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Sommario: 1. Anfibologia del termine ‘silenzio’ – 2. Il silenzio come quaestio facti – 3. L’ assenza di
principi generali sulla interpretazione del silenzio nelle fonti romane – 4. Cicerone e le componenti
etiche nel fenomeno giuridico del silenzio – 5. Gli orientamenti della giurisprudenza romana: Il silenzio
nel processo – 6. Il silenzio in materia di rappresentanza – 7. Il ‘silenzio-assenso’ nel diritto delle
persone – 8. Il silenzio del proprietario – 9. L’omessa esternazione in materia contrattuale e nelle
successioni mortis causa. il cd. negozio tacito – 10. Considerazioni conclusive.
1
Dunque, due sono in sostanza le strade praticabili dall’interprete. La prima soluzione possibile e’
quella di fare del silenzio una quaestio facti11; da cui la diffusa opinione per cui il silenzio, in sé e per sé,
non puo’ mai assurgere al grado di ‘manifestazione di volonta’’ (a meno che l’ordinamento non
permetta di individuare il silenzio come tale: si pensi al silenzio-assenso o al silenzio-rifiuto nel campo
del diritto amministrativo moderno, quali ipotesi di silenzio con significato giuridico predeterminato12):
in questa impostazione, che viene indicata come ‘tesi della casistica’, ci si arrende, in un certo senso,
all’ambiguita’ fenomenologia del silenzio, negando la possibilita’ di una teoria del silenzio, sulle tracce
dell’enunciato pauliano ‘qui tacet non utique fatetur, sed tamen verum est non negare’; l’interprete non puo’
dunque far altro che procedere alla catalogazione casistica dello ius singulare.
La seconda via praticabile e’ quella di considerare invece il silenzio una quaestio iuris, optando per
la tesi della manifestazione di volonta’ ‘modesta’ o ‘meno piena’, che si verificherebbe da parte del tacens;
strada certamente più rischiosa della prima tanto sul piano storico, quanto sul piano dogmatico, perché
induce alla tentazione –fallace - di sfuggire alla pluralita’ casistica, per catalogare il ‘fatto’, fornendone
una identificazione razionale, prodromica alla formulazione di principi di interpretazione generale. In
altri termini, quanti si propongono di superare le ‘contraddizioni’ interne al sistema giuridico tendono
ad una identificazione unitaria del fenomeno, che sfoci nella formulazione di una teoria univoca del silenzio,
da collocarsi in un contesto di universalita’13. L’unificazione della materia implica necessariamente la
catalogazione del silenzio come fatto positivo, secondo la regola canonista ‘Qui tacet videtur consentire’.
I fondamenti di questo secondo indirizzo sono stati posti sul finire del XIX secolo, da un saggio
del Ranelletti14; discostandosi nettamente dall’orientamento del suo Maestro, Vittorio Scialoja, lo
studioso richiamava le fonti romane per scardinare la tesi tradizionale dello ius singulare e per proporre
l’elaborazione di principi generali, utili all’interpretazione del silenzio15. La ricostruzione del Ranelletti
appare chiaramente influenzata dalla concezione, allora imperante, del negozio come dichiarazione di
volonta’, e, più in particolare, dallo sforzo di temperare gli eccessi della concezione volontaristica
dell’atto di autonomia, mediante il ricorso al principio di affidamento16. In questa prospettiva, la
responsabilita’ dell’atto dipenderebbe solo dalla volontarieta’ della dichiarazione, e cio’ per il principio
della “necessita’ sociale”, a sua volta basato sul principio dell’affidamento17. Percio’, secondo Ranelletti,
il silenzio “fonda un obbligo” allorquando si possa fondatamente e ragionevolmente credere che il
silente volesse perseguire un determinato obiettivo, ma con una precisazione di fondamentale
importanza: le circostanze del caso, da cui si puo’ dedurre la sussistenza di un “silenzio qualificato”,
sono diverse, a seconda che il silenzio produca perdita di un diritto o produca obbligazioni. In ogni
caso, l’intera materia, nella impostazione del Ranelletti, risulta riconducibile a due elementi basilari,
fortemente intrecciati a valutazioni etiche: il concetto del bonus vir e il concetto dell’ interesse di colui che
tace. Si e’ poi accostato alla tesi del Ranelletti, ma rivisitandola alla luce delle considerazioni critiche del
Donatuti18, il Persico19, il quale ha affermato la giuridicita’ del fatto silenzio in concomitanza degli
elementi della scientia e della patientia.
Secondo una terza via, di recente percorsa da Sara Maria Goretti20 sulla base di una puntuale
esegesi delle fonti romane, il silenzio andrebbe inquadrato come fatto secondario rispetto a un prius. La
varieta’ interpretativa data al silenzio dipenderebbe, percio’, dal fatto che il silenzio e’ una ‘risposta’, che,
come tale, si chiarisce solo in base alla domanda, da cui prende origine e a cui si riferisce. Sicché la
11 E’ questo l’orientamento di Savigny, Scialoja, Bonfante, Sraffa, Simoncelli, su cui amplius infra, nel testo.
12 Sul valore del silenzio nel diritto amministrativo, v. soprattutto F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione (Milano
1971); P.G. Lignani, s.v. Silenzio (diritto amministrativo), in ED. XLII (Milano 1990) pp. 559 ss.; Il tema del silenzio quale
comportamento normativamente tipizzato, cui già si e’ accennato alla nt. 5 verrà trattato in chiave storica più avanti, nel
testo.
13 E’ questo l’orientamento di Ranelletti, Gabba, Pacchioni, su cui amplius infra, nel testo.
14 O. Ranelletti, Il silenzio nei negozi giuridici, in Rivista italiana per le scienze giuridiche XIII (1892), pp. 3 ss..
15 V. al riguardo le considerazioni di M. S. Goretti, pp. 33, 36.
16 In generale, su queste problematiche, v. R. Sacco, s.v. Affidamento, in ED. I (Milano 1958), pp. 661 ss.; G. Mirabelli, s.v.
Negozio giuridico (teoria), in ED. XXVIII (Milano 1978) specialm., pp. 10 ss..
17 Ibid. p. 4.
18 Su cui amplius infra, nel testo.
19 C. Persico, Del silenzio come sorgente di obbligazione, in Aii R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli XXII (1931), p. 80.
20 Op. cit., p. 202 e passim.
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diversificazione delle tipologie del silenzio e delle sue conseguenze non dipenderebbe da una
interpretazione ‘casistica’, ma dalla configurazione della ‘domanda’ a cui, di volta in volta, il silenzio
risponde. Abbiamo gia’ avuto occasione di segnalare21 come grazie a questa impostazione si sia chiarito,
sul piano della teoria generale e della logica giuridica, che, se in alcune fattispecie il silenzio assume il
significato di ‘risposta positiva’ (assenso), mentre in altre di ‘risposta negativa’ (dissenso, opposizione),
cio’ si verifica in ragione di un ‘antefatto’, da cui si origina una sorta di (implicita) ‘domanda’22. A nostro
avviso, pero’, la ricostruzione di Goretti costituisce un inquadramento solo parziale delle problematiche
sollevate dal silenzio sul piano giuridico: almeno con riferimento all’esperienza giuridica romana, va
osservato come il silenzio, pur inteso come fatto relazionale, assumeva coloritura (positiva o negativa)
non solo in base ad un ‘antefatto’ visto nella sua oggettivita’, bensi’ anche in relazione a particolari
considerazioni o valutazioni poste dall’ordinamento giuridico: in altri termini, specifiche esigenze o
particolari canoni ermeneutici (favor matrimonii, favor testamenti, pubblica utilita’, prevalente valore dato
alla volonta’ del paterfamilias rispetto a quella dei figli nel contrarre le nozze, privilegi concessi a talune
categorie sociali, particolarita’ del rapporto intercorrente tra il dominus e i suoi schiavi, etc.) potevano
determinare la specifica valenza del silenzio in determinati gruppi di fattispecie. La possibilita’ di
osservare il valore conferito al silenzio per tipologie di casi ci rimanda cosi’ alla cd. tesi della casistica,
che, a nostro parere, corretta e integrata con le importanti premesse teoriche indicate da Sara Maria
Goretti, resta il modo più corretto di affrontare il problema giuridico del silenzio nel diritto romano.
