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FILOSOFIA DEL DIRITTO: 28/09/2020

La realtà attuale è permeata dai dati. Gli uomini stessi sono dati che vivono una doppia dimensione, quella
reale e quella virtuale.
La nostra civiltà è una CIVILTÀ DEI DATI.

L'uomo in sé fluttua in una massa di dati e questo fluttuare fa sì che la nostra temporalità venga concepita
in modo diverso da come si è sempre fatto. Questo perché nella dimensione virtuale, non è possibile
affermare un modello temporale paragonabile al nostro tripartirci in passato, presente e futuro.
Nella dimensione virtuale, il soggetto digitale vive nel consumo di quel preciso momento.

In una civiltà come quella dei dati, non vi è più la figura della persona al centro ma quella dell'algoritmo.
L’ALGORITMO può essere inteso come una procedura certa nella quale ogni fase successiva è già contenuta
e quindi prevista dalla fase precedente.

Bisogna capire come si colloca il diritto in un contesto come quello della civiltà dei dati e bisogna capire se
l'algoritmo serve al diritto o se il diritto serve all'algoritmo.
Innanzitutto, il diritto nasce per custodire la libertà, e in esso la qualità del tempo e dello spazio è
determinata dalla scelta dell'individuo, non da ciò che è imposto esternamente. Tuttavia, la rivoluzione
digitale sta lentamente mettendo in discussione ciò e ci fa chiedere se il diritto sia a disposizione degli
uomini o sia contro di loro.

Nel momento in cui facciamo una scelta in rete, c'è dietro una lotta tra algoritmi in cui si afferma
l'algoritmo più veloce, l'algoritmo che arriva prima a me in qualità di consumatore-utente. Infatti, ci
accorgiamo di come gli algoritmi riescano ad anticipare una nostra probabile scelta attraverso la
PROFILAZIONE DI MASSA.
In questa profilazione di massa vediamo riflessa non la nostra identità ma quella che abbiamo contribuito a
creare attraverso dati immessi da noi stessi, di conseguenza possiamo considerarla un minimo parte della
nostra identità. Tutto ciò si ripercuote sulla nostra libertà perché ci domandiamo se siamo davvero liberi nel
momento in cui diamo i nostri consensi.

In questo senso si può dire che il giurista, in una civiltà come quella dei dati, perde parte del suo patrimonio
ovvero il sapere giuridico. Questo perché la realtà esteriore che si è modificata, incide anche su quella
interiore e quindi sulla percezione del diritto.

 ESISTE UNA CONVIVENZA POSSIBILE TRA DIRITTO E ALGORITMI?


 LE MODALITÀ DELLA VITA DIGITALE HANNO A CHE FARE CON LA LIBERTÀ?

Vediamo che vi è una pluralità di libertà che convergono poi nella LIBERTÀ GIURIDICA. Ogni singolo è
esposto alla sua libertà ed è quindi libero di esercitarla.
Tuttavia, diventa difficile parlare della libertà del singolo senza relazionarla dato che il singolo attinge,
nell'esercizio della sua libertà agli altri.

Ogni essere umano nasce esposto alla libertà e questa esposizione può essere di due tipi:
 POSITIVA: quando la libertà è già riconosciuta come elemento positivo nell'ordine sociale. Si ha
esposizione positiva nel momento in cui un singolo sceglie di rivolgersi agli altri in modo empatico
 NEGATIVA: si ha nel momento in cui il singolo sceglie di rivolgersi agli altri in modo violento usando
la sua libertà assoluta per dominare gli altri.
La libertà è negativa nel momento in cui essa viene concessa da un singolo ad altri, ed è quindi vista
come una pura strumentalizzazione del nome "libertà".
È libero colui che accetta e comprende la presenza dell''alterità. Non bisogna avere il coraggio di accettarlo,
perché l'altro c'è a prescindere da me, ma piuttosto aprirsi all'altro e avere l'intenzione di relazionarsi con
lui. Colui che sceglie è libero.

L'uomo può anche scegliere sé stesso, il sé stesso in relazione perché se ha constatato la presenza del
l'altro, ha già costituito una relazione. L'essere umano è un essere in relazione e allora incontra l'altro in
quanto essere in relazione che sceglie.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 29/09/2020


Con la civiltà dei dati, tutto è facilmente raggiungibile. In questo contesto si parla di DROMOCRAZIA ovvero
il dominio della velocità che restringe la concezione temporale al "qui e ora".
Ciò fa sì che elementi come termini, prescrizioni, scadenze, quindi elementi rilevanti in ambito di diritto,
non lo siano più.

Il flusso di dati in movimento si afferma qui e ora. Di conseguenza, il soggetto trova già il suo percorso
nella rete, che non è inteso come destino, ma vi assomiglia. Nella rete siamo dei sistemi informazionali che
si intrecciano tra loro e queste connessioni incidono sulla libertà, facendo diventare vulnerabile il diritto.
La rete in sé non ha una dimensione pubblica ma siamo noi, di volta in volta che la facciamo diventare tale,
essendo essa aperta al pubblico, quindi a noi.

IL DIRITTO
 Ha tante forme (leggi, codici etc.)
 Non è concepibile come prodotto ma come una compartecipazione di tutti gli uomini della società
 È concepito come un fenomeno, come un qualcosa che si manifesta
 Non può essere strumentalizzato
 Appare laddove c'è una relazionalità umana. Solo in questo modo il diritto ha un senso

“L'essere umano è un essere situazionale dato che è sempre calato all'interno di una situazione che può
consistere nella relazione o in altro”
-KARL JASPERS
Per questo il diritto è sempre relazionale, le regole si danno e si osservano insieme, reciprocamente.

Il primo elemento caratterizzante il diritto serve da impulso affinché sussistano tutti gli altri e questo
elemento iniziale potrebbe essere la relazione. Si tratta di relazioni umane fondate sulla comunicazione.
Possiamo dire che l'INCIPIT DELLA GENESI FENOMENOLOGICA DEL DIRITTO È LA RELAZIONE FONDATA
SULLA COMUNICAZIONE, SUL LOGOS (la parola).

Cos'è il Logos? È sostanzialmente l'atto della parola, il mettere in parola le proprie intenzioni per
comunicarle all'altro. Quindi, il fondamento del fenomeno diritto è nel logos, nella comunicazione che non
è una comunicazione di utile, ma di senso perché se così non fosse, ogni volta che parliamo dovremo
aspettarci un guadagno, invece ci aspettiamo una risposta, qualunque essa sia.

La RELAZIONE GIURIDICA è una relazione di riconoscimento, è una relazione che ha luogo in quanto
l'uomo sceglie nella sua libertà di affermare sé stesso ma allo stesso tempo riconosce ciò che è altro da sé.
L'IO riconosce sé stesso e insieme riconosce l'altro. È un processo di SPECCHIAMENTO VICENDEVOLE.
IL DENARO E LA LIBERTÀ
L'odierna civiltà dei dati tende a vedere ogni cosa nella prospettiva della quantità dal momento che tutto
ciò è quantificabile, è calcolabile e se è calcolabile, significa che può avere una valutazione economica
monetaria. L'elemento principale di questa civiltà è il DATO perché è ciò che meglio si presta ad essere
trattato quantitativamente e quindi ad essere fonte di profitto.

Il denaro di per sé è sempre stato considerato un mezzo per raggiungere degli scopi sia quantitativi che
qualitativi. Oggi l'unico scopo è il denaro stesso, è la detenzione di un potere finanziario tale da far
acquisire un arbitrio sempre maggiore sui comuni utenti che vengono ormai visti come una quantità da far
crescere sempre di più. Il crescente strapotere delle élite finanziarie che controllano la rete, mette in
discussione il principio secondo cui ogni uomo è esposto alla libertà e a maggior ragione vi è il rischio che la
libertà venga considerata come un qualcosa di quantificabile e quindi acquistabile. Lo stesso diritto, che
nasce per difendere la libertà, rischia di soccombere al denaro.
Tuttavia, la libertà non potrà mai essere del tutto quantificata è ridotta a merce perché essa origina da ogni
persona essendo la tendenza del singolo ad affermare sé stesso

FILOSOFIA DEL DIRITTO 30/09/2020


Il soggetto esiste nel suo continuo volgere la propria progettualità al futuro. Si è soliti pensare che il
soggetto sia già orientato nel futuro, ad egli non resta che assumere delle decisioni. Quindi dal punto di
vista fenomenologico, il volgersi al futuro è il volgersi del soggetto alla sua originale progettualità che si
manifesta nella relazione, nell'essere con gli altri. È una relazione che si struttura sulla parola e proprio
perché noi partecipiamo alla formazione della società attraverso il logos, la relazione diventa dialogo che
porta poi alla costituzione di diritto.

In questa comunità sociale lo scambio comunicativo non è mai duale, cioè non può appartenere solo all'IO
e al TU ma partecipa anche un terzo che può essere considerato come una commistione sociale, la NOITÀ,
cioè l'ESSERE NOI. Questo "essere noi" si manifesta innanzitutto nel LINGUAGGIO perché ciò che IO
soggetto dico ad un altro, rimane sospeso in una dimensione terza dato che ciò che dico è polisemico, in ciò
che dico ho messo del mio e l'altro deve interpretare. (Sospensione del linguaggio).
Il linguaggio dunque non è riducibile all'IO e al TU perché le parole si trovano sospese in una dimensione
terza che è l'attività interpretativa

In questo senso possiamo dire che la relazione giuridica non è mai privata ma apre sempre ad una
dimensione pubblica, il terzo. La TRIALITÀ è comunque sia all'incipit del linguaggio che a quello del Nomos.
Fichte afferma che il diritto è condizione dell'autocoscienza perché essa non può formarsi senza la
presenza dell'alterità dato che l'IO non si riferisce solo a sé stesso, come a sua volta il TU non si riferisce
solo a sé stesso, ma piuttosto le situazioni dialoganti che li vedono protagonisti convergenti verso una
comunità, consentono la formazione dell'autocoscienza. Il diritto è perciò condizione dell'autocoscienza nel
senso che la forma.
Il dialogo NON PUÒ ESSERE OBBLIGATORIO dato che sennò non sarebbe più permeato di libertà.

La trialità del logos è la condizione per cui possa essere istituito un diritto che sia terzo. Da un punto di vista
fenomenologico o il diritto è terzo (cioè si manifesta nella figura del legislatore/giudice) o non è definibile
diritto e di conseguenza si tratterà di un altro fenomeno.
Il legislatore nella sua attività è un terzo perché le regole che istituisce fuoriescono poi dalla sua
disponibilità, per entrare in quella pubblica, per entrare quindi nella dimensione terza dell'interpretazione e
applicazione.
Egli non è sciolto dalle leggi, ma è tra i destinatari della norma, così come tutti gli altri individui soggetti di
diritto. Essi sono liberi di non osservare le norme ma incorrono in sanzioni penali e/o amministrative.
IL DIRITTO È TERZO IN QUANTO INTERPRETATO NON SECONDO IL SOGGETTO MA SECONDO CANONI
COMUNI.

Vi sono due caratteristiche che il legislatore deve avere


 disinteresse
 imparzialità
Egli nella sua attività, non è portatore di interessi e perciò l'interesse privato non deve costituire un
impedimento affinché una legge venga riconosciuta nel suo interesse pubblico. Cosa si intende con
"disinteressato"? Non si intende indifferente, ma piuttosto, disinteressato al bene privato non coincidente
col bene comune. Il BENE COMUNE è un principio di uguaglianza nella differenza. I principi in questo senso
possono essere intesi come dei beni dato che vengono custoditi dal legislatore che è interessato ad essi.

STATO DI DIRITTO
Purché vi sia uno STATO DI DIRITTO, è necessario che
 Legislazione
 Giurisdizione
 Forza Pubblica
tendano ad un equilibrio, alla ricerca costante di equilibrio, al fine di non scivolare in uno Stato o solo
legislatore, o solo giudice o solo polizia. È necessario quindi concentrare i tre elementi in un'unica
dimensione.

Il GIUDICE che opera un giudizio, al di là della neutralità, ha a che fare con l'empatia che non è una mera
simpatia o antipatia, ma è il mettersi nei panni dell'altro, mantenendo comunque la distanza della terzietà.
Egli potrà così comprendere ad esempio le necessità che ha avuto un soggetto nel rubare qualcosa e
comprendere gli elementi oggettivi e soggettivi che hanno portato a quel fatto.
La terzietà non può essere propria solo del penale, ma anche di tutte le altre regioni del diritto.
La FORZA PUBBLICA è per prima chiamata a osservare le leggi, per segnalare chi invece non lo fa.

Il diritto in quanto tale non è discrezionale perché è ciò verso cui tutti devono convergere.
La libertà del legislatore non è un liberto arbitrio ma è custodita nei limiti dell'ordinamento giuridico e
stesso discorso vale per il magistrato. La sua libertà è complementare a quella del legislatore dal momento
che può rilevare, stando a contatto con casi concreti, le lacune presenti nella legislazione, da inviare poi al
legislatore che potrà così provvedere.

Il soggetto umano è sempre combattuto dall'aspirazione ad un sapere totale e nel momento in cui aspira a
ciò, esercita la sua libertà, affermando tale libertà nei confronti degli altri. L'essere umano può spingersi
verso una totalizzazione del proprio IO che subordina tutti gli altri e in questo contesto trova spazio una
precisa giuridicità ovvero la pena di morte. Chi dispone la pena di morte, afferma di sapere già che il
condannato non avrà più possibilità di pentirsi di ciò che ha fatto e redimersi.
In questo senso, il diritto non può imporsi in modo strumentale dato che è sempre un sapere parziale.
Il diritto, non è mai totalmente dicibile, cioè io non posso dire con una norma, tutto su quell'aspetto della
realtà che vado a disciplinare. Questo perché l'essere umano stesso è parziale.
FILOSOFIA DEL DIRITTO 05/10/2020
Non c'è diritto che non si basi sulla temporalità come distinzione tra passato, presente e futuro - diversa da
quella che propone la storicità dell'uomo. Infatti, se cade una delle tre dimensioni temporali, anche le
altre due perdono di senso, questo perché l'essere umano è un presente che viene da un passato e che si
proietta nel futuro.

Tuttavia, nel momento in cui ci troviamo in questo flusso di dati, di cui abbiamo cognizione solo nel
presente, la temporalità viene smarrita. Si viene individuati non con la personalità giuridica ma con la
propria identità digitale. Ci troviamo in una civiltà dromocratica, cioè fondata su algoritmi che hanno una
direzione univoca nel raggiungimento del loro risultato. L'univocità dell'algoritmo, fa sì che esso sia rapido,
efficiente e funzionale. In una civiltà come quella attuale, i dati diventano l'orizzonte principale che
configura anche i rapporti tra i singoli e il diritto.
Accediamo sempre alla rete e in tal modo lasciamo dei dati, che rimangono di proprietà dei SIGNORI DELLA
RETE, cioè coloro che sono proprietari delle tante piattaforme come ad esempio Google, Facebook o
Amazon.

Assistiamo al crearsi di una realtà simile alla dialettica "servo-padrone" spiegata dalla Fenomenologia dello
Spirito di Hegel: noi ci asserviamo senza volerlo, cedendo i nostri dati che ormai in una civiltà come quella
attuale, sono considerati i beni più importanti. Le relazioni che si vengono ad instaurare sono quelle tra
padroni della rete e utenti. Solo un piccolo gruppo di multinazionali può avere la padronanza dei dati ma
ovviamente ciò pone dei problemi al diritto, perché sulla base di questi dati, i padroni elaborano una
profilazione, al fine di renderci perfetti ed obbedienti. Non vi è ciò che è proprio del diritto, ovvero
l'uguaglianza, questo perché solo alcuni possono gestire questi dati. Vi sono pochi attori e molti utenti
passivi. Tutto ciò accade perché nessuno di noi è disposto a rinunciare alla rete, questo perché la rete è di
per sé una ricchezza di conoscenze.

La Gestione dei dati è affidata a macchine algoritmiche perché i dati sono sempre più complessi e veloci e
solo delle macchine intelligenti che filtrano questi dati possono gestirli in modo funzionale.
Nella ricerca su Google ad esempio, c'è bisogno di filtrare i dati perché altrimenti non vi sarebbe una
risposta specifica alle parole chiavi da noi messe.

La massa di dati produce altri dati attraverso la loro combinazione e questo costante aumento de dati, va
a vantaggio di pochi, non di tutti.
Il filosofo austriaco Martin Buber sostiene a questo proposito che:

le macchine inventate per servire all'uomo che lavora, l'hanno reso servo. Non sono più utensile, un
prolungamento del braccio umano, ma l'uomo è diventato un’articolazione meccanica della macchina

In rete siamo tutti connessi ma la comunicazione diventa sempre meno praticabile e questo perché il
connettersi non è comunicare. Queste macchine fanno sì che noi umani ci rendiamo schiavi.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 06/10/2020


Il termine dati abbiamo detto fare riferimento a tutte le tracce che lasciamo ogni volta che entriamo in rete.
Queste tracce entrano nella disponibilità dei pochi che controllano la piattaforma ed essi cominciano a
creare una nuova identità digitale che ci viene imposta ma non per disporre della nostra vita, piuttosto per
farci diventare soggetti esecutivi. Una volta oscurata la nostra capacità creativa hanno lo scopo di farci
divenire dei perfetti consumatori che non sono attratti dal consumo in sé ma sono semplicemente orientati
alle scelte date dal proprio profilo.
In questo contesto la coscienza e l'autocoscienza, che sono di ostacolo ai signori della rete, vengono messi
da parte. La coscienza è attiva quando ci poniamo dei dubbi e ciò va a contrastare l'opera di profilazione,
creando un ostacolo al nuovo CAPITALISMO IMMATERIALE che ha come nuovo bene il circolare dei dati e
la loro elaborazione, al fine di immettere una modalità di condotta conformata alla ricerca del profitto.

Questo profitto va poi a compensare gli investimenti necessari alla creazione di piattaforme come Google o
Amazon e coloro che hanno la possibilità di fare tali investimenti sono i pochi che hanno potenza
finanziaria. Già questo fa sì che emerga la disuguaglianza tra signori della rete e i singoli utenti.
Ciò va a creare dei problemi essendo il diritto fondato su una condizione di uguaglianza che nell'odierna
civiltà dei dati viene a mancare e non viene più garantita. Ognuno di noi nasce come persona e nel
momento in cui nasce, ha diritto a formare in modo autentico e originale la sua personalità. Tutto questo
viene messo in discussione in maniera non evidente perché siamo scarsamente consapevoli del fatto che
ciò viene meno dato che nel mondo digitale tutto è già programmato. Allo stesso tempo, siamo impegnati
con la nostra coscienza e autocoscienza a formare una personalità originale.

LA VITA INTERIORE È ORIGINALE E NON QUANTIFICABILE.


Le dimensioni profonde dell'animo non possono essere mercificate e ciò contrasta con l'esaltazione che
l'odierna civiltà fa di questo mercato immateriale.
LA CIVILTÀ DEI DATI È TURBATA DALLA SPROPORZIONE GIURIDICA CHE SI CREA TRA UTENTI E GESTORE DEI
DATI.
Il nucleo di tale civiltà è proprio la ricerca del profitto, questo perché dietro la costituzione della
piattaforma non c'è la volontà filantropica di far migliorare le nostre conoscenze, ma piuttosto
l'acquisizione di un profitto

Quando un utente entra in rete non si trova di fronte a un TU ma ha come primo punto di riferimento
l'algoritmo che viene utilizzato da chi vuole trarre un profitto dalla rete. Quanti più accedono alla rete,
tanto più abbiamo da esse risposte migliori. La quantità degli utenti ci garantisce la qualità delle
informazioni che possiamo ottenere dalla piattaforma.

Allora si deve descrivere una terza forma di economia:


 l'economia della terra nella quale la sussistenza del singolo dipendeva dal suo rapporto con la terra,
subentra...
 l'economia industriale che produce non solo beni di sussistenza ma nuovi oggetti che vanno a
migliorare gradualmente la qualità della vita e liberano l'uomo dalla sua dipendenza dalla natura.
Oggi...
 Siamo nella civiltà digitale in cui i beni che permettono di avere maggiore dominio sulla natura non
sono più i frutti della terra o dell'industria ma i DATI

Si arriva a ritenere che se l'uomo avesse le conoscenze dell'insieme, della totalità dei dati, le scelte che
prenderebbe, potrebbero essere prese con la certezza matematica di non correre nessuno dei rischi sottesi
dall'arbitro umano. Ci troveremo di fronte ad una società automatizzata, affidandoci interamente alle
capacità di elaborazione delle intelligenze artificiali.
Si ritiene sostanzialmente che tanto più si possa raggiungere una condizione ottimale, quanto maggiore sia
la conoscenza dei dati, e tanto maggiore è tale conoscenza, quanto minori saranno gli errori commessi nelle
scelte.
Tuttavia, si trascura il fatto che l'esistenza umana non si riduce al solo conoscere ma vi è anche la
dimensione dell'avvertire, quella che possiamo chiamare intelligenza emotiva.
TUTTO CIÒ CHE ATTIENE ALLA DIMENSIONE DEL SENSO, NON PUÒ ESSERE TRATTATO DAGLI ALGORITMI.
Nella ricerca del senso non possiamo farci predire la risposta da una macchina. Vi sono dei principi affettivi
etici/religiosi che non possono essere oggettivabili. Il motivo di ciò è che le domande sul senso sono
sempre legate ad una qualificazione temporale che è peculiare degli esseri umani, ovvero quella del
futuro. Gli uomini a differenza degli altri esseri viventi, hanno la capacità creativa di poter compiere delle
ipotesi attraverso cui costruire una visione del mondo, quindi in sintesi, solo gli uomini hanno il problema
della storia. Queste visioni del mondo che l'uomo crea, non possono essere analizzate o descritte da una
macchina dato che i dati che si presentano alle macchine, non seguono il principio di uguaglianza, né li
contrastano. Si limitano esclusivamente a essere ciò che sono, difettando della dimensione del futuro.

È il riferimento alla temporalità che alimenta il problema del senso, infatti la domanda "che senso ha?",
viene posta dal soggetto non in riferimento al passato (essendo esso non più mutabile) ma in riferimento al
futuro, perché si sente impegnato a tenere delle condotte che porteranno alla formazione di un
determinato futuro.

LA QUESTIONE DEL SENSO, SEGNA IL CONFINE TRA L'UMANO E CIÒ CHE NON LO È

La formazione del futuro, non può diventare un bene commerciabile, perché nessuno, essendo
consapevole, lascerebbe che altri possano acquistare la dimensione del futuro, sostituendosi alla sua
persona. Ognuno lavora instancabilmente per tutta la vita al fine di formare originalmente la propria
personalità

Qual è il legame tra le macchine predittive e il giudizio giuridico?


Perché, se è vero che le macchine intelligenti possono arrivare a conoscerci meglio di come noi stessi ci
conosciamo, potremo ritenere che anche il giudice potrebbe giudicare meglio se si affidasse al giudizio
elaborato da algoritmi, facendo sì che la sentenza sia emanata non in nome del popolo ma in nome
dell'intelligenza artificiale.
Questo giudizio però sarà comunque in grado di incontrare la persona? Di per sé il giudice incontra la
persona solo quando riesce a mettersi in relazione con le sue intenzioni, che non sono dei dati perché non
possono essere oggettivate. Esse non possono essere conosciute perché in esse vi è sempre la possibilità di
una svolta di senso.

Lo psicanalista Jacques Lacan la definisce un viraggio del senso. L'intelligenza artificiale non può ad
esempio entrare in contatto con l'intenzione di chi vuole pentirsi, può al massimo prevedere un
comportamento di un criminale ma non può prevede un viraggio del senso che lo porti a pentirsi.
L'INTENZIONE NON È UN FATTO MA UN ATTO perché gli atti di ognuno di noi sono sempre sospesi tra la
possibilità di esseri compiuti e non esserlo.

Lacan si sofferma anche sulla differenza tra il "che si è detto" è il "che si dica"
 "Che si è detto" è un fatto analizzabile tramite congegni meccanici
 "Che si dica" attiene all'atto, a ciò che potrei dire o potrei non dire

La dimensione della possibilità è la garanzia della dignità degli esseri umani, è ciò che ci meraviglia, al
contrario della sequenza ripetitiva della realtà che ci annoia

La frase di Nietzsche secondo cui l'uomo è un animale mal riuscito, ha una sua accezione positiva che è
data dal fatto che i comportamenti umani non possono essere calcolati, diversamente dagli animali che
seguono sempre e senza sbagliare il loro istinto naturale. Gli animali sono perfettamente prevedibili mentre
l'uomo conserva in sé una lacuna che non si lascia trattare da calcolo, ed è in ciò che sta la sua dignità.
L'uomo, a differenza degli animali, ha la dimensione della possibilità e quindi può divergere, questa
dimensione costituisce l'uomo nella sua differenza dagli altri esseri. Nell'uomo c'è la storia perché nel
mutamento egli realizza un’ipotesi di futuro, un progetto. La presenza di progetti pone la questione dei
conflitti tra esseri umani e quindi la necessità del diritto. Il conflitto c'è solo tra gli esseri umani perché sono
gli unici con un'idea di futuro.
Tali conflitti si risolvono mediante l'intervento del diritto, quindi non secondo il caso o secondo la forza del
più forte o secondo chi è più potente economicamente, ma secondo il principio di uguaglianza, che fa sì
che ci si riferisca ad una dimensione terza, quella del diritto.

Il Terzo supera le controversie facendo riferimento al legislatore, non prendendo le parti di nessuno dei
soggetti coinvolti, ma operando in modo parziale, a vantaggio del bene comune. Il Terzo è presente
esclusivamente nel diritto, non quindi nelle relazioni amicali e mercantili poiché nel caso di quest'ultima,
vince chi ha maggiore capacità economica.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 07/10/2020


L'accademico Nick Srnicek in "Capitalismo Digitale" scrive che l'economia odierna è dominata ad un ceto
che non ha il controllo di mezzi di produzione, ma di quelli di informazione
In questo contesto possiamo dire che i dati hanno una particolare qualità rispetto ai beni del passato, che è
quella di essere crescenti in modo continuo e costante grazie non solo alla loro immissione in rete e alla
combinazione dei dati già presenti nelle piattaforme. Accanto alla quantità dei dati, cresce anche la loro
velocità di movimento e la loro quantità e velocità può essere trattata solamente da macchine intelligenti
particolarmente potenti.

Un altro studioso, Luciano Floridi, scrive ne "La quarta rivoluzione come l'infosfera sta trasformando il
mondo" che le transizioni finanziarie avvengono con l'utilizzo di computer veloci, di algoritmi complessi in
grado di eseguire milioni di operazioni al secondo e tutto questo è un tratto innovativo per la civiltà
contemporanea dato che in un primo momento ci si affidava alla memoria dell'uomo.

