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I presupposti ontologici nella teoria della percezione di Searle

Introduzione

Nella sua ultima opera, Vedere le cose come sono1, John Searle tenta di dare una
compiuta spiegazione del Realismo diretto, la tesi secondo cui – come suggerisce il
titolo – siamo naturalmente in grado di percepire gli oggetti del mondo come essi
sono nella realtà. Il fatto che il proponimento suoni tra l’ovvio e il paradossale è un
ottimo esempio della peculiarità dell’indagine filosofica; ciò che pone le maggiori
difficolta teoretiche è proprio ciò che, nel vivere quotidiano, diamo talmente per
scontato che a prima vista risulta sciocco porlo in discussione. Una volta, però, che la
questione si sia posta, quello che sembrava incontrovertibile e banale diventa
improvvisamente incerto e degno della massima attenzione. Per tale ragione, quasi a
corollario di essa, più la tesi tenta di difendere il senso comune più gli argomenti
rischiano di apparire ovvi e poco rilevanti. Nel testo di Searle molti passaggi possono
indurre il lettore in questo errore. Scopo del presente lavoro è porre in luce i
presupposti ontologici che, anche se non sempre manifesti, si possono dedurre dalle
argomentazioni del filosofo statunitense. Inizieremo, quindi, esponendo l’analisi del
Cattivo argomento proposta da Searle, mettendo in luce come aspetti trattati
esclusivamente da una prospettiva epistemologica rivelino temi ontologici. In seguito,
tratteremo l’ipotesi avanzata dall’autore riguardo la soluzione del problema
concernente il modo in cui la fenomenologia riesca a fissare determinate condizioni di
soddisfazione in occorenza di un campo visivo oggettivo dato. Una volta chiarito ciò
– grazie anche ad assunti ontologici premessi all’argomentazione – approfondiremo
la concezione ontologica dell’autore riguardo al rapporto tra gli stati mentali, la
coscienza in particolare, e il sostrato biologico in cui si realizzano.


1 J. Searle, Vedere le cose come sono, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016.

1
1. Il Cattivo argomento

Fin dalle prime pagine del testo, Searle riserva grande spazio alle tesi sulla
percezione divergenti rispetto al Realismo diretto. Inizia quindi dall’osservazione di
carattere storico che, almeno da Descartes in poi, molte correnti filosofiche sono
raggruppabili sotto la categoria che chiama del Dualismo concettuale. Pur distanti tra
loro, esse condividerebbero, nella lettura data da Searle, lo stesso errore
epistemologico, ovvero «supporre che noi non percepiamo mai direttamente gli
oggetti e gli stati di cose del mondo, ma percepiamo direttamente soltanto le nostre
esperienze soggettive.»2 Prima però di entrare nel merito dell’argomento, occorre
precisare, sinteticamente, alcuni concetti chiave nella trattazione di Searle:

- Intenzionalità: «caratteristica per mezzo della quale la mente è diretta o verte


su oggetti e stati di cose del mondo. L’intenzionalità è, soprattutto, un
fenomeno biologico comune agli esseri umani e ad altri animali» 3 . Non
bisogna dunque confonderla con l’uso comune del termine “intenzione”, nel
senso di “ho intenzione di”.

- Contenuto e oggetto intenzionale: il primo si riferisce a ciò che è determinato


dall’esperienza visiva e ha consistenza ontologica solo soggettiva. Il secondo,
invece, è ontologicamente oggettivo, appartiene alla realtà extra-mentale.

- Condizioni di soddisfazione: sono i requisiti, determinati dal contenuto


intenzionale, tramite i quali è possibile verificare il successo o meno degli stati
intenzionali. Se vedo un libro su un tavolo, la condizione di soddisfazione è
che ci sia una realtà oggettiva corrispondente al contenuto. Nel caso in cui ciò
non corrisponda – come nell’allucinazione – le condizioni di soddisfazione
non saranno soddisfatte.

- Ontologicamente oggettivo/soggettivo: se un ente esiste indipendentemente


dall’essere percepito è ontologicamente oggettivo. Se, al contrario, esiste solo
in quanto esperito, è ontologicamente soggettivo.

