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IL MITO DI DIDONE

Didone è uno dei personaggi che più hanno affascinato i lettori nei secoli.
E' una figura femminile ricorrente nella letteratura sia antica che moderna ed ha ispirato anche pittori e
musicisti.

In Oriente mentre alcune fonti la ritengono una figura storica, altre la considerano la personificazione
della dea punica Tanit.

Fu la fondatrice e prima regina di Cartagine (corrispondente all'odierna Tunisi).

La leggendaria regina fenicia (il nome fenicio era ῾Allīzāh, Elissa, "la gioconda") era figlia del re di Tiro,
Muttone. Dopo che il ricchissimo suo zio e sposo Sicherba (Sicheo) fu per le sue ricchezze ucciso dal
fratello di Didone, Pigmalione, ella fuggì .Probabilmente con lo scopo di evitare la guerra civile, Didone
lasciò Tiro con un largo seguito e cominciò una lunga peregrinazione, le cui tappe principali
furono Cipro e Malta (acquisendo il nome di Διδώ o Δειδώ dal suo lungo errare). Approdata infine sulle
coste libiche Didone ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirsi lì, prendendo tanto terreno «quanto ne
poteva contenere una pelle di bue». Didone , allora, scelse una penisola, tagliò astutamente una pelle di
toro in tante striscioline e le mise in fila, in modo da delimitare quello che sarebbe stato il futuro territorio
della città di Cartagine e riuscì a occupare un area di circa ventidue stadi quadrati (uno stadio equivale a
circa 185,27 m).Fondò così Cartagine e ne divenne regina. L'antico soprannome di Cartagine era Birsa,
che in greco significa "pelle di bue" e in fenicio "rocca".

Il mito di Didone nella sua forma originaria, cioè senza la relazione con Enea (la cronologia canonica ,
infatti, escludeva la possibilità di un suo incontro con Enea), ebbe fortuna per tutta l'antichità
specialmente in Africa.

Secondo una leggenda, Didone sposò in seconde nozze Barca, un fedele seguace di Tiro, il cui nome
potrebbe essere correlato al termine fenicio Barak, che significa "fulmine". Secondo questa versione
quindi, i Barcidi, la famiglia di Annibale Barca, il più famoso e abile condottiero cartaginese e
protagonista della seconda guerra punica, sarebbero discendenti di Didone.

Un'altra versione del mito, invece, narra che durante la propria vedovanza, Didone venne insistentemente
richiesta in moglie dal re Iarba e dai principi dei Numidi, popolazione locale. Secondo le narrazioni più
antiche (ne parla ad esempio Giustino nel III secolo d.C.), dopo aver finto di accettare le nozze, Didone si
uccise con una spada, invocando il nome di Sicheo.

In occidente Timeo (vissuto fra il IV e il III secolo a. C., nativo di Tauromenion, l’odierna Taormina),
con le Storie, in cui narrò anche la lotta fra Roma e Cartagine, che egli riteneva fondate nello stesso anno,
fece conoscere il personaggio di Theiosso o Elissa o Didone, figura del mondo orientale famosa
soprattutto per le qualità di regina e sposa fedele, coraggiosa, forte, abile ed astuta, intelligente e
determinata nel comando.

Gli storiografi romani Ennio e Nevio (quest'ultimo nel Bellum Poenicum , pervenuto a noi solo in
frammenti) rielaborarono il mito orientale di Didone per cercarvi una giustificazione mitica all'origine
delle guerre tra Roma e Cartagine e al presunto "odio atavico" tra i due popoli.