COS'È UNA PIATTAFORMA?


È l'elemento che rende possibile a gruppi di utenti omogeni in quanto aventi gli stessi interessi, di
immettere dati e giovarsi di una modalità di trattamento delle informazioni, che soddisfi le loro aspettative
e accresca l'utilità generale del servizio. Le piattaforme hanno delle regole che non possono essere lasciate
alle possibilità di singoli. Queste regole esigono un investimento di capitali accessibili ai pochi gruppi delle
multinazionali che sono i padroni di queste piattaforme e che finiscono per incidere sulla libertà giuridica.

La libertà giuridica è una libertà sia singolare che plurale ed è costituita dalla e nella relazione con gli altri.
Ognuno si presenta nella sua singolarità, nel suo individualismo ma anche nella sua dimensione collettiva.
È una libertà
 disciplinata da regole giuridiche
 attiene al convenire di due o più persone secondo norme istituite dal legislatore
 nel caso di non adempimento di tali norme, trova nell'intervento del magistrato la sua
realizzazione.

In questo contesto nascono i contratti intelligenti nella quale non si chiede il consenso delle parti. Questi
contratti hanno impresso nel loro nucleo un modello di realizzazione automatizzata e quindi non conoscono
l'alternativa tra adempiere e non adempiere perché sono appunto automatizzati.

Georg Simmel ne "La filosofia del denaro" sostiene che l'intera essenza del denaro si fonda sulla quantità,
perché senza la determinazione della quantità, il concetto in sé di denaro sarebbe vuoto.
La tesi di Simmel ci porta a pensare quindi che il denaro si fonda sulla quantità, ma ciò significa anche che la
quantità non può essere l'unico motivo per regolare le relazioni umane perché prima della quantità viene la
qualità.
Ciò che caratterizza il diritto è prima di tutto l'attenzione alla qualità, in base alla quale una relazione può
essere considerata di violenza o assoggettamento ma anche di dignità e rispetto.
L'ECONOMIA SI COSTRUISCE SULLA QUANTITÀ, IL DIRITTO SULLA QUALITÀ

Ad assumere rilevanza è la relazione di riconoscimento nella quale ognuno si ritrova nell'altro. Quindi vi è
reciprocità incondizionata, l'IO capisce che deve garantire al TU la possibilità di formare la sua personalità
e il TU deve garantire la stessa cosa all'IO. Questo accompagna la dimensione umana e consente che
ognuno possa esercitare una pretesa tipica della giuridicità, questo perché il riconoscimento è costitutivo
della relazione giuridica, infatti se la relazione è giuridica, io posso pretendere che l'altro rispetti la mia
libertà. Nelle relazioni giuridiche, quando il riconoscimento viene ostacolato, il soggetto può rivolgere la sua
pretesa al magistrato che in qualità di terzo, interverrà munito della forza pubblica necessaria a garantire
che il soggetto non venga assoggettato a un altro.
Nelle altre relazioni si ha un riconoscimento ma non si può avere una pretesa

Ciò che è proprio della relazione giuridica, è il durare al di là della mutevolezza della volontà umana. Una
volta instaurata una relazione giuridica, essa dura al di là del cambiamento degli interessi o delle emozioni
personali, quindi anche di fronte ad una svolta di senso, le parti sono tenute a adempiere a ciò che è stato
convenuto.
Il diritto ha il compito primario di garantire una durata al rapporto, quindi ha il compito di:
liberare l'uomo dal l'angoscia dell'improvviso
-Martin Heidegger
L'umanità ha bisogno di rapporti durevoli che non siano esposti alla precarietà dell'improvviso.
La dignità umana sta nell'insostituibilità di ogni persona ed è questo che ci differenzia dalle macchine che
possono invece essere tranquillamente sostituite.

Secondo Schopenhauer, imputabilità e responsabilità nel diritto sono collegati alla volontà che si è
espletata nel mondo. La volontà dipende dal cuore mentre l'intenzione emerge quando si compongono la
testa e il cuore

FILOSOFIA DEL DIRITTO 12/10/2020


Secondo il filosofo Georg Simmel, il senso del denaro si fonda sulla quantità perché senza di essa non
avrebbe valore. Il denaro nasce come mezzo, come strumento necessario alla società mercantile per
effettuare transizioni. Con la nascita della società industriale, il denaro non è più strumento ma diventa un
fine, è perseguito in quanto tale per il maggiore potere che esso dà sugli altri
Così come il denaro, anche le piattaforme come Google e Facebook, che nascono come mezzi adibiti ad
accedere a informazioni o relazioni amicali, progressivamente vengono elevate a scopo. Le piattaforme
portano a privilegiare la quantità che la qualità, acquista valore più la quantità di relazioni interpersonali
che la loro qualità.

L'INTERESSE ALLA QUANTITÀ SPINGE A METTERE IN PRIMO PIANO CIÒ CHE È CALCOLABILE.
Il filosofo Max Scheler sostiene a proposito che per l'uomo moderno medio, pensare corrisponde a
calcolare, perché è reale solo ciò che è calcolabile. Il calcolare diventa il momento prioritario della civiltà
moderna. Tutto può essere calcolato, quindi tutto può essere acquistato.
Possiamo introdurre la tesi di Martin Buber secondo cui nel momento in cui si nomina l'uomo, si nomina
una pluralità di uomini. Tra l'IO e il TU c'è una relazione di rispetto dell'alterità unica dell'altra persona
mentre nel rapporto tra l'IO e l'ESSO questo viene trattato come un’entità avente la stessa struttura delle
cose. L'individualismo per Buber comprende una parte, così come il collettivismo.

I fautori dell'individualismo assoluto comprendono solo quella parte dell'uomo che è l'individuo nella sua
autosufficienza, mentre non comprendono che il singolo è tale in quanto è un singolo plurale che ha
sempre relazioni con l'altro.

Le relazioni giuridiche e i diritti umani in generale possono essere definiti tali perché si nomina il singolo
non nella sua assoluta individualità, ma anche nel suo riferirsi agli altri.
Allo stesso tempo, il collettivismo non riconosce l'uomo nella sua originalità ma solo come un frammento
della totalità

Attualmente individualismo e collettivismo acquistano tratti nuovi e diversi:


 L'individualismo tende a sottrarsi al dominio delle piattaforme e dei motori di ricerca, possiamo
dire che ha un'attività centrifuga

 Il collettivismo ha invece un'attività centripeta perché tende a far confluire ogni individuo verso il
centro, inducendolo a identificarsi con la struttura meccanico-digitale della piattaforma,
togliendogli così la possibilità di fare tutto ciò che è alla base della giuridicità.

Gli utenti entrano in rete solo con quel frammento della propria personalità correlato con gli obiettivi della
specifica piattaforma. Una comunità di esseri umani, entrando in rete perde la sua ragione unitiva, non vi
entra come una comunità unita ma perde questo legame per ridursi in frammenti.
Il singolo che si disperde nel centro della rete e si identifica con la piattaforma, perde il suo movimento
centrifugo. È necessario stabilire un equilibrio tra individualismo e collettivismo, tra movimento centrifugo
e centripeto

L'uomo in quanto tale, è l'essere più problematico e incerto e mettere sempre tutto in questione significa
permanere nella ricerca del senso.
Tutto ciò contrasta con il potere degli algoritmi che funzionano in quanto danno la certezza della
calcolabilità. Il linguaggio sfugge a questa certezza ed è qui che si delinea il confine tra parole e numeri.
 Il 3 non può essere un 4. Gli algoritmi operano sulla costruzione di una certezza che non può essere
messa in discussione.
 Le parole sono incerte perché hanno una pluralità di significati che si manifestano a seconda del
contesto del dialogo

L'intelligenza artificiale funziona perché non ha mai dubbi su ciò che sta compiendo e ciò che deve essere
compiuto. Quindi garantisce certezza.

Per Cassirer il linguaggio custodisce due caratteristiche:


 Chiarezza: le parole sono certamente plurivoche, ma chi le usa ha come obiettivo quello di essere
chiaro.
 Durezza: Il linguaggio, per quanto trasparente, custodisce sempre la sua impenetrabilità cioè la
capacità di non essere mai posseduto integralmente. Nessuno di noi può possedere una parola o un
dialogo nella sua totalità.
Nella lingua tuttavia ognuno perde qualcosa di se stesso, perché è portato ad accettare le parole di quella
lingua comune, non potendo inventarne di nuove altrimenti la comunicazione non avverrebbe.
Sostanzialmente, mentre i numeri dicono solo ciò che dicono, le parole dicono sempre di più di ciò che
dicono e proprio in questo presentano la dignità dell'uomo, non vi è nessuna dignità nella macchina. I
numeri sono certi ma non consentono di andare al di là di questa certezza

In questo contesto prende rilevanza la comunicazione tramite simboli che è tale in quanto IO attivo ciò che
è proprio del dialogo attendendo una risposta perché in questa comunicazione non sono enunciate solo
delle parole, ma anche dei rinvii di senso, delle formazioni simboliche che spingono l'altro a cercare oltre
ciò che ho detto. Il dialogo si sviluppa attraverso domande e risposte, consenso e dissenso e il singolo, nel
momento in cui enuncia una domanda, tende una risposta e sa che potrà essere sorpreso dalla risposta
dell'altro, che potrà meravigliarlo. La meraviglia c'è perché c'è questo interrogarsi sulla ricerca del senso.
La meraviglia ci porta inevitabilmente a formulare delle domande e ciò implica quindi l'apertura verso
l'altro, perché le domande sono tali n quanto attendono risposte da altri

Il diritto, dovendo garantire la certezza delle relazioni, non può essere interamente fondato sulla
dimensione della meraviglia. Essa è nel fatto che la relazione giuridica nasce con un altro essere umano,
non con una cosa.
In un rapporto con ogni entità non umana, tutto è già scontato, mentre in una relazione giuridica si prende
atto che l'altro mostrerà la sua volontà, le sue intenzioni non indovinabili

Grazie alle conoscenze sulla totalità dei dati, potremo vivere in una società automatica al fine di liberarci di
ogni imputabilità giuridica. Tuttavia in questo tipo di società potrebbe nascere quello che Heidegger chiama
noia profonda che è intesa come condizione distruttiva della realtà esistenziale. Inizialmente in una società
automatizzata tutti sono un po' soddisfatti ma nel momento in cui viene espulso il diritto, le intenzioni
vengo tagliate fuori dall'automatizzazione.

Se scegliessi di essere libero, non dovrei rinunciare ai benefici della rete?


No, perché si può utilizzare la rete avendo consapevolezza di non essere parte di essa, di non esserle
asservito e di far sì quindi che la nostra esistenza non venga automatizzata. Sentimenti, emozioni, pensieri
non possono essere meccanizzati perché sennò ognuno sarebbe soltanto un qualcosa. Se fossimo
automatizzati, non avremmo più nulla che rappresenti la nostra personalità, più nulla da dire o sentire
L'automatizzazione renderebbe insignificante l'intero mondo della giuridicità.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 13/10/2020

IL MONDO COME INFOSFERA


Lo studioso italiano Luciano Floridi affronta i temi connessi alla rivoluzione digitale nell'opera "Pensare
l'infosfera" nella quale qualifica come infosfera il mondo attuale in cui siamo immersi. Il mondo è diventato
qualcosa di totalmente altro da come l'abbiamo sempre pensato e concepito, da universo esso è diventato
il tessuto dell'informazione.

Nel momento in cui cambia il concetto classico di mondo per lasciare spazio all'idea di mondo come
infosfera, avviene che diventa sempre più marginale la reale conversazione. Essa non è più reale e a
sostegno di questa nozione, vi è l'idea di Buber secondo cui una conversazione, affinché sia reale non deve
ridursi ad un flusso di informazioni. La conversazione è reale nel momento in cui è spontanea, nel senso che
chi parla, si aspetta una risposta che non può prevedere e ciò desta meraviglia. La conversazione è reale
quando non è calcolabile, quando si suscita e quando viene suscitato dall'interesse dell'altro, in modo che
accada qualcosa che sia originale.
Se tutto fosse già stabilito, pre-calcolato, l'IO non sarebbe preso dalla condizione di attesa e non andrà
neanche a ricercare il contatto con l'altro. L'IO cade in una situazione in cui tutto è già scontato, quindi
come dice Heidegger, cade nel dominio della noia. La noia è sostanzialmente quella condizione in cui non
può accadere niente che non sia già successo.

Quando si ha una informazione dell'infosfera, quindi quando a prevalere non è la partecipazione al dialogo
ma le tecniche di coloro che hanno poteri più grandi e più efficaci nel trattamento di informazioni
complesse, si ha che le informazioni interpersonali diventino più rare.
Le relazioni interpersonali consistono nel dialogo tra l'IO e l'altro e nel diritto a prendere la parola, ma nel
momento in cui viene meno questo diritto, non si hanno più interazioni personali, ma si finisce verso una
situazione in cui si ha un movimento solo centripeto.
Tutti siamo orientati a confluire in rete rendendola il nostro centro e in questo senso, mettiamo al centro
nella nostra vita il flusso di informazioni e questo flusso sarà padroneggiato da chi ne ha il dominio, che
potrà elaborarle nel modo più veloce possibile. Si avrà una tecnologia delle relazioni che non ha niente a
che fare con le relazioni spontanee.
Tuttavia, non può esserci una tecnologia del dialogo, perché non si può avere un dialogo automatizzato

Le relazioni amicali di Facebook vengono filtrate in modo da avere un determinato successo, quindi nel
momento in cui non vengono applicati dei filtri, sarebbe tutto imprevedibile, così come avviene nella
conversazione reale. Nel momento in cui vengono applicati dei filtri, si ha la mercificazione dell'amicizia.

Tra coloro che accedono alla piattaforma, vi è una comunanza di interesse che in quel momento li ha
portati ad accedere alla rete. Se però ci si incontra solo per appartenere a quella certa entità di
partecipazioni, non ci si incontra con l'interezza esistenziale dell'altro ma solamente come frammenti di
persone, tralasciando la pluralità delle prospettive.

In rete si hanno interessi molto specifici e con individuo singolare si intende l'individuo nella sua singolarità
e originalità, ma allo stesso tempo è plurale perché il suo essere singolare lo mantiene aperto alle
prospettive altrui. In queste piattaforme si diventa singolare parziale, si hanno accrescimenti di
informazioni in un certo settore come richiesto dall'affermarsi della ragione mercantile dell'infosfera.
Tutto è retto da ragioni mercantili perché i proprietari delle piattaforme, investono molto in una quantità di
elementi che un singolo individuo non potrebbe gestire e nel mettere a disposizione i risultati di tali
investimenti, ricercano un profitto che vada a compensare quegli investimenti.
Si mette da parte la ragione giuridica a vantaggio di quella mercantile, quindi in questo senso:

non esistono altri valori che quelli che ci sono in borsa

La borsa è il luogo in cui l'economia reale trapassa quella finanziaria , quella che si distacca dai beni concreti
e gioca sul mercato delle azioni. Quanto più ciò avviene, tanto più si afferma il dominio della ragione
mercantile. Tuttavia, se questa ragione chiede che tutte le relazioni siano di tipo mercantile, chiede anche
che sia rimossa la relazione principale della giuridicità, ovvero quella di riconoscimento.

Hegel a proposito della relazione di riconoscimento, vede nel riconoscimento ciò che non è dato come
materiale mercantile. Questo perché riconoscere significa trattare l'IO e il TU nel rapporto con l'altro, nel
convincimento che l'altro trovi sé stesso in me. È una relazione duale che si svolge in un luogo terzo, in
quanto nella relazione dialogica vi è uno spazio terzo che non può essere padroneggiato, è un luogo sopra
le parti. Nel riconoscimento, la presenza di un luogo terzo sta ad indicare la presenza di un qualcosa non
commerciabile.
Chi entra in rete non incontra i padroni ma gli algoritmi e con questi non si instaura una relazione triale ma
duale. In questo caso tutto avviene senza la presenza del terzo, avviene tra l'individuo e la rete. È presente
l'algoritmo che filtra l'accesso di ognuno e instaura con l'utente una relazione duale.
Gli algoritmi non possono mai essere imparziali perché stanno sempre dalla parte di chi li ha progettati,
infatti non c'è la possibilità di metterli sotto il controllo del pubblico.

Lo psicanalista Miguel Benasayag, fa una distinzione tra il funzionare e l'esistere dato che l'esistere è una
cosa essenziale per gli uomini, mentre il funzionare è secondario. L'uomo esiste perché si sottrae dal
limitarsi al funzionare, dal trovarsi nella realizzazione di un'attività già programmata.
Si ha il rischio che si consideri che tutto sulle attività umane possa essere predetto

L'uomo è dotato di una doppia temporalità: la contemporaneità a ciò che fa e conosce ma anche la
possibilità di riflettere su questa contemporaneità e scegliere se distaccarsene o meno. Accedendo alla rete
noi possiamo porci il problema di come vengano trattati i nostri dati, ma l'uomo non potrà rinunciare alla
continua ricerca e poiché egli non crea niente dal nulla ma ha bisogno di dati esterni, non può rinunciare
alla rete che glieli mette a disposizione.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 14/10/2020


Oggi come oggi la civiltà dei dati fa sì che vi sia un privilegio della quantità sulla qualità e questo perché
essa è costituita dall'intersecarsi di piattaforme con immense quantità di accessi, anche perché se essi si
riducessero, gli enti digitali perderebbero ogni rilevanza. In rete la quantità genera la qualità dei servizi
offerti. Ecco spiegato il perché di questo primato della quantità.

 La quantità è tale perché si può spiegare, perché possono essere individuati oggettivamente tutti i
suoi elementi di cui si può dare una qualificazione oggettiva è calcolabile. Ad oggi tutto ciò che non
può essere calcolato diventa inesistente.

 La qualità invece non può essere spiegata, appartiene agli atti umani, solo per questi atti possiamo
ragionevolmente usare una qualificazione che attiene all'ordine della qualità.

LA QUALITÀ È LO SPAZIO NON OGGETTIVABILE IN CUI È POSSIBILE L'AZIONE UMANA.

Secondo Georg Simmel, il denaro è l'oggettivo assoluto. Nel denaro, che è solo oggettivo e che ha come
qualità quella di essere una quantità, termina tutto ciò che è personale e quindi qualitativo.
Possiamo dunque dire che c'è affinità tra la rete e il denaro. I dati hanno un loro valore quando sono molti,
quando sono costantemente in crescita e si combinano al fine di formare nuovi dati. Ciò non accade
nell'ordine della qualità, perché è uno spazio non riducibile e assimilabile alla quantità e al denaro.

Abbiamo detto che assistiamo a due tipi di movimenti, quello centripeto, proprio della rete che tende ad
accentrare gli utenti che vi navigano su sé stessa e che quindi hanno come proprio centro la rete e il loro
movimento tende a tale centro e poi abbiamo quello centrifugo che sorge nel momento in cui si riattiva
l'attenzione della singola persona che non si lascia più assoggettare dal cento della rete, ma lavora per
formare originalmente la propria personalità. È un movimento centrifugo perché fugge dal centro che
tende ad assoggettare il singolo.

Questi due movimenti sono propri dell'uomo in quanto essere singolare e plurale. Essendo plurali noi
uomini abbiamo un movimento centripeto che ci direziona verso un centro che ci accomuna ed
attualmente questo centro è la rete. Allo stesso tempo noi uomini abbiamo un movimento centrifugo
perché riattiviamo la nostra singolarità e prendiamo le distanze dal perderci nel centro della rete, noi
uomini riattiviamo la nostra condizione esistenziale per costituire la nostra soggettività
Da un punto d vista giuridico, gli uomini rispondono in qualità di esseri sia singolari che plurali perché se
fossero solo plurali non sarebbero più imputabili perché una massa che non ha un volto definito in una
individualità, non è imputabile e quindi giuridicamente è irrilevante.

Come afferma Hegel, l'individuo costruisce la sua autocoscienza entrando in relazione con un'altra
autocoscienza.

Il diritto non è solo un movimento centripeto verso il centro costituito dall'ordinamento giuridico, ma ha
anche un movimento centrifugo perché in esso emerge la responsabilità personale del singolo. Nel
momento in cui si nomina il diritto, diventano insufficienti le formule sia del movimento centripeto che di
quello centripeto e a questo proposito si propone un nuovo termine, quello di movimento centrialogico .

Il movimento centrialogico come quello centripeto e centrifugo muove da un centro ma si muove da esso
per volgersi vero una trialità. Il centro è quello della relazione mentre la trialità è l'elemento che distingue il
diritto da altri fenomeni. Il termine centrialogico, mette in luce nella sua etimologia stessa, la trialità ma
anche il logos. In tale movimento c'è sia il logos che il nomos ovvero la dimensione terza, la terzietà.

Il diritto si compone della trialità del logos e della terzietà del nomos. Il rapporto tra logos e nomos
costituisce la luminosità della giuridicità, questo perché la relazione giuridica è governata dal continuo
illuminarsi reciproco del logos e nomos

Quanto si è detto diventa più comprensibile nel momento in cui si prende a riferimento il lavoro dello
psicanalitico Lacan. La sua tesi è la seguente:

la legge del testo istituisce il testo della legge

La legge del testo rappresenta tutto ciò che è proprio di un testo comunicato oralmente o per iscritto. A
prescindere che si tratti di testo scritto o orale, vi è una legge del testo, che consiste nella grammatica e
nella sintassi. Infatti, non sarebbe possibile dire alcunché se non ordinando o disciplinando le parole
mediante un insieme di regole grammaticali e sintattiche. Seguendo queste leggi, le parole acquisiscono
una forma ed è quindi l'insieme di tali regole che consente alle parole del dialogo o dello scritto di avere il
tratto che è proprio della discorsività umana.

Nel l'infanzia ad esempio non vi è piena consapevolezza dell'importanza della legge del testo ai fini della
comunicazione. Vediamo come il bambino pronunci suoni non ordinati al fine di comporre delle frasi capaci
di enunciare ciò che è nel suo pensiero ancora in formazione. È la formazione del pensiero che esige di
essere espresso, facendo uso della legge del testo.

La legge del testo è quindi la legge del logos ed è osservata dal soggetto capace di esercitare il linguaggio
per creare una comunicazione matura.

La seconda parte della tesi di Lacan afferma che tale legge del testo è anche in grado di selezionare i
contenuti delle norme di un ordinamento giuridico. Infatti, così come nel parlare è necessario un ordine,
allo stesso modo nell'istituire un complesso di norme, è essenziale che la selezione avvenga riprendendo la
legge che disciplini il linguaggio. In questa legge, il riconoscimento dell’altro sta nel fatto che a esso sono
rivolte frasi ordinate che il soggetto può ricevere e interpretare.

L'istituzione delle norme avverrà in modo accettabile se esse saranno tali da non discriminare i soggetti di
diritto, se esse non violeranno il principio di uguaglianza e reciprocità propria delle relazioni giuridiche
La legge del testo quindi istituisce il testo della legge, cioè le regole del parlare disciplinano il contenuto
delle norme, riproponendo lo stesso criterio di rispetto delle aspettative dell'altro valido nel logos. La legge
del testo fa sì che si affermi come diritto primo quello di prendere la parola

Se il diritto è strutturato come il linguaggio, a sua volta anche il linguaggio è strutturato come diritto perché
il linguaggio senza leggi non può essere esercitato in modo ragionevolmente efficace.

Ci si chiede se la possibilità di elaborare la totalità dei dati, ci permetta di affidare questo movimento
centrialogico a delle macchine, quindi se l'attività legislativa e il giudizio del magistrato possano essere
lasciati ad una macchina e in questo contesto si parla di macchine predittive.

Le MACCHINE PREDITTIVE sono quelle macchine che avendo raccolto una quantità sempre maggiore di
dati, con hardware e software sempre più veloci, possono portare ad avere una predizione. In questo modo
di potrebbe sgombrare l'esistenza della fallacia tipica nell'essere umano e in questo senso, potrebbero
sostituirei il magistrato nel suo ruolo di emettere un giudizio giuridico.
Queste macchine lavorano non per predire il futuro ma per darci la conoscenza di ciò che, dei dati
conosciuti, non era ancora conosciuto. Queste macchine possono colmare dei vuoti nella conoscenza dei
dati e, presumendo di conoscere tutti i dati di una situazione, possono predire quale sia l'enunciato che si
riferisce a quella situazione .

Ci si chiede quindi se queste macchine predittive possano sostituirsi al giudizio del magistrato. Tuttavia,
queste macchine non sono in grado di prevedere una situazione che non si è verificata molte volte in
precedenza, non possono emettere un giudizio quando si ha a che fare con una situazione verificatasi
poche volte. Possono lavorare statisticamente riproducendo il passato conosciuto. Una macchina del
genere non può riferirsi al problema del senso, al senso dei dati che tratta. Il magistrato invece tratta dei
fatti, ma trattandoli è portato necessariamente a confrontarsi con gli atti e il senso delle azioni. È quindi la
questione del senso che consente il giudizio giuridico e ciò lascia intendere che per ora non è possibile
lasciare il giudizio giuridico alle macchine.
FILOSOFIA DEL DIRITTO 20/10/2020

Tegmark analizza l’ipotesi secondo cui per la prima volta sia possibile avere dei robot-giudici che emettano
sentenze in conformità con l’elaborazione dei dati e degli strumenti offerti dalle neuroscienze come gli
scanner di risonanza magnetica, che consentono di monitorare le attività del cervello umano e quindi
sapere cosa stia pensando un soggetto, sapere se dice il vero oppure il falso. In tal modo sarebbe possibile
superare i pregiudizi che ogni giudice umano porta con sé nella sua personale formazione, vi sarebbero
sentenze rapide ed eque, perché basate sulla certezza matematica e verrebbe eliminata l’esigenza del
dibattito processuale così come delle testimonianze umane, perché è già possibile conoscere tutto ciò che
viene pensato.

Non si può certo rinunciare ai contributi offerti dall’intelligenza artificiale, che consente di superare la
lacunosità e l’incertezza della conoscenza umana, ma si rischia di non avere la consapevolezza critica del
fatto a cui ci si trova di fronte. Vi sono meccanismi che tendono ad assemblare micro-comportamenti, ossia
quelle tracce numeriche che ognuno di noi lascia compiendo con regolarità un’azione. Si tratta però di
comportamenti frammentari, di conseguenza l’assemblaggio di tali frammenti non può permettere di
incontrare l’interezza della persona.
Benasayag dice che l’umanità non è mai una somma di elementi parziali, ma è l’Io che di volta in volta
risponde dei suoi comportamenti come individuo. Ogni volta che è chiamato a rispondere lo è nella sua
interezza, perché il singolo comportamento si riferisce sempre all’interezza della personalità, cioè è
necessario ricercare il senso del micro-comportamento.
Il senso non può essere reso comunicabile sommando dei singoli comportamenti, ma solo facendo
riferimento all’interezza e all’indivisibilità dell’io. In un tribunale algoritmico il giudice deriverebbe le sue
sentenze dalla mera somma dei micro-comportamenti, ignorando completamente il loro senso: esse non
potranno dunque avere l’equità che pure la struttura matematica dovrebbe dargli.

