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Dal video al cinema.

Il disaccordo televisivo di Cinico Tv

Andrea Inzerillo

Certamente!
Giuseppe Paviglianiti

Disaccordo e politica

Si potrebbe partire da una considerazione terminologica, dicendo per


esempio che disaccordo non è forse la migliore traduzione possibile per il
francese mésentente: non fosse altro che un termine simile esiste in francese,
ed è désaccord. È comprensibile che il traduttore di Rancière abbia preferito
un termine noto e di uso comune, ancorché impreciso, a uno più preciso
che avrebbe però richiesto l’invenzione di un neologismo1; d’altro canto,
la comodità semantica ci impone una maggiore vigilanza sul significato
esatto di quanto Rancière intenda con mésentente, e di che cosa distingua
quest’ultima dal désaccord. Cerchiamo di essere precisi: la mésentente non
riguarda il merito di una discussione; non ha a che fare con opinioni distinte;
non è, come scrive Rancière nell’introduzione, un’incomprensione né un
fraintendimento, né quel che Lyotard chiama dissidio. Ha meno a che fare
col dato che col possibile, poco a che vedere col pensato e molto invece
col pensabile. In breve, la mésentente ha a che fare con le condizioni di
possibilità e di pensabilità date, e con l’apertura (o la sovversione) di tali
condizioni di possibilità e pensabilità.

Con disaccordo si intenderà una determinata circostanza di parola,


nella quale uno degli interlocutori sente e nello stesso tempo non

1
Filippo Del Lucchese proponeva di tradurre mésentente con disintesa: cfr. Id., La potenza
aritmetica dell’uguaglianza, in “il Manifesto”, 4 aprile 2007.

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ascolta ciò che l’altro dice. Il disaccordo non è il conflitto tra colui
che dice bianco e colui che dice nero: è il conflitto tra colui che dice
bianco e colui che dice bianco, ma che non intende la medesima
cosa, o non capisce che l’altro, sotto il nome “bianco”, sta dicendo
la medesima cosa2.

Le domande cui risponde un’indagine sul disaccordo sono dunque: “Di


cosa si sta parlando?”; “Chi è che sta parlando?”, e di conseguenza: quali
sono le relazioni che intercorrono tra il chi e il cosa della discussione? Qual
è il motivo per cui due che dicono “bianco” non intendono la stessa cosa, o
non sanno di star dicendo la stessa cosa? Chi sono, l’uno rispetto all’altro?
Indagare la logica del disaccordo significa scavare nel terreno degli a priori
storici, verificare che tipo di condizioni sono in atto in una certa configura-
zione del sensibile e come esse siano modificabili, o siano state modificate.
Indagare la logica del disaccordo significa dunque allo stesso tempo interro-
garsi circa la logica della politica, intesa come l’atto o l’insieme di atti che
è in grado di modificare radicalmente una situazione data. Per Rancière la
politica è infatti quell’attività che sovverte l’ordine costituito in funzione
della rivendicazione di un torto, proclamato da parte di coloro che vengono
esclusi dalla ripartizione di ciò che è comune. La politica è cioè l’attività
che mette in crisi una configurazione del sensibile che stabilisce che alcuni
hanno, ad esempio, una serie di diritti che si fondano precisamente sulla
sistematica esclusione di altri dall’idea stessa di diritto; la politica mette in
crisi quella configurazione del sensibile che, sulla scorta di Foucault, viene
definita come polizia:

La polizia è, in sé, la legge […] che definisce la parte o l’assenza


di parte delle parti. […] La polizia è così, in primo luogo, un disci-
plinamento dei corpi che definisce la pluralità tra i modi del fare, i
modi dell’essere e i modi del dire, che fa sì che determinati corpi
siano assegnati per via del loro nome a un determinato posto e a una
determinata funzione; è un ordine del visibile e del dicibile che fa sì
che un’attività sia visibile e un’altra non lo sia, che una certa parola
venga intesa come discorso e un’altra come rumore. […] La polizia

2
J. Rancière, Il disaccordo, tr. it., Meltemi, Roma 2007, p. 19. Una proposta di traduzione
alternativa, che mantenga l’ambiguità del francese entendre, potrebbe essere: «[…] nella quale
uno degli interlocutori intende e nello stesso tempo non intende ciò che l’altro dice», giocan-
do così sulla corrispondente ambiguità dell’italiano intendere che sta per “capire”, “sentire”,
“comprendere”.