21 V. le considerazioni da noi svolte nella segnalazione bibl. in Labeo 29 (1983), pp. 354 ss..
22 Dedica infatti particolare attenzione alle ricerche di Goretti –pur rilevandone alcuni limiti- A. La Torre, op. cit., pp. 543 ss.,
specialm., pp. 546, 552 ss..
23 A. Sraffa, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Giurisprudenza italiana IV (Torino 1893), pp. 353 ss..
24 V. Simoncelli, Il silenzio nel diritto civile, in Rendiconti del R. Ist. lombardo di Lettere e Scienze XXX s. II (1897), pp. 253 ss..
25 G. Borgna, Del silenzio nei negozi giuridici (Cagliari 1901).
26 S. Perozzi, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Rivista di diritto commerciale (1906) II, pp. 509 ss..
27 V. Scialoja, Responsabilità e volontà nei negozi giuridici, Prolusione al Corso di Pandette alla Università di Roma (Roma 1885), p.
23.
28 V. Scialoja, Teoria degli atti e dei negozi giuridici, in Lezioni anno 1892-93 (Roma 1950) 5° rist. (con Prefazione di S. Riccobono),
p. 49.
3
manifestazione di volonta’ o anche un’espressa dichiarazione di volonta’, e questo dipende dalle
circostanze concomitanti il silenzio; cosi’ se uno si trova in tali circostanze, che se non volesse una
determinata cosa, dovrebbe necessariamente parlare, evidentemente continuando a tacere, dimostra di
avere quella volonta’; e siccome le circostanze che possono attribuire questo carattere al silenzio
possono essere di diverso genere, puo’ essere che esse siano tali che il silenzio giunga perfino ad essere
una volonta’ espressa (…). Cio’ avviene frequentissimamente negli atti giudiziari, nei quali uno e’
espressamente tenuto a dire se vuole una cosa o non la vuole: in tal caso l’inazione, il silenzio, significa
accettazione”29. In definitiva, “Il giudicare nei singoli casi di volonta’ tacita, tacitamente manifestata, vi
sia o no una dichiarazione, e’ un giudizio di fatto, cioe’ bisogna vedere caso per caso se esista o no
quella logica e necessaria connessione tra il fatto esterno e l’animo dell’agente, sicché lo stesso fatto
puo’ darsi benissimo che in un caso si possa ritenere manifestazione tacita di volonta’ e in un altro no,
per il variare delle circostanze”30. Il silenzio, dunque, facti quaestio est; e – annotava il Riccobono alle
Lezioni di Scialoja - proprio perché il tacere e’ questione di fatto, non e’ possibile predeterminarne regole
precise e universalmente valide di interpretazione.
Nel 1900 il Bonfante, che gia’ si era interessato in precedenza del problema del silenzio,
sollecitato dallo osservazioni fortemente critiche del Perozzi rispetto alla impostazione tradizionale,
tornava sul tema per controargomentare, in sostegno della ‘tesi casistica’. Tuttavia, nella costruzione di
Bonfante e’ facilmente ravvisabile qualche elemento di ambiguita’: pur schierandosi per lo ius singulare, lo
studioso non sfuggiva alla tentazione di qualificare il silenzio in senso generale, come “assentimento
passivo”. Dopo aver sottolineato la differenza tra il ‘fatto’ dell’esperienza comune (come egli appunto
considerava il silenzio) e il ‘fatto giuridico’, lo studioso ribadiva la totale assenza di rilevanza del silenzio
nel mondo del diritto, specie nei confronti della manifestazione di volonta’, inquadrando poi il silenzio
quale ‘negativita’’31. Pertanto, nella massima pauliana in D. 50.17.142, lo studioso non vedeva alcuna
ambiguita’, ma una necessaria duplicita’ d’interpretazione, per il principio dello ius singulare: il silenzio
equiparato al non –assentire (non utique fatetur) si riferirebbe ai rapporti giuridici in cui occorre il fateri,
non invece a quelli in cui basta il non-negare, perché a questi ultimi l’ordinamento, in caso di silenzio,
riconnette determinate conseguenze32.
Sulla stessa linea, almeno in linea approssimativa, si collocano i gia’ citati studi di Donatuti,
caratterizzati da una più accentuata considerazione delle fonti romane, sulla cui base lo studioso tentava
di dimostrare che il silenzio, mentre non era mai valso come vera e propria manifestazione di volonta’,
poteva soltanto denotare tolleranza (patientia)33; il ‘ritorno’ alla costruzione bonfantiana e’ nella
particolare interpretazione resa dal Donatuti del concetto romano di patientia, intesa appunto come una
voluntas ‘imperfetta’ e ‘più debole’. In tal modo, Donatuti da un lato conferiva rilevanza all’elemento
psicologico nell’interpretazione dei fatti giuridici (aspetto che invece Bonfante aveva considerato
estraneo alle problematiche giuridiche), dall’altro lato dimostrava la parziale giuridicita’ del ‘fatto-
silenzio’. Questa tesi, in sostanza, costituiva un tentativo di mediare tra i due orientamenti contrapposti:
perché se per un verso Donatuti tentava di rintracciare una sistemazione teorica della questione del
silenzio, unificandone i vari casi sotto la categoria del pati, finiva poi per ricondurre tutte le fattispecie
esaminate al concetto di ius singulare.
in ID. Scritti giuridici varii III. Obbligazioni, comunione e possesso (Torino 1921), pp. 174 ss..
33 G. Donatuti, IL silenzio come manifestazione di volontà, in Studi Bonfante IV (Milano 1930), pp. 464 ss., anche in Studi di diritto
34 Ampiamente, sul punto, R. Sacco, op. cit., pp. 661 ss., con bibl..
35 Cfr. P. Bonfante, Scritti III cit., p. 178.
36 Si l. soprattutto P.G. Lignani, op. cit., pp. 559 ss..
37 Così P. Bonfante, Il silenzio nella conclusione dei contratti (I Studio), in Foro italiano XXV (1900), anche in ID. Scritti III cit., pp.
S. Riccobono, Origine del domma della volontà nel diritto romano, in ACIR. 1 (1934), pp. 177 ss.; C.A. Maschi, Volontà tipica e
volontà individuale nei negozi ‘mortis causa’, in Scritti Ferrini Milano I (Milano 1947), pp. 99 ss.; efficace sintesi in A. Guarino, Dritto
privato romano, 11° ed. (Napoli 1997), pp. 408 ss., nt. 32.1.1.
39 Così A. Guarino, oluc.; sull’ambigua categoria del cd. negozio tacito, v. infra, nel testo.
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pur essendo una quaestio facti, poteva essere riguardato come una manifestazione di volonta’, ma del
tutto particolare: le attestazioni di eta’ romana indurrebbero a credere che il comportamento del tacens
fosse inteso come una manifestazione di volonta’ ‘anomala’, o – come ha precisato il Donatuti - di
volonta’ ‘attenuata’. Ma, verosimilmente, alla concezione romana della ‘volonta’’ -che, si ripete, era
inizialmente indistinguibile dalla manifestazione esterna- mal si adattano le distinzioni moderne tra
volonta’ ‘normali’, ‘piene’, ‘anomale’, ‘attenuate’. D’altronde, le fonti romane non sembrano consentire
soluzioni univoche sul problema dell’interpretazione del silenzio, perché prospettano all’interprete una
casistica variabilissima: non e’ un caso che il problema non sia mai stato trattato in modo organico, né
in sede di studio scientifico dalla giurisprudenza romana classica, né, sul piano normativo, dalle
costituzioni imperiali.
Manco’ del tutto, nel diritto romano, la formulazione di un unico principio generale sull’efficacia
giuridica del silenzio. Nondimeno, non sono mancati tentativi di attribuire al diritto romano
l’elaborazione di regole precise nella interpretazione del silenzio. Ad esempio, si e’ rilevato come la gia’
citata massima del diritto canonico Qui tacet consentire videtur (C. 43 in VI.5.12) trovi riscontro nelle fonti
romane, e in particolare in un passo giurisprudenziale conservato nei Digesti giustinianei – sul quale
avremo occasione di soffermarci più avanti -, relativo al comportamento della figlia sottoposta alla
potesta’ del pater : colei che non si ribellava alla scelta paterna doveva reputarsi consenziente (D.