Pertanto il poeta Virgilio non fu il primo a impossessarsi del mito, nonostante la sua versione sia rimasta
nei secoli di gran lunga la più celebre. Ma Virgilio fa di Didone la protagonista di un intero
libro dell'Eneide. Arrichisce il mito orientale di nuovi particolari: Didone, sotto l'influenza di Cupido,
istigato da Venere, alleata di Giunone e malconsigliata anche dalla sorella Anna, si innamora
di Enea giunto naufrago a Cartagine con i suoi seguaci (I e IV libro dell'Eneide). La regina ospita
generosamente i naufraghi e durante un banchetto chiede notizie della caduta della famosa Troia. L'eroe
troiano racconta le vicende vissute a partire dalla fine di Troia e commuove la regina. Durante una caccia,
riparati in una grotta, a causa di un temporale Enea e Didone iniziano un rapporto amoroso. La Fama
diffonde fino a Iarba, re dei Getuli, notizie del loro amore; Iarba, allora, chiede a suo padre Giove
Ammone, di fermare il "Paride effeminato" che insidia la regina, o piuttosto le sue mire su
Cartagine.Tramite Mercurio, Giove impone la nuova partenza ad Enea, che lascia Didone dopo un ultimo
terribile incontro, in cui lei prima lo supplica e poi lo maledice e prevede eterna inimicizia tra i popoli,
con l'arrivo di un "vendicatore" che sorgerà dalle sue ossa (inimicizia che infatti porterà,secondo Virgilio ,
alle guerre puniche tra Roma e Cartagine e alle imprese di Annibale).Infine Didone, sviate con delle scuse
Anna e la nutrice Barce (altro richiamo al cognome di Annibale Barca), si uccide con la stessa spada
che Enea le aveva donato, gettandosi poi nel fuoco di una pira sacrificale. Infine Enea incontrerà di nuovo
la regina nell'Ade, nel bosco del pianto (VI libro), e le dirà del suo sincero dolore per la sua improvvisa
morte; ma l'ombra di Didone non lo guarderà neppure negli occhi e resterà gelida, rifugiandosi poi dal
marito Sicheo, con cui si è ricongiunta nell'oltretomba.