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non è tanto un “disciplinamento” dei corpi quanto una regola del loro
apparire, una configurazione delle occupazioni e delle proprietà degli
spazi in cui queste occupazioni vengono distribuite3.

Se la polizia è quella determinata partizione del sensibile che attribuisce


(ad esempio in Aristotele) il logos solo ad alcuni, riducendo altri alla mera
voce, la politica si definirà per contrasto come l’attività che mira a rompere
la configurazione poliziesca del sensibile, operando così un brouillage nella
ordinata ripartizione di posti, ruoli e compiti. La politica è affermazione del
torto di quella parte che è esclusa dal conteggio delle parti, e che pertanto
è possibile chiamare la parte dei senza-parte: quel soggetto politico che di
volta in volta viene a disturbare l’ordine costituito tramite i nomi, di per sé
vuoti, di popolo, proletariato, e così via. La politica opera insomma tramite
forme di soggettivazione che producono uno scarto rispetto alle individua-
zioni della polizia e che, basandosi sulla rivendicazione dell’uguaglianza di
ciascuno con chiunque e facendo leva sulla manifestazione del torto subito
dalla parte dei senza-parte, mettono in crisi la presunta naturalezza della
divisione tra uomini provvisti di logos e uomini che ne sarebbero sprovvisti.
Nell’omonimo film di Nanni Loy (1971), il detenuto in attesa di giudizio
Giuseppe Di Noi dà il via alla rivolta all’interno del carcere di Sagunto
proprio tramite la presa di parola in occasione di una messa: ai detenuti non
è consentito partecipare alla funzione se non in (religioso) silenzio. Durante
la funzione, il detenuto impersonato da Alberto Sordi compie un’azione
semplicissima: risponde alla richiesta del prete che recita la messa, dicendo
“amen”. Ma ai carcerati questo non è consentito: essi possono assistere, ma
gli unici a poter rispondere sono i secondini, gli operatori e così via. L’atto
di parola del detenuto Di Noi, vera e propria rivendicazione del logos contro
la riduzione alla mera phoné, mette in crisi l’identità “carcerato” tramite la
soggettivazione “fedele”, e apre a una più vasta lotta da parte dei carcerati
che metteranno letteralmente a ferro e fuoco il carcere.
La politica ha bisogno di un luogo in cui apparire, non si ha politica se
non all’interno di uno spazio condiviso. Lo spazio condiviso, lo abbiamo
già detto utilizzando una terminologia rancièriana, è per l’appunto il mondo
sensibile, l’aisthesis: e cioè, quello stesso spazio in cui tutti vivono, con
cui tutti hanno a che fare, lo spazio (anche fisico) del mondo comune. Lo
stesso spazio nel quale trovano manifestazione le diverse forme d’espres-
sione dell’arte, e che da Baumgarten in poi ha fatto sì che con “estetica” si
intendesse, anche nel linguaggio corrente, il discorso sull’arte o (ulteriore

3
Ivi, p. 48.

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slittamento) sul bello. Se l’aisthesis è il luogo in cui tanto le manifestazioni


della politica quanto quelle dell’arte trovano il loro spazio, che cos’è dunque
l’estetica in Rancière?

Estetica

Lungi dall’essere discorso sull’arte o discorso sul bello, l’estetica è per


Rancière quella modalità di pensiero che riguarda tutto ciò che ha a che
fare col sensibile. Più che racchiudere un ambito ben definito di oggetti,
identificabili secondo la tradizione aristotelica come modi di fare del tutto
particolari, estetica è il nome di uno sguardo (di un particolare modo di
intelligibilità) sulle opere d’arte che consiste nel considerarle, alla stregua
di tutti gli altri oggetti, come modi di essere sensibile. Da un certo punto
di vista, quindi, la differenza tra arte e non arte tende a sfumare, poiché en-
trambe riguardano direttamente la vita comune degli uomini e definiscono
di volta in volta un certo modo di essere del sensibile. Allo stesso modo,
la politica non ha oggetti specifici, ma è un particolare modo di agire nei
confronti della ripartizione del sensibile e dell’ordine in esso costituito. Così
come le elezioni non sono di per sé, nell’accezione che abbiamo definito,
un evento politico, ma possono benissimo diventarlo (e lo stesso si dica di
uno sciopero, di una manifestazione, e così via), l’opera d’arte e l’estetica
non sono necessariamente relazionate, in quanto l’estetica è un modo ben
preciso di considerare l’opera d’arte: non tanto dal punto di vista della sua
bellezza o del suo livello di artisticità, quanto del suo valore operazionale,
potremmo dire, della sua forza in relazione a quanto la circonda, della
capacità di modificare il sensibile, non necessariamente rispetto alla sua
contemporaneità. Ma se la politica propriamente detta opera tramite forme
di soggettivazione, l’arte invece agisce sul sensibile in maniera più libera,
senza la necessità (né la possibilità) di creare alcun soggetto collettivo4.