23.1.12: …quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur). Risulta con evidenza come la massima del
diritto canonico costituisca una generalizzazione assolutamente estranea allo spirito del testo romano: in
D. 23.1.12, l’interpretazione del ‘silenzio’ come consenso (‘chi tace acconsente’) era inscindibilmente
legato al caso di specie della nubenda e trovava la sua ratio nella particolare struttura potestativa della
famiglia romana, per la quale, anche in occasione del matrimonio dei figli, aveva rilievo pressoché
esclusivo la volonta’ del paterfamilias. Questa era l’unica ragione per cui, ai fini della validita’ degli
sponsali, ci si accontentava della ‘mancata opposizione’ da parte della figlia. Esulava, dunque, dalle
intenzioni del giureconsulto romano l’enunciazione di un principio di carattere generale.
Considerazioni non dissimili valgono in ordine al valore attribuibile al secondo ditterio. Si deve
prevalentemente alla dottrina amministrativistica moderna 40 l’idea, basata su una lettura forzata delle
fonti romane, che i Romani applicassero in tema di silenzio un principio generale – ma ben diverso dal
precedente -, enunciato da Paolo nel l. 56 ad edictum e sistemato dai compilatori giustinianei in D.
50.17.142 (Qui tacet, non utique fatetur: sed tamen verum est eum non negare). Il testo e’ apparentemente
sibillino, tanto che gia’ il Dernburg 41 lo dichiaro’ ambiguo come un oracolo; e cio’ da’ conto anche della
valutazione tutt’altro che univoca da parte della romanistica moderna. Nell’orientamento attualmente
prevalente, il contenuto del brano confermerebbe l’interpretazione del silenzio come quaestio facti,
benché una folta schiera di studiosi propenda piuttosto per vedere nelle asserzioni di Paolo gli elementi
della regula iuris.
E’ stato anche osservato che il testo, estratto dai compilatori giustinianei dal l. 56 ad edictum,
originariamente rivestiva un significato opposto a quello che ha poi assunto una volta collocato nei
Digesti: chi tace di fronte all’azione dell’avversario implicitamente confessa42 (benché non sempre il
silenzio possa identificarsi con un ‘consenso’). Nella collocazione che il brano ha ottenuto all’interno
del Corpus iuris civilis, si evidenzia come il giurista severiano, esaminando il comportamento di colui che,
interrogato in giudizio, tace, intendesse precisare i contorni e le conseguenze di due diverse situazioni:
da un lato quella del confessus che risulta iudicatus, quodammodo sua sententia damnatur; dall’altro lato quella
del tacens, il quale, con il suo mutismo, tenta di evitare ogni responsabilita’ (sia quella del confessus, sia
quella dell’obiettore)43. Cosi’, da un lato il giureconsulto severiano Paolo contestava che il tacens dovesse
essere immancabilmente considerato confessus, in quanto una sbrigativa interpretazione del silenzio come
‘consenso’ avrebbe potuto dare luogo ad una finzione giuridica (cd. ficta confessio: ‘parla, altrimenti sei
considerato reo confesso’); per altro verso, il giurista ammetteva che l’indefensus (colui che resta inerte di
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fronte all’azione dell’avversario), tacendo, dimostrava di non volere assumere alcuna iniziativa e percio’
veniva sanzionato.
Resta invece dubbio se il giurista individuasse la ratio di questa disciplina nel fatto che l’indefensus,
con la sua inerzia, implicitamente sembrava ammettere le ragioni della parte attrice. Diversamente, si
potrebbe ipotizzare che Paolo volesse ricondurre la sanzione alla volonta’ di non fare e di non dire, non
alla identificazione del silenzio come assenso44. E, per vero, questa rappresentazione dell’indefensus come
parte inerte (e non implicitamente consenziente rispetto alle affermazioni della parte attrice) potrebbe
risultare avvalorata dalla definizione ulpianea in D. 50.17.52 (non defendere videtur non tantum qui latitat, sed
et is qui presens negat se difendere aut non vult suscipere actionem). Ma, a nostro avviso, e’ troppo sottile, e
comunque priva di rilievo pratico-giuridico (percio’ verosimilmente estranea al pensiero giuridico
romano) la distinzione tra silenzio come ‘manifestazione di volonta’’ e silenzio come ‘indice’ di volonta’.
Quel che ci interessa e’ piuttosto rimarcare il senso del rilievo del giurista, secondo il quale non e’ vero,
in assoluto, né che il tacens consente sempre, né che il tacens non vuole mai dire nulla: Paolo, con questa
affermazione solo apparentemente ‘sibillina’, richiama l’interprete alla necessita’ di esaminare il contesto
in cui, caso per caso, si colloca il silenzio.
In definitiva, anche se il contenuto del testo pauliano non riveste importanza determinante per
la questione generale, almeno nel senso che in esso non si propongono né si enunciano regole
universalmente valide per l’interpretazione del silenzio in ambito giuridico, e’ tuttavia innegabile che una
regola nel testo viene enunciata, anche se la sua applicazione era in origine circoscritta al caso di specie
della confessione in giudizio. Il criterio indicato dal giurista romano era probabilmente gia’ conosciuto e
praticato nei diritti greci: si richiama al riguardo il regime della proclesis eis basanon in diritto attico, ove il
rifiuto di acconsentire alla basanos di uno schiavo da assumere come testimone si risolveva in un
elemento di prova a favore dell’avversario45.
L’importanza del brano che abbiamo appena esaminato non e’ sfuggita a buona parte della
civilistica moderna, che ha assunto D. 50.17.142 quale paradigma del valore giuridico del silenzio nella
medesima fattispecie esaminata da Paolo. Cosi’, l’impostazione romana e’ passata ai codici moderni46. In
applicazione dell’art. 218, 2° comma, dell’abrogato Codice di procedura civile italiano del 1865, il
silenzio si qualificava nell’ambito delle prove, grazie all’elaborazione di una figura finzionistica di
‘confessione’ (ficta confessio): “quando la parte … ricusi di rispondere, si hanno come ammessi i fatti
dedotti, salvo che giustifichi un impedimento legittimo”. Il silenzio si poneva allora come ‘segno’ di
positivita’ giuridica, fatto qualificante e produttore di effetti giuridici (onere della prova). Poi, a seguito
di vivaci discussioni, sollecitate dagli studi di Scialoja47 (e tenute soprattutto presenti le peculiari esigenze
del processo civile odierno, incentrato sul principio della libera persuasione del giudice), il legislatore ha
ceduto alla tentazione di sopprimere tout court il problema, assegnando al silenzio (inteso come fatto
non-significante) valore adiaforetico48. Nell’attuale ordinamento, pertanto, il medesimo silenzio non e’
più riconosciuto come autonomo elemento di prova (art. 232, comma 1, c.p.c. it. vig.: “se la parte …
rifiuta di rispondere senza giustificato motivo, il collegio, valutato ogni altro elemento di prova, puo’
ritenere come ammessi i fatti dedotti dall’interrogatorio”). In sostanza, l’abolizione dell’art. 218 del
c.p.c. del 1865 ha determinato “come era prevedibile, nella giurisprudenza e negli studi sul processo
civile, la scomparsa del problema come tale, proprio perché il legislatore aveva decretato ‘adiafora’ il
silenzio nei riguardi degli effetti probatori”49.
Eppure, se si travalica l’ambito procedurale, si puo’ notare come il legislatore non sempre ha
adottato lo stesso orientamento. Sicché e’ parso a taluni50 di potere affermare che tracce di una
imperfetta conoscenza o consapevolezza della problematica sottesa ai profili giuridici del silenzio
traspaiono dal fatto che nel nostro ordinamento il medesimo fenomeno (silenzio) appare interpretato, e,
44 Propende per questa interpretazione M. S. Goretti, op. cit., pp. 161, 165 ss..
45 Lo ricorda A. Biscardi, Prefazione a M. S. Goretti, op. cit., IX.
46 G. Scaduto, Sulla ‘ficta confessio’ dell’interrogando, in Rivista di diritto processuale civile II (1925), p. 3.
47 Il quale approfondì il problema, in chiave storica, della possibilità o meno di formulare una teoria del silenzio quale fatto
giuridico.
