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DAMMI MILLE BACI

VERI UOMINI E VERE DONNE NELL'ANTICA ROMA


DI EVA CANTARELLA

Enea e Didone
Grazie all’inganno del cavallo, i greci, dopo dieci anni di assedio, espugnano Troia. La città è in
fiamme, gli uomini vengono trucidati, le donne violentate e fatte prigioniere. La città sembra
destinata alla distruzione e all’oblio. Ma Poseidone fa una profezia: Enea non morirà, perché è
destinato a perpetuare la stirpe dei troiani. Ed ecco infatti Enea fortunosamente abbandonare la
patria alla ricerca del luogo dove potrà fondare una nuova città, portando con sé il figlioletto
Ascanio e il vecchio padre Anchise che l’eroe, in un celebre gruppo scultoreo, carica sulle spalle.
È la preistoria di Roma, la città fondata dai discendenti di Enea. Una lunga preistoria, che Virgilio
racconta nell’Eneide. Augusto gli ha chiesto di scrivere un poema per celebrare la grandezza eterna
della sua città, e la leggenda delle origini troiane è perfetta allo scopo. Il capostipite dei romani non
è solo un grande eroe: è figlio di Venere. Così voleva il mito.
Inutile, qui, soffermarci sulle infinite avventure di Enea: ma una di esse, quella sì, è importante ai
nostri fini.
Sbattuto da una tempesta sulle coste africane, Enea incontra una giovane donna, Didone, regina di
Cartagine. Vedova e sola da tempo, Didone ha rifiutato tutti i pretendenti alla sua mano. Ma appena
vede Enea se ne innamora, e dopo averlo invitato a fermarsi alla reggia, al termine di una battuta di
caccia – complice un temporale che li costringe a cercare rifugio in una grotta – si unisce a lui in un
vincolo d’amore che, ella crede, durerà per sempre.
“Quel giorno fu il primo passo verso la morte,” scrive Virgilio. Parla di Didone, ovviamente, che
per quell’amore morirà. Non di Enea, che sopravvivrà più che brillantemente.
Dopo la notte d’amore, Didone “non cura la fama, non pensa, ormai, a un amore furtivo: ‘nozze’ le
chiama, nasconde con questo nome la colpa”. L’amore, insomma, fa dimenticare alla regina la
necessità di non compromettersi, con le inevitabili conseguenze. E infatti, racconta Virgilio, “subito
la fama va per le grandi città d’Africa/ la fama di cui nessun’altra peste è più rapida/... piccola
prima e timida: ma già s’alza per l’aria/ e cammina al suolo, e il capo ha già tra le nuvole”.
Tutti parlano, ormai, della storia d’amore tra la regina e l’eroe troiano, che “ora in lussuria l’inverno
quanto è lungo godevano/ dei loro regni immemori, presi da turpe passione”. Enea, infatti, ricambia
con ardore il sentimento che ha destato e ha dimenticato la propria missione. Sino al giorno in cui,
inevitabilmente, Giove invia Mercurio a ricordargli il suo dovere.
Riacquistati lucidità e controllo, Enea si rende conto della insostenibile vergogna della situazione:
lui, l’eroe destinato a perpetuare il sangue troiano, ridotto a essere “schiavo di donna”. La decisione
è immediata: riprenderà la via del mare. Subito, senza attendere un solo istante. Ma come dirlo a
Didone, come spiegarglielo? Enea sceglie un metodo a dir la verità non molto originale: metterà
Didone di fronte al fatto compiuto. Antesignano – nelle sue speranze – degli innumerevoli uomini
che, nei secoli, usciranno di casa per andare a comprare le sigarette e non faranno mai ritorno, Enea
è pronto a salpare. Didone però intuisce il tradimento, lo affronta, lo scongiura:
Speravi anche, spergiuro, di potermi nasconder
tanta empietà? Senza parola dalla mia terra partire?
...ti prego,
se posto c’è ancor per le suppliche, smetti questo pensiero!
...Se un figlio, se almeno un figlio da te avessi avuto
prima della tua fuga, che pur avesse il tuo viso
non del tutto delusa, non tradita sarei!
Enea è inflessibile. Ti ricorderò sempre, le dice – anche se tiene a precisare di non averle mai
promesso di sposarla – ma il dovere mi impone di cercare una nuova patria.
Didone, in preda a incontrollabile furore, lo insulta, lo maledice e se ne va “lasciandolo lì
esterrefatto, bramoso di dirle – adesso – molte parole”.
“Adesso” vorrebbe, il pio Enea, consolare il dolore dell’amante ed esprimere il proprio. Pentimento
tardivo. Didone è già fuggita, lontano da lui.
Enea parte, lascia Cartagine per sempre. Didone dà ordine di raccogliere in una catasta tutto quello
che egli ha lasciato, dalle armi alle vesti, al letto nuziale... Tutti i ricordi del traditore, non uno
escluso, devono bruciare in una pira, sulla quale lei stessa si immolerà.
Superfluo insistere sul diverso valore dell’amore per i due protagonisti: per Enea, un’avventura
extraconiugale, riprovevole solo in quanto lo ha distolto troppo a lungo dal proprio dovere; per il
resto, tutto nella regola. Da che mondo era mondo, tutti gli eroi si erano permessi qualche
distrazione: forse che Ulisse non aveva ceduto alla seduzione di Calipso o di Circe? Il destino delle
amanti era, per tradizione, quello di essere abbandonate.
Per Didone, invece, l’amore era la vita stessa. Siamo di fronte a quello che diventerà uno stereotipo
delle storie d’amore: le donne sacrificano la reputazione, dimenticano il dovere... per loro, l’amore è
più forte di qualsiasi cosa. Gli uomini no. Possono dimenticare tutto, ma solo provvisoriamente: se
posti di fronte all’alternativa, scelgono la gloria, la considerazione sociale, scelgono il dovere.
Gli uomini controllano i sentimenti. Anche se – così dice Enea – ricorderanno sempre la donna
amata, la sacrificano in nome di ideali più alti (o di convenienze o interessi più forti).

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