4
Cfr. Le ragioni del disaccordo. Conversazione con Jacques Rancière, a cura di R. De
Gaetano, infra, pp. 7-23, segnatamente la presa di distanza dalla posizione sartriana sul rapporto
tra letteratura e politica: «Di conseguenza si può dire che ogni creazione artistica è politica nella
misura in cui agisce sulla costruzione del senso comune, ma anche contemporaneamente nella
misura in cui costruisce forme di senso comune che si trovano in dissenso o disaccordo con altri
tentativi di costruzione di un senso comune, come quello di un soggetto politico che propone
un mondo possibile. […] Ciò che caratterizza una forma di dissenso politico è sempre, nello
stesso tempo, una maniera di costruire qualcosa come un mondo possibile, condivisibile. Una
creazione artistica non si pone la questione di costituire un mondo possibile che sia condivisibile
sotto forma di una dichiarazione collettiva o di un progetto collettivo: una creazione artistica in

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L’ingente corpus dedicato da Rancière a tematiche artistiche (pittura, let-


teratura, cinema) non ne fa dunque automaticamente un estetologo né un
filosofo dell’arte. Tutt’altro: la filosofia è per Rancière, come per Deleuze,
qualcosa che si trova in necessario rapporto con un fuori, e non è anzi con-
cepibile filosofia che non si confronti continuamente con la non-filosofia
in vista del proprio interesse (non riducendosi in questo modo a “pensiero
su”, di volta in volta, l’arte, la scienza, e così via).
Il sensibile interessa dunque a Rancière come luogo in cui l’estetica in-
contra la politica, poiché per entrambe è in esso che il popolo (nome vuoto
di un modo di soggettivazione della parte dei senza-parte) può apparire. «Il
popolo appare» non significa altro che questa ridefinizione del sensibile da
parte di chi, propriamente, non ha parte nello status quo. Ancora una volta il
pensiero di Rancière trova svariate risonanze con l’opera di Gilles Deleuze5.
Se l’opera d’arte, come scriveva Deleuze, fa appello a un popolo che non
esiste ancora, è perché essa opera una breccia nel sistema di visibilità del
sensibile, modificandone le caratteristiche e creando così la possibilità stessa
di quel popolo. «Il popolo manca e, allo stesso tempo, non manca»: esiste da
sempre, eppure comincia a esistere solo quando riesce a manifestarsi, solo
cioè quando riesce a modificare le condizioni di visibilità che permettono il
palesarsi della sua presenza. L’arte e la politica consistono in questo: aprono
mondi a venire in quello che si credeva già dato e unicamente possibile.
Si prenda l’idea, apparentemente democratica e progressista, di un mondo
trasparente, in cui tutto possa essere sotto il controllo di tutti e dunque più
onesto. Una tale idea di gestione del potere è in realtà il tentativo di eliminare
alla radice qualunque possibilità di affermazione del dissenso del popolo.
In un mondo in cui tutto è visibile non esiste, per definizione, la possibilità
di uno scarto, di una visibilità altra, dell’apparizione di qualcosa che prima
non c’era – o che c’era ma non si vedeva. La logica consensuale, quella che
Rancière chiama anche post-democrazia (una democrazia che nega se stessa
tentando di far fuori il demos e le sue rivendicazioni), è il tentativo di ridurre
l’esistente a unica possibilità, il visibile dato a sola visibilità concepibile.

