Mizzau parla di questo proposito di “discorso riportato”, distinguendo tra discorso
indiretto (“Marco ha detto di essere andato al mare”), discorso diretto (“Marco ha detto:
sono andato al mare”) e discorso indiretto libero (“Marco lo ha detto. È andato al mare”).

3. “REPETITA INVANT”: LE FORME DI RIPETIZIONE


Come indicato da Carla Bazzanella, la ripetizione nell’analisi della conversazione è la
“riapparizione relativa allo stesso elemento linguistico formale”, che può essere un
singolo lessema, un sintagma più o meno complesso, un enunciato, più raramente un turno
intero. Le forme di ripetizione sono tre: l’auto-ripetizione, l’etero-ripetizione e la
ripetizione polifonica.

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L’AUTO-RIPETIZIONE: si ha quando lo stesso elemento formale riappare nel discorso
del parlante stesso, e quindi, in sostanza, quando il parlante si ripete. La ripetizione si può
trovare all’inizio del turno, per prendere appunto il turno, o alla fine, per cederlo.
L’ETERO-RIPETIZIONE: si ha quando lo stesso elemento formale riappare nel discorso
dell’interlocutore, che quindi ripete una parte o l’intero turno del parlante precedente. Esiste
anche il caso dell’etero-ripetizione differita, che compare a una certa distanza nella
conversazione, e che è particolarmente usata nei testi narrativi o cinematografici, dove può
“rivelare dei punti significativi di ‘svolta narrativa’”.
LA RIPETIZIONE POLIFONICA: consiste nella “ripresa a distanza di sintagmi fissi,
basati su stereotipi, routine conversazionali, slogan, proverbi, citazioni bibliche, ecc.”

Le ripetizioni hanno varie funzioni, in particolare servono come conferma della ricezione,
controllo della comprensione, correzione.

4. PER RIDERE. RACCONTARE LE BARZELLETTE


Una barzelletta si costruisce narrativamente su una collisione tra due diversi frames tra loro
incompatibili. È per questo che chi non ha dimestichezza con l’universo anche solo di uno
dei frames della barzelletta può non capirla. Raccontare una barzelletta significa anche
esporsi a un rischio interazionale. È evidente come chi vuole raccontare una barzelletta
debba non solo annunciarla, ma anche procedere nel racconto fino alla fine. Va quindi scelto
il momento giusto per introdurla.
Infine, la barzelletta richiede un impegno conversazionale complesso, che coinvolte chi la
racconta e chi l’ascolta, e che richiede alcune competenze non solo conversazionali ma
anche cognitive.

CONVERSAZIONE E MEDIA

Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi dedicati alle conversazioni presenti nei testi
mediali, a partire dallo studio di Goffman sui programmi radiofonici, passando per le interviste
televisive e arrivare all’analisi delle dinamiche comunicative nei talk show. La letteratura dispone
ormai di un certo numero di ricerche che si sono concentrate sulle modalità comunicative all’interno
di prodotti mediali. Due ricerche italiane importanti da analizzare sono:
1. CONVERSAIZIONI TELEFONICHE NEI QUIZ TELEVISIVI
Le conversazioni telefoniche nei quiz televisivi rappresentano un tentativo da parte di una
programmazione televisiva di raggiungere una dimensione sempre più interattiva con il
pubblico: il telefono è ormai lo strumento principale di molta TV che si vuole “vera”,
“reale”, ed è anche un’efficace marca della diretta, ulteriore prova di interattività della
conversazione audiovisiva. La conversazione telefonica, all’interno del gioco a quiz, non è
immediatamente mirata alla vincita del premio per la risposta corretta, ma è piena di
“oggetti di scambio”, il cui valore non è quello economico di mercato ma quello “morale”
di sociabilità. Ecco perché molti di questi giochi telefonici sono pieni di frasi stereotipate,
frasi fatte, modi di dire… perché questi hanno un’importanza fondamentale nel costruire gli
elementi mediante i quali si celebra il contatto tra l’emittente e il telespettatore.

La struttura tipica della telefonata nei giochi televisivi è la seguente:


a) l’apertura della telefonata (come quella di una normale conversazione) è un momento
critico e importante, perché costituisce l’introduzione a quel concetto di telespettatore
con l’emittente che è un aspetto essenziale delle trasmissioni di quiz telefonici.