Si pensa che molte norme giuridiche sarebbero penetrate dai principi etici del confucianesimo e del
cristianesimo e l’intreccio tra queste due correnti potrebbe essere servito a spingere gli uomini a
collaborare, perché la collaborazione è un momento essenziale affinché la vita continui.
L’uomo quindi non si limita a sopravvivere, ma dà un senso al proprio esistere

Karl Jaspers si sofferma sul rapporto tra conoscenza e comunicazione. A maggior ragione oggi possiamo
comprendere come sia valida la sua analisi osservando come la conoscenza algoritmica non abbia necessità
di alcuna comunicazione, anzi ne sia disturbata. Così la comunicazione viene sempre più emarginata perché
non è confondibile con la connessione: la connessione chiede che si faccia sempre meno affidamento sui
corpi per superare il loro incedere equivoco e incerto: i cinque sensi disturbano ciò che è proprio
dell’algoritmo.
Gli altri viventi non comunicano ma trasmettono informazioni per quel che concerne la loro sopravvivenza,
mentre gli uomini non stabiliscono una collaborazione per la mera sopravvivenza ma hanno la possibilità di
discutere su molteplici visioni del mondo e confliggervi.
Anche gli animali possono avere dei conflitti, ma rimangono comunque lotte di sopravvivenza, essi non
arrivano mai a scontrarsi sul senso della loro esistenza. Quindi, i conflitti che sorgono tra gli animali sono
semplici opposizioni biologiche: solo tra gli uomini possono crearsi controversie di senso, e solo queste
sono giuridicamente rilevanti.

Compare allora la questione dell’alterità. L’alterità originale è quella che non si lascia assorbire in un IO: da
qui nascono le controversie che richiedono l’intervento di un terzo. L’algoritmo solo formalmente è terzo,
neutrale egli però può considerare solo la fattualità delle persone, che è una parzialità di esse. Il magistrato
ha il compito invece di entrare in sintonia con l’interezza di una persona. Solo un essere umano può entrare
in sintonia con l’interezza e quindi con l’intenzione di un’altra, perché sono le persone sono portatori di
interessi e quindi hanno consapevolezza di come essi incidono in ciò che si fa.

Il senso non può essere letto perché contiene sempre un rinvio di senso, un rinvio a quello che ancora non
è, quello che è nella dimensione del futuro. Le attività emotive non possono essere quantificate, hanno
solo una qualificazione nel senso dell’affettività interiore.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 21/10/2020


La diffusione sempre maggiore della possibilità di istituire dei veri e propri tribunali algoritmi testimonia
come sia forte nell’uomo l’ansia di avere certezza nel diritto. La certezza è una questione centrale della
filosofia del diritto, perché, se le relazioni giuridiche non avessero il carattere della certezza e fossero del
tutto lasciate al libero arbitrio delle singole parti, non potrebbero neppure essere considerate proprie della
giuridicità, sarebbero relazioni di altro tipo: ad esempio, nella relazione amicale non posso avere la certezza
che l’altro possa continuare a essermi amico, egli può romperla senza per questo subire nessuna sanzione.
In una relazione giuridica si ha la certezza che il contenuto che vi entra si concretizza: qualora una delle
parti non voglia adempiere a quanto convenuto, c’è la possibilità di farla adempiere coattamente
attraverso l’intervento del magistrato terzo. Senza la certezza che è propria della giuridicità l’umanità si
sfalderebbe, perché ogni progetto potrebbe fallire nell’istante successivo al suo concepimento.

Da qui il fascino che esercitano i tribunali algoritmici, ove la certezza che è propria del diritto è garantito
dalla natura matematica del loro funzionamento che taglia fuori l’incertezza e l’ambiguità derivanti dalla
parola. Essi avrebbero, dunque, come scopo quello che hanno anche i tribunali tradizionali, ossia la ricerca
della verità. Si tratterebbe pero di una verità intesa come adequatio rei et intellectus, ossia come
l’adeguazione dell’intelletto alla cosa al fine di poterla nominare.
Tuttavia, la verità delle condotte umane, sulla quale pone la sua lente il magistrato, non è una res perché è
costruita da una serie di intenzioni non reificabili. Di conseguenza, chi emette il giudizio non può incontrare
la condotta umana come se fosse una cosa, perché essa è fatta non solo da cose ma anche da altri elementi
quali le emozioni, il pathos che distinguono gli esseri umani dagli altri enti.

Il pathos è la dimensione dell’affettività, dell’empatia che fa sì che quando l’IO incontra l’altro non lo fa solo
adeguandosi correttamente alla sua coseità ma facendo presente il suo IO, i suoi progetti e tutto ciò che è
proprio del linguaggio delle parole. Rispetto al linguaggio dei numeri, quello delle parole è qualcosa di
totalmente altro, perché la parola presenta qualcosa di irriducibile a un’entità numerabile. Quindi rispetto
all’’IO, non è applicabile la formula adequatio rei et intellectus perché non si può predicare nessuna verità.

Sulla distinzione tra il linguaggio dei numeri e quello delle parole sono illuminanti alcune riflessioni di Karl
Jaspers tratte dal suo saggio Sulla verità.
Jaspers, per l’esattezza, distingue tra segni e parole: i segni sono di fatto affini ai numeri, sono univoci e
hanno i tratti propri della certezza della matematica e della chimica. Le parole sono costitutivamente
ambigue perché nella loro polisemia consentono che l’altro risponda mentre i numeri consentono solo che
l’altro registri una numerazione, quindi che prenda atto senza interagire con il risultato dell’operazione.
I numeri sono senza vita, sono spenti, sono fissati nella loro collocazione in una scala numerica mentre
invece le parole non sono morte, hanno ciò che proprio della vita, della trasformazione del significato nel
tempo che arricchisce nel corso della sua storia le sue diverse possibili interpretazioni. Rispetto ai numeri,
le parole conservano un aspetto oscuro, un enigma che è dovuto all’attesa dell’interpretazione: ognuno
infatti si chiede, nel pronunciare una parola, come l’altro la interpreterà. La risposta dell’altro potrà essere
del tutto diversa dalle attese di chi l’ascolta. La parola consente una relazione costantemente viva: è
incerta, sì, ma proprio nell’incertezza manifesta la ricchezza della possibilità umana.
Le parole determinano anche la qualità della relazione, possono determinare se essa possa continuare o
meno: con i numeri, invece, il dialogo non si è mai avviato e quindi non si pone neppure l’alternativa se
esso continui o termini.
Jaspers, inoltre, fa riferimento esplicito a questa considerazione: dice che il linguaggio dei segni può essere
quello che ben si adatta alla costruzione formale del diritto ossia del formalismo giuridico, della legalità.
Però se è vero che il linguaggio dei numeri si avvicina alla ricerca della legalità, è anche vero che esso si
allontana dalla ricerca della giustizia: la giustizia non può essere incontrata mediante la dimensione della
certezza, perché essa attiene alla qualità delle relazioni; la legalità invece è attenta alla certezza delle
relazioni.

Bisogna quindi considerare che i numeri si leggono all’interno di un sistema numerico, le parole si leggono
nel contesto della frase, esse acquistano un significato in quanto sono poste in una determinata posizione
nella frase: solo le parole hanno la possibilità di illuminare il proprio significato in base al contesto in cui
vengono usate. La parola esige la frase, quindi esige che l’io parli, che sia un soggetto parlante

FILOSOFIA DEL DIRITTO 26/10/2020


Abbiamo visto che il principio dialogico della genesi fenomenologica del diritto, prende forma nella
coalescenza tra lògos e nòmos.
Il pensiero di Ludwig Feuerbach, insieme a quello dei classici della filosofia del diritto, ci aiuta a
comprendere meglio perché il diritto non possa essere esaustivamente ridotto od omologato a un
algoritmo. Egli afferma che il vero principio del vivere ma anche della filosofia e della fisiologia non è l’Io,
ossia un principio narcisistico e autoreferenziale, ma l’Io-e-Tu, diversi e connessi. L’io e il Tu sono al
contempo soggetto e oggetto, perché l’Io si soggettivizza nella relazione con il Tu e al contempo si
oggettivizza.
La presenza di un IO e di un TU non è un fatto automatizzabile e neanche un fatto fisiologico.

Il diritto è anzitutto relazione interpersonale, perché esso va a misurare l’Io-e-Tu ed è nella particella “e”
che si determina la giuridicità della relazione interpersonale. Nella relazione il soggetto non è da solo di
fronte alla sua coscienza, ma si trova di fronte ad altri soggetti regolati dalle norme di condotta. Solo
quando un TU si presenta a un IO comincia a essere valida la norma giuridica.

L’UOMO NON NASCE CON IL DIRITTO; IL DIRITTO NASCE CON L’UOMO, È L’UOMO CHE LO PONE, PERCHE
LA GENESI FENOMENOLOGICA DEL DIRITTO RISIEDE NELLA RELAZIONE DELL’IO CON OGNI ALTRO TU NEL
SENSO DI COMUNITÀ

La comunità è incentrata in un “noi”, cioè non nel solo Io-e-Tu ma nella concentrazione dell’alterità è
incentrata in una noità. Non si rimane incentrati su sé stessi nella particolarità eccentrica del sé-stesso, ma
ci si apre a un orizzonte generale. È l’alterità che fonda insieme all’egoità il diritto, ma senza il concetto di
alterità il diritto non avrebbe nessuna ragion d’essere; non può esistere, infatti un diritto per sé stessi,
ma può esistere un diritto in relazione.
La presenza di alterità distrae dall’eccentricità della singolarità. Il singolo IO da eccentrico si decentra nella
relazione con l’alterità: esce dalla relazione con la singolarità e mutua dall’altro la consapevolezza di essere
un IO diverso dal TU: la relazione di riconoscimento non si compie con un’imposizione ma con una
mutuazione reciproca.

Il riconoscimento, come dirà Buber è un “trovarsi a casa”. Egli inoltre ci dice che se l’altro viene ridotto a un
ESSO, la relazione giuridica è messa a rischio perché l’altro non viene più visto come un “altro Io” che ha la
capacità di riconoscersi nell’Io, ma come un oggetto: questo ESSO diventa oggetto di un dominio assoluto di
un IO
In definitiva secondo Feuerbach, l’uomo è a sé stesso contemporaneamente IO e TU, egli è capace di porre
sé stesso al posto degli altri perché ha come oggetto il proprio genere, la propria essenza e non la propria
individualità.

Avevamo fatto riferimento al fatto che di fronte alle figure dei robot giudici e dei robot legislatori nasce
l’alternativa tra esistere e funzionare, presa in esame da Benasayag, perché queste figure tendono a
considerare che, al pari delle macchine, anche gli esseri umani siano dei semplici elementi funzionanti
senza un soggetto autore e destinatario del funzionamento. Siamo di fronte a un fondamentalismo
funzionale e cio viene elaborato dal pensatore tedesco Luhmann secondo cui l’essenziale, in tutti i sistemi
sociali, è che vi sia la priorità del funzionare, che vi sia un successo funzionale, non occorre chiedersi quale
sia la ragione del funzionare.
L’affermazione di questo fondamentalismo funzionale potrebbe compiersi qualora non intervenissero i
corpi degli esseri umani, quindi come se anche gli esseri umani potessero essere incontrati come congegni
macchinici. L’ideale secondo Benasayag, è che le informazioni circolassero senza i corpi». Tuttavia questo è
impossibile, perché gli uomini sono dotati dei cinque sensi; anche gli altri viventi non umani hanno i sensi,
ma c’è nell’uomo un fatto originalissimo, che i cinque sensi sono continuamente in connessione con la vita
interiore, e laddove c’è un riferimento alla vita interiore c’è l’interrogarsi sul senso. La domanda Che senso
ha?», che può essere anche intesa come Che senso ha per me nella relazione che ho con gli altri? è una
domanda esclusivamente umana perché appartiene alla vita interiore. L’idea che si possa fare a meno dei
corpi, meccanicizzando gli esseri umani per meglio far circolare le informazioni, non può avere
un’argomentazione sufficiente in quanto vi dovrebbero essere uomini senza corpi oppure con sensi che non
hanno connessioni con una vita interiore.

Heidegger si chiede Che cosa è il senso? le parole pongono il problema del senso perché non si riducono a
soli suoni. La lingua umana nasce perché ci si chiede il senso dei suoni che vengono prodotti con la
fonazione. Gli altri esseri non umani non accedono alla peculiarità della parola che è quella di non avere
solo un suono ma anche un senso. Il non sensibile nelle parole è il loro senso cioè ciò che di esse non è
sensibile è ciò che costituisce il senso, il significato delle parole; il senso è ciò che non può essere ridotto al
sensibile. Il senso proprio delle parole non è un ché di materiale, è il non sensibile. Quando si dialoga non
passano tra due persone solo il suono delle parole ma anche la loro componente non sensibile.

La questione del senso comporta che, ogni volta che si dialoghi, il senso venga continuamente messo in
discussione: quando si ascolta una comunicazione, vi è anche una costante attività interpretativa, perché
ogni suono chiede di essere interpretato. Secondo Heidegger, il dialogo costituisce il nucleo
dell’interpretazione e ogni interpretazione è un dialogo con l’opera e con il detto. È un dialogo con
l’opera, ad esempio, l’interpretazione che fa il giurista che dialoga prioritariamente con l’opera del
legislatore.
Ogni dialogo secondo Heidegger, non appena si limita a ciò che viene immediatamente detto, si
irrigidisce in esso, quando cioè si ritiene che l’interpretazione si possa limitare a prendere atto di ciò che è
immediatamente detto, e non si continua a ricercare in modo inesauribile il significato, il senso.
In un dibattimento in cui le leggi sono date dal robot legislatore e le sentenze dal robot-giudice non
potremmo scorgere nulla del lavoro interpretativo. Il robot-giudice non può interpretare, perché
l’interpretazione cerca il senso rompendo la rigidità dei dati e si svolge in un dialogo con gli altri, quindi
s’inserisce nel movimento del domandare e dell’attendere una risposta. Quindi dal momento che il robot-
giudice non sa interpretare le sue sentenze saranno il risultato di una mera tecnica di elaborazione dei dati.
Heidegger, in Filosofia e cibernetica” dice che la cibernetica ritiene che gli elementi di informazione
circolanti nelle macchine siano omogenei a quelli che fanno funzionare gli esseri umani. Secondo Heidegger
la cibernetica unifica tutte le varie scienze e opera in modo che si costruisca la pretesa di un dominio che
imprime il carattere di pianificazione e controllo su ogni attivita umana. Si tratta proprio ciò che oggi accade
nelle reti, attraverso le quali i signori della rete, profilandoci, hanno su di noi un potere di pianificazione e di
controllo tale da rendere tutta l’esistenza umana serva di queste tecnologie.

L’imputabilità si distingue dall’imputazione essendo quest’ultima il riferire alcuni dati a una certa
situazione ad un determinato soggetto, mentre l’imputabilità è la responsabilità dell’individuo sulle proprie
condotte, ascrivibili solo alla propria unità indivisibile della sua personalità.
Ecco il robot-giudice si ferma alla frammentarietà dell’imputazione, in quanto non è in grado di incontrare
la responsabilità dell’intero individuo. L’imputazione non è dunque sufficiente a risalire all’imputabilità di
una persona: il robot-giudice potrà dunque avere la massima efficienza nell’imputazione, ma totalmente
incapace di chiarire l’imputabilità.

Finché rimaniamo nell’ordine dell’imputazione non c’è nulla di giuridico: l’imputazione è il limitarsi ad
attribuire a un effetto una causa, non una scelta. Sono frutto di una causa tutti i fenomeni naturali. Gli atti
umani, al contrario, sono l’effetto di una scelta quindi l’imputabilità umana si riferisce proprio alla
possibilità dell’essere umano parlante di scegliere fra tante alternative. L’uomo si trova costantemente
nell’alternativa tra esistere, quindi poter essere imputabile, o vivere, quindi rimanere nel nesso di
imputazione.
Cicerone, riferendosi al rapporto tra uomo e bestia, diceva che le bestie rimangono nell’ordine dei cinque
sensi limitandosi a reagire agli stimoli in base alla pura necessità: solo gli uomini vivono lo iato tra gli stimoli
che ricevono e la possibilità di scegliere come reagire a essi, solo essi possono scegliere se riconoscere
l’altro nella sua differenza oppure escluderlo.
L’imputazione riferisce qualcosa a qualche altra cosa; l’imputabilità riferisce qualcosa a qualcuno: ritorna
così centrale la distinzione, trattata da Spaemann, tra l’essere qualcosa e l’essere qualcuno.
Tuttavia se oggi è possibile avere una conoscenza così compiuta dei dati, la coscienza non diventa altro che
una coscienza spettatrice, che lascia che tutto proceda secondo le previsioni algoritmiche; una coscienza
spettatrice però non è più una coscienza imputabile e perde ogni peculiarità dell’umano

Le parole non sono dei numeri, le parole esigono che se ne colga il senso, che non può essere numerizzato,
descritto o messo in formula mentre i numeri non consentono che da essi possano essere instaurati nuovi
linguaggi umani, perché dai numeri non viene nessun senso. Ad esempio nessuno ha ritenuto possibile
poetare tramite numeri. La poesia manifesta l’irrinunciabilità delle parole, è un’arte per richiama sempre
qualcosa che sta al di là, che eccede da ciò che.
Anche quella del giurista è un’arte nella quale vi è la ricerca del bene e del giusto

FILOSOFIA DEL DIRITTO 27/10/2020

Il fascino del trattamento algoritmico del giudizio è dato dalla possibilità di ridurre notevolmente, tramite
esso, i tempi della giustizia e dalla massima certezza che esso dà: però anche i sistemi algoritmici, come
tutti i sistemi, non possono essere perfetti. Tegmark a proposito afferma nettamente che il sistema
perfetto non esiste, riferendosi proprio al sistema giuridico: non vi è quindi neppure un giudizio robotico
perfetto. Ad esempio, è impossibile dare consistenza alla dimensione del pentimento tramite un
trattamento matematico di dati: ciò perché il pentimento è una delle dimensioni proprie della vita
interiore, che l’algoritmo non può oggettivare; inoltre, il pentimento potrebbe essere finto dall’imputato,
con il presumibile obiettivo di farsi accogliere meglio degli altri che lo stanno giudicando, ed avere quindi
una condanna meno dura.
Il senso, cosi come il desiderio, è perennemente aperto. Per Lacan infatti il desiderio è fondamentalmente
desiderio di desiderio. Il desiderio non è mai sazio, lo può essere l’appetito, ma il desiderio è
diametralmente altro dall’appetito. Nel desiderio l’uomo vuole mantenersi come desiderante perché
avverte che solo così continua a mantenersi vivo nella sua autonomia esistenziale; se il desiderio fosse
sazio, l’uomo vedrebbe spegnersi anche la sua esistenza.
Il desiderio si situa in una vita immateriale, quella interiore che non ha una oggettivabilità e fungibilità.
desiderio, rispetto al bisogno che si può saziare, non si spegne mai, mantiene l’esserci in un’ulteriorità
desiderante, in quella che Pascal chiama metaforicamente fame di senso; il bisogno è sempre bisogno di
qualcosa di puntuale, mentre il desiderio è desiderio di desiderio dell’altro, di mantenerlo come
desiderante nella società dialogica. Nella civiltà dei dati il desiderio tende a spegnersi:

Cosi come dice Heidegger, il senso è il non sensibile: il senso, non si raggiunge con i cinque sensi ma
neppure con alcuna procedura di calcolo, perché è ciò che si presenta e simultaneamente si sottrae.
Proprio per tale sua struttura, il senso si sottrae da ogni possibile elaborazione algoritmica.

Con intenzione, si intende nel diritto come pensiero che si concretizza nella realtà, che incide sulla libertà di
altri soggetti violandola o meno. Nessuno può essere imputato per un puro pensiero, perché nessuno può
dominare totalmente i suoi pensieri.
Ogni pensiero porta ogni possibile interpretazione, quindi in questo senso comprendiamo perché sussista la
necessità dell’interpretazione, essendo essa il tentativo di conoscere il senso che non conosciamo dei nostri
pensieri.
Heidegger inoltre dice che ogni interpretazione è un dialogo, non è un calcolo delegabile a una macchina. Il
dialogo implica sempre coinvolgere l’altro. Si interpreta proprio perché cerchiamo ciò che non è esplicito
nel detto, cerchiamo il non detto. È proprio tipico delle parole il dire qualcosa in più di ciò che è detto, che
rimane appunto un non detto. L’attività dell’interpretazione giuridica punta far luce sul non detto, quindi
anche ciò che nel conscio rimane inconscio, che rimane tra il detto e il non detto
L’interpretazione rimane un’arte e non una tecnica perché lavora su un linguaggio, quello delle parole,
che non si lascia tecnicizzare e accertare matematicamente. Il suo risultato non può dunque essere una
certezza assoluta, ma è sempre sottoponibile a ulteriore verifica.

Vi è un movimento dialettico, nell’interpretazione, tra due versanti essenziali l’uno all’altro, quello del
presentarsi e quello dell’assentarsi: il primo, nel suo fermarsi e irrigidirsi, rimanda sempre simultaneamente
al secondo, sollecita cioè una nuova lettura del senso che si è presentato e oggettivato, la continuazione
della ricerca di senso; se ciò non avviene il dialogo interpretativo si spegne.
Quindi, in tutto ciò che attiene alle condotte umane sottoposte a giudizio, vi è un presentarsi
dell’enunciazione, il frutto dell’attività di ricerca e di chiarimento, a cui segue immediatamente quello
dell’assentarsi, ossia il sottrarsi dall’accettazione dell’enunciato.

Impropriamente si tende a considerare una medesima cosa il diritto e le leggi. Le leggi però scritte e vigenti
in un dato tempo mentre il diritto non può mai essere scritto perché non si può dire in modo compiuto cosa
sia il diritto: il diritto non può essere detto integralmente perché il futuro non può essere detto
integralmente. Se fosse possibile fissare il diritto, ossia dire una volta per tutte cosa sia il diritto, questo non
sarebbe più sottoposto al mutare degli eventi: il diritto si trasformerà di volta in volta prendendo atto delle
trasformazioni delle relazioni storiche tra gli esseri umani. Il diritto agisce attraverso le singole norme, che
in quanto tali devono definire con precisione le loro fattispecie per dare certezza al diritto: dunque, le
norme possono fissare determinati contenuti giuridici, ma non si può fissare il diritto.
Nella vita sociale degli esseri umani non c’è solo il diritto, c’è ad esempio l’economia con le sue leggi, ma ci
sono anche le varie scienze con le loro leggi: ma mentre queste leggi si riferiscono a quella regione
particolare della conoscenza umana, le norme giuridiche si distinguono da tutte le altre perché hanno a che
fare con la peculiarità del fenomeno diritto, e la peculiarità del diritto è il fatto di riferirsi all’essere umano.
Nessuno può sensatamente parlare di diritto nella chimica o nell’economia, perché le leggi della chimica e
dell’economia non incontrano l’uomo: solo il diritto incontra l’uomo, l’uomo cioè che ha delle pretese
irrinunciabili, dei diritti fondamentali incondizionati, che non possono essere relativizzati da nessuna
condizione storica: ad esempio, il diritto a garantire la formazione libera della personalità.
È necessario che accanto al diritto vi sia la fissità delle singole norme giuridiche, nessuna norma però può
fare a meno di riferirsi al diritto. Allo stesso tempo nessuna norma di nessun Codice potrà dire
integralmente il diritto, perché esso, proprio come il senso, non può essere totalmente enunciato. Tale
analogia tra l’indicibilità del senso e del diritto sussiste perché entrambi attengono il rispetto della persona
umana che è essa stessa non oggettivabile e quindi non trattabile come una massa di dati

FILOSOFIA DEL DIRITTO 28/10/2020

Cos’è che unisce il potere dei dati con il potere di automatizzazione?


Si tratta di un legame che nasce dalla convinzione che la crescita indefinita della quantità dei dati rende
tendenzialmente possibile averne una conoscenza totale e quindi avere un dominio di tutti i dati che si
possa concretizzare in un processo automatico, che non esige nessun intervento da parte dell’uomo. Un
simile processo di automatizzazione dovrebbe garantire una certezza del diritto in generale e in
particolare della sentenza del magistrato: infatti, un giudizio automatizzato, facendo a meno di ogni
intervento di parte dell’uomo, rimuoverebbe ogni problematica circa il pregiudizio e la parzialità del
giudice umano, l’influenza di una particolare ideologia. Sembrerebbe che l’automatizzazione rappresenti
perfettamente la terzietà del diritto, perché fondata solo sui numeri che sono di per sé imparziali, al
contrario delle parole e della ricerca del senso ma in tale prospettiva però si dimentica che il potere dei dati
non potrebbe sussistere senza l’uomo, perché esso non si è autoprodotto, dietro a esso c’è pur sempre un
uomo, colui che ha programmato l’algoritmo che permette il funzionamento del robot-giudice

Il passaggio dal potere dei dati al potere di automatizzazione esige l’opera di un programmatore, di un
uomo che nel regolare una procedura algoritmica si trova di fronte a più alternative, tra cui scegliere a
seconda della propria peculiare visione del mondo. Questo programmatore sarà sempre un uomo, e in
quanto tale sarà sempre attraversato da una pluralità di direzioni di senso e non avrà un unico sapere ma
molti saperi parziali e proprio per questo dovrà compiere delle scelte.

Ci si convince che ormai il libero arbitrio sia, di fronte al potere dei dati sempre crescente, un atto difettivo.
Il libero arbitrio non esige più protezione giuridica ma viene con sempre maggior facilità delegato perché
siamo spinti dal nostro utilitarismo a una vita più agevole e semplice. Da un punto di vista teoretico, l’atto
del libero arbitrio è considerato difettivo perché esso ancora manca della certezza dell’oggettività
matematica: nessun singolo magistrato potrà avere la conoscenza di tutti i dati di una certa situazione, che
è propria invece dell’elaborazione algoritmica dei dati.