un certo senso è una forma di distruzione, di dissoluzione, di riconfigurazione degli elementi


sensibili di un mondo. […] Un mondo romanzesco costituisce qualcosa come un’idea di mondo
che può essere condivisa da una molteplicità di individui, che può indirizzarsi a una molteplicità
di individui, ma che non costituisce un soggetto collettivo».
5
Prediligendo i punti di contatto, prescindo in questa sede dalle evidenti differenze tra i due
filosofi che sono state rilevate ad esempio da Véronique Bergen nel suo Visages de l’esthétique
chez Jacques Rancière et Gilles Deleuze, in Jacques Rancière. Politique de l’esthétique, a cura di
J. Game e A. Wald Lasowski, Éditions des Archives Contemporaines, Paris 2009, pp. 23-33.

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Il consenso […] è la condizione in cui le parti sono presenti come


già assegnate, la loro comunità costituita e il resoconto delle loro
parole identico alla loro performance linguistica. Il consenso quindi
presuppone la scomparsa di ogni scarto tra parte di un conflitto e
parte della società6.

Consenso e televisione

La logica consensuale è dunque, anche, una logica dell’omologazione


visiva. È affermazione del visibile in quanto tale, senza possibilità di scarto
in direzione del visuale, per riprendere una distinzione da Didi-Huberman7:
una logica che privilegia l’attualità di ciò che si vede (e viene fatto vedere)
piuttosto che la virtualità dell’immagine e gli elementi che di essa, pur
essendo presenti, non sembrano arrivare a manifestazione. La logica con-
sensuale è impossibilità di bucare il visibile, e di conseguenza, impossibilità
di pensare diversamente il reale. È per questo che, se dovessimo pensare
a un cinema che ha a che fare col concetto rancièriano di disaccordo, la
rappresentazione falsificante del reale messa in atto nei film di Ciprì e Ma-
resco sembrerebbe uno dei migliori esempi di lotta contro l’omologazione
visiva. Una partizione rigida tra qualcosa come un “cinema del consenso”
e un “cinema del disaccordo” non sarebbe un’operazione interessante: di
sicuro troppo schematica, e probabilmente fuorviante. E tuttavia mi sembra
si possa sostenere che il cinema di Ciprì e Maresco ha molto a che fare col
concetto di disaccordo messo a punto da Rancière, e da diversi punti di
vista. In particolare, vorrei concentrami qui su quello che andrebbe forse
definito il “cinema televisivo” dei registi siciliani, ovvero la produzione
video di cortometraggi che dall’emittente locale TVM sono poi confluiti e
proseguiti nella trasmissione Cinico Tv, trasmessa da Rai 3 nei primi anni
’90. Se c’è uno spazio che più di tutti sembra votato al mantenimento dello

6
J. Rancière, Il disaccordo, cit., p. 115.
7
Mi riferisco alla distinzione presente in G. Didi-Huberman, Devant l’image. Question
posée aux fins d’une histoire de l’art, Les Éditions de Minuit, Paris 1990, che rifiuta di esau-
rire l’analisi dell’immagine alla sola opposizione (fenomenologica) tra visibile e invisibile, e
introduce pertanto la dimensione del visuale come presenza nell’immagine di qualcosa che, pur
non essendo invisibile, non rientra nemmeno nella narrabilità del visibile propriamente detto;
a questo proposito, cfr. anche Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges
Didi-Huberman, a cura di A. Cervini e B. Roberti, in “Fata Morgana”, n. 8 (2009), pp. 7-19,
e in particolare la contrapposizione tra il visibile privo di memoria della diretta televisiva e la
dimensione memoriale del visuale.