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b) il gioco ha una struttura rituale tale per cui: se la risposta è positiva, corretta, giusta,
allora avvengono i rituali di esultanza, con festeggiamenti, i complimenti e la gioia; se
la risposta è negativa, scorretta, sbagliata, allora avvengono i rituali di mestizia, con
l’espressione di malinconia, dispiacere, tristezza.
c) la chiusura delle conversazioni telefoniche televisive prevede anch’essa una complessa
attività rituale, riassumibile in uno schema piuttosto ricorrente in cui al commento del
conduttore per la risposta segue l’accettazione da parte del concorrente, quindi i
ringraziamenti reciproci e i saluti. L’uscita dalla conversazione può essere anche
dilazionata.

2. IL CONFLITTO NELLA COMUNICAZIONE TELEVISIVA


Alcune ricerche si sono focalizzate su aspetti diversi dei rituali della conversazione rilevabili
nei contenuti televisivi. Nello studio sul conflitto della comunicazione quotidiana, Marina
Mizzau propone numerosi esempi tratti da programmi televisivi, soprattutto quelli inerenti
alla “poetica” del reality show, dove viene messa in scena una certa forma di “realtà”. Nelle
conversazioni televisive non ci si scambiano solo battute di cortesia come abbiamo visto
nella ricerca precedente.
“Nei programmi televisivi ci sovrapponiamo alle parole dell’interlocutrice, togliamo la
parola, ci insultiamo, ci offendiamo, ci disconfermiamo, cerchiamo di discreditare.
Inganniamo, tendiamo trappole, insidie. Facciamo insinuazioni malevole.”

Queste situazioni conflittuali avvengono comunque all’interno di un ordine rituale, che nel
caso delle trasmissioni televisive è molto accentuato da tutte quelle marche audiovisive,
compresa la scaletta, il ritmo della trasmissione e lo stile della conduzione, che rendono
riconoscibile il programma e il suo formato. Va ricordato che le situazioni conflittuali
analizzate sono tutte proprie di programmi televisivi, e che quindi hanno connaturati alla
propria logica vari elementi di spettacolarizzazione, tra cui un oggetto tipicamente presente
in trasmissioni come gli applausi.

Nell’analizzare la conversazione così come si sviluppa nei programmi televisivi bisogna tenere in
considerazione il fatto che i media hanno linguaggi specifici e peculiari. Aspetti come la diretta o il
microfono, sono, ad esempio, due elementi essenziali perché situazioni conflittuali come quelle
viste in precedenza possano avere luogo, soprattutto con quelle forme di drammatizzazione che
sono così caratteristiche di molti di questi momenti televisivi.

LA “CONVERSAZIONE MEDIATA DAL COMPUTER”

La comunicazione mediata dal computer prevede molteplici espressioni linguistiche e rituali. I


principali tipi di CMC possibili sono:

- la posta elettronica: (e-mail, electronic mail) consiste nell’invio di un messaggio testuale


ad un utente lontano in un momento di propria scelta, un messaggio che il ricevente leggerà,
in un momento e in una situazione di sua scelta, quando aprirà la propria casella di posta
elettronica.
La più comune forma di messaggio usato con la posta elettronica è di tipo testuale, è oggi
possibile spedire testi multimediali, allegando o inserendo all’interno del contenuto della e-
mail messaggi vocali o musicali, nonché immagini fisse (foto e altro) e in movimento.
- mailing list: è un’estensione della posta elettronica ad una pluralità di riceventi. Il testo del
messaggio, invece di essere inviato ad un solo utente, viene spedito dall’autore
automaticamente ad un certo numero di utenti interessati a riceverlo.

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- newsgroup: sono delle specie di “bacheche elettroniche” a tema a cui ogni membro iscritto
può accedere sia per leggere, in un momento di propria scelta, i messaggi inviati via e-mail
dagli altri iscritti sia per inviarne di propri al fine di contribuire alla discussione collettiva
che contraddistingue ciascun particolare newsgroup.

Queste tre forme di comunicazione condividono un aspetto sostanziale, cioè il fatto di essere
asincrone: gli utenti che le utilizzano non sono compresenti né in senso spaziale né in senso
temporale, e inoltre la spedizione e la lettura dei messaggi avvengono in momenti diversi.
Di norma mittente e destinatario dei messaggi si conoscono. Posso usare la posta elettronica per
mandare messaggi ad amici e conoscenti, o per chiedere l’orario delle lezioni ad un professore.
Esistono altre forme di CMC che sono dette sincrone, ovvero che avvengono nello stesso momento.
I principali tipi di CMC sincrona sono:

- ICQ: (“I seek you” = “ti cerco”), è un programma piuttosto recente che consente di
segnalare, ogni volta che ci si connette ad Internet, la presenza in linea di altri utenti che
hanno lo stesso programma e di iniziare, volendo, una discussione in tempo reale, sia
mediante l’invio di messaggi simili a delle e-mail, sia aprendo sullo schermo del proprio
computer due finestre contigue, in ciascuna delle quali due utenti possono digitare i propri
messaggi.
- MUD: (multi-users domain) sono programmi nei quali gli utenti possono connettersi e
giocare, spesso impegnati nell’esplorazione di nuovi mondi.
- IRC: (Internet relay chat), consiste in una “chiacchierata” fra utenti collegati a Internet. La
“chiacchierata” dell’IRC, avviene in “stanze vuote”, ed è essenzialmente testuale (anche se è
possibile inviare documenti multimediali).