Il libero arbitrio è tale perché è l’esercizio di una possibilità che è più alta della realtà perché è la sola
dimensione esclusiva degli esseri umani: gli altri viventi non umani hanno solo l’inclinazione a seguire le
proprie memorie biologiche, l’uomo ha anche intenzioni che eccedono dalle proprie memorie.
Alla dignita umana appartiene l’essere artefice di una attività creativa che porta a essere chiamati a
rispondere degli effetti che essa produce nella qualità della relazione con gli altri.
Anche il robot-giudice non potrà non incontrare dei soggetti però i soggetti con cui avrà a che fare saranno
titolari di una soggettività digitale quantitativa, non potrà mai avere a che fare con una soggettività
qualitativa, perché esso emetterà le sue sentenze avendo come unico riferimento l’elaborazione dei dati. La
soggettività digitale quantitativa si limiterà a essere il luogo in cui si svolge il processo di automatizzazione.
Mancherà ogni riferimento a una soggettività qualitativa, perché se fosse il contrario il robot-giudice
dovrebbe avere a che fare con le intenzioni, dovrebbe aprire un dialogo che chiarisca la qualità della scelta
che si compiono, dovrebbe trattarlo come un soggetto dotato di libero arbitrio: ma questo soggetto esigerà
un magistrato in carne e ossa, capace di dialogare con lui.
Il robot-giudice invece non è portatore di libero arbitrio e di vita interiore: solo chi ha una vita interiore può
incontrare e entrare in sintonia con un altro soggetto con una vita interiore. Nella vita interiore ci sono tutti
i sentimenti, la tristezza, l’entusiasmo, l’angoscia, l’amore, l’odio, l’indifferenza, ecc. che
nell’automatizzazione non hanno più alcuna cittadinanza.

Oggi abbiamo un nuovo “Dio”, l’algoritmo, perché esso si prospetta avere un sapere finalmente compiuto,
che non ammette lacune: in tal modo rischia di non lasciare all’uomo alcuna delle dimensioni che gli sono
proprie, quelle cioè di una soggettività qualitativa e un sapere sempre in cammino. Il sapere algoritmico,
non può dirsi propriamente un sapere in cammino, perche, anche a quanto dice Heidegger, il sapere in
cammino è tale perché corrisponde a questo cammino che è la ricerca di senso dell’uomo. Il pensiero
stesso è un cammino, mentre il pensiero algoritmico non è un cammino, e non può nemmeno definirsi
pensiero, perché un pensiero è tale se rimane in cammino, se esige sempre la risposta dell’altro.

Ciò ci fa notare che, se dovessimo rimanere sempre e soltanto in questo cammino inesauribile, non
emetteremmo mai un giudizio giuridico, perché questo a un certo punto deve chiudere il cammino. Si deve
dunque conciliare l’esigenza della definitività del giudizio con la struttura sempre in movimento del
pensiero umano e ciò avviene considerando la definitività del giudizio una finzione giuridica. Si finge che ci
sia un giudizio che abbia in sé una compiutezza, ma si ha consapevolezza che in realtà nessun giudizio può
dirsi veramente compiuto, possono sempre emergere nuovi elementi capaci di riaprirlo. Solo così si può
garantire la certezza delle relazioni umani anche perche se eliminassimo ogni finzione giuridiche, ci sarebbe
un processo che dura per l’intera storia dell’umanità.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 02/11/2020

Ci siamo soffermati sulla possibilità o meno di automatizzare il giudizio giuridico. La velocità e potenza di
calcolo ottenuta dalle intelligenze artificiali dipende dall’applicazione di alcuni filtri: come per una ricerca su
Google rapida ed efficiente è necessario che siano operativi determinati filtri, lo stesso avverrebbe in un
giudizio algoritmico: quando si chiede a un algoritmo di dirci tutto quel che si può riferire ai termini di
ricerca immessi, la risposta passa sempre attraverso dei filtri. Quest’ultimi consentono di restringere il
bacino di ricerca in riferimento ai dati lasciati da chi ha già usato la piattaforma ed è quindi stato profilato.

La profilazione fa in modo che la nostra libertà venga incontrata come una libertà automatizzata: una volta
definito un profilo, l’utente sarà in qualche misura già automatizzato, e non viene incontrato per la nostra
possibilità di cambiare direzione nella sua ricerca, ma solo per quello che c’è sul suo profilo.

Una libertà automatizzata scarsamente può interessare il diritto, perché su di essa non si può formulare
nessun giudizio giuridico, ma si può solo prendere atto del funzionamento o meno del processo di
automatizzazione, e da ciò non si può certo desumere una responsabilità giuridica. Una libertà
automatizzata. Una libertà automatizzata, e quindi digitalizzata, perde ogni cosa che possa avere rilievo nel
diritto: perde ad esempio, quel sapere che non si sa che è l’inconscio di una persona, in quanto
l’automatizzazione tratta il suo sapere come un sapere che può essere integralmente saputo.
Gli esseri umani non hanno un rapporto con gli algoritmi. Infatti, si può parlare di rapporto quando gli esseri
umani hanno l’alternativa tra considerare l’altro come un Tu o come un Esso, alternativa che non si pone
entrando in rete, nella quale l’uomo ha a che fare non con altri esseri parlanti, né con i signori della rete,
ma con gli algoritmi. Con gli algoritmi non si può istaurare un dialogo, e senza dialogo non c’è
comunicazione, e senza comunicazione non c’è pensiero, perché il pensiero è comunicazione.

Tempo fa, analogamente all’attuale opera di profilazione in rete, si era ritenuto possibile creare una tecnica
dell’indagine basata sulla costruzione di un profilo del criminale attraverso la raccolta di tutti i dati sul suo
comportamento, che desse agli organi di polizia una completa padronanza sul suo comportamento futuro e
permettesse così di anticipare il prossimo reato cogliendolo in flagrante. Tuttavia anche nella struttura della
personalità del criminale può però esserci l’occasione di una svolta, essa sfugge alla possibilità di un sapere
integrale. Ciò ci mostra che su ogni profilo umano non può essere raggiunto un sapere senza lacune, perché
non anticipabile nella sua interezza. Si coglie allora il fallimento dell’automatizzazione nel fatto che non
può essere mai totalmente compiuta.

In un essere umano vi è sempre la presenza di un sapere di non sapere, un sapere che è aperto al rischio,
alla ricerca, che non ritiene di poter costituire un algoritmo definitivo.

Si può allora affermare, sulla nostra civiltà dei dati, come dice Lovink in Nichilismo digitale, che gli strumenti
dell’intelligenza artificiale sono delle macchine da guerra in senso hegeliano, perché hanno il fine
economico di controllare l’esperienza dell’utilizzatore: se in apparenza la rete è gratuita, avendo acquisito
dei loro dati fa sì che gli utenti siano sottomettessi al controllo di una logica economica. Quando di volta in
volta cambiano gli algoritmi, cambia anche la successione dei suggerimenti. Nel caso di Facebook, la
possibilità di cogliere un’amicizia piuttosto che un’altra.
Anche l’amicizia è dunque diventata qualcosa di commercializzabile. In Facebook si ha un vero e proprio
mercato delle amicizie. Si tratta però non di amicizie, ma di connessioni che ci rendono sempre più
facilmente tracciabili: il fascino dei social sta proprio nel fatto che in essi la vita interiore di ognuno viene
del tutto esteriorizzata, in quanto viene reso facilmente conoscibile a tutti ogni accadimento dell’interiorità
degli altri: ma con l’esteriorizzazione totale della vita interiore di essa in realtà non rimane granché nulla,
perché essa è tale proprio in quanto non oggettivabile. Alcuni parlano, a tal proposito, della cosiddetta
“legge di Zuckerberg”, secondo cui il meglio che si sia potuto ottenere da Facebook è quello di rendere
partecipi tutti di tutto. C’è da considerare, però che l’amore, la gioia, l’entusiasmo e il senso della bellezza
sono tutte dimensioni che appartengono esclusivamente alla vita interiore e per questo non sono
esteriorizzabili, quindi digitalizzabili e non si lasciano trattare in dimensione calcolabile. I numeri danno
certezza, e proprio la certezza è un principio cruciale nel diritto, ma per avere nel diritto la stessa certezza
che si ha nei numeri, dovremmo riuscire a digitalizzare tutto ciò che è essenziale nel diritto, quindi a
rendere inessenziali le parole.

La distinzione tra legalità e giustizia può essere fatta solo da esseri umani, perché è una distinzione tra
mezzo e scopo: la macchina non sa distinguere tra mezzi e scopi, il processo di automatizzazione fa cadere
questa distinzione. Sostanzialmente, la legalità viene vista come mezzo e la giustizia come fine. Tuttavia Il
verdetto algoritmico è, infatti, una certezza che cancella ogni distinzione tra mezzo e scopo: con
l’istituzione della legalità si ha la consapevolezza che essa non potrà mai completamente sostituire la
giustizia anche perche ad esempio in un tribunale di un regime dittatoriale si privilegia una legalità che è
ingiusta nello scopo che persegue e quindi rende impossibile il raggiungimento della giustizia. Il giudizio
algoritmico non rappresenta la vittoria né della legalità né tantomeno della giustizia, ma solo quella del
programma.
Prendendo in considerazione la figura dell’avvocato il cui ruolo è essenziale: egli potrà servirsi delle
strumentazioni digitali per acquisire una conoscenza più completa possibile sulla vicenda giuridica, ma quei
dati raccolti non avrebbero un senso in sé e per sé, ma lo assumerebbero solo se visti come il mezzo
attraverso cui costruire le argomentazioni in sostegno del proprio cliente.

Si ricorda uno studio del Prof. Romano che ricollega il giudizio giuridico al giudizio estetico in Kant. In esso
veniva ripresa la distinzione kantiana tra il giudizio determinante e quello riflettente evidenziando come la
condizione di avere una “datità”, quella cioè in cui l’universale è già dato, è proprio di un giudizio tecnico,
determinante, mentre nel giudizio riflettente non è mai una “datità” ma è sempre da ricercare, e ciò rende
possibile l’interpretazione giuridica, che deve sempre essere compiuta da parte di una figura terza. Il
giudizio giuridico è accostabile al giudizio estetico, quindi all’arte. In quanto tale, l’arte ricerca e coglie sì
l’universale, ma presentandolo di volta in volta nel particolare: infatti, non c’è mai un arte solo universale.
Anche un furto, per quanto possa essere standardizzato, implica la necessità di individuare la ragione del
furto, per cui è essenziale l’attività del terzo giudicante capace di distinguere il mezzo dallo scopo in quella
peculiare circostanza.

C’è una cosa fondamentale in cui la macchina non può sostituire il giudice: il ruolo del giudice è, infatti, non
è solo ripetitivo della legge, ma anche creativo. Paolo Grossi scrive che il giudice, nell’osservanza della
legge, ha la libertà di interpretare la stessa: attraverso il giudizio meramente constatativo si ha quello
costitutivo, che Grossi chiama l’invenzione del diritto. Il giudice chiaramente non crea il diritto ma lo può
trasformare: quindi il giudice è “creatore” del diritto tramite l’interpretazione.
C’è poi un secondo elemento da sottolineare, il principio, vigente soprattutto in materia penale, secondo il
quale il giudice ha il libero convincimento dei mezzi di prova una volta esaminati. Egli non è dunque
vincolato alle prove formali

Oggi si tende a essere stanchi della libertà, dell’impegno di energie che richiede il fare delle scelte, fermarsi
a riflettere e a dubitare, e siamo facilmente portati, per un calcolo utilitaristico, a lasciarci automatizzare,
dall’acquisire quella libertà automatizzata che ci viene offerta dalle moderne strumentazioni: ma una volta
avvenuto ciò, non avremmo più nulla di umano. La libertà automatizzata è la negazione della libertà,
perché una libertà che sia totalmente spiegata non può più essere considerata libertà.

Laddove c’è disuguaglianza, come avviene in rete, nella quale sussiste una sproporzione immensa tra i
signori della rete e gli utenti, non c’è diritto, e quindi la certezza di un diritto terzo a cui rivolgere la propria
pretesa giuridica: si rimane in una relazione solo duale, in cui non può che vincere il più forte, ossia i
padroni delle piattaforme. Nella terzietà invece il diritto può intervenire invece con la sua controfattualità,
ossia con il suo ristabilire la qualità delle relazioni annullando ogni fatto che possa incrinarla.
Oggi, una volta ceduti i suoi dati, l’utente non può pretendere una disciplina giuridica dei dati, ed è come
se egli non vivesse più a casa sua, ma degli “altri” che hanno stabilito le regole di accesso alla rete, e non
se ne rende facilmente conto, perché questi “altri” non mostrano di essere i padroni di questa casa, non
gli fanno accorgere che quella libertà che gli viene offerta è in realtà la loro libertà

FILOSOFIA DEL DIRITTO 03/11/2020

Per cio che concerne il libero convincimento, esso non può essere confuso con l’arbitrio: il giudice non può
emettere il giudizio lasciando tutto alla casualità ma con la consapevolezza che, decorso un certo tempo,
dovrà presentare le motivazioni della sentenza: pur essendo libero, dunque, il suo convincimento deve
essere ancorato ha una motivazione ben argomentata. Un convincimento libero non potrebbe essere
algoritmico; il robot-giudice non potrebbe esercitare un giudizio frutto di libero convincimento né
tantomeno dare a questo giudizio delle motivazioni a quello che non è altro un successo numerico.
Nell’attuale ordinamento giuridico, il libero convincimento del magistrato non potrà essere arbitrario, ma
lascerà che le parti ascoltino le motivazioni e poi eventualmente facciano ricorso in appello secondo le
procedure previste

A differenza delle macchine, gli esseri umani, e quindi anche i giudici, decidono basandosi sulla loro
comprensione dell’obiettivo: comprendere un obiettivo significa non limitarsi a trattarlo come un insieme
di dati da sommare e combinare, si tratta di comprendere un obiettivo ragionando e dialogando con gli altri
anche perche se così non accadesse, il giudice farebbe la fine di tutti i narcisisti che, chiudendosi nella loro
autosufficienza, non mettono mai in dubbio le proprie convinzioni.
L’obiettivo che il giudice deve comprendere attraverso il dialogo è la legalità, ossia la produzione del
legislatore, a cui va ancorato il suo libero convincimento: ma la legalità è solo un mezzo, essa ha la funzione
strumentale di garantire certezza, mentre lo scopo è la giustizia. Invece, laddove vi è una dittatura lo
strumento della legge viene a identificarsi con la giustizia, cosicché si ha un diritto imposto, anziché un
diritto giusto, e vi è dunque, un assorbimento della giustizia nella legalità: c’è una somiglianza di fondo con
la condizione contemporanea, il fatto che nella rete c’è sì una legalità, che però consiste in regole di
accesso alla rete imposte dai “signori”: l’utente non ha nessuna possibilità di pretendere che la gestione dei
propri dati e di conseguenza i profitti che se ne ricavano possano essere condivisi. Dunque, nella rete non vi
è una legalità che tenda alla giustizia perché le regole non sono discusse democraticamente.
Eppure, anche i signori della rete, da esseri umani, hanno delle visioni che, per quanto possano consistere
nella volontà di padroneggiare e creare delle sproporzioni, appartengono comunque alla capacità
unicamente umana di compiere un’opera creativa: anche una legalità imposta è un’opera della creatività
umana

Esponendo la tesi di Pierre Legendre, con il diritto si istituisce una seconda vita. Mentre gli esseri non
umani hanno un’unica vita, quella biologica, gli esseri umani hanno, dunque, la possibilità di istituire una
seconda vita che, accanto alle leggi della natura, presenta l’operatività di leggi che per il fatto stesso di
essere istituite appartengono alla creatività umana: le leggi della fisica e della chimica sono scoperte
dall’uomo ma non da lui create mentre leggi del diritto sono di creazione umana cosi come le leggi morali.
Questa seconda vita è la vita delle istituzioni umane: non è più una vita biologica, ma una vita altra rispetto
alla natura. Alla tesi che solo gli uomini possono distinguere tra mezzi e scopi si potrebbe obiettare che
anche gli animali hanno degli scopi, ad esempio cacciare un altro animale, ma anche questi non sono altro
che un mezzo per l’unico scopo che è la conservazione della vita biologica: gli uomini vanno oltre la mera
conservazione puntando a una migliore qualità della vita, ed è da qui che nasce la civiltà.

Nella rete si ha una sorta di tecno-fisiologia: la legalità digitale imposta dai signori delle piattaforme viene
vissuta da chi accede alla rete come se fosse una legge trovata in natura.

Delle studiose affermano che, una logica esclusivamente quantitativa si limita all’idea che maggiori sono le
informazioni disponibili, maggiori sia la possibilità di accedere ad informazioni che siano coerenti con
l’intenzione di ricerca. Quindi anche sul piano del diritto si potrebbe presumere che quando è più alta la
quantità delle informazioni su una situazione posta sotto il giudizio del giudice, tanto più alta sia la
possibilità di avere dei risultati convergenti, prossimi, alle nostre intenzioni. Qui sta privilegiando la quantità
delle informazioni e si tralascia la priorità che andrebbe data invece alla dimensione qualitativa. Non si può
dare per scontato che all’aumento della quantità dei dati disponibili nel bacino di ricerca corrisponda a tutti
gli effetti una pertinenza alle intenzioni di chi effettua la ricerca. La qualità non dipende dalla quantità, ma
dipende dalla relazione con gli altri.
Possiamo affermare che pensare è esercitare un linguaggio. Inizialmente vi è stato il linguaggio degli
ideogrammi e in seguito quello alfabetico, ma anche in queste diverse manifestazioni del linguaggio si
attesta la stessa cosa: soltanto attraverso il linguaggio il pensiero si svolge, e il linguaggio a sua volta è tale
perché è aperto alla comunicazione, esso è un mezzo per giungere allo scopo di comunicare. Come
dimostrano gli studi di Lacan, il desiderio umano non è desiderio di saziarsi di qualcosa, ma di avere sempre
accanto qualcun altro con cui comunicare per essere sempre sollecitato a tenere desto il desiderio stesso.

Per ciò che concerne il narcisismo si prende in considerazione il Narciso presentato da Ovidio, che si fa
imprigionare e assorbire totalmente dalla sua immagine, si spegne nel suo linguaggio, sì soddisfa di sé
stesso. Il narcisismo si supera quando si recupera la comunicazione con gli altri. Il narcisismo oggi non è
quello di Ovidio ma è il narcisismo digitale, che ci viene imposto dai signori della rete che in modo subdolo
ci comandano di identificarci con quella immagine che è un nostro profilo ben definito. È il narcisismo che ci
fa essere solo consumatori, di eseguire i comandi della rete per soddisfare ciò che l’immagine del profilo
esige: in questo modo ci allontana dalla libertà.

Simmel ci dice che quando si discute a proposito della libertà non si può evitare di porsi queste due
domande: da che cosa si è liberi? E per che cosa, verso cosa? La libertà è prima di tutto una libertà da
qualcosa: ma, una volta ottenuta la libertà da qualcosa, si va in una certa direzione. Secondo Simmel, senza
le domande “Da che cosa si è liberi? Per che cosa si è liberi”, la libertà sarebbe qualcosa di così futile.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 04/11/2020

La logica quantitativa lascia intendere che la sempre maggiore quantità dovrebbe far crescere anche la
qualità, nel nostro caso quella del giudizio giuridico ma la logica qualitativa su cui è incardinato il diritto
nega questa sbrigativa corrispondenza.
La logica quantitativa non si pone il problema del giusto e dell’ingiusto, l’essere coincide con il funzionare:
ma il funzionare non assorbe l’interezza dell’esistenza umana.
La quantità si spiega, la qualità non si spiega, perché in essa compare un atto della persona, che non ha una
spiegazione in quanto interessa prioritariamente la libertà che non può dirsi tale se spiegata in modo
tecnico-scientifico.

La libertà è un processo della vita interiore che avvolge l’interezza dell’io, non i suoi frammenti quali la
condizione economica o la connessione alla rete e qui si ritorna agli interrogativi di Simmel. Per libertà si
intende la libertà da qualcosa e verso qualcosa. Il narcisista, ovvero colui che ritiene sé stesso come
Singolo assoluto, risponderebbe che si è liberi dalle relazioni interpersonali: è invece opportuno rispondere
che la libertà è un liberarsi verso la costituzione continua di un dialogo con gli altri esseri umani che sono
tali proprio in quanto parlanti e consapevoli di non essere autosufficienti. Il narcisismo digitale si genera
ogni volta che si naviga in rete lasciando dei dati per farsi costituire un profilo che per l’abitudine viene
accettato senza consapevolezza critica: l’abitudine si sostituisce alla scelta e alla decisione e porta a che
ognuno sia servilmente efficace nell’esecuzione dei comandi di consumo che riceve.

I rapporti in rete sono tra gli utenti e gli algoritmi che li accolgono per far diventare i loro dati materiale di
profitto per chi li gestisce, ma non li possono riconoscere come persone. Simmel gia nella sua opera
“Filosofia del denaro” coglieva la sempre maggior tendenza verso un dominio del denaro ma nonostane
questo possiamo affermare che, mentre il denaro è commensurabile, la persona umana è
incommensurabile, a essa appartengono i diritti prioritari come il “diritto al futuro”, ossia quello di formare
liberamente la propria personalità.
Simmel si chiede quale sia l’essenza del denaro e la sua essenza è la fungibilità, che fa sì che ogni elemento
quantitativamente pari a un altro possa essere sostituito da questo: esso rende tutto totalmente
omogeneo, mostrando la priorità della quantità sulla qualità. Il denaro funziona in quanto sostituisce al
principio di uguaglianza quello di equivalenza: una cosa può essere ritenuta equivalente a un’altra perché
può essere sostituita con quest’altra. L’equivalenza è la negazione dell’uguaglianza, perché fa sì che le
persone possano essere discriminate in quanto sostituibili, fungibili. Ognuno ha l’impegno a formare
personalità diverse: siamo uguali come persone, siamo diversi nel nostro rischiare nella formazione
originale della personalità: proprio per questa nessuna personalità è equivalente, ossia fungibile in un’altra.

Riprendendo il tema riguardante rapporto tra la bellezza e l’arte da un lato e l’opera d’interpretazione
dall’altro, esse sono dimensioni umane infungibili e per questo non possono essere trattati dagli algoritmi
che non sanno distinguere e rispettare le differenze tra persone così come tra opere d’arte. Tegmark
sostiene che gli algoritmi non possano dire alcunché su come ci si sente a essere umani. Egli inoltre ci dice
che l’arte che è la capacità di compiere una trasmissione di sentimenti: l’algoritmo non è in grado di
compiere alcun trasferimento di sentimenti, perché il sentimento appartiene solo agli esseri umani. Solo gli
uomini possono sperimentare le dimensioni profonde del sentire, e solo a essi appartiene la capacità di
trasferirli: quindi solo gli uomini possono essere artisti, perché le macchine non avvertono mai le condizioni
di chi si accorge di essere umano e si pone davanti a delle alternative: qui nascono sia l’arte che il giudizio
giuridico. Ecco allora perché giudizio e arte interpretativa si co-appartengono: si dirà che se il magistrato si
lasciasse coinvolgere dai sentimenti non potrebbe essere freddo nel suo giudizio, ma in realtà chi viene
giudicato è un uomo vivo e non può essere degnamente giudicato se non si accende nel giudice una serie di
riflessioni.

L’arte del giurista eccede il robot-giudice e rende difficilmente affidabile a una macchina il giudizio
giuridico
Per Heidegger l’esistere è un gettarsi nel futuro. Solo l’uomo è capace di infuturarsi.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 09/11/2020

La tesi degli autori de “Le macchine predittive” è che appunto queste macchine prevedono ciò che è
probabile che accada. Probabile perché, avendo raccolto e selezionato statisticamente i dati, sono capaci di
anticipare il “poi”, ciò che segue di necessità (ma non il futuro, che attiene alla scelta esclusivamente
umana), con una probabilità misurata dalla quantità dei dati analizzati. Solo le persone possono invece
decidere: la decisione viene compiuta da un soggee sulla base di questa comprensione compie una
decisione selezionando gli elementi che ritiene rilevanti e scartando quelli non rilevanti.
La decisione consiste in questo passaggio: compresi gli elementi, si sceglie un obiettivo, uno scopo.
Invece le macchine non selezionano degli scopi perché non sono in grado di metterli in discussione, di
confrontarli in un dialogo con altre macchine predittive.
Le macchine possono essere di aiuto fornendo delle conoscenze non accessibili ai singoli esseri umani e
agevolando così l’attività, esclusiva degli esseri umani, di comparare gli scopi; ma solo gli uomini possono
compiere una comparazione che non si limiti al raggiungimento dell’utile: nelle macchine c’è solo l’utile,
non vi può essere gratuità ed empatia; solo gli esseri umani possono impegnarsi per un cammino sempre
aperto anche alla gratuità del dono.

Le macchine, costruite per il solo raggiungimento di un guadagno monetario, rimangono nella nuova
sacralità del profitto, nella nuova religione che si afferma nella società contemporanea, quella dell’utile e
del denaro. A tal proposito, Serge Latouche, teorico della decrescita economica, ricorda delle frasi di Kosy
Libran e cioè “il denaro è l’Alfa e l’Omega, il Solo e l’Unico, il Divino Increato”, è cioè ciò che non ha avuto
un inizio e non può mai avere una fine, è l’orizzonte unico che permea l’intera umanità.
Questo tema lo si ritrova anche nella “Filosofia del denaro” di Simmel nella quale sostiene che proprio
l’infungibilità dell’essere umano impedisce che il denaro possa essere assunto come unità misura di tutte le
cose che rende tutto apparentemente uguale. Il primo diritto fondamentale di ogni essere umano è quello
a non essere sostituito nella sua posizione da un altro: la pretesa insopprimibile è quella di esprimersi in
prima persona, senza deleghe ad altri o a macchine intelligenti. La fungibilità del denaro è utilissima nel suo
ambito, quello degli scambi economici, ma se essa viene assolutizzata ed estesa anche all’ambito della
persona viene a urtare con la ricerca della qualità che è proprio dell’esistenza: infatti il denaro, che opera
solo nella dimensione della quantità, è totalmente indifferente ai «valori personali» cosicché prima li
oscura, infine li annienta del tutto. L’essere umano non può però essere comprato nella sua interezza
esistenziale: potrebbe esserlo solo formalmente, ma con il denaro non si può incidere nel suo profondo per
acquistarne la completa simpatia

Il limite fondamentale degli algoritmi è il fatto che non possono provare sentimenti, in particolare quello di
sentirsi umani, ossia l’avvertire la differenza tra l’uomo e gli altri esseri, il fatto che solo gli uomini possono
essere soggetti di intenzioni, di una progettualità trasformatrice del mondo.
Avere un’intenzione significa dare un senso all’agire che non può coincidere solo con l’esteriorizzazione
dell’intenzione che avviene mediante le nostre attività corporee. Solo chi capace di avere intenzioni può
entrare in dialogo discorsivo con l’altro quindi lui solo può giudicare le sue intenzioni.