48 Così M. S. Goretti, op. cit., pp. 2, 31, A. Biscardi, Prefazione cit., p. 9.
49 M. S. Goretti, op. cit., p. 2.
50 V. soprattutto M. S. Goretti, op. cit., p. 31.
7
di conseguenza, disciplinato, nell’ambito di diversi istituti, in modo diverso, o addirittura
contraddittorio: ad es., mentre per l’art. 1399 c.c. it. vigente il silenzio nella rappresentanza non
costituisce ratifica, per l’art. 1926 c.c. it. vigente il silenzio dell’assicurato vale come adesione. Ma ecco il
punto: queste differenze esistenti all’interno del nostro ordinamento vanno interpretate come aporie,
oppure come consapevole assegnazione di un diverso rilievo del fatto-silenzio nell’ambito dei diversi
istituti giuridici? La varieta’ interpretativa data al silenzio e’ davvero segno di mancato coordinamento
tra le diverse branche del nostro sistema giuridico, o, piuttosto, deriva da una opportuna
diversificazione dei canoni ermeneutici, in ragione delle peculiarita’ degli istituti, dei rapporti, degli
interessi in gioco? Il quesito e’ stimolante, anche perché, come tra breve constateremo, anche il diritto
romano si presenta ricco di siffatte apparenti contraddizioni nelle medesime materie.
indizio di una visuale casistica degli istituti: v. ad es. le considerazioni che abbiamo già svolto, su ampia base testuale, in La
tutela del possesso in età costantiniana, pp. 240 ss. e passim.
55 Su cui si v. l’accurata esposizione di M. S. Goretti, op. cit., pp. 69 ss..
8
di identificare il silenzio con la dissimulatio, la quale richiamava a sua volta la celebre definizione del dolus
malus di Aquilio Gallo (aliud simulatum, aliud actum). Ed ecco la conclusione: Quod si Aquiliana definitio vera
est, ex omni vita simulatio dissimulatioque tollenda est (15.61). Dunque, Cicerone, reputando la reticenza una
risposta consapevole, attribuiva una precisa responsabilita’ a colui che aveva taciuto (il silenzio, in
quanto ‘risposta’ consapevole, era un fatto turpe); mentre, secondo la tesi della parte avversa, sarebbe
stata da escludersi la responsabilita’ del tacens, in quanto nessuna domanda era stata posta a chi aveva
taciuto (il silenzio si reputava lecito, in quanto non costituiva ‘risposta’, non essendo stata posta alcuna
domanda).
La seconda esemplificazione proposta dall’Arpinate era incentrata sulla distinzione tra ‘celare’ e
‘tacere’, e riguardava il caso del bonus vir che avesse alienato una casa con difetti (aliqua vitia) di non poco
conto (13.54), dei quali lui solo era a conoscenza. Si poneva allora il quesito: l’aliena nte, all’atto della
vendita, era tenuto a parlare o poteva legittimamente tacere? Antipatro assumeva che il tacere sarebbe
equivalso a un inganno, ma Diogene replicava che il soggetto, pur fuorviato dal silenzio, non era pero’
stato costretto da nessuno ad acquistare, essendosi limitato il venditore ad offrire la sua merce (13.55).
Ma in questa fattispecie, con tutta evidenza, il silenzio non si profilava come un non-fatto: l’alienante
aveva maliziosamente occultato cio’ che sapeva (13.57: Neque enim id est celare quidquid reticeas, sed cum quod
tu scias id ignorare emolumenti tui causa velis eos, quorum intersit id scire). In definitiva, l’argomentazione
ciceroniana si articolava su due poli: la concezione del silenzio come comportamento positivo, “un fare
nel non-fare”56, e il richiamo al ‘principio dell’affidamento’ (16.65: Melius aequius in fiducia inter bonos bene
agere).
Il ricorso al ‘principio dell’affidamento’ risulta ancora più esplicito nel terzo esempio di
reticenza, concernente una sentenza emessa dal giudice Marco Catone (padre dell’Uticense). La
questione verteva sulla vendita di una casa sul Celio; ne era proprietario Tiberio Claudio Centumalo, al
quale gli auguri avevano intimato la demolizione di quelle parti del fabbricato che impedivano
l’osservazione degli auspici. Centumalo aveva omesso di rappresentare tale situazione all’acquirente,
Publio Calpurnio Lavorio; e questi, dopo avere ricevuto dagli auguri l’intimazione alla demolizione e
dopo avervi ottemperato, aveva convenuto in giudizio Centumalo ex fide bona. Catone, ritenendo
l’alienante responsabile per avere taciuto, lo aveva condannato, cum in vendendo rem eam scisset et non
pronuntiasset (16.66). Nel commentare il caso, Cicerone non nascondeva la difficolta’ di valutare sul
piano giuridico la coloritura del silenzio dell’alienante: l’abitazione di Centumalo non era affetta da vizi
occulti e, d’altra parte, lo ius civile non sanzionava indiscriminatamente ogni tipo di reticenza (16.67:
huiusmodi reticentiae iure civili comprehendi non possunt); tuttavia, soggiungeva l’Arpinate, le ipotesi di reticenza
che si potevano ritenere sanzionate dallo ius civile implicavano l’obbligo della diligenza (quae autem
possunt, diligenter tenentur). Cosi’, la sentenza di Catone (pertinente a un iudicium bonae fidei) si era
opportunamente richiamata all’obbligo, specifico del venditore, di non tacere le circostanze di cui si era
a conoscenza (16.66), quando lo richiedesse la norma sociale dell’affidamento57.
Da quanto esposto risulta chiara, a nostro parere, la propensione dell’oratore per una
individuazione casistica della rilevanza etico-giuridica del silenzio. E’ pur vero che nei segnalati luoghi
dell’opera ciceroniana non manca l’indicazione di criteri utili all’interpretazione del silenzio: negli
esempi illustrati, si e’ constatato come, laddove non soccorressero specifiche prescrizioni dello ius civile,
il richiamo alla diligentia o alla bona fides si saldavano con “un principio sociale di attesa per un
comportamento di bonus vir”58, assimilabile al moderno principio dell’affidamento. Ma occorre tenere
ben presente che le esemplificazioni addotte dall’Arpinate attenevano tutte alla materia della
compravendita, che in diritto romano era governata dal principio di buona fede, e, ancora più in
particolare, alle implicazioni della reticentia nel corso delle trattative. Il costante richiamo operato da
Cicerone alla sfera etica, nella valutazione giuridica del silenzio, e’ dunque riconducibile alle peculiarita’
delle obligationes consensu contractae (tutelate con azioni processuali bonae fidei dal pretore romano sullo
scorcio dell’eta’ repubblicana), nel cui ambito si inseriva appunto l’emptio venditio. Queste le ragioni per
cui, a nostro avviso, non e’ possibile generalizzare le considerazioni morali e tecnico-giuridiche svolte
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dall’oratore a tale proposito, né, per conseguenza, asserire che Cicerone intendesse tracciare una ‘teoria
generale del silenzio’.
59 G. Pacchioni, Il silenzio nella conclusione dei contratti, in Riv. dir. comm. 1906, II, pp. 23 ss..
60 Sulla ‘funzione legistativa’ esercitata dalla giurisprudenza romana, P. Bonfante, Scritti III cit. pp. 151166, e, soprattutto,
ID., La giurisprudenza nello svolgimento del diritto. Prolusione pubblicata in Temi veneta XX (1893).
61 Nota pubblicata nel Foro italiano XXV (1900), p. 467.
62 P. Bonfante, Scritti III cit., p. 175.
63 Sullo stretto collegamento sussistente nel diritto romano (almeno fino ad età imperiale) tra volontà e manifestazione, v.
10
negas…; quando tu neque ais neque negas). Purtroppo la fonte non precisa il seguito della formula, né,
dunque, quali conseguenze gli antichi Romani collegassero al silenzio del debitore in giudizio; ma
l’ipotesi più attendibile e’ che il non-parlare o il non-negare del convenuto fossero equiparati alla
confessio. Tale conclusione sembra avvalorata dal testo della lex Rubria67, che, illustrando l’ipotesi di
indefensio nella condictio certae pecuniae, indicava quali presupposti della condanna la confessione (confessio) e
il non rispondere in giudizio (non rispondere in iure)68. La ratio di questa equiparazione era nel fatto che in
entrambe le ipotesi il convenuto non si difendeva come stabilito (uti oportet)69.