Nello svolgimento del Cattivo argomento4, condotto dal punto di vista della prima
persona, il passaggio fondamentale viene individuato da Searle nel terzo punto: «sia
nel caso della percezione veridica sia in quello dell’allucinazione abbiamo
consapevolezza di qualcosa (abbiamo coscienza di qualcosa, vediamo qualcosa)». La
fallacia consisterebbe nell’ambiguità dell’enunciato “avere consapevolezza di”: esso
può avere il senso sia della “consapevolezza di” propria dell’intenzionalità – che verte

2
J. R. Searle, Vedere le cose come sono, op. cit., p. 14.
3
Ivi, p. 37.
4
Ivi, pp. 25-26. In queste pagine l’argomento è riportato in tutti i suoi passaggi.

2
su un oggetto – sia della “consapevolezza di” dell’esperienza soggettiva – il cui
riferimento è l’esperienza percettiva stessa. Questo significa, nel caso
dell’allucinazione, che l’espressione “consapevolezza di” non può essere utilizzata nel
primo senso, quello intenzionale, mancando un riferimento ontologicamente oggettivo
che soddisfi le condizioni poste dall’esperienza percettiva. A riprova di ciò, Searle
rimarca che la semantica dei due significati dell’espressione è differente:

Considerate degli enunciati del genere: “Il soggetto S ha una consapevolezza C dell’oggetto O”. Nel
senso dell’intenzionalità, ciò ha la conseguenza che C non è identica a O. C ≠ O. Nel senso
dell’intenzionalità, C [nel testo appare “A”, ma è chiaramente un refuso, n. d. r.] è un evento
ontologicamente soggettivo che ha l’esistenza e le caratteristiche di O come proprie condizioni di
soddisfazione. Nel senso della costituzione o dell’identità, invece, C è identica a O. La cosa di cui si ha
“consapevolezza di” è la consapevolezza stessa (C = O).5

Bisogna notare fin da subito che, in realtà, Searle non rispetta la condizione di
svolgimento dell’argomento, ovvero che il punto di vista debba essere quello della
prima persona. Al contrario, nell’analisi semantica degli enunciati il soggetto S è in
terza persona. Da questa nuova prospettiva è facile accorgersi della differenza tra le
due esperienze, così come nella realtà possiamo distinguere tra chi ha, di uno stesso
oggetto, una percezione veridica e chi invece un’allucinazione; i dubbi possono
insorgere solo mettendo in questione ciò che io sto esperendo, tornando quindi a una
prospettiva della prima persona. In altri termini, svolgere l’argomento senza
rispettarne l’opportuno punto di vista equivale, se non a non svolgerlo, a ribadire che
illusione e percezione veridica sono esperienze differenti. Bisogna inoltre tenere
sempre presente – come giustamente sottolinea anche Searle – che la “consapevolezza
C” è in entrambi i casi ontologicamente soggettiva, per cui la prospettiva della terza
persona è necessariamente meno precipua alla rappresentazione dell’argomento. Se,
quindi, proviamo a svolgere la semantica dei due casi mantenendo il punto di vista
della prima persona, gli enunciati diventano identici: “Ho una consapevolezza C
dell’oggetto O”. Sia che abbia un’esperienza percettiva veridica (C ≠ O) sia che abbia
un’allucinazione (C = O), non avrò modo di affermare con certezza in quale dei due
casi mi trovi, almeno finché non possa comparare le due esperienze. Nelle nostre
esperienze quotidiane, questo è facilmente riscontrabile se pensiamo all’esperienza
del sogno. In che modo posso essere certo di non stare sognando? Semplicemente,
perché abbiamo piena evidenza della differenza che intercorre tra le due esperienze,
tanto che il porre in questione la realtà del sogno durante il sogno stesso è sufficiente
a svelarne l’illusione e a prendere coscienza della natura dell’esperienza. Il dubbio è,
quindi, esercitabile soltanto nei termini di un raffronto tra esperienze veridiche e stati
onirici, in cui le prime sono necessarie per l’esistenza delle seconde, e non viceversa.
Analogamente, se sono in preda ad un’allucinazione – come credere di vedere un’oasi
in mezzo al deserto al posto della sabbia – essa, nel momento in cui termina, si rivela
per ciò che è. Anche in questo caso è il confronto tra le due esperienze a permettere di
discernere ciò che è veridico da ciò che non lo è: la percezione dell’oasi era falsa
perché ciò che ora percepisco è veridico. Risulterebbe, invece, assurdo arrivare alla