Il robot-giudice non può avere intenzioni perché queste non sono programmabili e calcolabili per questo
non sarebbe capace di distinguere una condotta colposa, ossia contraria alle norme della comune
prudenza, da una dolosa cioè fatta di proposito. Ad esempio, molti incidenti stradali sono frutto di una
condotta colposa, compiuta con l’intenzione di evitare un semaforo rosso ma non con quella di uccidere
una persona: con la diffusione delle automobili a guida intelligente, un incidente che causa la morte di una
persona potrà essere dovuto a un mal funzionamento di un congegno macchinico, per cui gli effetti di
quell’incidente non possono essere ritenuti intenzionali. Il commercio non arriva mai alle intenzioni, in
quanto il denaro e il pensiero computazionale non potranno mai cogliere l’imputabilità giuridica di una
persona. cosa che invece è possibile solo se si incontra l’altro come essere che va incontro ai rischi
dell’esercizio della libertà. La libertà non può essere automatizzata in quanto essa non è l’evento di una
causa, non ha una spiegazione.

Le neuroscienze, che oggi vorrebbero individuare la ragione di ogni atto umano nei fenomeni chimici e
neurologici che si verificano nel nostro sistema nervoso, falliscono perché anche al livello della materialità
dell’atto cerebrale è impossibile cogliere la connessione sinaptica da cui ha origine un atto libero, una
svolta di senso. Oggi si ritiene che le intelligenze artificiali, collaborando con le neuroscienze, potrebbero
chiarire qualsiasi fenomeno cerebrale e persino spiegarci perché un essere umano abbia compiuto un atto
libero. Tuttavia chi lo ritiene è convinto anche che la libertà sia solo una parvenza, perché ogni atto umano
sarebbe riconducibile a un’attività fisiologica del sistema nervoso, al pari dell’attività di ogni altro apparato
corporeo. Vi sarebbero dunque solo dei fatti organici, non atti umani cui conseguono fatti umani
oggettivabili: ma i fatti umani sono rilevanti nel diritto solo in quanto determinati da atti umani liberi.
Anche in un contratto le parti convengono in quanto persone umane: nessuna macchina intelligente è in
grado di fare una convenzione contrattuale né può essere chiamata a rispondere dell’inadempimento a un
contratto. Inoltre non sarebbe possibile una sanzione a macchine perché le sanzioni sono riferibili solo
all’esercizio della libertà.

A questo proposito, Stiegler si chiede se sia possibile costituire un processo di automatizzazione che
comprenda tra i suoi programmi anche quello per disautomatizzare ciò che è stato automatizzato. Un
quesito simile è stato affrontato nei primi studi sulle macchine intelligenti da Alan Turing, che scrive un
saggio nella quale intuisce che se la macchina intelligente dovesse essere del tutto intelligente come lo è
l’essere umano dovrebbe essere anche creativa: però l’essere umano è creativo perché ha la possibilità di
commettere degli errori e, avendo la consapevolezza dell’errore, si impegna a non ripeterlo
intraprendendo un nuovo itinerario. Secondo Turing si dovrebbe concepire una macchina intelligente che,
contrariamente alla sua strutturazione matematicamente certa, sappia anche commettere errori e così
apprendere come non si debbano ripetere. Così una volta compiuta una scelta negativa, la macchina
creativa potrebbe scegliere un programma diverso che lo porti a superare l’errore: c’è però il rischio che
l’errore non sia più governabile dagli esseri umani, perché non programmato e non prevedibile, tanto da
portare alla fine della specie umana.

Ciò non è molto lontano da ciò che accade oggi perché l’immensa potenza delle macchine intelligenti sta
mettendo a rischio gli equilibri tra gli ecosistemi e quindi la permanenza di molte forme di vita e
indirettamente anche la nostra stessa sopravvivenza del genere umano. Allora che ne è del diritto alla vita,
se è possibile che l’attività creativa delle macchine può mettere a rischio anche la specie umana.
Il professore Rivera si ferma a fare un esempio di ciò parlando di paracadutisti delle forze aeree italiane
morti perché i paracadute non si sono aperti. In questo caso qual è la responsabilità penale e civile in
questa nuova materia? La Cassazione ha condannato l’azienda produttrice al risarcimento, ma chi in
quell’azienda risponde anche penalmente. Di per sé oggi sembra sempre più difficile Individuare un preciso
responsabile in un gruppo di sviluppatori e programmatori.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 10/11/2020

Anche l’industria, come tutta l’economia, muta la sua struttura nella civiltà dei dati. Essa non si fonda più
sulla produzione di oggetti materiali, ma tende a essere un’industria di stampo culturale in quanto produce
dei beni non più materiali ma informazionali: ciò che qualifica la civiltà dei dati è la l’organizzazione di
un’industria culturale che, come tutte le industrie, produce beni informazionali al fine di generare un
profitto misurabile con una certa quantità di denaro che vada a vantaggio dei padroni della rete in cui si
svolge la produzione di tali beni. I padroni della rete non sono molto visibili proprio perché la loro attività e
il loro profitto hanno luogo nell’immaterialità della nuova industria.

Rimaniamo comunque consumatori di beni tradizionali, ma oggi siamo anche consumatori di beni
informazionali, ossia quelli che soddisfano la nostra crescente richiesta di informazioni. Il tratto peculiare di
quest’industria è che non c’è nell’immediato nessuna transazione in denaro tra chi richiede le informazioni
e chi le fornisce: i beni informazionali sono di proprietà dei padroni dei motori di ricerca e sono messi a
disposizione degli utenti senza che questi nell’immediato siano obbligati a dare un corrispettivo in denaro.
Se però si scava più in profondità, si rileva che i signori della rete guadagnano dalla produzione di tali beni.

Joseph E. Stiglitz, in Popolo, potere e profitti, scrive che “finché esiste un qualche potere di mercato vi è
spazio per lo sfruttamento, per i sovrapprofitti”. I sovrapprofitti si producono perché gli utenti, per lo più
inconsapevolmente, pagano le informazioni che ricevono cedendo i loro dati: questi profitti non sono
commisurati a ciò che gli utenti stanno cedendo, perche i loro dati saranno in grado di produrre
inesauribilmente altri dati e così altri profitti. Ciò minaccia il principio di uguaglianza in quanto crea una
sproporzione tra gli utenti e chi elabora questi dati traendovi smisurati profitti.

A questo proposito il giurista Honneth spiega che attualmente l’industria culturale porta a una
sproporzione tra chi produce i beni informazionali e chi li riceve perché in rete c’è uno scambio economico
tra i nostri dati e le informazioni che riceviamo: in questa relazione è assente il diritto che garantisce il
principio di uguaglianza. Gli utenti non sono resi partecipi della successiva elaborazione dei loro stessi
dati di cui i signori della rete si appropriano in modo integrale: essi vengono così esclusi e trattati come
delle cose da cui trarre profitto. Non possono essere però del tutto reificati, perché l’industria culturale li
dovrà pur sempre riconoscere, anche se in modo molto residuale, come persone, perché solo gli esseri
umani possono chiedere beni informazionali, se fossero completamente reificati non ci sarebbe più alcun
interesse nel produrre cultura. In questo caso si parla di un riconoscimento non dell’interezza della
persona, ma solo di ciò da cui si possono ricavare i sovrapprofitti. Da tale riconoscimento residuale nasce
così un rapporto giuridico residuale. Si tratta comunque di un un convenire che sta ancora avvenendo tra
esseri umani, perché un algoritmo o qualsiasi altro vivente non umano non avrà alcuna aspettativa nel
ricevere dei beni informazionali. Tutti gli utenti sono in attesa di ricevere dei beni informazionali perché
hanno nella loro struttura distintiva la ricerca di un senso: chi fa una ricerca su Google si interroga sul senso
del suo ricercare e del ricevere quelle informazioni, altrimenti non avrebbe alcun interesse a operare quella
ricerca.

Tutto ciò avviene in un orizzonte di stampo mercantile perche l’industria culturale non ci dà dei beni per un
dono gratuito ma perché cerca un profitto, quindi continua a dominare questa entità istituita dagli uomini,
il denaro: esso appare sopra le parti, neutrale e imparziale. Simmel dice che il denaro rappresenta il
momento dell’oggettività delle operazioni di scambio, esso si presenta come un’assoluta forma di
neutralità, è libero da tutte le qualificazioni unilaterali che possano far emergere il primeggiare di una
parte sull’altra: così appare simile alle leggi della chimica e della fisica che non parteggiano per uno degli
elementi che reagiscono, ma si limitano a disciplinare il loro reagire.

Qui Simmel insinua alcuni elementi di critica del diritto: sembrerebbe che il diritto operi come le leggi della
chimica e della fisica e quindi in modo imparziale perché trattano i loro elementi come equivalenti l’uno
all’altro, privi di qualsiasi originalità individuale, e le loro vicende sono viste come un caso della legge
generale. Simmel sostiene, con un’argomentazione criticamente discutibile, che sembrerebbe che le leggi
giuridiche operino, proprio come quelle teoretiche, senza cogliere il singolo nella sua originalità, ma
incontrandoli solo come dei casi da disciplinare con indifferenza.
Da qui la critica esplicita, ma scarsamente convincente, di Simmel al principio di uguaglianza, che
costituirebbe il culmine di questa discrepanza tra la forma e il contenuto reale, privilegiando la forma, ossia
la dimensione della generalità senza attenzione alla singolarità. Il diritto, l’intellettualità, il denaro, sono
caratterizzati dall’indifferenza nei confronti delle particolarità individuali. Per “particolarità individuali”,
anche se Simmel non lo dice espressamente, in fondo egli intende la vita interiore di ognuno.
Sostanzialmente secondo Simmel il diritto opera dunque avendo riferimento solo alla generalità, ognuno è
incontrato non per il particolare IO che è, ma nell’astratta configurazione di un ente umano, diventa un
chiunque. Simmel in modo non convincente lascia intendere che anche il diritto incontra l’essere umano
per quella quantità di elementi che gli conferiscono la qualificazione di persona, non per la sua individualità
esistenziale che è fatta di memorie, di progetti, ecc. ma sempre in modo generale.
Il principio di uguaglianza, quindi, finirebbe per consentire l’affermazione di una disuguaglianza esistenziale,
perché il principio di disuguaglianza è la mancanza di attenzione alla specificità di ogni singolo essere
umano e ciò è proprio ciò che, secondo Simmel, avverrebbe nel diritto che è analogo al denaro, q uindi un
metro che disciplina tutto prescindendo dalla qualità esistenziale, rendendo tutti uguali in una misura
quantificabile.

Su questa tesi occorre fare alcune considerazioni in riferimento a chi in Italia ha avviato agli studi di
sociologia, Franco Ferrarotti, l’autore di “Società fredda”. Con Società fredda si intende la società in cui
ognuno può essere incontrato nell’indifferenza della quantificazione che non ha più interesse alle qualità
personali non quantificabili. Questa civiltà è fredda perché è priva del pathos del pensiero dialogico.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 11/11/2020


È comune opinione che i due termini entropia e neghentropia, impiegati da Stiegler nella sua conferenza e
ciòLa questione centrale trattata da Stiegler attiene però alla funzione dell’organismo, sia dei viventi non
umani sia di ogni forma di collettività umana, a partire dalla polis greca. Il diritto è un organismo che deve
avere una sua unitarietà, altrimenti un’assolutizzazione della regionalizzazione del diritto non
permetterebbe di giungere alla finalità stessa del diritto. Questo organismo per governarsi ha bisogno di
uomini, proprio come qualsiasi processo di automazione: esso non viene colonizzato dagli esseri umani,
questi sono portatori dell’unitarietà dell’organismo. Di tale organismo però ci interessa la qualità e non la
quantità e per questo i termini entropia e neghentropia da soli non possono pienamente esprimere l’ordine
e il disordine nel diritto.
Stiegler aggiunge un altro concetto, quello di differenziazione, différence. Il diritto ha insiti, in quanto se ne
fanno portatori gli esseri umani, questi tre momenti:
 la finalità del diritto
 la certezza del diritto
 l’idea del diritto

I tre suddetti momenti sono presenti in qualsiasi organismo, ma solo nell’organismo umano sono
determinati e qualificati.

Prima di far parte di un organismo bisogna avere l’idea che si vuole raggiungere partecipandovi a
quest’organismo che nel nostro caso possiamo definire comunità. Certo l’idea del diritto è importante
perche conferisce quindi un orientamento che parte dall’idea del diritto, si concretizza nella certezza del
diritto per poi acquisire una finalità che è già presente nell’idea. La finalità dell’orientamento che si dà al
diritto è la giustizia, la ricerca del giusto che, partendo dalla relazione di riconoscimento, si concretizza in un
principio di uguaglianza come differenza. Il diritto è fatto da organi che sono gli uomini, organi quindi non
sono intesi nel senso biologico del termine, come cioè qualcosa che funziona indipendentemente dal
soggetto, che può governare il suo pensiero ma non i propri organi. Per governare l’organismo diritto, come
per una barca, è necessario che tutti remino nella stessa direzione e la direzione, la finalità del diritto non
può essere già data nell’idea: essa viene solo teorizzata nell’idea.
L’analogia su cui è costruito il discorso di Stiegler è quella tra la barca e la polis: entrambi hanno la necessità
di qualcuno che ne assuma il governo. La differenza è che del governo della barca è responsabile chi ha la
capacità di mettere mano al timone, mentre oggi siamo, per dirla con Stiegler, davanti a una governabilità
algoritmica, ossia in una condizione in cui non siamo più governati da persone ma da oggetti intelligenti.
L’organismo dell’ordinamento giuridico non si riproduce e quindi non è in grado di autogovernarsi senza
l’intervento dell’essere umano, così come l’algoritmo: allora la strumentalità del diritto e dell’algoritmo
sono analoghe, c’è la possibilità di gestire in modo strumentale entrambi.

È centrale una questione sollevata da Stiegler su come possa la condizione umana essere liberata dalla
violenza dell’automatizzazione, ma in particolare come possa esiste un programma disautomatizzazione,
che liberi l’essere umano della gabbia dell’automatizzazione e gli restituisca una capacità creativa. Questo è
il compito affidato oggi ai giuristi, quello di tutelare il diritto dell’uomo a non essere automatizzati
integralmente e quindi a non essere privati di ogni imputabilità giuridica.

Occorre fare qualche considerazione a riguardo del diritto come fenomeno pluridimensionale. Un punto
centrale toccato da Stiegler è quello del recupero dell’uomo che con la frantumazione della scienza viene
messp da parte il soggetto e considerato solo l’oggetto. L’ingovernabilità di cui parla Stiegler è dovuta a
questo sviluppo incontrollato della tecnica e della scienza.
Lo sviluppo del linguaggio giuridico rappresenta un grande passo in avanti, perché va al di là del significato
letterale. Nel fenomeno giuridico si presenta una dialettica tra ordine e disordine; ogni organismo quando
entra in movimento e in espansione con il transito del tempo tende al disordine, a cui occorre mettere
ordine e quindi il diritto è un organismo vivo che deve essere ordinato.
Chi detiene l’arte del governo deve avere una visione profonda della realtà per indirizzare il sistema politico
perché risponda in futuro a minori complessità. L’amministrazione dello Stato, così come quella della
giustizia, deve puntare a risolvere i problemi del presente

FILOSOFIA DEL DIRITTO 16/11/2020

Romano tratta anche il tema dell’ingiustizia, che assume come caratteristica il fatto di essere avvertita
quasi come un sentimento, per cui chi subisce un’ingiustizia avverte con negatività la sua condizione.
Romano si chiede ironicamente: L’ingiustizia è un calcolo malriuscito?» cioè essa può attenere a un cattivo
funzionamento di una macchina calcolatrice? Quando subiamo o commettiamo un’ingiustizia
sperimentiamo solo un errore di calcolo oppure, come Romano ci sollecita a domandarci, essa è «un atto
imputabile della libertà giuridica? Se si afferma che l’ingiustizia è un calcolo malriuscito, si dovrebbe anche
dire che l’amministrazione della giustizia sarebbe un’amministrazione ingiusta. Prima di poter parlare di
ingiustizia come un “non calcolo”, quindi, bisognerebbe parlare della controversia di senso, che non può
essere calcolata perché seppure al calcolo viene sottoposto il mio e il tuo, però le ragioni dell’Io sul mio e
sul tuo non possono essere calcolate e quindi automatizzate, perché sorgono da un’ipotesi di senso libera.

Dobbiamo ricordare la differenza tra gli atti e i fatti e che l’atto rinvia all’interiorità di ognuno di noi che, a
partire dall’ideazione di un’ipotesi di senso, attiva la sua volontà iscrivendola appunto in atti che transitano
dalla propria interiorità all’esistenza altrui: proprio dal fatto che il singolo può agire nel rispetto o meno
dell’esistenza degli altri nasce l’imputabilità, su cui si fonda il diritto che a sua volta, riprendendo la tesi di
Fichte è condizione dell’autocoscienza.
Il diritto rivela che l’io che agisce è responsabile delle proprie azioni, che le compia volontariamente o
meno, perché solo l’individuo è libero, è creatore di atti e ipotesi di senso. se altrimenti si considera
l’ingiustizia come un calcolo malriuscito, essa viene impropriamente intesa come un fatto non imputabile a
un autore.

Romano sottolinea come Nietzsche sia un nostro contemporaneo perche nonostante le sue affermazioni
siano datate, abbiano un determinato contesto, alcune prospettive hanno capacità rivelatrici e forniscono
criteri ermeneutici validi ancora per la nostra contemporaneità. Egli dice infatti che «l’uomo è un animale
malriuscito» perché ha il difetto di credere di compiere degli atti, quanto in realtà tutto che ciò che fa è il
semplice comporsi di un qualsiasi accadimento.
Romano, attualizzando l’espressione nietzschiana, arriva a chiedersi se l’uomo sia una macchina mal
riuscita. Sarebbe una macchina che, non essendo capace di compiere da sola le operazioni che è chiamata a
svolgere, ha bisogno di altre macchine dotate di un’intelligenza artificiale.

Romano ha approfondito molto la figura di Nietzsche nell’opera “Nietzsche e Pirandello. Il nichilismo


mistifica gli atti nei fatti”. Nietzsche afferma di essersi assunto un compito che sembra anticipare ciò che
attualmente avviene nella civiltà dei dati, quello di «dimostrare l’assoluta omogeneità del tutto», cioè
negare le differenze: a tal proposito, Romano parla di un materialismo eliminativista che, considerando
solo l’oggettività, elimina tutto ciò che rinvia a una soggettività.

Nietzsche dice anche che tutto ha un prezzo e Romano discute intorno a quest’affermazione facendo
riferimento alla Filosofia del denaro di Simmel, per confrontarsi con una realtà sempre più invasiva nella
civiltà dei dati, la mistificazione della qualità con la quantità.
Sulla questione del senso Nietzsche conclude sostenendo che in fondo, la vita non ha un senso, perché
altrimenti l’avrebbe già raggiunto. Nietzsche, nel suo nichilismo totale, parla anche della fine della
possibilità della ricerca di uno scopo, di porsi la domanda sul “perché”, ma il “perché” è la domanda più
iniziale che sorge fin dall’infanzia. C’è sempre la ricerca di un senso che non attiene al funzionamento delle
cose, ma a un’interpretazione della propria esistenza non ingenua ma aperta all’altro: invece Nietzsche dice
che è inutile perseguire questo scopo.

La civiltà dei dati resta una grande opportunità strumentale se essa resta confinata nel suo essere un mezzo
quantitativo che non spegne la qualità delle relazioni che l’Io e il Tu ingaggiano per scegliere delle istituzioni
giuridiche per la propria convivenza. Oggi sembrerebbe invece che la profezia di Nietzsche dello
spegnimento della ricerca del senso si stia compiendo, anche perché viene intaccata la dimensione
costitutiva della singolarità esistenziale e, di conseguenza, della relazione giuridica, quella della temporalità:
la temporalità è costituita dalla non coincidenza con il fluire dei fatti. Il passato e il presente ci sono, ma ciò
che incide come alimento delle ipotesi di senso è il futuro; nella civiltà dei dati non rimane più nulla del
futuro perché essa tende a essere schiacciata sul fluire dei dati. Questa intelligenza artificiale asserva e
svuota la specificità di quella umana.

Altro tema toccato da Romano è il rapporto tra le connessioni che si stabiliscono in rete e comunicazione.
Il diritto romano ci ricorda che “connessione” deriva da nexus, l’asservito per debiti. È chiara allora la
differenziazione dalla connessione con la comunicazione che è libera, è istituita da un Io verso Tu che lo
riconosce e chiede a sua volta di essere riconosciuto: in essa non passano semplici informazioni, ma
l’emergenza di un Io che chiede di essere riconosciuto perché solo l’altro può continuare ad alimentare la
propria interiorità esistenziale. Nella connessione invece passano solo informazioni.
Nell’ambito della distinzione tra segni e simboli, la connessione è segnica, Il segno non impegna l’Io nella
costruzione di una propria identità in una relazione triale, perché esso dice solo quel che dice, cioè il segno
di una quantità; il simbolo invece cerca di aprirsi dalla qualità verso la qualità portata dal Tu nella
dimensione triale del lògos custodita dal nòmos

Il segno per eccellenza è il numero e il suo corrispondente simbolo, il denaro. Esso è il simbolo più
annichilente. Nella società dei dati che tende a confondersi con la società del profitto assoluto, il denaro è
il simbolo della quantità. Con il denaro non si può comprare l’inizio della volontà dell’Io perché questa non
si muove secondo una ragione calcolante. Le scelte dell’io non sono certo dei calcoli: allora l’ingiustizia non
è un calcolo malriuscito, ma è la volontà di qualcuno di commettere un danno nei confronti nell’altro o
comunque di non riconoscerlo. il vero riconoscimento ha sempre il rinvio alla vita interiore non nella sua
solitudine ma nel dialogo, non come un semplice emettitore di dati ma come soggetto parlante, creatore di
ipotesi di senso. La reciprocità del riconoscimento è per Romano il nucleo, insieme alla terzietà, della
giuridicità.

Questa società automatica ha il rischio di svuotare di senso ogni atto, in una forma nuova del nichilismo
di Nietzsche: la questione del senso non ha più nessun senso. La speranza che si coglie nel testo di
Romano è non certo quella di eliminare le dimensioni dell’automatizzazione, ma che queste si fermino
fino a ciò che non può essere automatizzato, cioè la volontà.

Al potere dei dati segue necessariamente il potere di automatizzazione: una volta raggiunta la pienezza
dell’elaborazione dei dati quel che viene dopo si svolge in modo assolutamente automatico perché
nell’estrazione dei dati non permangono delle lacune che diano luogo a una riflessione e al dubbio.
L’automatizzazione ha certamente dei risvolti positivi ma quando essa vuole estendersi alla volontà, essa
rischia di negarci ogni libertà. Così si concepirebbero le figure del robot-giudice, affiancato da un robot-
legislatore. Si studia però come l’intelligenza artificiale possa raccogliere anche tutto il sapere filosofico e
creare quindi la figura del robot-filosofo che emetta degli enunciati dall’assemblaggio di questi dati: ma che
ne è allora della filosofia, che è prioritariamente rivolta al futuro

FILOSOFIA DEL DIRITTO 17/11/2020

Andiamo ad esaminare il rapporto tra quantità e qualità, persone e dati nella rete. Il rapporto tra qualità e
quantità assume un rilievo fondamentale nella filosofia del diritto; nel pensare al tema si prende in
considerazione la riflessione di Romano sul fatto che il bene principale è oggi rappresentato dai dati che
consentono ai gruppi elitari di orientare le condotte del restante parte dell’umanità.
Ne Il diritto strutturato come il discorso, del 1994, Romano già scriveva che il problema della responsabilità
giuridica civile e penale riferita alla qualità del produrre contemporaneo sfugge alla tradizionale
connessione tra l’individuazione del soggetto responsabile e l’individuazione del soggetto proprietario del
bene ritenuto essere causa degli effetti che incidono negativamente sugli uomini e sui beni.

Oggi si fa fatica a individuare un responsabile, perché non c’è più un riferimento ai beni principali del
passato, alla terra o all’industria, ma ai dati. Ci possiamo allora chiedere che cosa sia reale rispetto a
quantità e qualità. Il rapporto tra persone e dati nella rete presenta subito la tendenza a dire che è reale
solo ciò che è calcolabile e questa incidenza del calcolo ci fa fare riferimento al tema del denaro.
La quantità è propria solo dei fatti, mentre la qualità solo degli atti, perché gli atti umani non possono che
essere atti dello spirito, perché nella dimensione dello spirito si formano gli atti del senso.

Quindi la questione della persona, non essendo quantificabile non è definibile una volta per tutte, proprio
come il diritto: persona e diritto sembrano accomunati da un’imprevedibilità in quanto restano
riconducibili solo sul piano dialogico: nelle dialogicità le persone manifestano la loro originalità perché qui
sono discontinue, diversamente dalla continuità del flusso quantitativo fattuale che è l’espressione di un
sistema legato alla legalità che, sia giusta o ingiusta determina un funzionamento che governa il fluire del
tempo inteso come dominio funzionale di ciò che verrà dopo. Il dopo ha una sua struttura naturalistica
perché «manca di una successione progettuale», si fonda su dei passi calcolabili; mentre il futuro è ciò in
cui una persona rischia.

Risulta interessante questa frase di Seneca: «ogni trascorrere di giorno o di ora ci mostra la nostra nullità».
Il trascorrere di cui parla Seneca ci fa apparire come persone nulle ed è per questo che tentiamo con la
volontà di superare l’incidenza quantitativa del tempo accedendo alla dimensione del futuro e così mentre
trascorre la vita biologica dei fatti che accadono noi progettiamo: così la vita biologica scorre secondo le
leggi trovate della natura mentre istituiamo e progettiamo una vita dello spirito.
Ci muoviamo tra una cautela e un assorbimento da parte della velocità perche l’accelerazione è tipica della
quantità, mentre la lentezza e la prudenza sono ascrivibili alla qualità. La prima si riferisce alla continuità
fattuale, non accetta riflessioni perché sarebbero un disturbo della connessione e del funzionamento. La
discontinuità rimane caratteristica della persona umana, che muove sempre tra il senso e il non senso:
questa altalenanza non ha una lettura negativa ma costitutiva della persona umana, perché è l’unica via per
arrivare a operare una scelta dalla quale non ci si può liberare.

La libertà giudica richiede un esercizio; per il corpo l’esercizio è la fatica, per la mente l’esercizio è la ragione
e l’esperienza, ciò che manca alle intelligenze artificiali, che possono solo avere una grande memoria, ma
non hanno un passato e una storia. Nell’esercizio emerge la dimensione della valutazione che nel diritto
altro non è che l’ars interpretandi: è l’arte dell’esercizio, diversa da una meccanica esecuzione. L’esecuzione
si compone di elementi e processi quantitativi tutti prevedibili e descritti in una perfezione quantitativa,
che non conosce né errore né menzogna; gli uomini, invece non solo possono accedere alla menzogna, ma
anche di decidere di mentire oppure di ravvedersi.