Con riferimento alla interrogazione in giudizio se si fosse erede (interrogatio in iure an heres sit),
Ulpiano affermava che chi taceva, di fronte alla domanda del magistrato, era equiparato a chi negasse di
essere erede, dal momento che chi non rispondeva dimostrava disprezzo per il pretore (…quia praetorem
contemnere videtur) ed era percio’ considerato contumace (contumax : Ulp. D. 11.1.11.4).
Abbiamo informazioni sufficientemente precise anche per cio’ che concerne la cd. volontaria
giurisdizione, dove una particolare valenza assumeva il silenzio nel rito della in iure cessio, antichissimo
processo fittizio volto a realizzare il trasferimento dei beni. Secondo la descrizione di Gaio (2.24),
l’acquirente affermava, al cospetto del proprietario alienante, che la res (una cosa inanimata, una animale,
uno schiavo) era sua per il diritto dei Quiriti (… ‘hunc ego hominem ex iure Quirirtium meum esse aio’…),
quindi il magistrato chiedeva all’alienante se volesse effettuare la contravindicatio (cioe’ affermare la
proprieta’ del bene, con le stesse parole gia’ proferite dall’acquirente); colui che intendeva trasferire la
proprieta’ del bene, a questo punto, o negava esplicitamente di volere contravindicare, o semplicemente
taceva (…quo negante aut tacente…) e infine il pretore pronunciava l’addictio, cosi’ suggellando la fattispecie
traslativa70. Dunque, l’esplicito rifiuto di contravindicare era - secondo quanto attesta Gaio - perfettamente
equivalente al silenzio e veniva concepito come risposta alla domanda del magistrato71; tuttavia, gli
effetti traslativi non dipendevano direttamente dal negare o dal tacere dell’alienante, bensi’ dall’addictio
effettuata dal pretore. Nella in iure cessio, il silenzio dell’alienante era rilevante, come manifestazione di
volonta’ (‘comportamento normativamente tipizzato’), in quanto contegno significativo della volonta’ di
effettuare una cessio, che pero’ si realizzava solo a seguito del provvedimento magistratuale.
Al riguardo, occorre ancora una volta ricordare come, nell’esperienza giuridica romana, la
questione del silenzio investa più genericamente il tema della manifestazione della volonta’: per il
prevalente formalismo degli atti più antichi, l’esigenza di ricercare la volonta’ delle parti negoziali si fece
strada molto lentamente ed era per lo più l’ordinamento a ricondurre determinate conseguenze ai
contegni assunti dai soggetti. Basti ricordare che il requisito del consenso era richiesto, ancora in eta’
classica, solo per i quattro contratti introdotti dal pretore romano (compravendita, locazione, mandato,
societa’), mentre per contrarre le altre obbligazioni (re, verbis, litteris) l’elemento essenziale dell’atto era
costituito, rispettivamente, dal trasferimento del bene, dalle scritturazioni, dalla pronunzia di frasi
determinate. Risalendo indietro fino all’arcaica societa’ patriarcale, persino l’elemento della volonta’, ai
fini della validita’ dell’atto, risultava privo di essenzialita’, in quanto assorbito dalla forma.
Percio’, un rapido esame degli atti di autonomia privata di origine più antica dimostra che la
considerazione per la volonta’ degli autori (e, quindi, per la sua espressione) era assai scarsa, dandosi
peso prevalente alla osservanza delle formalita’ gestuali prescritte. Si e’ ricordato che tanto nella
mancipatio – e specie nella particolare applicazione della manumissio vindicta - quanto nella in iure cessio (che
avevano la forma della confessio in iure), il compimento dell’atto risultava connesso all’inerzia di una delle
parti negoziali: il silenzio dell’alienante, di fronte alla rivendica del bene da parte dell’acquirente. Ma in
tali particolari casi72 di silenzio, o, meglio, di inerzia, questa particolare significazione di volonta’ non era
meramente eventuale, bensi’ necessariamente implicata dalla struttura stessa delle fattispecie, che
risultavano congegnate in modo tale da riconnettere alla mancata reazione di fronte alla rivendica della
Negri, op. cit., pp. 223 ss., il quale vede nel silenzio una ‘collaborazione al rito processuale’ (nel non difendersi).
70 A. Biscardi, Lezioni sul processo romano cit., p. 58; G. Provera, op. cit., p. 45.
71 Lo rileva M. S. Goretti, op. cit., p. 163.
72 Cui adde D. 23.1.12 pr. e Vat., p. 194.
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controparte negoziale il prodursi di determinati effetti: l’omissione di reazione denotava acquiescenza,
cioe’ volonta’ di consentire, attraverso un ‘comportamento concludente’73, all’addictio magistratuale.
L’inerzia (il silenzio) dell’alienante costituiva, insomma, vero e proprio elemento di perfezionamento
della fattispecie: come rilevo’ il Ferrini, nelle sue Pandette74, e’ questo “l’unico esempio … di silenzio
preordinato a manifestazione di volonta’, che le fonti ci offrono”.
73 Così P. Bonfante, Scritti III cit., p. 180; A. Guarino, op. cit., p. 408 nt. 32.1.1.
74 Op.cit., p. 150 (n. 111).
75 Contra M. S. Goretti, op. cit., p. 108 (per la lettura del brano in esame, pp. 87 ss. e 106 ss.), la quale rileva, ma sotto altro
profilo, che la fattispecie illustrata non era equiparabile a una manifestazione di dissenso, per difetto di causalità.
76 M. S. Goretti, op. cit., p. 92.
77 Sul testo, G. Donatuti, op. cit., pp. 405 ss..
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sulla guida di un ‘principio di affidamento’ ante litteram, o ispirandosi ai principi regolatori della materia
specifica (ad es. favor testamenti, pubblica utilita’, privilegi legati a particolari professioni, etc.), mediante
un ragionamento induttivo-deduttivo si poteva assegnare al silenzio una determinata valenza, ed
eventualmente addossare al tacens talune conseguenze del suo atteggiamento: era dunque attraverso una
operazione logica, e non arbitraria, che si poteva privare il silenzio della sua intrinseca ambiguita’78.
Le stesse considerazioni valgano nella lettura di Ulp. D. 50.17.60 (Semper qui non prohibet pro
se intervenire, mandare creditur. sed et si quis ratum habuerit quod gestum est, obstringitur mandati
actione), in cui la mancata prohibitio comportava la valida costituzione del contratto consensuale di
mandato; e di Ulp. D. 27.7.4.3 (Fideiussores a tutoribus nominati si praesentes fuerunt et non
contradixerunt et nomina sua referri in acta publica passi sunt, aequum est perinde teneri, atque si iure
legitimo stipulatio interposita fuisset), testo dal quale si evince che la presentia e la patientia dei
fideiussori del pupillo nominati dai tutori producevano gli stessi effetti della promessa nella forma di
stipulatio.
In ambedue i testi il silenzio e’ chiaramente individuato come risposta (silenzio-assenso), ma
alquanto differenti appaiono le finalita’ di questa interpretazione. Nella prima fattispecie, traspare
l’esigenza di tutelare, con l’azione che spetta al mandatario nei confronti del mandante, colui che avesse
subito sacrifici patrimoniali, per spirito di amicizia o per corrispondere a un dovere morale verso una
persona non assente e non dissenziente (cd. mandato tacito79). Nel secondo caso il silenzio non viene
colorito di significato a seguito di una indagine sull’intimo volere del tacens, ma con il precipuo scopo di
tutelare “l’aspettativa di coloro che sulla manifestazione fanno assegnamento, interpretandola secondo
la normale valutazione sociale”80. La fattispecie, in dettaglio, e’ la seguente: il tutore nomina Tizio
garante, il quale non solo non si oppone (ed avendo presenziato all’atto della nomina sarebbe stato in
condizioni di farlo), ma tollera che il suo nome venga iscritto in atti pubblici. Ed ecco il problema
giuridico: il semplice pati (passi sunt) conferisce validita’ alla nomina del garante da parte del tutore?
Secondo il diritto classico, la fideiussione esige la forma, non essendo sufficiente la volonta’; ma con
riguardo al caso illustrato, il giurista severiano asserisce che l’estraneo presente e tacens si deve
considerare obbligato come fideiussore. La ratio di questa soluzione non e’ esplicitata, se non da un
generico richiamo all’aequitas. E’ possibile che la giurisprudenza romana si sia richiamata al favor
pupillorum - cosi’ come, sulle orme del Borgna, suggeriva Bonfante - ma qui sembra in gioco, più ancora
dell’interesse del pupillo, l’esigenza di tutelare la posizione dei creditori del pupillo, indotti a far credito
all’incapace dall’esistenza di un fideiussore81.
riserve.