Uno degli aspetti che rendono interessanti ai nostri fini le forme comunicative possibili al computer
è la mancanza di tutti quei codici della comunicazione non verbale che fanno diventare così
significative le interazioni comunicative tra parlanti in presenza.
La CMC prevede l’utilizzo di alcuni accorgimenti grafico-linguistici, tra i quali il caso più noto è
quello degli emoticons o smiley, cioè le “faccine” con le quali si completano spesso le frasi che
vengono inviate, con lo scopo di indicare l’umore o lo stato d’animo dell’interlocutore. Gli
emoticons sono insomma delle “glosse” con le quali si cerca di comprendere il messaggio che
viene inviato. Le combinazioni possibili sono molteplici: si possono comporre emoticons felici, ma
anche felicissimi o al contrario tristi o molto tristi, ma anche arrabbiati, ironici o disorientati…
In una conversazione offline posso arrossire involontariamente, ma anche in una conversazione
mediata dal computer l’eventuale arrossimento sarà del tutto volontario e mirato a ottenere un
determinato effetto sul mio interlocutore.

La necessità di digitare velocemente il testo sulla tastiera del computer ha come conseguenza quella
di ritrovarsi con qualcosa di molto simile al “testo di una sceneggiatura dove le battute dei
personaggi sono state messe a casaccio”. L’IRC viene utilizzato per improvvisare una sorta di
rappresentazione teatrale. In questa sceneggiatura dadaista i turni della conversazione si
sovrappongono, si perdono, si riprendono, dando vita a un testo incoerente e frammentario, di
difficile comprensione soprattutto per chi è poco abituato all’utilizzo di programmi per la CMC.
La seconda conseguenza dei vincoli imposti dall’estrema velocità con cui si devono digitare i
messaggi in una chat è quella dell’utilizzo di forme abbreviate di comunicazione, come “pls”
(please, per favore), “thx” (thanks, grazie) o acronimi quali “M o F” (maschio o femmina) e “dgt”
(digitare). L’interazione della CMC ha i propri rituali e le proprie performance, analizzabili con
strumenti piuttosto simili a quelli impiegati per le interazioni “in presenza”.

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CAPITOLO 4

LINGUAGGIO E SOCIETA’

Parlare di comunicazione interpersonale significa considerare vari aspetti degli atti comunicativi,
dove le componenti interazionali, espressive, corporee, gestuali, non verbali e verbali giocano
ognuna un ruolo fondamentale.

Il LINGUAGGIO è forse il più importante sistema di comunicazione umana e costituisce sia un


processo cognitivo sia un’attività simbolica, inseriti in un contesto essenzialmente sociale. È uno
strumento con cui “costruiamo” e legittimiamo la realtà che ci circonda.
Costituisce anche la prima forma di socializzazione: è lo strumento principale attraverso cui il
bambino diviene essere sociale, tramite la trasmissione e l’assimilazione dei modelli di vita e di
comportamento, delle norme, delle regole e dei valori del contesto sociale di appartenenza.
Da un punto di vista linguistico, il linguaggio viene considerato come un sistema di suoni e simboli,
analizzato entro 4 sfere tradizionali:

1. fonetica: studio del “materiale grezzo” dei segni linguistici, cioè i suoni
2. sintassi: studio dei principi che sottostanno all’ordinamento delle forme linguistiche in
sequenze accettabili
3. semantica: studio del significato
4. pragmatica: studio del modo in cui il linguaggio viene usato dai parlanti

Il linguaggio va distinto in “langue” e “parole”.


La “langue” (lingua) è l’insieme delle abitudini linguistiche che ci permettono di comprendere e di
farci comprendere.
La “parole” (eloquio) è la realizzazione pratica della lingua, la concreta esecuzione linguistica
nell’uso quotidiano e individuale del linguaggio.