La macchina non può né decidere di ravvedersi, né di disautomatizzarsi. Allora Romano discute dell’ipotesi
di mettere sotto il controllo di uno scanner di risonanza magnetica il pensiero, ma una macchina può
distinguere tra ciò che pensa un uomo e ciò che egli dice in una recita, fatta per presentarsi all’osservazione
del robot-giudice in modalità che gli garantiscono una sentenza che non lo condanni

Per cio che concerne sempre la tesi dell’esperienza, Romano riprende “Il primato della volontà” di
Schopenhauer in cui scrive che solo per esperienza possiamo apprendere ciò che vogliamo e ciò che
possiamo; prima non lo sappiamo.
Per esperienza s’intende una dimensione qualitativa del pensare e del fare che promana dal discernimento
delle alternative: la scelta è operata secondo esperienza quando c’è armonia tra il momento pratico e
quello della progettualità teorica. Nel momento pratico assume rilievo la quantità, il “quanto”, nella teoria
la qualità, il “come”. Le macchine non possono conoscere il “come” della modalità motivazionale, della
comunicazione. Il quanto traduce la perfezione della quantità, il “come” traduce una dimensione sempre
imperfetta: la domanda del “come” coinvolge l’alterità, la pluralità di ipotesi di senso.
L’esperienza viene dal buon senso, dal senso del buono, dell’equo, del giusto ma per creare esperienza è
necessario che la persona attraversi anche la mancanza di senso.

Come può un algoritmo creare esperienze, se l’altalenanza tra senso e non senso da cui traggono origine
rinvia alla dimensione dell’inconscio?
Abbiamo visto La nostra volontà è sicuramente diversa dalle altre ma inizialmente siamo tutti quanti
accomunati da questi momenti:
 vogliamo un reale nel diritto, cioè la dimensione del legale, perché non vogliamo essere esposti al
rischio della controversia
 vogliamo agire con la volontà su questo reale
 vogliamo innovare creativamente il reale, non ripeterlo, diversamente dagli automatismi e dai
viventi non umani. Per il dopo non vogliamo qualcosa di immediatamente successivo, ma un
miglioramento qualitativo

Secondo Romano i signori della rete ci vorrebbero liberare dal fatto che la libertà nostra è libera,
facendo leva sulle nostre inclinazioni biologiche, quelle che ci riducono alle non-intenzioni e
conoscendo questa debolezza pretendono che noi ci liberiamo da questa libertà abbandonandoci
all’automatismo, ed è così che avviene la profilazione della nostra personalità, che non ha alcun
riscontro con la nostra reale persona.
Il qualcuno viene definito da Romano come un significante. L’élite della rete non vuole conoscere
significanti; eppure, il significante della persona costituisce il suo essere portatore di sensi profondi.
Essa verrebbe eliminare il significante riducendo le persone a dei numeri sui quali poter operare le
proprie statistiche: la scomparsa del significante diventa non solo quella della persona, ma anche della
terzietà che si pone in mezzo alle diverse ipotesi di senso, del ruolo dell’interpretazione e anche del
dibattimento processuale, la cui teatralità che si fonda sulle emozioni, sull’ironia, sulla serietà.
Eliminando tutto ciò si arriva a una scelta non motivata, ma funzionale alla datità. Resta chiaro però che
quando si interpreta un testo di legge s’interroga un testo; allo stesso modo per interpretare il reale
della rete si dovrebbe interrogare la datità e lo si fa come si fa per un testo letterario e per non cadere
in un’analogia quantitativa, si paragona il fatto che si sta interpretando al fine di orientare una scelta e
non per farlo confluire in una banca dati di fatti uguali ad altri: quindi lo si paragona per misurarlo non
nel senso di una quantificazione ma di una valutazione qualitativa che cerca il senso del fatto.
Rimane una questione da chiarire ovvero cos’è che distingue davvero la qualità dalla quantità. La
differenza sta nel fatto che la qualità non si lascia spiegare perché attiene agli atti umani che sono il
momento centrale dell’esercizio della libertà che è tale proprio perché non si lascia spiegare.
Alcuni neuroscienziati ritengono che tutto ciò che accade nella mente, quindi le attività proprie anche
del pensiero, possa essere spiegato. Ma nel momento in cui vi è una spiegazione siamo ancora
nell’ordine della quantità: se invece accediamo a quello della qualità, cade la velleità di dare una
spiegazione, perché la qualità è il nucleo essenziale della libertà umana. Se tutto potesse essere
quantificato, se cioè gli atti della volontà potessero trovare una spiegazione, verrebbe meno
l’imputabilità, non ci sarebbe nessuna ragione sufficiente per chiamare qualcuno a rispondere dei
propri atti. Quindi la volontà e tutto quanto attiene alla sfera affettiva ha una qualità, non ha una
quantità.

Noi siamo in un’infosfera, in una piattaforma delle piattaforme in cui impera l’algoritmo: l’algoritmo è
una procedura le cui fasi, come esplicitamente scrive Romano, determinano quantitativamente la
temporalità dell’infosfera. Ciò dà ai signori della rete il potere della predizione su tutto ciò che accade
in rete, perché tutto accade in una misura quantitativa predittiva. ciò porta ad analizzare un principio di
sproporzione, non più di uguaglianza, tra chi profila i nostri accessi quantitativi e noi che foraggiamo
questo sistema quantitativo venendo profilati e predetti.
Nell’infosfera c’è anche una sproporzione tra chi detta le regole e chi le esegue: mentre nella vita reale
siamo sottoposti a regole istituite, tutelate e garantite da un terzo, nella rete noi siamo sottoposti a
eseguire delle regole imposte. Qualora ci lamentassimo di queste regole, la rete si adegua con
l’obiettivo di farci permanere il più possibile connessi attraendoci alla rete con un’operazione di fatto
pubblicitaria, ma non attua alcuna riforma delle regole quale è tipicamente quella operata dal
legislatore. Ci sono, dunque, due modelli di sproporzione:

 una sproporzione quantitativa, determinato dal profitto dei signori della rete
 una sproporzione giuridica, dovuta al fatto che le regole vengono dettate da pochi, e non
possono essere partecipate dagli utenti che le eseguono.

FILOSOFIA DEL DIRITTO 18/11/2020

Romano si chiede se l’essere umano sia interscambiabile come tutti i non umani: a ciò si legano tutte le
questioni centrali per il diritto. L’essere umano non può mai essere oggetto di un’automatizzazione
assoluta.
Abbiamo visto che la libertà giuridica non è un dato tra gli altri e si discute del rapporto tra umano,
infosfera e diritto. L’atteggiamento dell’uomo nell’infosfera è quello di essere esposto semplicemente a
una scelta binaria, tra un “sì” e un “no” che non attendono motivazioni. Vi è un’animalizzazione
dell’essere umano, che viene chiamato a rispondere solo su questioni preimpostate, che esigono l’uso
dei cinque sensi ma mai una ricerca del senso: è un agire che mai matura in un operare in vista di uno
scopo voluto che abbia a che fare con la creatività

Gli uomini s’incontrano nelle connessioni virtuali senza mai bisogno di presentarsi. Romano ripropone
questo pensiero dicendo che «i dati ci conoscono meglio di noi quanto possiamo riconoscere noi stessi
e gli altri». Nella condizione contemporanea però non è fuori moda una domanda essenziale: «Che ne è
di me stesso?

La nuova veste di internauta assunta dall’uomo sembra influenzare ogni aspetto del suo vivere così da
consentire di discutere dell’uomo come ente intercambiabile con qualsiasi altro ente, di discutere
dell’essere umano come un agente informazionale interconnesso, analogo nella sua struttura ai
congegni ingegneristicamente intelligenti che trattano i dati.

PRIMA TESI:
il desiderio è vivo nella vita interiore: è tale perché permane aperto, mai saziabile, sospeso nel dubbio
diversamente invece da quel accede per l’appetire qualcosa, che viene spento con l’entità idonea a
saturarlo. Il trasmutarsi del desiderio di desiderio in una funzione riafferma il convincimento che “la
funzione della funzione è la funzione. ll concetto di desiderio può essere fatto coincidere con quello di
domanda di senso, con attenzione al parlante, cioè all’unico che può farsi delle domande, che fa una
selezione dei contenuti del domandare. Il domandare, che diventa il nucleo del desiderare, non può
rimanere confinato nella sfera interiore, ma ha bisogno di incontrare almeno un altro nella relazione.
Si dice che il desiderio di domandare sia una domanda di domanda che non attende mai una risposta
esaustiva che è capace di spegnere il domandare. La comunicazione esistenziale è dunque costituita da
una domanda di domanda: questa è assente nella connessione. Dice Romano che la comunicazione non
è riducibile mai a una connessione, dove ci può essere un legame di tipo informazionale,
un’interconnessione, ma rimane sempre assente la discussione.

La comunicazione esistenziale ha alcune caratteristiche che la distinguono dalla connessione.


Innanzitutto, essa è, dall’etimologia, un dono che ciascuno fa all’altro all’interno di una relazione
fondata sul principio di uguaglianza e di proporzione e non si dona all’altro qualcosa ma la propria
ipotesi di senso. Nella connessione compare invece solo un’utilità, mai misurata dalla gratuità del
donare. La comunicazione, inoltre, ha a che fare con un attività interpretativa delle parole che i
dialoganti scambiano nella relazione: questa è assente nella connessione, in cui vi si sostituisce un mero
funzionare di funzionare. La comunicazione è destinata a durare, mentre la connessione ha una
dimensione contingente, radicata nel qui e ora, non ha un passato né si apre al futuro.

Il desiderio di domandare all’Altro nella relazione non trova sempre una qualità positiva, improntata
cioè a un riconoscimento reciproco, ma può avviare contenuti che sono riassumibili nell’affermazione
“lascia che sia io a governare il tuo desiderio”: anche questo rappresenta però l’esito di una scelta
iniziale di concretizzare l’esclusione dell’Altro, determinata dall’atteggiamento di uno dei partecipanti al
dialogo, il più forte, secondo modalità ispirate alla sproporzione.
A questo proposito, Romano afferma che nella civiltà dei dati si stempera il convincimento che il
desiderio desideri la continuazione inesauribile del desiderare; anzi, il desiderio si oscura e sostituisce a
questa sua condizione di apertura non confinabile l’asservirsi degli esseri umani all’impersonale
concretizzazione di una definita funzione.

Si comprende qui subito come il passaggio dal desiderio alla funzione si concretizza nel mostrare
l’inessenzialità dell’Altro, soggetto nella relazione, incontrato nelle interazioni umane, che oggi si
configurano come connessioni.
Tra i signori della rete, che stabiliscono tempi e modalità di accesso, si ripropone la dinamica del
rapporto tra servo e padrone. Qui il desiderio si spegne nel funzionare, perché non alimenta un nuovo
desiderare: si ha un significante di chiusura, che interrompe la catena dei significanti in un sapere
sferico.

Oggi la principalità del dato sembra che abbia completamente sostituito l’umano: vedremo però che
non potrà mai darsi un’assoluta automatizzazione. Il dato è oggi considerato uno strumento essenziale
in ogni ambito dell’esistenza, dall’amicizia fino alle decisioni dei tribunali.
In rete vi è una normatività indifferente alla selezione qualitativamente giusta dei suoi contenuti
destinati agli internauti, che sono i nuovi server funzionali al desiderio assoluto dei padroni della rete. Il
server si configura qui come il servo internauta, che mai viene incontrato come un “chi” partecipe della
formazione dei contenuti di tipo regolativo dello stare in rete, ma solo come uno strumento funzionale
a soddisfare la catena dei desideri di chi domina la rete, cioè concedere dati alimentando
l’informazione senza poter esercitare alcun tipo di pretesa. Si costituiscono delle dinamiche di
sproporzione che sono confermate da un decidere-eseguire che non ammette sbavature. Oggi vengono
superati gli schemi della vecchia signoria che poteva padroneggiare solo su beni materiali e
monetizzabili nel mercato, mostrando che i nuovi padroni sono quelli che gestiscono le informazioni.

Tutto ciò genera una certa quiete perché la quiete abituale del funzionamento dei mezzi non chiede
l’intervento della vita interiore, non chiama alla riflessione, ma si appaga nel ripetere il successo
funzionale e anonimo dei mezzi. Si comprende allora che il protagonista di questo nuovo ordine non è
più l’essere umano, quanto l’insieme dei dispositivi digitali di cui dispone, che rappresentano un
medium tra l’uomo e l’infosfera, come potrebbe ad esempio uno smartphone.
Siamo alle porte di una relazione simbiotica con la tecnologia, dalla quale più o meno
consapevolmente, siamo catturati all’interno di un sistema, in uno scambio che produce uno
spostamento nel nostro contenuto interiore sui dispositivi.

Nell’attuale società dei dati questa tendenza all’esteriorizzazione confina l’esercizio della soggettività
nell’orizzonte di un desiderio diventato saziabile e quindi solo formalmente denominabile in tal modo,
mentre in realtà diventa un bisogno: ad esempio la pratica incessante dei selfie configura il bisogno
inconscio di rassicurazione sulla propria presenza nel mondo.

Solo l’essere umano esiste nel ritrovarsi nel desiderare, stante la consapevolezza che questo ritrovarsi
significa compiere la ripresa del desiderio inteso come ritrovarsi e non un ricominciare da capo,
facendo tabula rasa dei desideri già enunciati, ma si naviga nello svolgimento della personalità della
persona in una dimensione autonoma. Tutto questo si oscura nel bramare un’informazione nella
misura in cui è monetizzabile e genera guadagno, mentre il desiderio di senso è nell’ordine del gratuito
e produce nessun guadagno. La categoria della mancanza, intesa come un mancarsi nella relazione,
viene sostituita da un bisogno di qualcosa, un appagamento momentaneo prodotto dall’uso e dal
successo dei dispositivi digitali.

Senza questo spazio creato e garantito dal diritto, l’essere umano si identificherebbe e si perderebbe in
un’esteriorizzazione nientificante che gli impedisce di tornare su sé stesso e in questo modo lo reifica,
lo rende una cosa intercambiabile con qualsiasi altra cosa. I signori della rete accrescono i loro profitti
facendoli coincidere con il loro desiderio totalizzante che si avvia a una preventiva privatizzazione della
sfera del senso con i contenuti di una normatività vissuta come una funzione solo servile. Solo la
distanza dall’altro avvia l’esercizio della soggettività e rende l’uomo un essere non intercambiabile e
conferma la struttura accomunante il linguaggio e il diritto nell’istituire la regola giuridica, così da
disciplinare anche il desiderio, poiché non qualsiasi desiderio è desiderabile nel coesistere giuridico ma
solo quello che non esclude l’altro nell’affermazione della sua identità. Tutto ciò che costituisce il
nostro Io, la memoria, l’intelligenza, il giudizio, ecc. emigra in un database attraverso gli schermi: lo
scambio è con le nostre menti, che a loro volta sono riempite di contenuti promossi da
rappresentazioni algoritmiche che rimuovono il sapere che non si sa

SECONDA TESI:
La rivoluzione computazionale, e insieme informazionale, sta condizionando così radicalmente la nostra
concezione della realtà e il modo in cui la rappresentiamo internamente nella nostra coscienza e
autocoscienza»; ciò esige di considerare centrale la conoscenza tecnica rispetto al silenzio della
coscienza.
Nel diritto la coscienza della giustizia incide sulla conoscenza delle norme attraverso l’attività
interpretativa che conferisce un senso nuovo alla legalità già data. Il server è invece solo il luogo di
operazioni conoscitive, custode solo di una memoria meccanica, chiamato sempre a ratificare senza
complicare i meccanismi già preimpostati altrove.

Le dinamiche che nutrono l’infosfera vorrebbero far apparire superata una tesi di Fichte secondo cui
l’uomo è uomo solo con gli altri uomini. Vorrebbe persuaderci che non abbiamo bisogno degli altri,
riducibili in qualcosa che possiamo conteggiare ma su cui mai possiamo contare (qui in senso
empatico). La tesi di Fichte sarebbe superata solo se rinunciassimo alla storia e all’istituzione del diritto
stesso.
La relazione è il luogo qualificato della coscienza e dell’autocoscienza; la connessione ci può essere solo
nel condividere informazioni con altri agenti biologici o artefatti ingegneristici, ma in questo ambito
non vi è riconoscimento, perché nessun essere umano può ritrovare sé stesso in un agente biologico o
un artefatto ingegneristico. L’uomo è sinolo di esteriorità e dimensione dello spirito che lo differenzia
dagli altri viventi ed è il luogo della vita interiore. L’uscita da sé stessi per ritrovarsi negli altri è
possibile solo in uno spazio di libertà che lo limita, esponendolo perché lo espone alla libertà
dell’altro, mai della macchina che non sa esortare né riconoscere la differenza fra un agire
condizionato e un agire libero
Questo incontrare l’altro come essere razionale e in quanto tale dotato di coscienza mostra che solo il
diritto è condizione dell’autocoscienza, perché garantisce la possibilità di scoprirsi uomo con gli altri
uomini.

L’individualità è sempre un concetto in relazione, comune alle due coscienze nella relazione di
riconoscimento. «La coscienza è il luogo dove si generano le controversie di senso, in cui si pone il
problema del mio mondo che entra in conflitto con il tuo mondo, incidendo sulla formazione di un
mondo condiviso con gli altri» Affinché i conflitti di senso non assumano i tratti della conflittualità
vitale è necessario che ci sia la legge comunemente riconosciuta che non è di proprietà né dell’uno né
dell’altro, ma è un ritrovarsi con l’altro in una legge che è di entrambi: è la legge universale di
riconoscere l’altro come uguale e differente.

La connessione è generata da una disuguaglianza tra coloro che stabiliscono le regole del connettersi e
in quest’infosfera l’autocoscienza si fa auto-osservazione, non attivando nulla della riflessione e della
creatività umana. Non c’è spazio per coscienza e autocoscienza, ma solo per un linguaggio che sappia
essere utile nelle informazioni che transitano. I flussi di dati sono fatti transitare mediante un
linguaggio sempre esercitato in terza persona, da un chiunque ad un altro chiunque.

Quindi, l’essere umano è riducibile in una cosa?

TERZA TESI:
Distinti dalle cose, dai vegetali, dagli animali e dalle macchine, gli esseri umani, non riducibili ad
elementi dei sistemi informazionali, hanno la peculiarità di esistere come “cercanti”, come gli unici
qualificati dal porre il problema. Queste affermazioni infrangono ogni convincimento che possa darsi in
futuro un’automazione assoluta. Si afferma il dominio del “si”, la medietà che rende tutti analogamente
intercambiabili.
Il cercante è inquieto, è disfunzionale, perché non si limita a vivere ma è sempre orientato a
trascendere verso la costruzione di un nuovo orizzonte di senso.

L’essere soggetto nomina un esserci. È sempre un esserci in relazione, in cui torna il convincimento che
l’uomo è uomo solo con gli altri uomini. È l’esserci, inteso come un essere-con, che crea la rete e il
diritto, e questi perderebbero significato se non ci fosse una pluralità di uomini e di donne: l’esserci
espone costantemente alla scelta tra incontrare l’altro riconoscendolo o escludendolo. L’altro non è
una cosa, ma è una condizione del mio esserci.
Il riconoscimento dell’essenzialità dell’altro è però il solo che nomina la cura, intesa come un aver cura
che non vuole sostituirsi all’altro. L’aver cura è allora il momento genetico di ogni comunicazione
esistenziale ed è l’inizio del diritto come fenomeno, non come mero fatto della funzione.
Lo smartphone si avvia a essere il certificato sempre aggiornantesi della nostra identità: esso
rappresenta una identità che risulta dall’aver assemblato i nostri dati e si aggiorna continuamente
proprio per questo motivo.

Il diritto si forma in una comunità e nell’esercizio di una libertà non assoluta ma giuridica, per cui l’io
non può essere interscambiato: allora è necessario l’impegno del giurista ad affermare la finalità del
diritto.
DETERMINISMO, LIBERO ARBITRIO, COMBINAZIONISMO
Ogni singolo essere umano non è figlio di se stesso, viene da altri esseri umani, mostrando così che le
donne e gli uomini esistono sempre in relazione con altre persone e che il loro coesistere esige l’incidere
leggi giuridiche, che rendono possibile la durata della coesistenza e non una sua distruzione.
Questa condizione degli esseri umani rende inevitabile chiedersi se le leggi che disciplinano il loro
relazionarsi siano leggi che eseguono quel che appartiene al determinismo oppure siano radicate nel libero
arbitrio.

Nella condizione contemporanea, l’opposizione tra il determinismo ed il libero arbitrio viene ad essere
ambientata nel crescere delle attività di ricerca delle neuroscienze che, pure nella distinzione tra il cervello
e la mente, possono situarsi in un mondo umano considerato disciplinato dalla certezza delle leggi della
fisica, della chimica, oppure possono situarsi in un mondo abitato da esseri umani esistenti nel rischio
qualificativo dell’esercizio della libertà.

La coscienza di un essere umano è una coscienza innocente, che si limita ad uno stare a vedere lo svolgersi
del determinismo e quindi non può essere ritenuta imputabile-responsabile di alcuna sua condotta,
secondo l’esercizio di una libera volontà. Non può essere chiamata a rispondere davanti ad un magistrato
terzo, imparziale per i suoi atti che incidono sugli altri.
Nella situazione contemporanea, propria della civiltà dei dati, vediamo come progressivamente si tende ad
incontrare una concezione di libertà secondo nuove prospettive, che mai si erano aperte nella storia del
pensiero umano.

Esistiamo nella civiltà digitale, navighiamo nella rete dei motori di ricerca, delle piattaforme che, come
Google, Amazon, Facebook, Instagram, Spotify, acquisiscono miliardi di dati dei naviganti-utenti, che
lasciano le proprie tracce in tutti i molteplici quotidiani accessi alla rete.
Si afferma il convincimento che la rete, impiegando macchine intelligenti, sia in condizione di conoscerci
meglio di quanto noi conosciamo noi stessi, anche nell’oggettivazione dei nostri desideri.

Attualmente si è invitati a considerare che tutte le situazioni umane non sono né l’esecuzione di leggi
fisiche, né il risultato della libera volontà. La conoscenza dei dati che si riferiscono ai nostri accessi alla rete
viene considerata tale da portare alla seguente affermazione: una volta raggiunta l’estrazione e il
trattamento dell’interezza dei dati, tutto quel che accade nell’esistenza-coesistenza procede secondo la
tendenziale concretizzazione automatizzata dei dati, estratti dalla rete e trattati algoritmicamente da una
intelligenza artificiale, macchinico-matematica.Consegue che l’esercizio del libero arbitrio viene ad essere
ritenuto un atto difettivo, perché ancora mancante del conoscere la totalità dei dati di profilazione di ogni
condotta umana, che pertanto si concretizza quando consiste nell’automatizzazione realizzatrice della
piena certezza del procedere dell’oggettività delle tecno-scienze dei dati.

Oggi domina un freddo operare computazionale, matematicamente certo perché funzionante al di là


dell’esercizio incerto, rischiato dalla soggettività nella formazione di quel che finora si era attribuito alla
dignità umana, consistente proprio negli atti del libero arbitrio. Questa dimensione degli esseri umani viene
considerata uno spazio negativo, essendo mancante della conoscenza algoritmica di tutti i dati, che i motori
di ricerca, le piattaforme estraggono ed elaborano pienamente ogni qualvolta che viene compiuto un
nostro accesso.

La rete ci conosce più correttamente di quanto noi possiamo conoscerci, perché ha una conoscenza
numerica, certa.
Allora sorgono spontanee delle domande:
• Gli uomini accedono alla rete perché eseguono le leggi del determinismo?
• Gli uomini accedono perché il loro libero arbitrio così sceglie e decide?
• Si tratta di un accesso non deterministicamente configurato, né voluto liberamente, ma derivante
dal profilo che la combinatoria contingente della massa dei dati assegna ad ogni singolo essere umano
navigante in rete

Nell'esposizione di quest'ultima domanda, si allude ad una combinatoria dei dati che non è una esecuzione
delle leggi del determinismo, ma che non consiste neppure in un contenuto liberamente voluto. Compare
così, la struttura costitutiva dell’attuale civiltà dei dati, che è costantemente in trasformazione secondo
l’unica direzione che oggi la qualifica, quella del combinazionismo, che compone l’unità matematico-
operazionale del Potere dei dati e del Potere dell’automatizzazione.

Nella rete, che ogni giorno registra miliardi di accessi, l’estrazione e l’elaborazione di una massa di dati
produce ancora altri dati, senza alcun possibile riferimento alle leggi del determinismo oppure all’esercizio
del libero arbitrio. La produzione di nuovi dati avviene secondo la contingenza del loro combinarsi, secondo
i movimenti intersecantesi degli esseri umani e delle macchine intelligenti, che operano in un itinerario
dove i mezzi e gli scopi, le quantità e le qualità si attraversano confondendosi in un tutto consistente nel
successo funzionale del Potere dei dati. Questo tipo di potere si presenta nel concretizzarsi impersonale del
Potere dell’automatizzazione. Quando tutti i dati relativi ai movimenti umani in rete sono stati elaborati, si
può dare unicamente la loro realizzazione automatizzata, che non viola né rispetta il determinismo oppure
il libero arbitrio.

Per ciò che concerne il diritto, vediamo che il comporsi e l’attraversarsi di questi due poteri mostra che quel
che finora era stato nominato come giudizio giuridico si palesa come una combinatoria di dati emessa dal
robogiudice, strutturato come il robolegislatore ed il robofilosofo. Queste tre figure non sono configurate
né dal determinismo, né dal libero arbitrio, ma appartengono al combinazionismo. Quindi, nell'attuale
civiltà dei dati, il combinazionismo nomina il comporsi dei dati con la produzione di altri dati, in un itinerario
dove la conoscenza algoritmizzata di tutti i movimenti in rete degli esseri umani, portando ad una nuova
condizione configurabile dal Potere dei dati.

È una condizione che non attende le scelte e le decisioni libere degli esseri umani, né esegue leggi
deterministiche, ma vi si sostituisce con la successione di operazioni computazionali concretizzate dal
Potere di automatizzazione, che impone un movimento depersonalizzato agli esseri umani, divenuti
spettatori del combinazionismo.
GEORG SIMMEL: FILOSOFIA DEL DENARO
Il predominio dei mezzi sui fini si riassume e culmina nel fatto che le cose che si trovano al di fuori della
spiritualità della vita , si sono impadroniti del centro della vita, si sono impadroniti di noi stessi. Il
predominio dei mezzi non ha investito solo i singoli scopi, ma il luogo stesso degli scopi, il punto in cui tutti
gli scopi convergono ovvero l'uomo. Egli è allontanato da se stesso perché tra lui e la sua parte più
autentica si è frapposta una barriera insuperabile di strumenti, di conquiste tecniche.