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non nolle, al non contradicere, perché, al contrario si traduceva in ‘comportamenti concludenti’, quali il
dividere la stessa mensa, il mostrarsi abitudinariamente insieme in pubblico, etc.
La rilevanza del ‘silenzio’ va piuttosto saggiata in altri, più circoscritti ambiti del diritto di
famiglia. In materia di sponsali, il non-contradicere, da parte della figlia, era espressamente equiparato al
consenso (D. 23.1.12 pr. : quae patris voluntati non repugnat consentire intellegitur; D. 23.1.7.1: intellegi … patrem
consentire, nisi evidenter dissentiat). La ratio di questa disciplina era nella prevalente considerazione, in cui i
Romani tenevano, nella materia matrimoniale, la volonta’ del paterfamilias, mentre alla figlia sottoposta
alla potesta’ paterna era solo accordata la facolta’ di ‘dissentire’, opponendosi alla scelte paterne.
In linea generale, secondo i Romani per il matrimonio del figlio occorreva il consenso del padre,
affinché non nascesse un suus heres contro la sua volonta’. Non mancarono, pero’ le eccezioni alla
regola. Tanto risulta da Triph. D. 49.15.12.3 (filius, quem habuit in protestate captivus, uxorem ducere potest,
quamvis consentire nuptiis pater eius non posset; nam utique nec dissentire): il figlio sottoposto alla potesta’ di un
prigioniero di guerra poteva nel frattempo sposarsi, anche se il padre non era in grado di prestare il suo
consenso alle nozze, né di opporvisi. Il silenzio di chi era assente, e quindi ignaro (insciens), si profilava
come “impossibilita’ di consenso e di dissenso”84, tuttavia, in deroga ai principi generali (deroga dovuta
al favor matrimonii) si ammetteva la validita’ del matrimonio contratto in assenza del consenso che
avrebbe dovuto prestare il padre captivus.
Se per il matrimonio del figlio occorreva di regola il consenso del padre, nel diritto romano
classico per la figlia bastava la mancata opposizione paterna. Il silenzio del pater furiosus o demens era
pero’ assoggettato ad una interpretazione particolare, in quanto il fenomeno andava valutato alla luce
della disciplina della curatela (cura). Il non contradicere del padre affetto da patologia mentale era
equiparato al consenso in ipotesi di nozze della figlia, ma tale silenzio andava integrato dagli atti del
curatore in ordine alla dote e alla donazione prenuziale; con riguardo, invece, alle nozze del figlio, la
questione fu dai Romani lungamente discussa (…apud veteres agitabatur), finché in eta’ imperiale non si
soppresse la discriminante tra figli e figlie, unificando la disciplina. Tanto risulta da una costituzione
giustinianea del 530 (CI. 5.4.25.1: Et filiam quidem furiosi marito posse copulari … sufficere enim putaverunt, si
pater non contradicat…in filio autem familias dubitabatur… sancimus …ut non solum dementis sed etiam furiosi liberi
cuiuscunque sexus possint legitimas contrahere nuptias…), in cui emerge lo sforzo dei giuristi di affermare (in
applicazione del favor matrimonii) l’assimilazione al consenso anche del silenzio di un padre incapace di
intendere e di volere, evitando che il non contradicere di un pazzo fosse, in quanto tale, considerato privo
di effetti (costituzione di matrimonio legittimo). In materia matrimoniale, dunque, il silenzio del pazzo
era ‘atto’ valido, mentre in altre fattispecie (Ulp. D.8.2.5; D. 23.2.45.5; D. 47.2.48.3) il silenzio del pazzo
veniva considerato irrilevante (‘non-atto’), in quanto assimilato al silenzio dell’infans e dell’ignorans.
Quanto esposto consente di individuare – benché in via ipotetica - la ratio della diversita’ di
trattamento: quando da un fatto, che il soggetto era in grado di evitare, poteva derivare nocumento allo
stesso, l’ordinamento richiamava l’attenzione dell’interessato, imponendo una espressione
inequivocabile di volonta’; diversamente, il silenzio poteva avere valore di assenso. Alla stessa
conclusione (silenzio-assenso) si giungeva nell’ipotesi in cui il soggetto, che avrebbe dovuto esprimere il
suo consenso in ordine al compimento di un atto che l’ordinamento incoraggiava, fosse in qualche
misura incapace di intendere e di volere: cosi’, per il favor matrimonii, al fine di evitare al figlio
l’impossibilita’ di contrarre valido matrimonio (per mancato consenso di un padre, infermo di mente al
punto tale da non potere esprimere né un consenso né un dissenso), si equiparava il silenzio
dell’infermo al consenso.
Al fine presumibile di favorire la condizione legittima degli infanti, il silenzio del marito di
fronte alla denuncia di stato interessante della donna divorziata valeva come riconoscimento della prole
futura; le parole del giurista accentuano il significato del senatoconsulto Planciano, che penalizzava il
silenzio del marito (D. 25.3.1.4: poena autem mariti ea est … debebit igitur respondere). E’ questo uno dei casi
in cui il silenzio – equiparato all’assenso a titolo di sanzione a carico del coniuge che non avesse reagito
- generava obbligazione.
15
impose, in progresso di tempo, una manifestazione di volonta’. Tanto risulta, con evidenza, dalla
disciplina di alcuni dei rapporti familiari appena illustrati. In eta’ arcaica non si teneva in alcun conto la
volonta’ del figlio e della figlia, sia nel matrimonio che negli sponsali; ma gia’ in eta’ classica si richiedeva
la volonta’ del figlio e la mancata opposizione della figlia (D. 23.1.7.1; D. 23.1.12 pr.)91. Viceversa, la
volonta’ in origine essenziale del padre si ando’ progressivamente riducendo, fino a giungere in
particolari situazioni al mero silenzio, al non dissentire (D. 49.15.12.3): i giuristi ebbero anzi cura di
precisare che il criterio del silenzio era stato imposto per publica utilitas o civili ratione. Cosi’, al figlio del
furioso fu consentito di concludere le nozze, purché il padre non vi si opponesse. Ugualmente, mentre
in antico non si reputava necessaria la volonta’ del figlio per l’adozione, Giustiniano richiese la volonta’
dell’adottando, anche se nella forma ‘limitata’ del non contradicere (D. 1.7.5; I. 1.12). Per il consenso della
figlia all’esercizio dell’azione dotale da parte del padre, i giuristi discussero se il consenso doveva essere
pieno, attivo, positivo, o mero assentimento passivo (utrum sic accipimus ut consentiat an vero ne contradicat92)
e l’opinione prevalente fu che bastasse il non contradicere. E ancora, per ridurre al minimo la violazione
del credito ex sc. Macedoniano, se da un lato la giurisprudenza fece sopravvivere l’obbligazione naturale,
dall’altro lato ridusse alla mera scientia, al non contradicere il consenso del paterfamilias, dato il quale cessava
il senatoconsulto (D. 14.6.12 e 16).
16
Tra le applicazioni più macroscopiche della rilevanza giuridica del ‘silenzio’ del proprietario –
per l’incidenza nella pratica - e’ senz’altro da annoverarsi la materia dell’usucapione: gia’ nel V sec. a C.,
nelle XII tavole fu sancita la regola secondo cui l’uso di un bene da parte di un soggetto che non ne
fosse proprietario poteva condurre all’acquisto del diritto di proprieta’, se congiunto con l’acquiescenza
del proprietario (usus-auctoritas)98.
La patientia del proprietario rilevava anche – in quanto fonte di responsabilita’ - a proposito degli
illeciti commessi dagli schiavi99. I Romani, se in linea generale negavano che la mera scientia del delitto
altrui potesse dare luogo ad obligatio ex delicto (e cio’ persino nell’ipotesi in cui il soggetto sciens si trovasse
nella situazione di potere impedire la commissione del delitto100), criterio opposto seguivano in ordine
alla scientia domini, vale a dire, per il caso in cui il proprietario fosse consapevole del proposito di un
proprio servo di delinquere. Dalla lettura di Ulp. D. 9.4.2 e di Paul. D. 9.4.4101, risulta che se il dominus
era a conoscenza del proposito delittuoso del sottoposto, il suo atteggiamento inerte costituiva fonte di
responsabilita’ e non gli consentiva, di conseguenza, di sottrarsi alla condanna (per responsabilita’ suo
nomine); il proprietario insciens, invece, poteva liberarsi dalla responsabilita’ per l’illecito commesso dal
servo mediante consegna nossale del medesimo alla parte lesa (noxae deditio).