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status quo, al cliché, alla conferma della ripartizione poliziesca della società,
questo pare essere, da un punto di vista estetico prima ancora che storico,
la televisione. In Contro la televisione8, Pier Paolo Pasolini ne denunciava
l’essere copertura dello Stato piccolo-borghese ed espressione diretta di tutta
la volgarità, la bassezza e l’odio per la realtà, a causa della messa al bando
di ogni forma di sacro e dell’assenza di qualunque forma stilistica che le
fosse propria. È esattamente su (e contro) questa idea di televisione, o più
precisamente di immagine all’interno della televisione, che i registi siciliani
decidono di lavorare. Insieme, prima e forse più che nei tre lungometraggi
cinematografici (che avranno un legame fortissimo con la dimensione del
sacro proprio grazie ai cortometraggi degli anni televisivi), il lavoro di Ciprì
e Maresco all’interno della televisione italiana degli anni ’90 va pensato
come un lavoro di rottura di straordinaria importanza politica. Il cinismo
professato dai registi è quanto di più lontano dall’urgenza del sociale, dife-
sa e rivendicata da molti colleghi, dell’epoca e non solo. L’ambientazione
palermitana, una Palermo che usciva dai sanguinosi anni ’80 e si dirigeva
verso gli anni delle stragi Falcone e Borsellino, è tutt’altro che realistica.
Perfettamente riconoscibile e dichiaratamente Palermo, eppure in qualche
modo pretesto per una riflessione autoriale ben più ampia. Più volte Ciprì e
Maresco si sono espressi sul carattere apocalittico e post-apocalittico della
città, dei suoi abitanti e del loro stesso cinema. «L’anteprima del Giudizio
Universale è qui, a Palermo»; «Non illudiamoci: a Palermo non si aggiusta
niente»: decine di considerazioni simili sono presenti nelle dichiarazioni dei
due autori. Di qui l’importanza della trasfigurazione della città:

La Palermo di Cinico Tv è una Palermo astratta che abbiamo


voluto allontanare da tutti gli stereotipi. Abbiamo dovuto annullarla,
proprio perché troppo caratterizzata come luogo. Come per i nostri
personaggi che a partire da un certo realismo diventano iperreali-
sti, abbiamo voluto creare una sorta di astrazione, una dimensione
metafisica, quasi metafora dei mali dell’uomo come la solitudine,
l’impossibilità di vivere civilmente ecc9.

Ambientazione annullata, per sfuggire ai cliché, e sempre riconoscibile


però, per lo sfondo di Monte Pellegrino, per la lingua degli attori, per i

8
P.P. Pasolini, Contro la televisione, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori,
Milano 1999, pp. 128-143. Cfr. anche A. Canadè, Pasolini, la televisione e il sacro, in Corpus
Pasolini, a cura di Id., Pellegrini, Cosenza 2008, pp. 193-206.
9
E. Ghezzi (presentazione di), InSenso Cinico, Ila Palma, Palermo 1993, p. 48.

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dialoghi e la storia che gli episodi di Cinico Tv (non) raccontano. L’impor-


tanza di Cinico Tv risiede nella capacità di modificare radicalmente non
solo la concezione dominante dei luoghi che racconta, ma del luogo stesso
tramite cui può raccontare, e cioè la televisione. Eredi riconosciuti dell’in-
segnamento di Pasolini e fini conoscitori della sua opera, Ciprì e Maresco
sembrano aver metabolizzato e fatto propria la critica alla televisione del
maestro; ma se da una parte la critica “esterna” del primo verrà ripresa
“dall’interno” dalla coppia sicula, dall’altra il moralismo dell’uno (la tele-
visione è il Diavolo) si trasformerà in gioia distruttrice degli altri, per i quali
la televisione non è l’Inferno ma anzi il Paradiso – altare della distruzione
di tutto. Il moralismo di Ciprì e Maresco, insomma, non è esente da una
certa considerazione positiva derivante da una Weltanschauung certo meno
malinconica di quella pasoliniana, dipendente anche dal fatto che non c’è
più alcuna situazione originaria idilliaca che è andata perduta (la bellezza
del popolo dei primi film e scritti pasoliniani, ricusata negli ultimi anni di
vita), bensì forse una bellezza in ciò che rimane dopo la fine di tutto, in ciò
che resta dopo l’apocalisse.

La televisione è il luogo dove c’è il collasso di tutto, e che per noi


è allora un luogo privilegiato. Perché noi riteniamo che l’immagine,
il racconto per immagini, sia arrivato al capolinea o quasi. Lo svuo-
tamento di senso che produce la televisione per noi è il luogo ideale
[…]. Noi abbiamo portato la nostra sensibilità di visionari, di cinefili
in Tv. Perché non portare anche lì la ricerca dell’immagine, il senso
dell’inquadratura, la composizione? Noi lavoriamo semplicemente
sull’immagine10.