5
Ivi, p. 29.

3
conclusione speculare e contraria, che l’oasi sia la realtà e che la sabbia sia
l’allucinazione. Questo punto, pur nella sua semplicità, mette in luce un aspetto del
Cattivo argomento che esula dal carattere esclusivamente epistemologico con cui
viene trattato da Searle. La domanda sottesa, infatti, riguarda la possibilità che
qualcosa esista, presupposto teoreticamente fondante per ogni epistemologia, la quale
implica sempre, anche solo come ipotesi, una qualche nozione ontologica. Ciò è
evidente in Descartes – indicato da Searle come il padre spirirtuale del Dualismo
concettuale moderno – dove il culmine del dubbio metodico sfocia nell’intuizione
dell’ergo sum, preminente rispetto a ogni pensare: «intendo con grande chiarezza che
per pensare bisogna essere»6, in grado di garantire l’esistenza della res cogitans ma
non di quella extensa, da cui quindi il Dualismo ontologico ed epistemologico. Questo
non significa che ogni discorso epistemologico (o critico) sia in realtà esclusivamente
ontologico. I due aspetti, dal punto di vista dell’indagine, sono sempre compresenti.
Nota a riguardo Alessi:

Esiste, dunque, almeno nelle fasi iniziali, una reale concrescita del momento critico e di quello
metafisico. Infatti, la validità del conoscere non può essere garantita se non nell’atto in cui attinge
concretamente l’esistente nella sua oggettività di essere. Reciprocamente, l’«essere come tale» non può
diventare oggetto d’indagine scientifica (e, dunque, fondata) se non nella misura in cui il pensiero,
attingendolo, si rende conto della portata oggettiva delle sue capacità conoscitive.7

Il passo ci permette di vedere come, nell’analisi di Searle, il Cattivo argomento venga


trattato nei termini epistemologici, quindi della terza persona, quando invece esso è
un’istanza critico-ontologica8, la quale non può che essere condotta nella prospettiva
ontologica soggettiva della prima persona. Il momento critico è proprio l’istanza che
cerca di fondare razionalmente – quindi ontologicamente – il passaggio
all’epistemologia. Da quanto appena detto non si vuole suggerire che le conclusioni
cui perviene il Cattivo argomento siano inopinabili, anzi; sia che si voglia sostenere
una qualche forma di epistemologia derivata dallo scetticismo dell’argomento, sia
che, al contrario, lo si consideri fallace, è teoreticamente necessario passare per
un’analisi ontologica che giustifichi una delle due tesi. Più nel particolare, l’analisi
deve chiarire i termini coinvolti nell’analisi epistemica: soggetto conoscente e oggetto
conosciuto. Tornando al testo di Searle riportato sopra, un’analisi simile è in realtà
presente – e non potrebbe non esserlo – anche se non sviluppata apertamente, il che
comporta non poche difficoltà interpretative. La fallacia del Cattivo argomento, lo
ricordiamo, risiede nell’ambiguità dell’espressione “consapevolezza di”, ambiguità
che “sorge perché c’è un fenomeno in comune sia all’allucinazione sia alla percezione


6
R. Descartes, Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, 2 voll., UTET, Torino 1994, Meditazioni filosofiche, § 5,
rr. 28-29.
7
A. Alessi, Sui sentieri della verità, LAS, Roma 2003, p. 65. In nota al passo riportato, l’autore specifica: «Si
potrebbe anche dire che, nel suo momento fondante, la «critica esplicita» (o in actu signato) coinvolge
un’«ontologia implicita» (o in actu exercitio), così come l’«ontologia esplicita» (o in actu signato) comporta una
«critica implicita» (o in actu exercitio)», ibidem, nota 77.
8
Una conferma indiretta del travisamento di Searle sulle istanze critiche della modernità ci viene data da M.
Heidegger che, in riferimento a Kant, afferma: «l’intento della Critica della ragion pura resta quindi
fondamentalmente misconosciuto, qualora si interpreti quest’opera come “teoria dell’esperienza” o addirittura
come teoria delle scienze positive. La critica della ragion pura non ha nulla a che fare con una “teoria della
conoscenza”», in M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Bari 1985, p. 24.