Nella materia penale collegata ai delicta servi, l’inerzia concretata nel non prohibere –
comportamento negativo - veniva assimilata, dunque, al comportamento positivo del permittere, anche in
considerazione del particolare rapporto che legava il proprietario allo schiavo, mero strumento in suo
potere: il proprietario, se voleva, poteva vietare di delinquere, al proprio servo, con assoluta autorita’102.
Ci risulta, al riguardo, l’elaborazione di un principio generale, da parte della giurisprudenza romana
classica (Ulp. D. 47.6.1.1: … Is autem accipitur scire, qui scit et potuit prohibere; scientia enim spectare debemus,
quae habeat et voluntatem). Il silenzio, l’inerzia dell’avente potesta’, il quale, pur sapendo, nulla faceva, non
interveniva, equivaleva alla connivenza, o, addirittura, celava un tacito iussum103. La scientia-patientia
veniva configurata pertanto, dalla giurisprudenza romana “come atto giuridico rilevante e fonte di
obbligazione”104, se il silenzio, l’inerzia, attenevano al rapporto servus-dominus; mentre era irrilevante, e
quindi non dava luogo ad alcuna responsabilita’, la scientia del proposito dell’estraneo di delinquere.
Si e’ gia’ più sopra segnalato come, in sede di ricostruzione storica del tema in esame, sia da
ritenersi inopportuno l’inquadramento di talune antiche ipotesi di silenzio giuridicamente rilevante nelle
ambigue categorie della ‘manifestazione tacita’ e del ‘negozio tacito’, coniate dalla civilistica moderna105.
Risale alla dottrina del XIX secolo la distinzione tra il ‘consenso espresso’ (manifestato a viva
voce, mediate scritti, o segni) dal ‘consenso tacito’, quest’ultimo evidenziabile medianti atti positivi o
negativi106. Fra i primi andrebbe appunto annoverato il silenzio107. In tempi recenti, la tradizionale
distinzione tra dichiarazione espressa e tacita e’ parsa equivoca, ed e stata percio’ sostituita da quella tra
‘dichiarazione’ e ‘manifestazione’108. Tuttavia, l’esame dei testi romani si e’ svolto in un’epoca in cui era
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ancora imperante la prima dicotomia, e cio’ ha dato luogo a non poca confusione, specie nel momento
in cui si e’ tentato di riferire alla categoria della ‘manifestazione tacita’ un certo numero di fattispecie.
L’esclusione del ricorso alla categoria moderna del ‘negozio tacito’ si rende necessaria, dunque,
per gli equivoci che ne potrebbero altrimenti derivare: e infatti, mentre i giuristi romani consideravano
tacito sinonimo di legale109, la scienza giuridica del XIX sec. ha qualificato ‘consenso tacito’ ogni
manifestazione di volonta’, che non sia verbale o scritta e che non sia diretta, ma che si debba indurre
dagli atti o dal contegno dei soggetti, dalla interpretazione del contratto, secondo i peculiari caratteri del
rapporto o dell’istituto, o secondo gli usi e lo spirito delle clausole contrattuali.
Se si vuole rimanere aderenti al dettato delle fonti, occorre tenere presente che i Romani
qualificavano tale ultimo atteggiamento non come ‘consenso tacito’, ma, al contrario, come ‘consenso
fattuale’, consentire re (D. 17.2.4; D. 2.14.2). Dunque, a rigore, le fattispecie riconducibili ad un consentire re
dovrebbero esulare da una trattazione sul silenzio; e cio’ perché la manifestazione re, ‘fattuale’, e’ cosa
ben diversa dal silenzio inteso come ‘inespressione’, inerzia, omissione. Proprio sulla base di questa
considerazione, i Romani riconobbero assai per tempo al ‘consenso fattuale’ (consentire re), in alcuni
istituti, piena rilevanza: l’accettazione del compendio ereditario mediante ‘comportamento da erede’ (pro
herede gestio) fu riconosciuta accanto alla solenne accettazione dell’eredita’ (cretio) e forse addirittura in un
periodo storico anteriore, rispetto alla dichiarazione verbale110.
Altre fattispecie previste dalla giurisprudenza romana, recentemente inquadrate nella figura del
‘negozio tacito’, venivano invece originariamente ricondotte al concetto dell’acquiescenza. Si e’ gia’
constatato che il pati, la patientia, la tolleranza erano concetti e termini ricorrenti nella materia del
silenzio, che spesso denotavano fatti produttivi di effetti, talora in connessione con il decorso del tempo
(come, ad es., in materia di usucapione). Cosi’, in alcuni testi romani la patientia si configurava come
manifestazione di volonta’ cui l’ordinamento riconnetteva determinate conseguenze, sia in base a un
principio soggettivo di ‘responsabilita’’, sia in base a un principio oggettivo di ‘affidamento’: non-dire,
non-fare, equivaleva allora a ‘tollerare’111; sara’ sufficiente, al riguardo, ricordare quanto gia’ esposto in
materia di obbligazioni contratte dai sottoposti a potesta’ altrui e di cd. mandato tacito112. In materia
contrattuale, come ha sottolineato il Bonfante113, fu soprattutto la pratica costante di aggiungere
determinate clausole a far si’ che la presunzione di volonta’ si sostituisse alla volonta’: effetti che
costituivano in origine il prodotto della volonta’ di volta in volta manifestata divennero “conseguenze
legali, naturali o necessarie”114.
Appunto cosi’ emerse, nel diritto romano, la nuova figura del ‘pegno tacito’115, sulla base della
considerazione che la convenzione di pegno potesse ritenersi implicita nell’ambito di determinati
rapporti intercorrenti tra le parti. Si ammise percio’, nel corso dell’eta’ tardo-classica, che il pegno si
costituisse tacitamente in favore del locatore, sui frutti del fondo rustico locato (Pap. D. 20.2.7) e, con
riguardo ai fondi urbani, sulle cose in essi introdotte dall’inquilino (Nerat. D. 20.2.4 pr.); ancora, si
ammise il pignus tacitum sull’edificio ristrutturato, in favore di coloro che avessero prestato le somme
occorrenti per la ricostruzione (Pap. D. 20.2.1 pr.). Puo’ essere interessante notare che la giurisprudenza
classica fece ricorso alla locuzione pignus tacitum per segnalare una sorta di acquiescenza da parte del
controinteressato, il quale non aveva espressamente reietto un requisito negoziale imposto
(dispositivamente) dall’ordinamento (‘naturale negotii’)116.
Nella materia della locazione, ricorrevano i casi della rilocazione tacita e dell’obbligazione del
magazziniere (horrearius). Queste fattispecie sono state prevalentemente catalogate dalla romanistica
moderna come ‘manifestazioni tacite di volonta’’, ma nel senso che l’effetto giuridico che ne conseguiva
veniva desunto dai fatti, re. Si e’ poi anche sostenuto che, nelle due ipotesi appena segnalate, il silenzio
non avrebbe avuto rilievo solo quale ‘comportamento concludente’ (come nell’ipotesi della pro herede
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gestio), perché era l’ordinamento giuridico a ricondurre al silenzio determinate conseguenze (nel
particolare senso che la causa del rinnovo contrattuale di locazione e della nascita dell’obbligazione in
capo al magazziniere era individuabile proprio nel silenzio). Da parte nostra, riteniamo opportuno
chiarire che tale differenza teorica rilevata tra il silenzio nella in iure cessio e il silenzio nella rilocazione
non trova alcun riscontro nelle riflessioni dei giuristi romani; né poteva essere diversamente,
considerato che furono del tutto estranee all’elaborazione giuridica dei Romani tanto la categoria del
‘negozio tacito’, quanto la nozione di ‘manifestazione tacita della volonta’’.