IL LINGUAGGIO COME INTERAZIONE SOCIALE


Secondo Wittgenstein, parlare un linguaggio costituisce un’attività, e il significato di una parola è il
suo uso nel linguaggio stesso. Per comprendere il significato di quanto espresso dal linguaggio è
necessario conoscere le regole del gioco entro il quale il linguaggio stesso viene usato. Dal
momento che le regole del gioco sono stabilite per convenzione intersoggettiva, ne deriva che
l’analisi del linguaggio costituisce uno strumento per la comprensione dell’azione (dell’inter-
azione) sociale.
L’unità tra linguaggio e azione è il presupposto fondamentale della teoria degli atti linguistici,
elaborata da Austin e Searle, secondo cui enunciare una frase significa anche, compiere un’azione.
In questo caso il “dire” diventa “fare”, e il linguaggio diventa uno strumento dell’azione sociale.
Austin distingue 3 tipi di atti linguistici:

1. atto locutorio: azione che si compie nel pronunciare una parola


2. atto illocutorio: azione che si compie è, a seconda, ordinare, consigliare, promettere,
scusarci, ecc.
3. atto perlocutorio: consiste nella produzione di conseguenze sulla situazione, l’azione è ciò
di cui noi siamo responsabili

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In alcuni casi il dire è fare, e quindi solo dicendo qualcosa compiano un’azione che riguarda noi
come parlanti e i nostri interlocutori come riceventi del messaggio. Gli atti linguistici mettono in
risalto l’importanza della conoscenza delle regole sociali che sottostanno all’esecuzione di atti
comunicativi.

Il linguaggio costituisce il perno attorno a cui si è venuta a formare quella che è chiamata
“sociologia della vita quotidiana”, vale a dire quell’approccio microinterazionista che ha permesso
gli sviluppi di correnti diverse come l’analisi goffmaniana, l’etnometodologia e l’analisi delle
conversazioni.
L’origine sociale del linguaggio è solo un aspetto della relazione tra linguaggio e società. A seconda
dei diversi autori, il linguaggio assume una valenza differente:

- in Goffman è maggiormente rimarcata la dimensione di azione del linguaggio, il suo valore


di interazione strategica e il suo fondamento di guerra, polemico.
- in Garfinkel è sottolineato il costante rapporto tra il senso di ciò che si comunica e il
contesto, la situazione in cui avviene l’uso del linguaggio.

LINGUAGGIO E CONTESTO SOCIALE


Il concetto di competenza comunicativa può essere riferito a un contesto sociale ancora più ampio,
dove la dimensione negoziale e conflittuale si estende alle strutture sociali.
Secondo Habermas, la competenza comunicativa si fonda su una serie di universali costitutivi del
dialogo, e parte di essi coincidono con le procedure interpretative di Cicourel e prevedono anche un
aspetto normativo.

La competenza comunicativa può essere vista anche come una risorsa, come un “capitale
linguistico” che i parlanti investono nei giochi contrattuali della vita sociale, sia nelle sue
dimensioni più locali e microinterazionali, sia in quelle più “globali”. Può essere utile ricordare la
nozione di “mercato linguistico” proposta dal sociologo francese Bourdieu, secondo cui il mercato
linguistico consisterebbe in un certo tipo di leggi di formazione dei prezzi dei prodotti linguistici.
Queste leggi variano a seconda dei vari “mercati” delle diverse società, quindi in società diverse, a
una stessa produzione linguistica non verrà attribuito lo stesso valore.

Secondo Bourdieu:

se è legittimo considerare i rapporti sociali – e gli stessi rapporti di dominio – come interazioni
simboliche, come rapporti di comunicazione che implicano la conoscenza e il riconoscimento, non
si deve però dimenticare che i rapporti di comunicazione per eccellenza, quali sono gli scambi
linguistici, sono anche rapporti di potere simbolico in seno ai quali si attualizzano i rapporti di
forza tra i locutori o i loro gruppi rispettivi.

È qui in gioco la competenza “legittima”, ossia quella legata alle produzioni linguistiche “alte”
proprie di chi detiene la legittimità del potere:

L’accettabilità sociale non si limita alla sola accettabilità grammaticale. I locutori sprovvisti di
competenza legittima si trovano esclusi di fatto dagli universi sociali in cui essa è richiesta, o
condannati al silenzio. Ciò che è raro, dunque, non è la capacità di parlare che, essendo inscritta nel
patrimonio biologico, è universale, dunque essenzialmente non distintiva, ma la competenza
necessaria per parlare la lingua legittima che, poiché dipende dal patrimonio sociale, ritraduce le
distinzioni sociali nella logica propriamente simbolica [...] della distinzione. La costituzione di un
mercato linguistico crea le condizioni per una concorrenza oggettiva nella quale e per mezzo della

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quale la competenza legittima può funzionare come capitale linguistico che produce, in occasione di
ogni scambio sociale, un profitto di distinzione.