4
veridica” 9 , che è appunto il contenuto intenzionale delle due esperienze.
Apparentemente, questa affermazione è auto-contraddittoria, in quanto C è allo stesso
tempo comune ai due casi e differente nei significati che le si attribuiscono. Il vero
fattore che permette di sciogliere l’ambiguità è la presenza o meno dell’oggetto
conosciuto, in grado, quindi, d’informare il senso che si attribuisce a C secondo
“l’esistenza e le caratteristiche” proprie dell’oggetto, cioè le condizioni di
soddisfazione della percezione. Questo ragionamento non è, viene da chiedersi, un
perfetto esempio di petitio principii? Se il punto del dubbio scettico, inteso nella sua
valenza ontologica, è l’impossibilità di dimostrare che qualcosa esista piuttosto che il
nulla, allora assumere l’esistenza dell’oggetto come garanzia di non-ambiguità reale
della conoscenza non può fungere da “premessa” al ragionamento. Si consideri inoltre
quanto dice Searle riguardo a una delle caratteristiche dell’intenzionalità percettiva, l’
“indicalità”:

Tutte le esperienze hanno lo stesso contenuto intenzionale formale. Questo sta accadendo qui e ora o
questo oggetto con queste proprietà esiste qui e ora. […] Notate che questo punto è valido anche nel
caso in cui io sappia che le condizioni di soddisfazione non sono soddisfatte. Guardo una stella e so che
ha smesso di esistere milioni di anni fa, cionondimeno la sto vedendo come se stesse splendendo qui,
ora. L’espressione “vedere come se” è il segnale del contenuto intenzionale poiché fissa le condizioni
di soddisfazione.10

Il passo conferma che ciò che hanno in comune percezioni veridiche e fallaci sia il
contenuto intenzionale, inteso quindi nel suo carattere formale “indicale”. Se però
esso assume, come sembra dal testo, il valore di un’affermazione d’esistenza
dell’oggetto, il problema della possibilità di verificarne l’esistenza reale sembra
insolubile, a maggior ragione se si esclude – come fa Searle esplicitamente11 – che a
ogni contenuto intenzionale corrisponda un oggetto. Questo almeno se si affronta la
percezione a partire dal soggetto conoscente, cercando da esso una via per
l’incontrovertibile presa della realtà. Searle, invece, dichiara che il suo tentativo è
precisamente l’inverso: «Dobbiamo percorrere la strada inversa, procedendo dal
mondo al contenuto intenzionale»12. Questa sorta di contro-rivoluzione copernicana
ha nel concetto di causalità intenzionale il perno attorno cui ruota.

2. La causalità intenzionale

I due capitoli centrali di Vedere le cose come sono – teoreticamente i più importanti –
sono il tentativo di rispondere alla seguente domanda: «Quale fatto concernente la
fenomenologia della vostra esperienza visiva corrente fa necessariamente sì che, se
voi avvertite quella fenomenologia, vi sembrerà di stare vedendo qualcosa di