In questo contesto, la libertà giuridica, la composizione dell’io e del noi disciplinata dal principio di
uguaglianza, subisce una violenza sempre più intensa.

La condizione contemporanea è plasmata dalla padroneggiante invasività della massa dei dati circolanti in
rete; prima dalla loro immissione e poi dal loro trattamento mediante la potenza di algoritmi che esigono
investimenti di capitali disponibili solo dai pochi signori della finanza.

In una situazione del genere, la tesi che afferma il darsi del dominio dei mezzi sugli scopi è approfondita e
chiarificata nel considerare che è emarginata sempre più la ricerca dialogica del senso. Questo perché le
questioni sul senso appartengono esclusivamente agli esseri umani, sono estranee a tutto il resto del non-
umano, anche alle strumentazioni dell’intelligenza artificiale.

Si allude a quelle questioni che si presentano nell’inesauribile concatenarsi di domande e risposte nella
relazione dialogica, che certo non avviene tra gli animali o tra le macchine, perché qualsiasi riflessione
discorsiva sul senso concerne la vita interiore,
DIRITTO, RAGIONE AUTOMATIZZANTE E RAGIONE ESISTENZIALE

La ragione dell’automatizzazione si concretizza mediante il potere degli algoritmi, che estrae e tratta tutti i
dati provenienti dalle cosiddette case e città intelligenti

Tutti gli schemi automatizzanti “trasformano i dati in risorsa commerciale”, mediante “la capacità di
aggregare, estrarre, analizzare e manipolare ingenti quantità di dati, sfruttando l’intelligenza artificiale al
fine di fornire servizi personalizzati e trasformando i cittadini da creatori di senso in esecutori di programmi
risultanti appunto da operazioni integralmente automatizzate.

Nella transizione dallo stato creativo a quello esecutivo, la persona subisce violenza, la libertà giuridica,
dell’io e del tu, non riceve il rispetto dovuto alla dignità umana alla sua irriducibilità ad una merce
quantificabile tra le altre, in un processo di monetizzazione che celebra la connessione tra il potere dei
numeri e la potenza del denaro.

Emerge qui il formarsi ed il consolidarsi della disuguaglianza tra i signori della rete e tutti coloro che vi
accedono, destinati a ricevere un servizio, una informazione risultante dal trattamento dei dati ceduti e
circolanti nell’Internet delle cose.

È una informazione qualificata dai due versanti che la compongono. Da una parte, si presenta
ambiguamente come un servizio personalizzato, ovvero orientato ad un profilo di utente che appare non
fungibile con nessun altro. Dall’altra, però opera così in quanto ha già costruito il profilo del singolo utente,
ne ha fatto un prodotto della ragione automatizzante, con il risultato di acquisirne un profitto.

Emerge il concetto di ragione automatizzante che trova nell’originalità decisionale delle singole persone un
ostacolo, un impedimento da rimuovere per l’affermarsi di automatismi, non costruiti dall’esercizio della
volontà di partecipazione di tutti, ma dal dominio di alcuni, governanti la rete, sugli altri.

La rete ha una capacità di richiamo, esercitata su tutti coloro che vi accedono, perché apparentemente
fornisce dei dati-informazione senza chiedere alcunché, si mostra, come una elargizione gratuita di beni. In
concreto invece la rete, nel ‘donare’ informazioni e servizi acquisisce’ tracce-dati da tutti coloro che vi
accedono e così è in grado di costruire progressivamente un loro profilo, di assoggettarli, di produrli come
consumatori coatti, osservanti i messaggi-comandi della pubblicità, che è costantemente presente in ogni
spazio della rete.

Cresce un interrogativo che potrebbe avere una risposta già scontata ovvero ci si chiede se ci sia ancora la
necessità del giudizio, della valutazione, del partecipare al costruire democraticamente una situazione
giuridico-politica di una definita comunità umana. Nel rispondere bisogna prendere in considerazione la
supposizione secondo cui quanto ruota attorno alla libertà, e quindi al rischio degli atti scelti e decisi dagli
esseri umani, sia divenuto tale da poter essere considerato ormai integralmente sostituibile con
l’acquisizione ed il trattamento algoritmico-automatizzante di una massa di dati.

Una volta che la massa di questi dati è acquisibile ed è trattabile con matematica certezza, si ritiene di poter
procedere mediante la ragione informazionale automatizzante, con il conseguente affermarsi del
convincimento diffuso secondo cui se tutti i dati riferibili ad una definita questione sono acquisiti ed
elaborati dalla potenza di software ed hardware, che realizzano il contenuto di algoritmi efficienti, allora si
è liberati dalla libertà, non ci si trova più davanti al rischio d assumere scelte. Si viene immessi in un
procedere automatizzato, governato dagli schemi informazionali di un’intelligenza artificiale, che ha
acquisito una sua autonomia

In questa progressione, la ragione automatizzante delle procedure algoritmiche si sostituisce alla ragione
dialogica, che invece si svolge liberandosi da ogni automatismo.

Nella vita di ogni giorno, l’irrinunciabilità all’accrescimento quantitativo della condizione umana, dovuto
all’incidere della rete è una irrinunciabilità che si cimenta

con una sfida consistente nel guidare questi strumenti affinché contribuiscano a creare un mondo centrato
sull’uomo, sulla sua qualità esistenziale. È il mondo che non dovrebbe assoggettare gli esseri umani al
potere extra-umano della ragione automatizzante, è il mondo che, all’impegno per il rischio-avventura di
esercitare la libertà personale, mai sostituirebbe l’esecuzione di una intelligenza artificiale. Questa
intelligenza è il nucleo di una automatizzazione, che, all’autonomia della vita interiore reale, surroga
l’autonomia virtuale-digitale, strutturalmente non imputabile e pertanto naturalisticamente innocente,
dunque estranea al fenomeno del diritto. Permane pur sempre la consapevolezza che tutti gli elementi
della giuridicità sono radicati nell’intenzione responsabile della singola persona, che risponde per i suoi
atti, voluti con una consapevolezza che è la sua e non di un funzionalismo senza un Io.

Ci si chiede in aggiunta se l'automatizzazione concerne anche la comparazione, la scelta tra uno scopo ed
uno scopo diverso.

La scelta di uno scopo non può essere automatizzata, in quanto se potesse esserlo allora lo scopo sarebbe
contenuto in un insieme di dati già disponibili, avrebbe la temporalità del passato e del presente dei dati
trattabili, ma non avrebbe la temporalità del futuro.

Qui si attiva una interpretazione creativa, che, al di là dei dati disponibili, avvia il rischio della libertà e
l’entusiasmo formativi della creazione di senso, connessa alla selezione di uno scopo ed inaccessibile a
qualsiasi automatizzazione macchinale

La libertà giuridica, al di là di un impossibile isolamento assoluto del singolo essere umano da tutte le altre
persone, concerne l’io ed il tu, la loro

relazione in un noi, che compone l’individualità e la socialità di ogni essere umano. La socialità consiste
nella relazione, che è tale perché si presenta tra un io ed un tu, differenziati nell’unicità e nell’originalità
della loro singola vita interiore, formatrice di visioni del mondo non identiche ma distinte, confrontate in un
dialogo, che espone argomenti favorevoli o contrari rispetto ad una determinata visione del mondo.

L’automatizzazione della individualità e della socialità presuppone l’automatizzazione del dialogo e questa
risulta essere una situazione non possibile, neppure descrivibile, poiché se il dialogo sugli scopi potesse
essere automatizzato, i parlanti risulterebbero dialogare senza alcuna partecipazione personale alla
relazione discorsiva. Verrebbero meno le situazioni di attesa, quanto alla parola dell’altro, di sorpresa, di
consenso o di dissenso.

L’integrale automatizzazione della società, anche nelle dimensioni giuridiche del contratto, della sentenza,
etc., comporterebbe l’inessenzialità degli esseri umani, lasciando prefigurare un mondo dove le macchine
intelligenti’ continuano a funzionare, nella loro totale autonomia automatizzante, anche in una compiuta
assenza degli esseri umani, in un mondo di macchine intelligenti senza persone dialoganti

A questo proposito ci si chiede allora che ne è della storia di questo mondo integralmente automatizzato,
quale entità può scriverne la storia.

Se si risponde che l’opera dello storico può essere sostituita dall' assemblaggio dei dati, si cancella la
peculiarità dello storico, che non consiste

nel montaggio meccanico dei fatti e delle date ma si impegna nell’interpretare le intenzioni degli esseri
umani, dei singoli e dei gruppi, che hanno conferito ad un periodo della storia un orientamento invece di un
altro. La storia è l’opera esclusiva degli esseri umani, che sono gli unici viventi presi dalla vocazione di
trasformare, secondo il pensiero e la volontà, non secondo la combinatoria algoritmicamente efficace di
dati, la qualità delle relazioni umane e non semplicisticamente la quantità degli elementi che si possono
osservare in esse.

L’opera della storia è centrata sull’esercizio della volontà umana, delle scelte che sono operate da ogni
singola persona nel suo abitare in un mondo condiviso con le scelte delle altre persone. Non appena si
nomina la questione della scelta, si è già nell’ordine della qualità mentre davanti

ai numeri, alla quantità, alla grandezza, nessuno si può ritenere autore di una scelta, ovvero non posso
scegliere di affermare che 3 è più grande di 4, la quantità non lascia margine ad un atto di scelta capace di
argomentare che una quantità minore è più grande di una quantità maggiore.

L’affermarsi degli schemi dei sistemi informazionali qualifica la civiltà dei dati, mostrando che qui si
consolida l’inessenzialità delle scelte umane, il centro diviene l’automatismo tecnico che esclude la vera
possibilità di scelta, usando gli esseri umani come luoghi di concretizzazione dei materiali lavorati dai
processi di automatizzazione di tutte le forme di socialità. Ci si viene a trovare in uno stadio di evoluzione
storica di eliminazione di tutto ciò che non è tecnico
IL DIRITTO E IL DOVERE SONO MONETIZZABILI?

La pretesa giuridica ed il rispetto del diritto istituito non costituiscono un vantaggio oppure uno svantaggio,
misurabili nei limiti del bene individuale, che si separa e si confina nei confronti del bene dell’umanità. Il
presupposto per conoscere e nominare compiutamente quel che si ritiene vantaggioso e quel che si
considera svantaggioso consiste nella presunzione di avere una conoscenza

integrale di questi due ambiti. Una tale conoscenza non è accessibile alla condizione umana, capace
unicamente di un conoscere e di un sapere che permangono limitati, nell’impossibilità di cogliere tutti gli
effetti di un accadimento.

Il danaro rende possibile conferire una definita forma numerica ad un utile che si è acquisito, così da non
essere più legati alla oggettività materiale di un determinato vantaggio. Questa liberazione da un bene
definito, materialmente concreto, viene realizzata mediante il danaro, che si presenta come una entità che
smaterializza i materiali, privando l’essere umano di un riferimento sensibile, concreto.

I beni trasmutati in danaro sono integralmente situati nell’ordine della quantità e perdono qualsiasi
riferimento alla qualità. L’affettività, l’empatia, la capacità di accogliere-ascoltare l’altro nel dialogo, non
sono monetizzabili, si sottraggono alla costante esposizione al mercato.

Il denaro consente di «costruire mezzi su mezzi, finché i fini ultimi, ai quali dovrebbero servire, si
allontanano sempre più dallo stato di coscienza fino a inabissarsi. In questo processo nulla ha un ruolo così
grande come il denaro perché mai un oggetto, col valore solo di mezzo, si è trasformato in una meta di
desideri.

Se si persegue la tesi della riduzione del diritto all’economia, allora si afferma che il linguaggio giuridico si
traduce in linguaggio economico-mercantile, ovvero nel linguaggio del denaro, che si presenta nella sua
peculiarità con il perseguire unicamente dei mezzi e mai una visione del mondo che possa considerare
l’essere umano nella condizione di una entità peculiare. La specificità della persona e della comunità di
persone non è riducibile in una frammentazione di molteplici sequenze di mezzi, ma consiste nel
movimento esistenziale rivolto alla ricerca, pensata e voluta, di fini capaci di conferire un senso al mondo
coabitato dall’umanità. Con il linguaggio del denaro, «l’economia monetaria porta con sé la necessità di
continue operazioni matematiche nella vita quotidiana. La vita di molti uomini è riempita da un valutare,
calcolare, ridurre valori qualitativi in quantitativi.

La riduzione del diritto all’economia si compie mediante la progressiva trasmutazione della qualità
esistenziale in una quantità mercantile, con la conseguenza che le relazioni interpersonali, anche nella loro
peculiare struttura di relazioni giuridiche, sono sottoposte al dominio della quantità monetizzabile. Ne
deriva che il diritto diviene uno strumento usato per rendere possibile e garantire legalmente una tale
trasmutazione.

In Weber si legge un’argomentata distinzione tra ordinamento giuridico ed ordinamento economico, che
viene compiuta differenziando, quanto al diritto, la prospettiva dottrinale da quella sociologica. La
prospettiva dottrinale del diritto mira a indagarne il senso corretto, cerca di determinare i diversi singoli
enunciati nel loro senso logicamente corretto, in maniera tale che vengano così tradotti in un sistema in sé
non contraddittorio sotto il profilo logico.
A differenza del diritto invece, l’economia considera l’agire effettivo degli individui, che è determinato dalla
necessità dell’orientamento al fatto economico. L’ordinamento giuridico e l’ordinamento economico,
analizzati da Weber dal punto di vista dottrinale, sono considerati due versanti differenziati. Nel momento
in cui l’ordine economico e l’ordinamento giuridico sono in relazioni reciproche molto strette, quest’ultimo
è inteso per ciò stesso non in senso dottrinale, ma in senso sociologico e pertanto l’ordinamento giuridico
non concerne la non-contraddittorietà dottrinale, ma riguarda un complesso di elementi che concernono
l’agire umano nella sua concretezza sociale.

Le motivazioni delle condotte delle persone possono avere argomentazioni differenziate, riferite
all’approvazione consapevole dell’insieme sociale dove si svolge la coesistenza di una comunità, oppure
riferite alla ripetizione consuetudinaria di regolate modalità della vita

Le norme di un insieme di relazioni valgono come diritto finché sussiste oggettivamente la possibilità che
l’apparato coattivo eventualmente imponga quelle norme ovviamente contro il darsi di azioni che ne
costituiscono una violazione. Weber infatti nel differenziare l’economia ed il diritto, argomenta sostenendo
che qualcuno, in virtù dell’ordinamento giuridico statuale, abbia un ‘diritto’ (soggettivo) significa quindi per
la considerazione sociologica nel caso normale, che questi ha la possibilità garantita dal senso di una
norma giuridica, di esigere per determinati interessi l’assistenza di

un ‘apparato coattivo mentre nel suo funzionamento, l’economia è priva degli elementi peculiari del diritto.

Queste tesi di Weber si riferiscono alla prospettiva sociologica e non a quella dottrinale, ovvero riguardano
la prospettiva che prescinde dal mettere in questione la qualità dei contenuti di una norma giuridica. Quindi
si possono dare contenuti normativi tali da concretizzarsi mediante l’esclusione di alcune persone,
compiuta dal potereforza di altre persone. In una tale situazione sociale, si è in assenza del rispetto del
principio di uguaglianza non riferito agli uomini in quanto oggetti di un ordinamento giuridico, ma agli
uomini in quanto soggetti di diritti incondizionati, universali ed inviolabili.

Nella sua distinzione tra una prospettiva dottrinale ed una sociologica, Weber afferma che il diritto, sempre
in senso sociologico, non garantisce affatto soltanto interessi economici, ma gli interessi più diversi, da
quelli più elementari, come la tutela della sicurezza personale, fino ai beni puramente ideali.

La garanzia del possibile accesso ai beni puramente ideali permane estranea sia alla struttura della
Metropoli, che a quella della rete di Internet, poiché in queste due situazioni sociali svolgono un ruolo
prioritario e normativo le dimensioni dell’utile, estranee ai ‘beni ideali’, che si illuminano nel concetto di
dignità umana, sottratto al calcolo dell’economia monetaria ed al dominio attuale dell’economia
dell’informazione.

Quindi emerge con Weber che il diritto non è riducibile all’economia, perché garantisce situazioni personali
ed interpersonali, che non hanno alcuna qualificazione economica, come, ad esempio, si deve dire per la
dignità. La dignità della persona consiste nella sua irriducibilità ad un quantum economico. La dignità non si
compra e non si vende, permane in una inoggettivabilità estranea alla numerazione dell’economia. L’io
della persona è titolare del diritto al rispetto della sua dignità, così come, in una circolare reciprocità, il tu è
titolare del dovere di rispettare la dignità di tutte le persone.
La presentazione più iniziale del diritto e del dovere si ha nella relazione dialogica dell’io e del tu, che sono
simultaneamente sia debitori, sia creditori del senso, costantemente in formazione nella discorsività degli
autori del dialogo. Nel linguaggio dialogico delle persone, io ho il diritto a prendere la parola e tu hai il
dovere di rispettare che io la prenda. Qui il diritto ed il dovere garantiscono la formazione dialogica del
senso. Negare la qualificazione del senso come un ‘bene’ interpersonale e gratuito, estraneo al commercio
dell’utile e quindi non monetizzabile, comporta che un tale bene possa venire considerato tale da poter
essere confinato in un vantaggio oppure in uno svantaggio.

L’economia odierna poggia su possibilità acquisite tramite contratti, la moderna velocità dei traffici esige un
diritto che funzioni in maniera

rapida e certa. Il contratto concerne certo beni economici, ma non è un bene economico, non si vende sul
mercato, né si acquista mediante il danaro. Il contratto si forma per il convenire delle volontà libere delle
persone. Il con-venire si radica sul con-sentire, ovvero sul consenso, inteso come concordare su un senso,
che è quello e non un altro, è definito-fissato secondo una modalità che unisce, nel rispetto di norme
istituite, il libero volere di quanti convengono. Le persone che convengono sono orientate verso un senso,
che si concretizza nel futuro, nella dimensione della possibilità, scelta.

Il senso si forma come una ipotesi, come una ipotesi che sorge sul confronto dialogico tra una pluralità di
possibili direzioni

ipotizzabili. Una tale pluralità si illumina nel confronto tra l’io ed il tu

Nella condizione di un io coincidente integralmente con se stesso, con la sua immagine e quindi non aperto
al dialogo, all’ascolto-accoglienza degli altri, si ha la situazione propria del narcisismo.

La persona, la libertà ed il diritto si chiariscono reciprocamente nella struttura dell’ipotizzare, che,


temporalmente, è non-coincidenza con il presente; è il lavoro di formazione del futuro in un dialogo che
impegna una relazione interpersonale, disciplinata dal diritto.

Nel lavoro umano, l’ipotesi è l’oltre dell’immagine presente, eccede la chiusa condizione del narcisismo,
superata dall’accoglienza dell’altro, della sua differenza esistenziale, che consente il confronto tra la mia
ipotesi e la tua ipotesi, essendo, queste due situazioni dell’ipotizzare, l’una essenziale all’altra, poiché l’io
senza il tu si perde nell’identità-identificazione della sua condizione.

Nell’esercitare l’opera propria della formazione dialogica di una ipotesi, la persona non coincide con la sua
situazione presente, ma ne avvia la trasformazione, costitutiva del futuro dei dialoganti.

Il dialogo tra l’io ed il tu si svolge nella peculiarità del linguaggio umano, che nomina qualcosa e
simultaneamente apre una

domanda, un interrogativo sul senso di quel che è stato nominato.

Già in questo descrivere la formazione dell’ipotesi, radicata nella pluralità dei soggetti ipotizzanti nel
dialogo, si manifesta
l’essenzialità del diritto, che garantisce ad ogni singola persona la sua dignità, il non essere una entità
funzionalmente fungibile con qualsiasi altra entità. La persona non è riducibile ad una funzione, è creativa
nella disfunzionalità formativa delle possibili ipotesi, orientate al futuro.

Il diritto presenta la condizione costitutiva della persona; il suo essere ‘chi’ risponde per le azioni volute
nell’esercitare la libertà, con gli effetti di un agire che è imputabile ad un io e non ad una entità non-umana.
Gli effetti della mia azione acquistano un rilievo giuridico quando transitano nell’esistenza concreta
dell’altra persona ed hanno una valutazione definita dal diritto istituito dal legislatore ed amministrato dal
giudice. Hanno un rilievo morale, culturale, religioso, se permangono nella sfera della mia esistenza o delle
relazioni co-esistenziali, ma non hanno una qualificazione riferibile alla legalità vigente.

Il plesso persona, libertà e diritto può essere posto in discussione mediante una iniziale analisi della
questione del senso, che si presenta nel bivio tra:

• il senso del conoscere scientifico: nel conoscere scientifico è assente il riconoscimento dell’altro
parlante, non si danno gli effetti del linguaggio che incidono sulla trasformazione della relazione discorsiva,
confrontando una molteplicità di ipotesi, riferibili ad una pluralità di autori-creatori di senso esistenziale e
non ricercatori-scopritori di oggettività, già date secondo le leggi fisiche, chimiche, biologiche, meccaniche.

• il senso del relazionarsi esistenziale: il senso non ha i tratti della scientificità, che concerne
conoscenze riproducibili in attività di sperimentazione.

Quindi, la persona, la libertà ed il diritto non sono elementi riproducibili in un laboratorio, permangono
estranei sia al procedere delle operazioni proprie di un conoscere scientifico, sia alla funzionalità degli
schemi degli algoritmi

Nelle relazioni interpersonali, l’orientamento è conferito da una intenzione pensata e voluta nell’esercizio
creativo della libertà e posta in opera secondo un insieme ordinato di motivazioni mentre nei rapporti che
riguardano tutti gli enti del non-umano è assente l’atto consapevolmente selettivo di una motivazione, che
qualifica invece la volontà personale, nell’essere giuridicamente imputabile per gli effetti delle azioni
intenzionali che transitano sulle altre persone.

La motivazione degli atti della persona illumina l’esercizio della libertà, mostra che ogni scelta è assunta
secondo una decisione pensata e voluta, giusta oppure ingiusta, legale oppure non-legale: può riconoscere
l’altra persona e rispettarla oppure la può disconoscere ed esercitare esclusione e violenza nei suoi
confronti. La libertà si chiarisce nell’intenzione

imputabile di chi la esercita e nella qualità delle motivazioni, pensate e volute, che vengono selezionate nel
compiere un atto libero, mai anticipabile.

Le motivazioni possono essere diverse e, secondo il loro contenuto, ricevere qualificazioni positive oppure
negative dato che vanno ad incidere anche su chi ne riceve gli effetti, ovvero sugli altri soggetti delle
relazioni interpersonali. Con attenzione
al fenomeno del diritto, questi effetti possono essere sostanzialmente giusti oppure ingiusti e non
solamente legali oppure non legali.

La distinzione degli effetti nelle relazioni umane può essere discussa compiendo un’analisi delle diverse
direzioni di esercizio della libertà, che possono venire praticate secondo il principio del rispetto, universale
ed incondizionato, della dignità

di ogni persona oppure secondo l’affermarsi della forza del più forte che viola tale principio assumendo
oggi la configurazione del potere dei signori che dominano l’economia delle informazioni.

Il mio io non è sostituibile dall’io di un altro essere umano. Questa insostituibilità costituisce la ragione del
poter-essere responsabili-imputabili, ovvero del rispondere giuridicamente di se stessi. Il rispondere di se
stessi eccede la chiusura della persona nei confini narcisistici della sua individualità

Gli effetti della mia decisione incidono sul mondo abitato anche dagli altri, mostrando che i contenuti
dell’esercizio della libertà di un io possono essere tali da non riconoscere ed anzi escludere l’esercizio della
libertà degli altri.

Tuttavia, il mio diritto viene sempre esercitato nel concretizzare il mio dovere di ascoltare-accogliere la
parola degli altri dialoganti. Diritto e dovere costituiscono i due versanti inscindibili di una relazione
interpersonale regolata giuridicamente dal rispetto del principio di uguaglianza, universale ed
incondizionato. Nessuno può assoggettare l’altro ad eseguire una volontà imposta; nessuno è titolare di un
diritto con questo contenuto, perché deve rispettare il dovere di riconoscere l’altro nella sua differenza.

Il progressivo passaggio dalla condizione della Metropoli a quella della rete di Internet viene segnato dal
costante accrescimento di una forma di coesistenza che attualmente trasmuta la metropoli in una città
globalizzata nella rete

nascente sulla incidenza prioritaria dei flussi informazionali che appartengono pur sempre unicamente a dei
nuclei elitari, che hanno il potere di dominare il resto dell’umanità.

La vita metropolitana viene strutturata come un flusso di esseri umani che svolgono unicamente delle
funzioni differenziate, così che, nelle strade della metropoli, ognuno incontra ogni altro nei confini delle
funzioni economico-monetarie che esercitano i diversi individui, quindi le relazioni umane si svolgono nella
metropoli come relazioni funzionali, regolate dal successo delle operazioni svolte da ogni singolo individuo.

Questa struttura della vita metropolitana progredisce nella rete di Internet accrescendo la configurazione di
una globalizzazione costituita dal flusso di dati.

• Nella Metropoli ogni persona svolge una funzione ed incontra le altre persone permanendo nei
confini di quella funzione che la identifica, così che la sua identità coincide con la sua funzione: ogni
persona è unicamente quel che fa nel suo operare socialmente differenziato.

• Nella rete di Internet si affievolisce la presenza della persona come soggetto che esercita una
funzione, poiché ognuno diviene ciò che un determinato flusso informazionale lo configura, diviene un
combinarsi impersonale di dati, che, volta per volta, conferiscono una identità.
Mentre la Metropoli mantiene ancora un riferimento alla persona, sia pure incontrata nei confini delle
funzioni che svolge, la seconda impone alle singole figure umane il loro essere un luogo depersonalizzato
dello svolgimento di combinatorie di informazioni, di dati circolanti in Internet.

Il diritto a prendere la parola nelle relazioni, umane perché dialogiche, si trasforma nel successo bio-
informazionale di un

funzionare come luogo operazionale dei flussi di dati, trattabili da algoritmi. Il dialogo mediante i numeri si
spegne,

espelle l’arte dell’interpretazione, le questioni sul senso vengono svuotate dall’impersonalità esemplare
degli schemi di algoritmi, che non attendono rispetto e non incontrano il rilievo giuridico della dignità
umana e dei diritti incondizionati che la custodiscono.
PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA E POTERE ELITARIO DEGLI ALGORITMI

Una élite detiene il potere di ‘costruire’ e far funzionare gli algoritmi, avendo la padronanza dei dati trattati.
La gran parte dell’umanità viene invece sottomessa ad un tale potere, esegue i profili imposti nei
comportamenti quotidiani. Si afferma una modalità di sproporzione-disuguaglianza.