Virgilio si ispira al mito tradizionale, ma rende la regina di Cartagine ancora più complessa. Aggiunge al
mito originario della donna pudica e forte come un uomo (univira), il sentimento dell'amore e l'incontro
con Enea. Trasforma Didone in un personaggio tragico, tormentata dall'amore e vittima delle trame degli
dei e del volere del fato e la inserisce in una storia che si riallaccia al poema omerico dell'Iliade.
Il primo poeta che si confronta con il testo di Virgilio è Ovidio, il quale, nella settima
delle Heroides immagina che Didone abbandonata cerchi, tramite una lettera indirizzata all'amato Enea,
di trattenerlo a Cartagine. La regina cartaginese viene presentata come esempio amoroso ; Ovidio, quindi,
descrive Didone più come donna che come regina ed eroina.
Sicuramente Ovidio reinterpreta il personaggio di Virgilio: la Didone che ci propone è nuova . La regina
ovidiana non è più un eroina tragica, ragiona ancora con la mente offuscata dal dolore, ma è disposta a
tutto pur di mantenere con sé Enea. L'epistola settima comincia da un momento ben preciso del mito e si
inserisce perfettamente nella storia creata da Virgilio: la regina di Cartagine si ritrova sola e abbandonata,
mentre Enea sta ripartendo. Così comincia a scrivergli una lettera. Didone si sente tradita, delusa,
abbandonata da un uomo che è venuto meno alla promessa fatta. I dati che ci fornisce Ovidio e cioè la
gravidanza di Didone, le responsabilità di Enea per la morte di Creusa e il dissenso tra i suoi uomini nel
ripartire subito dall’Africa sono chiari indicatori delle diverse posizioni che il poeta di Sulmona assume
rispetto al suo collega. Mentre Virgilio ritrae un pius Enea, costretto a molte rinunce pur di compiere la
missione affidatagli agli dei di fondare l’impero romano, Ovidio ritrae un uomo perfidus, ingannatore
della vera protagonista, Didone. Infatti se da un lato Virgilio vuole compiacere l’imperatore Augusto e il
popolo romano nel momento in cui si compiva il portentoso progetto della pax augustea, Ovidio si
distacca dall’ambiente della corte e si avvicina al sentimento del più debole per concentrarsi sul mondo
delle donne. In questa lettera dunque si consuma il dolore di Didone per l’abbandono di Enea e Didone
appare a tutti gli effetti più donna che regina. Il mito di Didone rispecchia il pensiero del suo autore e le
sue intenzioni. Alcuni studiosi hanno perciò considerato la VII delle Heroides il primo esempio di
rilettura antieroica dell'Eneide .
Anche Dante si occupa del mito di Didone.
Nella Divina Commedia la colloca nel Canto V dell'Inferno, in compagnia dei celebri Paolo e Francesca,
nella schiera degli spiriti lussuriosi (divisi in due gruppi, a seconda che la loro passione fu bassa e
bestiale o ardente e fatale, tale, quindi, da non contaminare la sostanziale nobiltà del personaggio). Dante
accoglie, quindi, la versione virgiliana del mito e inserisce Didone precisamente nella seconda schiera dei
lussuriosi, tra i “peccator carnali/ che la ragion sommettono al talento” , eternamente trasportati e sferzati
da una violenta bufera, simbolo della bufera dei sensi da cui erano stati travolti in vita. Nel canto Dante
inizialmente non cita per nome Didone, ma la descrive mediante una perifrasi che ne indica i peccati e il
nome del marito («L'altra è colei che s'ancise amorosa, /E ruppe fede al cener di Sicheo»);
successivamente, sempre nello stesso canto, viene nominata esplicitamente da Virgilio («cotali uscir de la
schiera ov'é Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettuoso grido»). Agli occhi di Dante
Didone non merita redenzione perchè, legandosi ad Enea, si rese colpevole del tradimento della memoria
del marito morto Sicheo, tradimento reso ancora più grave dalla circostanza che si tolse la vita una volta
che Enea l'abbandonò per continuare il viaggio indicatogli dagli dèi. E' la decisa condanna che il Poeta fa
dell'amor cortese il quale, attraverso l'idealizzazione e la nobilizzazione letteraria, si traduceva nel
peccato dell'adulterio e della lussuria. Al fatalismo ed alla passività che avevano contraddistinto l'amore-
passione della tradizione precedente, Dante contrappone il libero arbitrio cioè la capacità di scegliere gli
oggetti dell'amore che si è trasformato in amore -virtù.
In seguito il mito di Cartagine e della sua regina è stato recuperato e riletto in chiave cristiana, in pieno
contrasto con la vicenda narrata nel poema virgiliano, recuperando la completa positività della figura di
Didone nel mito orientale.

Tertulliano la presenta addirittura come un esempio precristiano di martirio e di castità.

Anche San Girolamo nell'Adversus Jovinianum, in particolare nel cap. 43 del primo libro
intitolato Viduae gentiles, preferisce esaltare l'immagine di una Didone fedele a Sicheo.
Petrarca e Boccaccio si riallacciano a tale rielaborazione del mito “cristiano” della regina fenicia e la
dipingono anche loro come una casta vedova.
Il Petrarca fu tra i primi a respingere la versione virgiliana del mito e a restituire a Didone la virtù
della fedeltà. Nel Triumphus Pudicitie, infatti, Laura sottrae Didone alla schiera dei prigionieri di Amore,
perché lei in realtà volle morire per rimanere fedele al ricordo del marito.