9
J. Searle, Vedere le cose come sono, op. cit., p. 29.
10
Ivi, pp. 71-72.
11 Ivi, p. 31.
12 Ivi, p. 110.

5
rosso?»13. È importante tenere a mente che nel campo visivo soggettivo letteralmente
non si vede nulla; esso presenta intenzionalmente ciò che sussiste e accade nel campo
visivo oggettivo. Il carattere di necessità va riferito, dunque, al modo in cui la
fenomenologia fissa le condizioni di soddisfazione in occorrenza di una determinata
realtà. La domanda, quindi, viene riformulata così da Searle: «In che modo
caratteristiche specifiche del campo visivo ontologicamente soggettivo presentano
caratteristiche del campo visivo oggettivo come proprie condizione di
14
soddisfazione?» . Tradizionalmente, osserva Searle, sono state date due risposte, la
somiglianza e la causalità. Per quanto riguarda la prima, risulta insufficiente
innanzitutto perché cade nel Cattivo argomento, presumendo che esista una sorta
d’immagine mentale che rappresenti l’oggetto esterno grazie alla similarità. Inoltre –
anche prescindendo dal Cattivo argomento – le somiglianze «non hanno alcun tipo di
potere esplicativo. Il fatto che vi siano due entità somiglianti non rende l’una
rappresentazione dell’altra»15. Anche la causazione di per sé stessa – continua Searle
– non è esplicativa, dato che, almeno in linea teorica, non si può escludere che
qualsiasi cosa ne causi un’altra. Infatti, supponendo di provare la sensazione di dolore
ogni volta che si vede qualcosa di rosso, non si potrebbe comunque inferire che la
rossezza sia condizione di soddisfazione della sensazione provata. Più in particolare,
la causazione non è esplicativa perché non giustifica la connessione tra
fenomenologia e realtà oggettiva dal punto di vista della prima persona, quindi
dell’esperienza percettiva, ma si limita a riferire che di fronte a un oggetto rosso ho
un’esperienza della rossezza. Quello che invece si deve ricercare è «quale fatto circa
l’esperienza soggettiva in prima persona faccia sì che essa sia necessariamente una
presentazione di un oggetto rosso»16, pur ammettendo però, poche righe dopo, che il
fatto non-intenzionale che fissa le condizioni di soddisfazione non possa essere
necessario, sia perché si possono avere accessi sensoriali differenti a uno stesso
oggetto, sia perché non si possono escludere casi di allucinazione, in cui l’oggetto è
assente. Ciò nonostante, Searle arriva a formulare la sua ipotesi:

La spiegazione del modo in cui le caratteristiche qualitative dell’esperienza visiva presentano le


condizioni di soddisfazione che effettivamente presentano, nel caso delle caratteristiche di base, è che
tra le proprietà di essere F e la proprietà di essere in grado di causare un certo tipo di esperienza vi è
una relazione sistematica. Nel discorso ordinario, quell’esperienza sarebbe descritta come “sembrare
F”. Ma sembrare F non risolverà il nostro problema, poiché sembrare F normalmente significa
sembrare di essere F. Voi comprendete “sembrare F” solo se comprendete “essere F”.17

La causalità assume, quindi, un carattere presentazionale intenzionale: l’essere F di


una realtà oggettiva viene definito come la sua capacità di causare una determinata
esperienza, e, allo stesso tempo, di essere esperito come la causa dell’esperienza.
Rispetto alla causalità ordinaria – che pone in relazione tra loro eventi discreti –


13 Ivi, p. 107.
14 Ivi, pp. 125-126.
15 Ibidem.
16 Ivi, p. 128.
17 Ivi, p. 129.

6
quella intenzionale costituisce un nesso interno tra l’essere degli oggetti e il loro
apparire, inteso come ciò che viene percepito. Subito dopo aver esposto i risultati
della sua analisi, Searle si affretta a precisare che assumere l’oggetto come ciò che
causa l’esperienza sia dovuto alla nostra disposizione di Sfondo18, biologicamente
data. Quello che ci preme sottolineare ai fini del nostro discorso, è perché Searle
debba introdurre questa clausola biologica, estendendola nella sua operatività a tutta
la sfera coscienziale. Infatti:

Stiamo assumendo che l’animale abbia un’intenzionalità cosciente come qualcosa di biologicamente
dato, esattamente nello stesso modo in cui esso ha una sete e una fame coscienti come forme biologiche
di intenzionalità. La domanda è: in che modo l’intenzionalità percettiva riceve il proprio contenuto?19