Tale competenza dominante può funzionare come capitale linguistico, solo se si verificano le
condizioni necessarie ai gruppi che la detengono di imporla come competenza legittima all’interno
dei vari “mercati”, come quello scolastico, accademico, politico, ecc.
La teoria di Bourdieu del capitale linguistico si lega anche alla teoria degli atti linguistici. Secondo
il sociologo francese, l’atto linguistico ha un certo effetto sullo status del ricevente, ma solo se il
locutore ha la legittimità di pronunciare l’atto. Altrimenti si tratta solo di parole a vuoto. Si tratta,
della questione della legittimità del potere: per avere il potere è necessario anche che chi è
sottoposto a tale potere riconosca l’autorità.

L’atto linguistico è un “rito di istituzione” nel senso che istituisce, sancisce un determinato stato di
cose, sanziona lo status del ricevente dell’atto.

DISUGUAGLIANZE
L’idea del linguaggio come “risorsa” si lega a una serie di studi e ricerche che hanno mostrato i
rapporti tra le trasformazioni della struttura e dell’uso del linguaggio e il mutamento sociale e il
rapporto rea linguaggio e stratificazione sociale.

Nel primo caso, la pronuncia degli abitanti di una grande città varia a seconda della loro classe
sociale. È importante questo perché dimostra che “le variazioni fonologiche non sono affatto
“libere”, ma corrispondono alla struttura della stratificazione sociale e possono essere
descritte e valutate in un ampio modello sociolinguistico.”

Nel caso di Bernstein (1973), l’attenzione è concentrata sulla relazione tra disuguaglianza
linguistica e disuguaglianza sociale, e si va a legare alla dimensione della socializzazione. Secondo
Bernstein, le diverse pratiche di socializzazione (legate anche alla classe sociale di appartenenza)
influenzano lo sviluppo del comportamento sociale del bambino, tramite l’uso di determinati
“codici” linguistici.

L’ultimo aspetto da esaminare è la questione della cosiddetta “comunicazione interculturale” e


soprattutto della relativa “competenza comunicativa interculturale”. Si intende l’insieme di risorse
(motivazioni, conoscenze e abilità) che permettono uno scambio comunicativo efficace e
appropriato tra parlanti con background culturali diversi. La comunicazione culturale è proprio
questo scambio comunicativo a cui è associato spesso il fenomeno di “miscommunication”, ovvero
di fraintendimento, malinteso e quindi fallimento della comunicazione.

Fabio Quassoli presenta almeno 3 formulazioni teoriche:

1) quella di Wiemann (1977), il quale prende spunto da una definizione di competenza


comunicativa come abilità nello scegliere, tra i comportamenti comunicativi a disposizione in una
situazione, la strategia migliore per:
- conseguire obiettivi di carattere strumentale
- salvare la faccia
- mantenere l’allineamento dei propri interlocutori entro gli obblighi normativi contestualmente
rilevanti.

2) quella di Spitzberg (1987) che riprende lo schema di Wiemann e lo inserisce in un modello


basato su 3 dimensioni dell’agire comunicativo:

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- motivazionale: ricomprende i bisogni che spingono gli individui a interagire, il grado di attrazione
che provano per i propri interlocutori, i legami sociali e la concezione di s. in gioco nelle
interazioni, oltre all’apertura verso l’acquisizione di nuove informazioni che siano di ausilio nella
comprensione di una situazione inedita
- pratica: riprende, sostanzialmente, lo schema di Wiemann, e include una serie di abilità sociali
(social skills) quali: capacità di raccogliere tutte le informazioni utili, di porsi dal punto di vista del
proprio interlocutore, di adattarsi a forme e stili inaspettati di comunicazione, di modificare il
proprio comportamento on the spot, di creare nuove categorie di lettura del comportamento e di
tollerare situazioni di ambiguità interpretativa.
- cognitiva: tollerare situazioni di ambiguità interpretativa. Per quanto concerne la dimensione
cognitiva, Spitzberg sottolinea l’importanza delle aspettative circa le modalità comunicative dei
propri interlocutori, della condivisione di un network comunicativo, della conoscenza di più d’una
prospettiva di lettura di quanto accade nel corso del processo comunicativo.

3) quella di Gudykunts è nota come Anxiety Uncertainty Management (1993), si basa su 4 livelli
analitici:
- individuale: riguarda motivazioni e interpretazioni appunto individuali
- interpersonale: l’attore agisce per nome e per conto di sé stesso
- intergruppo: l’attore agisce per nome e per conto di gruppi e organizzazioni collettive
- culturale: gli attori possono comunicare in modo simile o differente dai membri di altre culture.

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