Se si vuole risalire alle concezioni romane, e’ percio’ senz’altro preferibile rispettare l’originario
impianto casistico proposto dagli antichi giureconsulti, limitandosi a segnalare i risultati raggiunti in
quella prospettiva. Il magazziniere (locator horrei) che aveva tollerato il carico di oggetti (oro, argento,
perle), pure anteriormente esclusi nel propositum, diveniva titolare di obbligazione, perché tacendo aveva
acconsentito (Labeo D. 19.2.60.6); e se il vincolo contrattuale di locazione si scioglieva ipso iure quando
il proprietario moriva o usciva di senno, viceversa nell’ipotesi in cui il dominus vivo e sano di mente non
avesse dato disdetta, si verificava in favore del locatario una ‘rilocazione tacita’ (Ulp. D. 19.2.13.11; D.
19.2.14). Ma qui l’efficacia del silenzio risulta variamente limitata: la rilocazione tacita era valida solo per
un anno, anche se il contratto iniziale prevedeva un termine più lungo; inoltre essa era ammessa per i
fondi rustici, mentre veniva esclusa per i fondi urbani117.
Il silenzio in questi casi era, dunque, fonte di obbligazione. Una eco dell’antica impostazione e’
ancora ravvisabile nelle codificazioni dell’eta’ moderna: il Segré118 ha richiamato, a tale riguardo, l’art.
1592 c.c. abr. (art. 1597 c.c. vigente), sostenendo che la rilocazione tacita non consiste in una semplice
proroga del termine, bensi’ in un contratto nuovo, fondato sul silenzio. Quanto alla ratio della disciplina, il
Borgna 119 vi ha visto l’esigenza di chiarire un’ambiguita’ non tollerabile in ambito giuridico, dal
momento che il silenzio potrebbe consentire di speculare a spese altrui: percio’, l’ordinamento assimila
“negli effetti la tolleranza del locatore alla rinunzia al propositum perché egli non possa trarre dal suo
silenzio argomento a difendersi di non aver fatto buona custodia”120. Sul piano, invece, della logica
giuridica, la Goretti121 ha sostenuto che anche in queste fattispecie si e’ di fronte a una ‘domanda
implicita’ cui si risponde con il silenzio. Ma, a ben vedere, nei casi illustrati l’‘antefatto’ risulta molto
poco evidente: sembra rilevarlo anche il Segre’, il quale, configurando la rilocazione tacita come “un
nuovo contratto fondato sul silenzio”122, si ricollega – con riguardo alle due fattispecie qui in esame -
alla tesi del silenzio come consenso (‘silenzio qualificato’).
Frequente, ma poco approfondito da romanisti e civilisti, e’ poi il caso – gia’ segnalato - in cui
l’efficacia del silenzio fosse congiunta con il decorso di un tempo determinato123. La maggiore
incidenza, nella pratica, del rilievo riconosciuto al silenzio col decorso del tempo va senza dubbio
ravvisata nell’istituto dell’usucapione. Gia’ nella legislazione decemvirale, l’uso di un bene da parte di un
paterfamilias che non ne fosse proprietario, congiunto con l’acquiescenza del dominus (usus-auctoritas),
comportava l’acquisto del bene mobile da parte del possessore nel giro di un anno, del bene immobile
dopo il decorso di un biennio (Ulp. Fr. Vat. 19.8: …Usucapio est … dominii adeptio per continuationem
possessionis anni vel biennii: rerum mobilium anni, immobilium biennii) ; mentre, dopo la riforma intervenuta
nella prima meta’ del VI sec. d.C. (CI. 7.31.1, a. 531), l’inerzia del proprietario, congiunta al possesso
altrui, pacifico, ininterrotto, esercitato in buona fede e sorretto da una giusta causa, conduceva
all’acquisto, da parte del possessore, della proprieta’ del bene mobile nell’arco del trennio, del bene
mobile dopo dieci anni (se i soggetti risiedevano nella stessa civitas), dopo venti anni (se risiedevano in
luoghi diversi)124.
di ‘l.t.p.’ fra concezioni dommatiche classiche e prassi postclassica, in BIDR. 35/36 (1993/1994) pp. 146 ss..
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In tema di successioni mortis causa, abbiamo gia’ ricordato come sia stata ricondotta alla figura
della ‘tacita manifestazione di volonta’’ (piuttosto che come mera ipotesi di ‘silenzio’) la pro herede gestio,
cioe’ il comportamento tale da far presumere la volonta’ di accettazione dell’eredita’. In questa
fattispecie e’ pur vero che la volonta’ si manifestava tacitamente, senza espressioni verbali, ma la
volonta’ del soggetto non si deduceva da un atteggiamento inerte e privo di significati: al contrario, la
pro herede gestio consisteva in un comportamento attivo (gestio) e inequivocabile circa la volonta’ di essere
erede, che si traduceva dunque in una volonta’ manifestata ‘tacitamente’, ma re, mediante atti
concludenti.
Ancora in materia successoria, va segnalata l’ipotesi di mancata istituzione, o di mancata
diseredazione espressa, dei diretti discendenti (praeteritio degli heredes sui), da parte del testatore. In diritto
romano si osservava la regola per cui il testamento in cui gli heredes sui non fossero né istituiti, né
espressamente diseredati, doveva essere considerato invalido, con conseguente apertura della
successione legittima. All’atteggiamento omissivo del testatore, dunque, l’ordinamento giuridico
riconnetteva conseguenze ben determinate. Se ne evince che l’ ‘esprimersi’ in ordine alla condizione
giuridica dei sui era un obbligo cui il testatore non si poteva sottrarre (per l’antico principio heredes sui aut
instituendi aut exheredandi sunt). La regola si poneva come un severo richiamo alla responsabilita’ del
testatore nei confronti dei diretti discendenti. La praeteritio del suus costituiva atto illegale, inosservanza
di “un onere di legalita’ attinente alla funzione del testamento”, che era quella di regolare la successione
familiare e quindi anche la condizione giuridica dei sui ”125; percio’, il silenzio, qui equiparato alla
inosservanza di un onere, implicava la sanzione della nullita’ del testamento.
Diversa era pero’ la disciplina prevista per la medesima fattispecie, qualora il testamento venisse
redatto da un militare (testamentum militis)126: la praeteritio degli heredes sui doveva essere interpretata come
volonta’ di diseredazione da parte del testatore e le disposizioni di ultima volonta’ del militare potevano,
per conseguenza, essere considerate valide (CI. 6.21.9:…tacite eum exheredare intellegi…; I. 2.13.6; D.
38.2.12; D. 38.2.47.4; CI. 6.21.10). Le ragioni di questa soluzione opposta, rispetto a quella
precedentemente segnalata, sono da vedersi nel regime giuridico privilegiato di cui godevano i militari in
Roma, e, più specificamente, nel riconoscimento ai militari di testare validamente anche senza le
formalita’ prescritte ai civili. La scarsa conoscenza del diritto da parte dei soldati, nonché l’impossibilita’
di consultare esperti in occasione della redazione del testamento furono probabilmente le cause che
indussero ad attribuire alla praeteritio dei sui da parte dei militari un significato ‘comune’: chi non
istituisce erede qualcuno intende diseredarlo.
generalizzabili alla totalità delle fattispecie prese in considerazione le conclusioni, cui l’A. giunge, circa l’identificazione del
silenzio con una forma di ‘consenso attenuato’.
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dell’intima volizione tra le pieghe di un atteggiamento ‘inerte’128. Non che i Romani non ritrovassero
eventualmente una volonta’ anche in colui che tace: ma gli antichi giureconsulti gia’ distinguevano bene,
al riguardo, l’atteggiamento di chi, pur non esprimendosi verbalmente, o per iscritto, assumeva
atteggiamenti inequivocabili, attraverso il compimento di ‘atti concludenti’ (era proprio questo il senso
della massima consensus facit nuptias, nonché della disciplina della pro herede gestio), dal comportamento del
tutto neutro, inerte, omissivo, di colui il quale non poneva in essere alcun tipo di attivita’ per svelare il
suo volere. Se nel primo caso l’osservazione del contegno del tacens offriva elementi sufficienti per
individuarne la volonta’ con precisione, per quanto concerne la seconda ipotesi la giurisprudenza
romana si limito’ a elaborare una serie di canoni interpretativi, finalizzati ad assegnare al silenzio, in
taluni circoscritti ambiti, una determinata valenza (positiva o negativa); ma cio’, chiaramente, solo in via
presuntiva, perché, ove non vi fossero ‘comportamenti concludenti’, sussisteva pur sempre il rischio di
equivocare sulle reali intenzioni del tacens.