La potenza dissensuale del cinema televisivo di Ciprì e Maresco non


risiederà allora in un presunto superamento della narrazione “classica”: la
questione non è tanto quella del raccontare o meno una storia, quanto piut-
tosto il dispositivo di immagini che si mette in atto. Basta leggere il soggetto
di quella favola amorale, perfettamente classica quanto all’oggetto e alla
forma della narrazione, che è La Madonna della Mercedes11, per rendersene
conto. Il disaccordo cinematografico-televisivo risiede piuttosto nella po-
tenza visiva e nella creazione di immagini che, per riprendere i termini di

10
Ivi, pp. 49-50 (corsivi miei).
11
Il soggetto inedito La Madonna della Mercedes, di Daniele Ciprì, Franco Maresco, Lillo
Iacolino, è pubblicato in Brancaleone 2. Il cinema e il suo doppio, a cura di V. Buccheri, E.
Morreale, L. Mosso, A. Pezzotta, Agenzia X, Milano 2007, pp. 135-162.

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Dal video al cinema. Il disaccordo televisivo di Cinico Tv

Rancière, sovvertano il partage che definisce ruoli e posti all’interno della


società, per creare un mondo che prima non esisteva – ovvero portare a visi-
bilità un mondo che non lo era. In questo senso l’atto artistico si costituisce
come atto di resistenza nei confronti della ripartizione poliziesca di posizioni
stabili, luoghi riconoscibili, ruoli fissi; la resistenza di Cinico Tv è diretta
essenzialmente nei confronti di una serie di cliché legati all’idea stessa di
televisione, all’immagine di Palermo e della Sicilia e alla loro rappresenta-
zione. La creazione operata da Cinico Tv significa la sovversione di questa
serie di cliché e la contemporanea apertura verso un mondo del futuro, del
post-apocalisse, frutto della potenza visionaria della coppia di registi.

Comunicazione e sociale

Un’altra forma di disaccordo si aggiunge a quella diretta nei confronti


dell’aspetto visivo dell’immagine televisiva e sembra in qualche modo com-
pletarla: un disaccordo che potremmo definire “comunicativo”. I personaggi
di Cinico Tv si trovano spesso a dialogare con una voce fuori campo; sono
interpellati, interrogati, secondo gli standard televisivi dei reportage-verità,
delle vite in diretta e dei grandi fratelli. Alle domande incalzanti della voce
off oppongono però risposte insoddisfacenti: talvolta non capiscono le
domande, talaltra balbettano qualcosa, altre volte ancora ruttano, sputano,
scoreggiano. Spesso giocano con l’intervistatore, abbassandosi all’idiozia
delle sue domande (si pensi al Filangeri ripreso poi in Grazie Lia del 1996
che, evidentemente stufo di correggere l’intervistatore, finisce per accon-
sentire alla storia strappalacrime che questi inventa su di lui, ridendo sotto
i baffi) o al contesto in cui si trovano (Tirone che si impegna a parlare in
un italiano tutto fatto di luoghi comuni e frasi fatte che trovano ispirazione
proprio negli standard televisivi). Gli attori di Cinico Tv oppongono la
loro lingua, il loro corpo, i loro tic alla pulizia della macchina televisiva;
la inceppano, bloccano la comunicazione e l’immagine prefabbricata che
essa vuole fornire di luoghi e persone. Persone che sembrerebbero potersi
identificare con il sottoproletariato pasoliniano, in vista di un’ulteriore af-
finità tra l’opera di Ciprì e Maresco e quella di Pasolini: se non fosse che
diverse cose, al di là delle dichiarazioni dei registi stessi, ci suggeriscono
altrimenti. Se è vero che in Ciprì e Maresco lo sguardo è più diretto verso
il futuro che verso il passato, e se della rabbia nostalgica di Pasolini non
è rimasta che la rabbia, allora bisogna prendere sul serio le rivendicazioni
di estetica e di distacco dalla contingenza del sociale dei due registi. Dopo
l’apocalisse non c’è più il sociale; non ne rimangono che le macerie, i re-
litti, e l’unica cosa che si può fare è lavorare sull’immagine. Il disaccordo
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“comunicativo” è allora inscindibile dalla presa di distanza dal sociale,