Diverso e in evoluzione è l'atteggiamento di Boccaccio nei confronti dell'eroina: nelle opere giovanili
Didone appare come l'esempio patetico di una tragica figura di amante . Nell' Amorosa visione, invece, il
Boccaccio addirittura modifica la scena del suicidio: la donna non si trafigge su di un rogo, ma sul letto
nel quale aveva dormito con l 'uomo amato. In seguito Boccaccio si avvicina all'interpretazione data dai
padri della Chiesa e da Petrarca, e Didone diventa il simbolo della castità, “emblema del valore morale -in
senso cristiano- della letteratura degli antichi”, soprattutto nelle opere in latino, che conobbero un
successo immenso. Nel capitolo 42 del De mulieribus claris, Boccaccio narra dettagliatamente l'intera
vicenda di Didone, dalla morte di Sicheo alla partenza fino all'approdo in Libia. Ma la sua Didone, una
volta incontrato Enea, preferisce la morte alla perdita della sua castità. Da qui il consiglio alle donne,
specialmente vedove, di mantenere la propria castità imitando non tanto la scelta estrema di Didone
quanto la fedeltà ai suoi valori, che prefigurano quelli cristiani. Boccaccio riprende, nel racconto, gli
elementi delle due tradizioni, cartaginese e virgiliana, ma legge poi la morte della donna con finalità
cristiane. In altre parole, viene qui presentata una summa del percorso culturale tra Tarda Antichità e
Umanesimo che interpreta Didone soprattutto come regina casta, senza dimenticare però la presenza di
Virgilio.

Anche nel suo lavoro del 1405, Livre de la Cité des Dames, in cui tratteggiò una visionaria città abitata
solo da donne (regine, sante, martiri, guerriere, poetesse, indovine) guidate da Ragione, Rettitudine e
Giustizia, Christine de Pizan ne sottolineò l’aspetto regale e politico del mito, parlando di Didone
proprio in relazione alle sue qualità di regina, esaltando la “prudenza e accortezza”.

Nel Cinquecento si assiste a una generale rinascita del mito della visione virgiliana di Didone.

Una delle prime tragedie moderne in volgare si intitola Dido in Cartagine (1524) ed è stata scritta da
Alessandro Pazzi de' Medici.

Di seguito ci sono state tantissime tragedie, in varie lingue europee, che hanno messo in scena il mito di
Didone. Tra queste spicca The Tragedy of Dido, Queen of Carthage, scritta probabilmente nel 1586 per
una compagnia di bambini da Christopher Marlowe. Il tragediografo riscrive il modello del mito
presentato da Virgilio, rielaborando il personaggio di Didone così come presentato da Ovidio.

Ma è grazie alla fama del poema virgiliano, che l'immagine di Didone quale donna abbandonata che si
toglie la vita per amore è così spesso tramandata, anche in pittura: basti pensare al dipinto La morte di
Didone, realizzata dal Guercino nel 1631, che fotografa proprio l’episodio narrato nel IV libro
dell’'Eneide: fallito ogni tentativo di convincere Enea a non partire, quando dall’alto della rocca vede le
navi dei Troiani che già sono lontane sul mare, dsperata, Didone, con la spada donatagli da Enea, si
trafigge sul rogo che, precedentemente, ha fatto preparare dalla sorella Anna .La rappresentazione
pittorica del Guercino, coglie proprio l’attimo in cui, mentre sullo sfondo si allontanano le navi troiane,
ed il dio dell’Amore, Cupido, si allontana in volo, Didone morente , circondata dalle ancelle, con la
spada conficcata nel petto, cerca con lo sguardo quello della sorella che le è accanto sgomenta.

Anche la musica ha conosciuto e celebrato il mito di Didone.

All'incirca due secoli più tardi, la vicenda di Didone dà inizio alla rivoluzione del melodramma moderno
con la Didone abbandonata (1724) di Pietro Metastasio. Anche in precedenza il dramma della regina
cartaginese era stato messo in musica: un esempio su tutti è il capolavoro di Henry Purcell Dido and
Aeneas (1689). Ma il testo di Metastasio, che ebbe una fortuna immensa e fu musicato da numerosi
musicisti, è particolarmente rappresentativo della cultura Settecentesca. Il poeta ridimensiona l'aspetto
troppo spettacolare delle opere del seicento e, riproponendo il culto dei classici, ricerca uno sviluppo
della trama chiaro e logico, puntando sulla psicologia dei personaggi propria del suo tempo.