Nella condizione contemporanea domina l’essere storditi dall’ipercomunicazione digitale così che le
relazioni sono sostituite dalle connessioni. Il potere degli algoritmi incide in tutti gli ordini sociali
sostituendo appunto le relazioni con le connessioni.

La differenza tra relazioni e connessioni chiarisce l’incidenza sulle persone degli algoritmi al potere.
Tendenzialmente la calcolabilità

dei dati ed il loro trattamento si possono dare quando le relazioni sono confinate negli schemi delle
connessioni, poiché le relazioni tra persone implicano che il loro incontro sia di stampo dialogico, ovvero
avvenga nell’originalità non-anticipabile del dire dell’io e del tu. Nelle connessioni ogni essere umano viene
trattato invece come un elemento calcolabile, privato della creatività del senso delle sue parole, spogliato
della meraviglia non numerizzabile del dialogo.

Il potere elitario degli algoritmi è esercitato da gruppi ristretti, capaci di ‘spiare’ ed acquisire un’immensità
di dati, di trattarli mediante la potenza degli elaboratori elettronici, che compiono una quantità di
operazioni, mai ascrivibili alla possibilità neurofisiologica di una singola persona o ad un gruppo di persone.

La quantità e l’accelerazione crescenti delle informazioni funzionano nel modo più efficace se sono
confinate negli schemi delle connessioni e non si aprono alle relazioni discorsive, che rappresentano un
ostacolo alla velocità depersonalizzata del flusso della massa delle informazioni, al loro essere automatismi
funzionanti. Le connessioni sono trattabili mediante algoritmi, perché non hanno elementi creativi di
senso, propri invece delle relazioni, del dialogo imprevedibile tra l’io ed il tu, esposti alla meraviglia del
presentarsi della differenza tra la mia ipotesi e la tua. Quindi, diversamente dalle connessioni tra internauti,
le relazioni interpersonali sono pienamente aperte alla meraviglia davanti al non-anticipabile.

Considerato il legame tra il diritto ed il bene comune, emerge che l’umanità può acquisire una condizione
più alta di bene comune se mantiene l’orientamento proprio delle relazioni interpersonali dove l’io ed il tu
si manifestano nel loro differenziarsi esistenziale. Il bene comune si alimenta con la comunanza-differenza
tra le persone, nella costruzione di un dialogo orientato alla qualità della comunicazione e non alla quantità
dell’informazione. L’orizzonte degli algoritmi invece si afferma e si consolida nel dominio della quantità e
della velocità dei dati trattabili nelle connessioni e non mostra attenzione alla qualità dei contenuti delle
relazioni.

Le connessioni sono depersonalizzate, le relazioni sono interpersonali. Il calcolo e le diverse fasi


computazionali possono funzionare

nelle connessioni e non nelle relazioni, che sono costituite da un insieme di elementi non integralmente
oggettivabili, non riducibili

alla struttura numerica del calcolo.


Il successo dell’algoritmo consiste nella prevista ripetizione-esecuzione delle operazioni degli internauti,
che rendono possibili e configurazioni delle loro condotte, prodotte per la crescita di un profitto. Il potere
dell’algoritmo cresce nel selezionare quelle condotte

degli internauti che hanno una connessione regolare, meccanicisticamente ripetuta. La relazione dialogica
invece non annoia, si mantiene in una direzione che sorprende, in un’avventura tra i contenuti discorsivi
che tiene desta l’attenzione dell’io e del tu, nella loro differenziazione esistenziale, mostrando in ogni
persona il suo essere sia un universale, sia un’eccezione.

Il successo dell’algoritmo si costruisce nel programmare, produrre ed imporre un profilo.

Nelle persone, parlanti nel linguaggio dialogico, l’esistere come eccezione manifesta il dirsi dell’io nel suo
dire con gli altri,

Unicamente nella condizione umana vi è il legame essenziale tra le due dimensioni dell’universale e
dell’eccezione: ogni io è

universale in quanto è costituito da quegli stessi specifici elementi formativi dell’umanità come tale, ma
simultaneamente è un’eccezione perché forma la sua originale personalità ovvero presenta il comunicare
gli orientamenti pensati e scelti in quanto formativi della propria originale personalità. Giuridicamente
imputabile non è l’oggettività cosale degli elementi dell’umanità

in generale, della specie umana, ma è la soggettività esistenziale della scelta di esistere come eccezione,
motivando i propri atti secondo un’imputabilità propria di quell’unico, originale io, che risponde per le
condotte della sua persona.

Gli algoritmi consistono in una sequenza di calcoli determinati nel trattare dei dati in quella confinata
direzione, che alla conoscenza di un problema fa seguire una soluzione calcolatoria certa. I problemi sociali
delle relazioni umane, comprensivi anche dei conflitti giuridici, ricevono dall’algoritmo un risultato, che, in
modo ambiguo, si può nominare come soluzione conforme alla giustizia ed alla legalità, perché deriva da
quell’impostazione dell’algoritmo che appartiene ai signori, ai padroni, capaci dell’acquisizione e del
trattamento dei dati, e che si impone al resto dell’umanità, ai servi.

Il potere degli algoritmi è destinato ad essere il dominio totalitario di pochi, generando così sproporzione e
disuguaglianza e quindi

negazione dei più iniziali principi generali dei diritti umani, volti a garantire proporzione ed uguaglianza
nelle relazioni interpersonali

Nell’ambito del sistema sanitario, si sostiene che il cosiddetto dottor Algoritmo prenderà il posto dei medici
in carne ed ossa e per analogia si ritiene che nel sistema giuridico il giureconsulto Algoritmo’ garantirà una
scientifica amministrazione della giustizia-legalità.

All’algoritmo appartiene la qualificazione propria del sapere totale e quindi la conseguente espulsione del
sapere parziale.

Ogni forma di sapere totale, anche quello matematico-automatizzante, ha la sua specifica qualificazione
temporale, che espelle l’originalità non-precalcolabile del futuro, poiché ogni persona esiste nell’incertezza
del rischiare le proprie ipotesi, situate pur sempre nell’ordine futuro della possibilità e non in quello
presente della necessità numerico-calcolabile. Qualsiasi singolo algoritmo è configurato da un problema e
dalle fasi di calcolo per la risoluzione dell’obiettivo che individua quel definito problema. Si chiarisce così
che un algoritmo sorge ed opera nella prospettiva di un problema, distinto da altri, secondo una selezione-
definizione degli elementi che lo

costituiscono.

Qualsiasi algoritmo coincide, in ogni sua fase, con le operazioni del suo determinato svolgimento, non se ne
distanzia interrogandosi sul senso dell’obiettivo selezionato, riaprendolo in una discussione dialogica.

Il pensiero e la volontà degli esseri umani si illuminano nel desiderio di senso, che costituisce la dimensione
specifica delle persone e si distingue sia dal naturalismo delle operazioni biologiche, sia dall’impersonale
formazione-svolgimento degli algoritmi

La scelta degli obiettivi degli algoritmi si trova davanti alle domande sul senso dell’obiettivo dell’algoritmo,
sulla sua incidenza nella qualità personale dell’esistenza di ogni singola persona nei sistemi sociali e nelle
istituzioni giuridiche che li disciplinano e li qualificano.

Le molteplici possibili domande sul senso dell’obiettivo perseguito con un algoritmo, essendo costituite da
un insuperabile riferimento

all’originalità del singolo se stesso, non possono essere trattate se non considerando l’unicità di ogni
persona, ovvero non sono riducibili a dati calcolabili, in una numerazione che spoglia ogni singola persona
della formazione continua e non pre-calcolabile della sua personalità.

Il rapporto tra gli algoritmi ed il diritto viene messo in discussione quando si considera che qualsiasi tipo di
algoritmo può anche trattare le persone ed i loro comportamenti unicamente come se fossero enti
biologici, privi di una vita interiore e quindi si omette di considerare la

peculiarità degli atti personali.

L’algoritmo si orienta ad un risultato univoco che, con la struttura certa dei numeri, elimina le questioni
proprie della plurivocità del senso delle parole dei dialoganti. Le condotte umane con una rilevanza
giuridica, all’interno di un ordinamento, possono essere ritenute e comprese come un complesso di dati
trattabili mediante un algoritmo, così da rendere possibile un giudizio giuridico configurato come
numericamente certo.

Tuttavia le condotte umane non si esauriscono in un insieme di dati, ma si illuminano nelle intenzioni degli
autori degli atti giuridicamente disciplinati. Le intenzioni non sono costituite da dati univoci, ma sorgono in
un contesto interpersonale.

Le condotte degli esseri umani costituiscono l’ambito essenziale del giudizio del magistrato, che non può
trattare tali condotte come dati puri, non qualificati dalle intenzioni della soggettività delle scelte personali.
In questa direzione si sostiene che non percepiamo mai puri dati colti in un isolamento, ma sempre in
quanto parte di un contesto semantico che inevitabilmente li dota di un certo significato. Quelli che vanno
sotto il nome di ‘dati grezzi’ sono i dati che mancano di una specifica e rilevante interpretazione.
Gli algoritmi trattano-conoscono i dati, ma mancano della dimensione propria dell’opera
dell’interpretazione, intesa come arte e non come tecnica numerativa. L’arte, in tutte le sue modalità, si
illumina nell’apertura della comunicazione dialogica, la tecnica funziona invece negli schemi
dell’informazione. Nel comunicare, l’io ed il tu non sono oggetti di una calcolabilità eseguita secondo una
numerazione che li rende materiali depersonalizzati. Nell’informare, l’io ed il tu sono invece trattati come
dati impersonali ed in quanto tali possono essere immessi negli schemi numerici degli algoritmi.

Il diritto ha un senso ed una concretizzazione nelle relazioni tra gli esseri umani, esposte al sapere parziale
ed al dubbio, che configurano il pensiero, le intenzioni e le scelte nelle relazioni tra le persone del dialogo.
Non ha invece alcun senso nominare il diritto

nelle connessioni di dati, nella successione delle operazioni degli algoritmi.

L’atto libero del pensiero e del dubbio si appartengono, permangono sospesi nella possibilità, non sono
determinati dalla necessità, che configura invece la connessione certa tra i numeri.

Il dubitare consiste nel trovarsi davanti ad alternative, che distinguono e dividono, ad esempio, le relazioni
giuste da quelle ingiuste,

le situazioni umane di armonia da quelle di sproporzione, di violenza.


DIRITTO, RAGIONE AUTOMATIZZANTE E RAGIONE ESISTENZIALE
La ragione dell’automatizzazione si concretizza mediante il potere degli algoritmi, che estrae e tratta tutti i
dati provenienti dalle cosiddette case e città intelligenti.
Tutti gli schemi automatizzanti trasformano i dati in risorsa commerciale, mediante la capacità di
aggregare, estrarre, analizzare e manipolare ingenti quantità di dati, sfruttando l’intelligenza artificiale al
fine di fornire servizi personalizzati e trasformando i cittadini in esecutori di programmi.

Nella transizione dallo stato creativo a quello esecutivo, la persona subisce violenza, la libertà giuridica,
dell’io e del tu, non riceve il rispetto dovuto alla dignità umana, alla sua irriducibilità ad una merce
quantificabile tra le altre, in un processo di monetizzazione che celebra la connessione tra il potere dei
numeri e la potenza del denaro.
Emerge qui il formarsi ed il consolidarsi della disuguaglianza tra i signori della rete e tutti coloro che vi
accedono, destinati a ricevere un servizio, una informazione risultante dal trattamento dei dati ceduti e
circolanti nell’Internet delle cose. È una informazione qualificata dai due versanti che la compongono. Da
una parte, si presenta ambiguamente come un servizio personalizzato, ovvero orientato ad un profilo di
utente che appare non fungibile con nessun altro. Dall’altra, però opera così in quanto ha già costruito il
profilo del singolo utente, ne ha fatto un prodotto della ragione automatizzante, con il risultato di
acquisirne un profitto.

Emerge il concetto di ragione automatizzante che trova nell’originalità decisionale delle singole persone
un ostacolo, un impedimento da rimuovere per l’affermarsi di automatismi non costruiti dall’esercizio della
volontà di partecipazione di tutti, ma dal dominio di alcuni.

La rete ha una capacità di richiamo esercitata su tutti coloro che vi accedono, perché apparentemente
fornisce dei dati-informazione senza chiedere alcunché, si mostra, come una elargizione gratuita di beni. In
concreto invece la rete, nel donare informazioni e servizi acquisisce tracce-dati da tutti coloro che vi
accedono e così è in grado di costruire progressivamente un loro profilo, di assoggettarli, di produrli come
consumatori coatti osservanti i messaggi-comandi della pubblicità, che è costantemente presente in ogni
spazio della rete.

Cresce un interrogativo che potrebbe avere una risposta già scontata ovvero ci si chiede se ci sia ancora la
necessità del giudizio, del partecipare al costruire democraticamente una situazione giuridico-politica di
una definita comunità umana.
Nel rispondere bisogna prendere in considerazione la supposizione secondo cui quanto ruota attorno alla
libertà, e quindi al rischio degli atti scelti e decisi dagli esseri umani, sia divenuto tale da poter essere
considerato ormai integralmente sostituibile con l’acquisizione ed il trattamento algoritmico-
automatizzante di una massa di dati.
Una volta che la massa di questi dati è acquisibile ed è trattabile con matematica certezza, si ritiene di poter
procedere mediante la ragione informazionale automatizzante, con il conseguente affermarsi del
convincimento diffuso secondo cui se tutti i dati riferibili ad una definita questione sono acquisiti ed
elaborati dalla potenza di software ed hardware, che realizzano il contenuto di algoritmi efficienti, allora si
è liberati dalla libertà, non ci si trova più davanti al rischio d assumere scelte.
Si viene immessi in un procedere automatizzato, governato dagli schemi informazionali di un’intelligenza
artificiale, che ha acquisito una sua autonomia.

In questa progressione, la ragione automatizzante delle procedure algoritmiche si sostituisce alla ragione
dialogica, che invece si svolge liberandosi da ogni automatismo. Nella vita di ogni giorno, l’irrinunciabilità
all’accrescimento quantitativo della condizione umana, dovuto all’incidere della rete è una irrinunciabilità
che si cimenta con una sfida consistente nel guidare questi strumenti affinché contribuiscano a creare un
mondo centrato sull’uomo, sulla sua qualità esistenziale.

È il mondo che non dovrebbe assoggettare gli esseri umani al potere extra-umano della ragione
automatizzante, è il mondo che, all’impegno per il rischio-avventura di esercitare la libertà personale, mai
sostituirebbe l’esecuzione di una intelligenza artificiale. Questa intelligenza è il nucleo di una
automatizzazione, che, all’autonomia della vita interiore reale, surroga l’autonomia virtuale-digitale,
strutturalmente non imputabile e pertanto naturalisticamente innocente, dunque estranea al fenomeno
del diritto.
Permane pur sempre la consapevolezza che tutti gli elementi della giuridicità sono radicati nell’intenzione
responsabile della singola persona, che risponde per i suoi atti, voluti con una consapevolezza che è la sua
e non di un funzionalismo senza un Io.

Ci si chiede in aggiunta se l'automatizzazione concerne anche la comparazione, la scelta tra uno scopo ed
uno scopo diverso. La scelta di uno scopo non può essere automatizzata, in quanto se potesse esserlo allora
lo scopo sarebbe contenuto in un insieme di dati già disponibili, avrebbe la temporalità del passato e del
presente dei dati trattabili, ma non avrebbe la temporalità del futuro.
Qui si attiva una interpretazione creativa, che, al di là dei dati disponibili, avvia il rischio della libertà e
l’entusiasmo formativi della creazione di senso, connessa alla selezione di uno scopo ed inaccessibile a
qualsiasi automatizzazione macchinale

La libertà giuridica, al di là di un impossibile isolamento assoluto del singolo essere umano da tutte le altre
persone, concerne l’io ed il tu, la loro relazione in un noi, che compone l’individualità e la socialità di ogni
essere umano. La socialità consiste nella relazione, che è tale perché si presenta tra un io ed un tu,
differenziati nell’unicità e nell’originalità della loro singola vita interiore, formatrice di visioni del mondo
non identiche ma distinte, confrontate in un dialogo, che espone argomenti favorevoli o contrari rispetto
ad una determinata visione del mondo.

L’automatizzazione della individualità e della socialità presuppone l’automatizzazione del dialogo e questa
risulta essere una situazione non possibile, neppure descrivibile, poiché se il dialogo sugli scopi potesse
essere automatizzato, i parlanti risulterebbero dialogare senza alcuna partecipazione personale alla
relazione discorsiva. Verrebbero meno le situazioni di attesa quanto alla parola dell’altro, di sorpresa, di
consenso o di dissenso.

L’integrale automatizzazione della società, anche nelle dimensioni giuridiche del contratto, della sentenza,
etc., comporterebbe l’inessenzialità degli esseri umani, lasciando prefigurare un mondo dove le macchine
intelligenti’ continuano a funzionare, nella loro totale autonomia automatizzante, anche in una compiuta
assenza degli esseri umani, in un mondo di macchine intelligenti senza persone dialoganti

A questo proposito ci si chiede allora che ne è della storia di questo mondo integralmente automatizzato,
quale entità può scriverne la storia. Se si risponde che l’opera dello storico può essere sostituita dall'
assemblaggio dei dati, si cancella la peculiarità dello storico, che non consiste nel montaggio meccanico dei
fatti e delle date ma si impegna nell’interpretare le intenzioni degli esseri umani, dei singoli e dei gruppi,
che hanno conferito ad un periodo della storia un orientamento invece di un altro.

La storia è l’opera esclusiva degli esseri umani, che sono gli unici viventi presi dalla vocazione di
trasformare, secondo il pensiero e la volontà, non secondo la combinatoria algoritmicamente efficace di
dati, la qualità delle relazioni umane e non semplicisticamente la quantità degli elementi che si possono
osservare in esse. L’opera della storia è centrata sull’esercizio della volontà umana, delle scelte che sono
operate da ogni singola persona nel suo abitare in un mondo condiviso con le scelte delle altre persone.
Non appena si nomina la questione della scelta, si è già nell’ordine della qualità mentre davanti ai numeri,
alla quantità, alla grandezza, nessuno si può ritenere autore di una scelta, ovvero non posso scegliere di
affermare che 3 è più grande di 4, la quantità non lascia margine ad un atto di scelta capace di argomentare
che una quantità minore è più grande di una quantità maggiore.

L’affermarsi degli schemi dei sistemi informazionali qualifica la civiltà dei dati, mostrando che qui si
consolida l’inessenzialità delle scelte umane, il centro diviene l’automatismo tecnico che esclude la vera
possibilità di scelta, usando gli esseri umani come luoghi di concretizzazione dei materiali lavorati dai
processi di automatizzazione di tutte le forme di socialità. Ci si viene a trovare in uno stadio di evoluzione
storica di eliminazione di tutto ciò che non è tecnico

IL SISTEMA AUTOMATIZZATO PERFETTO NEL MONDO IMPERFETTO DELLE PERSONE


Nella vita del diritto sono presenti le parti che comunicano dispiegando un dialogo, non un’anonima
connessione in rete. In tribunale i dialoganti condividono uno spazio e si incontrano nella pienezza
dell’esercizio del loro dire. La tendenza a formare un giudizio giuridico mediante le procedure costitutive
degli algoritmi comporta l’emarginazione del dialogo tra le parti davanti al magistrato.

I rapporti tra gli esseri umani connessi in rete costituiscono un allontanamento negativo dalle relazioni
dialogiche, poiché viene meno l’interezza degli elementi formativi delle relazioni discorsive, compiute da
soggetti che condividono un luogo, che si trovano gli uni davanti agli altri.

Allo svolgimento vivo del dialogo permangono estranei gli effetti programmati negli automatismi
algoritmici. Vi appartiene anzi la continua possibilità della sorpresa, della meraviglia, del non pre-
calcolabile. Quindi nelle relazioni giuridiche, nell’amministrazione della giustizia, si conferma
l’insostituibilità della comunicazione dialogica, non surrogabile funzionalmente con le connessioni dei dati
delle reti. Non vi sono automatismi numerici poiché il nucleo, centralmente rilevante per il diritto, è
costituito dalle intenzioni della vita interiore, che non si lasciano oggettivare in numerazioni ed elaborazioni
programmate

Nel giudizio giuridico, nucleo del concretizzarsi del diritto, si può oggi avanzare la pretesa scientista di
sostituire all’arte dell’interpretazione la tecnica degli algoritmi, così da surrogare alla ricerca del senso,
affidata al compito dell’interprete. La relazione giuridica è però una specifica modalità delle relazioni
umane e pertanto ripropone gli elementi formativi del relazionarsi interpersonale, che si distingue da ogni
tipo di rapporto tra entità non-umane.

ll giudizio giuridico potrebbe essere ritenuto il prodotto di un’automazione algoritmica del diritto,
omologandosi così al convincimento che, ad esempio, «il sistema sanitario ricaverà un grande beneficio nel
momento in cui il software medico inciderà in modo che «il medico di base non ci servirà più
Il senso appartiene al continuo formarsi discorsivo della originale personalità di ogni singola persona,
costituisce quel che si chiarifica nel confronto dialogico tra le molteplici formazioni delle diverse
personalità. Il senso non è il materiale della lavorazione algoritmica, perché struttura una dimensione
sempre aperta, simbolica e rinviante, mentre l’algoritmo, per l’efficacia del suo funzionamento, è confinato
nel suo definito schema, segnico e chiuso.

Nella concretezza del diritto permane inevitabile la differenza tra norme generali e casi particolari, con la
conseguenza che l’applicazione delle norme esige l’opera dell’interpretazione, che si compie davanti ad una
pluralità di ipotesi interpretative, riferibili ad una molteplicità di soggetti dialoganti.
Davanti al funzionamento macchinico delle procedure algoritmiche, il compito del giurista tende a
confinarsi nel passivo osservare la corretta successione delle fasi computazionali oscurando l’arte
dell’interpretazione, che, nel giudizio giuridico, cerca, illumina ed interpreta il senso delle intenzioni delle
persone.

Il senso non può essere riposto nei numeri, nelle operazioni computazionali, non ha neppure un prezzo
situabile nel mercato, ma costituisce un bene personale-interpersonale, che sorge nella gratuità non
monetizzabile della relazione dialogica. Solamente in questo suo formarsi, il senso può divenire il contenuto
di una scelta e di una decisione che appartengono al pensiero e alla volontà di trasformazione del mondo
condiviso.

Il pensare ed il volere, essendo imputabili alle intenzioni della singola personalità, possono entrare in
conflitto con le intenzioni di altre personalità. Il nucleo di ogni conflitto è già presente nello svolgimento del
dialogo. Il superamento di questi conflitti, mediante il giudizio giuridico, non può essere lasciato a
procedure numerico-meccaniche, ad automatismi funzionali, ma esige il prendere posizione.

GLI ALGORITMI STRUMENTI DEPERSONALIZZANTI

Nel volgersi a se stesso, l’essere umano si interroga, concepisce delle domande, che sono pienamente tali
perché non hanno la disponibilità

delle risposte, in quanto si possono illuminare solamente nel dialogo con gli altri. Si chiarificano
nell’accogliere le loro risposte, le differenziate ipotesi di senso, formative delle relazioni dialogiche.

Nel gioco, nel dialogo e nelle relazioni giuridiche è presente la gratuità della creazione di senso, che
costituisce il momento genetico di questi tre fenomeni e che permane irriducibile alla funzionalità
operazionale. La gratuità sorprende, genera la meraviglia costitutiva di tutti gli itinerari del pensiero
umano.

L’umanità, confinata nelle connessioni della rete di Internet e nei dati trattati dalle operazioni numeriche,
viene privata della peculiarità propria unicamente della struttura della persona.

I tre fenomeni del gioco, del dialogo e del diritto si presentano nelle relazioni interpersonali. Si analizza che
anche nel gioco, pur compiuto da un singolo essere umano nella sua solitudine, è sempre presupposta la
presenza essenziale di un altro, nella forma di un tu, costituito dall’assumere la dimensione dell’alterità,
poiché la gioia illumina il gioco mediante il continuo incidere della sorpresa che è veramente tale se non è
nella disponibilità totale di un singolo, ma esige la non anticipabilità.

Il dominio del modello degli algoritmi oscura l’incidenza del senso nei fenomeni fondamentali dell’esistere
e del coesistere.
Gli algoritmi al potere costituiscono una situazione sociale non eseguita da un definito algoritmo che
gerarchizza altri algoritmi, ma è una situazione padroneggiata oggi da un gruppo elitario dominante tutto il
resto dell’umanità. Si allude a quel gruppo che ha la capacità economico-mercantile di compiere l’immenso
lavoro del trattamento dei dati circolanti in rete, così da costituire definiti profili, imposti alla massa degli
internauti

Il gioco, il dialogo e la relazione giuridica presentano una struttura comune, quella della creazione di senso,
della non ripetizione di leggi biologiche, ma dell’istituzione di relazioni intersoggettive disciplinate da regole
poste dal convenire istituente delle persone. Nel fenomeno del

gioco, ogni singola persona, ogni io, esercita una sua autointerpretazione, ovvero interpreta se stesso, cerca
il senso delle sue scelte, all’interno del giocare con gli altri, così che non esegue naturalisticamente le leggi
della biologia.

Come il gioco, anche il dialogo ed il diritto permangono fenomeni estranei agli schemi degli automatismi
esecutivi ed anzi hanno il loro nucleo nella creazione di ipotesi di condotte.

La comunicazione è indiretta quando supera il flusso delle connessioni-informazioni, che transitano da un


essere umano ad un altro; è una comunicazione indiretta perché viene destinata da una persona ad
un’altra, che la riceve interpretandola, mettendovi del suo.

Le procedure degli algoritmi appartengono integralmente ai modelli

delle comunicazioni dirette, ovvero delle informazioni-connessioni contenenti le elaborazioni dei dati, che
esigono di essere eseguite in modalità impersonali, senza mettervi alcunché di originale,di proprio di una
singola persona

L’affermarsi invasivo delle comunicazioni dirette dissolve i modelli delle comunicazioni indirette e quindi
oscura il diritto a poteressere- se stessi nella formazione di una personalità.

La comunicazione diretta enuncia un contenuto ed in esso si esaurisce, mentre la comunicazione indiretta


dice di più di quel che enuncia, aprendo uno spazio dialogico che illumina l’originalità di un’interpretazione
creativa.

Con gli algoritmi al potere si potenzia l’incidenza degli automatismi che si sostituiscono al rischio delle
scelte, nascenti dalla riflessione.

Il dominio dell’automazione attualmente si concretizza mediante il potere degli algoritmi, che comporta un
«sistematico rovesciamento dei mezzi in fini. L’algoritmo è fonte di potere.

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