come mostra un esempio che mi sembra particolarmente rappresentativo: il
personaggio di Paviglianiti, il Budda di Palermo, attore tra i più importanti
dell’opera di Ciprì e Maresco. Come già nell’estremo video senza titolo del
1993 in cui per circa sessanta minuti si vede l’attore mangiare seduto a un
tavolo, all’aperto, in mezzo ai rumori del traffico cittadino e in compagnia
di un gatto che lo assiste abbuffarsi, vomitare e ricominciare a mangiare,
anche nello Zio di Brooklyn (1995), primo lungometraggio dei registi si-
ciliani, Paviglianiti interpreta una figura enigmatica che si ingozza, questa
volta all’interno di uno scantinato, in mezzo a una muta di cani randagi,
affannato, tra peti e rutti. L’unica parola che pronuncia, prima di annunciare
l’uscita dallo scantinato (“sto arrivando!”), è quella che l’ha reso famoso
agli spettatori di Cinico Tv: «Certamente!». Non è semplice identificare il
significato di tale espressione: forse perché è proprio essa ad allontanarci
dall’idea stessa di identificazione e significazione. L’atto linguistico di
Paviglianiti è dirompente, tanto da essere divenuto uno stilema classico
dell’opera di Ciprì e Maresco, ma sembra sottrarsi a una spiegazione esau-
riente o quantomeno efficace. Esso apre a una considerazione sul linguaggio,
sul valore del linguaggio all’interno della società e sul ruolo della società
(o di quel che della società rimane) nel mondo di Paviglianiti (il rumore
del traffico in sottofondo, gli ospiti del suo banchetto – cani, gatti, ecc.).
Se per gli altri personaggi di Cinico Tv ogni tentativo di comunicazione è
votato allo scacco, con Paviglianiti scompare addirittura l’interlocutore12,
scompare la possibilità stessa di qualunque dialogo e con essa ogni forma di
linguaggio che potrebbe portare a una identificazione del personaggio, a una
sua individuazione. Il mondo di Paviglianiti è lontanissimo tanto da quello
sottoproletario di Pasolini quanto da quello piccolo-borghese di Buñuel: le
sue attitudini alimentari, gli ambienti in cui si trova o le sue velleità canore lo
trasportano in un mondo che non ha termini di paragone con quello degli altri
due. L’uso che fa del linguaggio, e il Certamente! che lo contraddistingue,
non è altro che ciò che rimane del linguaggio al di là di ogni società, in un
contesto post-apocalittico13. Non avrebbe nessuna importanza, d’altro canto,

12
Non sempre, per essere precisi; ma anche quando, in alcuni video, è interrogato dalla
voce off, Paviglianiti risponde a ripetizione con un certamente! o una sua variante: certo, ma non
solo. Sembra tuttavia che il personaggio di Paviglianiti raggiunga tutta la sua potenza quando, a
differenza degli altri attori, occupa interamente l’inquadratura senza alcun interlocutore.
13
Mi pare inoltre che il Certamente! di Paviglianiti abbia più di un punto di contatto con
l’I would prefer not to del Bartleby lo scrivano di Herman Melville, secondo la lettura che ne ha
dato Gilles Deleuze in Bartleby o la formula, in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby, la formula
della creazione, tr. it., Quodlibet, Macerata 1993. La formula di Bartleby sospende il linguaggio,

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Dal video al cinema. Il disaccordo televisivo di Cinico Tv

identificare socialmente Paviglianiti o gli altri personaggi di Cinico Tv, che


sono solo dei sopravvissuti alla distruzione generale. Se è sensato sostenere
che quel che rimane del linguaggio in Paviglianiti può essere, da questo
punto di vista, rappresentativo anche dell’afasia, la balbuzie o i tic degli
altri personaggi dei film di Ciprì e Maresco, ecco che una lettura “sociale”
della loro opera sembra in qualche modo perdere di vista l’essenziale. Il
disaccordo visivo e comunicativo dei video di Ciprì e Maresco mira piuttosto
a creare mondi dentro un mondo, tramite un’opera di resistenza che apre
uno spazio all’apparizione di un popolo (Rancière) che sembrava mancare
(Deleuze) o non esserci più (Pasolini), e invece trova una manifestazione e
anche, nonostante tutto, una sua struggente bellezza.

lo astrae da ogni funzione denotativa e comunicativa in maniera simile a quella che Paviglianiti
opera con il suo Certamente!. La funzione disindividuante della formula rispetto a ogni ruolo
sociale, poi, è del tutto analoga.

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