Il mito della donna abbandonata, di cui Didone rappresenta la figura più interessante, ha viaggiato
nella letteratura fino all'età moderna .
Il testo in cui Giuseppe Ungaretti parla del mito di Didone è costituito da 19 frammenti . Il titolo, Cori
descrittivi di stati d'animo di Didone sembra un richiamo alla struttura della tragedia greca. In questi
versi viene descritto il dolore della regina abbandonata e disperata nella sua solitudine, piena di vergogna
ma ancora immersa nei ricordi di un tempo felice. Il mito di Didone rappresenta il simbolo
dell'abbandono della giovinezza ed in particolare di quella giovinezza passata in Egitto da Ungaretti
stesso. Didone è una delle voci che Enea sente al suo arrivo nella tanto agognata Italia. La regina
cartaginese diventa un’allegoria del doloroso distacco dalla giovinezza, memoria vivente di un passato
glorioso lontano e irraggiungibile.

Più di recente anche Iosif Brodskij riscrive il mito di Didone ed in particolare si concentra sul momento
dell'abbandono. La sua poesia descrive un uomo e una donna, senza nome se non fosse per il
titolo Didone ed Enea. L'uomo guarda fuori dalla finestra in un atteggiamento che simboleggia il
desiderio di partire e l'amore della donna è descritto con metafore marine che alludono al futuro viaggio
per mare dell'amato. Alla fine il rogo su cui muore la regina e la caduta tra le fiamme di Cartagine si
uniscono in un'unica immagine.
Entrambi gli autori dimostrano come nel Novecento il mito di Didone abbia assunto una dimensione
“quotidiana”, con l'intenzione evidente di utilizzare la figura mitologica per rappresentare il dolore di
ciascun essere umano.

Ma se nei secoli il mito di Didone ha avuto diverse letture, il suo nucleo centrale è rimasto sempre
rappresentato da tre elementi fondamentali quali amore, abbandono e morte. Questi tre elementi sono
stati ricomposti in modi diversi nelle diverse epoche, creando variazioni più o meno famose del mito di
Didone . Infatti Didone non è un solo mito, ma tanti miti quante sono state le diverse interpretazioni che
nel corso dei secoli le sono state date: da principessa fenicia, sovrana cartaginese e sposa devota a
barbara, straniera, fascinatrice sensuale al pari di Medea, amante appassionata di Enea sacrificata in
nome della futura grandezza di Roma, persino donna fatua e leggera, al punto da accettare, infine, l’amore
di Iarba (nella rivisitazione del 1641 di Giovanni Francesco Busenello).

Sicuramente con una differenza precisa: nel mondo orientale Didone è stata protagonista assoluta con un
destino regale (etimologicamente Elissa deriva da ‘el-‘issa, dio-donna, ed anche Theiosso, altro nome
con il quale è chiamata Didone, deriva da theós, dio, sia per ricordare il suo sacrificio, sia perchè il potere
politico era una sorta d’investitura divina, giacché il sovrano incarnava la volontà superiore). Il suo è stato
un destino anche eroico, per molti aspetti simile a quello di Enea: la perdita della patria, la fuga, la ricerca
di una città da fondare. Infatti anche il nome di Didone sarebbe da collegare alla radice semitica NND,
“fuggire” e significherebbe “l’errante”. E' una figura intelligente, volitiva, forte, decisa, che non esita a
salpare con i propri sudditi fedeli verso una terra ignota, astuta (ricorda l’astuzia dell' Ulisse omerico
quando escogita l’espediente del taglio della pelle di bue per sottrarre maggior quantità di terra) e che
riesce ad imporsi su tutte le avversità.

Quando, però, questo mito entra nella cultura occidentale e si lega al ciclo omerico, la figura di Didone
si trasforma e comincia ad essere considerata sempre più esclusivamente come donna, incarnando nei
vari secoli prima l’amore-passione, poi, con una interpretazione “cristiana”, l'amore che sacrifica se
stesso ed, infine, le sofferenze umane.

In ogni caso Didone è stata ed è un personaggio decisamente originale, che ha riassunto in sé tutte le
grandi eroine classiche, ma anche un mito complesso e altamente drammatico e, per questo motivo, unico
e sempre attuale.

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