Il presupposto biologico assunto da Searle ha una doppia portata: permette di dare per
certa l’intenzionalità del soggetto e, insieme, di caratterizzare l’oggetto come ciò che
causa intenzionalmente l’esperienza. In questo modo la domanda è circoscrivibile
entro dei termini descrittivi – nel senso che non hanno bisogno di nessun apporto
teorico che a loro volta li giustifichi – e, al contempo, permette di caratterizzare
l’intenzionalità in termini non-intenzionali. La domanda sopra riportata può, quindi,
essere riformulata in modo più esplicito rispetto ai loro assunti: posto che (1)
l’intenzionalità e la coscienza sono biologicamente date e che (2) esperire l’oggetto
come causa intenzionale è una disposizione di Sfondo biologicamente data, in che
modo l’intenzionalità percettiva riceve il proprio contenuto? La strada inversa diviene
così percorribile, essendo l’oggetto ontologicamente circoscritto, in sé stesso, a ciò
che è per il soggetto conoscente. A testimonianza della riduzione dell’ambito su cui
verte il domandare, si deve notare che Searle formula la questione tramite
l’espressione “in che modo”, differenziandola esplicitamente dal “come è possibile”
tipico di alcune vecchie – per Searle – domande filosofiche:

Non si tratta della vecchia domanda dei filosofi “come è possibile l’intenzionalità?”; non credo che sia
una domanda sensata. È simile ad altre domande filosofiche che abbiamo abbandonato: come è
possibile la vita in un mondo di materia non-vivente? Come è possibile la coscienza in un mondo di
materia non-cosciente? Come è possibile l’intenzionalità in un mondo di materia che non-rappresenta?
Queste non sono domande filosofiche. Alla prima sta rispondendo la biologia evolutiva, e credo che
alla seconda e alla terza domanda su coscienza e intenzionalità stia rispondendo la neurobiologia.20

Al di là dell’evidente apoditticità – se non dogmatismo – con cui Searle riduce il


terreno della filosofia, bisogna notare che questa decurtazione del campo d’indagine è
funzionale alla soddisfazione dell’epistemologia che intende presentare, in particolare
eliminando a priori possibili difficoltà teoriche di natura ontologica relegandole
all’ambito delle discipline empiriche. Allo stesso tempo, i vantaggi di una ontologia
compiuta vengono preservati. Il soggetto e l’oggetto, in quanto tali, non sono
questionabili, rimanendo così solo da individuare “in che modo” essi siano legati.

18 Per Sfondo Searle intende quell’insieme di capacità pre-intenzionali che, insieme alla Rete, permettono
all’intenzionalità di fissare le condizioni di soddisfazione, cfr. Vedere le cose come sono, op. cit., pp. 48-49 e 75-
81.
19 Ivi, p. 131.
20 Ivi, p. 125.

7
Nello specifico, gli assunti riguardanti la coscienza e l’intenzionalità permettono a
Searle di mantenere due caratteristiche costitutive esiziali per lo svolgimento
dell’argomentazione. Esse, infatti, vengono configurate come eventi del mondo fisico
– analizzabili scientificamente come qualsiasi altro evento del mondo reale – pur
mantenendo la peculiarità di manifestarsi in prima persona, all’interno della relazione
conoscitiva istituita nel momento della percezione e, più in generale, in tutte le attività
coscienti. La difficoltà che emerge da questa impostazione epistemologica – sollevata
da Searle stesso21 – è che il discorso rischia di apparire tautologico, o “banalmente
vero”. L’impressione è, a nostro avviso, pertinente fintantoché si assume come
indiscutibile l’assunto onto-biologico. Diventa, invece, tutt’altro che banale una volta
che si sia riuscito a mostrare che, come sostiene Searle, la coscienza e l’intenzionalità
sono biologicamente date senza identificarsi con il livello biologico stesso.

3. Mente e corpo

In La mente22 troviamo una estesa trattazione delle tematiche inerenti il problema


“mente-corpo”, presentato da Searle secondo due ordini di riflessione: come può
qualcosa di fisico produrre qualcosa di mentale? E viceversa, come possono eventi
mentali influire causalmente sul mondo fisico? 23 Per i fini della nostra ricerca,
prenderemo in esame i punti dedicati alla prima domanda, nella sua formulazione più
attuale: «come possono i processi cerebrali produrre fenomeni mentali? Come
possono i cervelli produrre delle menti?»24. Analogamente alla trattazione di Vedere
le cose come sono, l’autore riserva molto spazio alle teorie contrastanti la sua
posizione, individuando due correnti opposte e ricche di posizioni alternative al loro
interno: il dualismo e il materialismo. Il tentativo di Searle è individuare una terza via
– una sorta di sintesi – che mantenga quel che di vero è contenuto nelle due istanze:

Il materialismo cerca di dire che l’Universo, nella sua interezza, è composto di particelle fisiche
esistenti in campi di forza e spesso organizzate in sistemi, e in questo ha ragione. Ma da ciò trae la
conclusione erronea che non esistono fenomeni mentali ontologicamente irriducibili. Il dualismo cerca
di dire che i fenomeni mentali irriducibili esistono, e in ciò ha ragione. Ma ne deduce erroneamente che
tali fenomeni sono qualcosa di separato dal mondo fisico ordinario in cui viviamo, qualcosa che va al
di là del loro sostrato fisico. La sfida consiste nel conservare la parte vera di ciascuna delle concezioni
e negare la parte falsa.25

Rispetto al materialismo, la fallacia consiste nel negare il carattere di prima persona


degli stati mentali, tra i quali la coscienza è il fenomeno preminente. La riduzione
degli aspetti qualitativi del mentale alla loro componente neurobiologica comporta
l’identificazione di due piani distinti ontologicamente, identità che ha come corollario
la tesi dell’inesistenza di fenomeni ontologicamente soggettivi, dei quali invece

21 Ivi, pp. 139-141.
22 J. Searle, La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
23 Ivi, in particolare cap. 1 per una esposizione generale delle tematiche.
24 Ivi, p. 16.
25 Ivi, p. 114.

8
abbiamo esperienza continua e indubitabile. Inoltre, proprio escludendo la prospettiva
della prima persona dal dominio della scientificità, risulta inficiata dal principio ogni
proposta epistemologica realista.26 All’opposto, il dualismo trae dall’irriducibilità del
mentale conseguenze metafisiche per cui l’Universo viene a scindersi in due res,
ipostatizzando il mentale. Di conseguenza, diviene pressoché impossibile rendere
conto dei rapporti tra i due domini ontologici, contravvenendo le evidenze scientifiche
di discipline come la neurobiologia. La proposta di Searle – che definisce naturalismo
biologico – è quindi il tentativo di superare la vecchia dicotomia, sottesa a entrambe
le correnti, rendendo conto delle evidenze – come se fossero clausole da soddisfare –
portate da entrambe: la natura biologica sottolineata dalle scienze empiriche e
l’ontologia di prima persona riportata dall’esperienza. Per poter fare ciò, l’autore si
propone di riformulare la terminologia ereditata dalla dicotomia, ponendo a un’analisi
critica alcuni assunti in essa contenuti. In particolare, risulta essenziale chiarire il
concetto di riduzione, secondo cui generalmente viene assunto che

un certo genere di fenomeno viene ridotto a un altro genere […] Riducendo gli A ai B si dimostra che
gli A non sono altro che B. Per esempio, gli oggetti materiali possono essere ridotti a molecole, perché
gli oggetti materiali non sono altro che insiemi di molecole.27

Intendendo così la riduzione, diviene inevitabile postulare o l’identità tra cervello e


mente – quindi il materialismo – oppure, negando la riduzione, una completa alterità
tra i due ambiti – cioè il dualismo. Questo impasse, secondo Searle, non è dovuto a
una reale corrispondenza con l’esperienza fattuale, ma a una carenza dello strumento
concettuale il quale, posto così, premette già di per sé una visione incentrata sulla
dicotomia mente-corpo. Il concetto, quindi, risulta ambiguo, significando due
differenti tipologie di riduzione, causale e ontologica:

Possiamo dire che fenomeni di tipo A sono causalmente riducibili a fenomeni di tipo B, se – e solo se –
il comportamento degli A è completamente spiegabile in termini causali mediante il comportamento
dei B, e gli A non hanno capacità causali in aggiunta a quelle di dei B. Così, per esempio, la solidità è
causalmente riducibile al comportamento molecolare. […] Fenomeni di tipo A sono ontologicamente
riducibili a fenomeni di tipo B se e solo se gli A non sono altro che B. Così, per esempio, gli oggetti
materiali non sono altro che insiemi di molecole.28

Il fatto che spesso, in particolare in ambito scientifico, si usi una riduzione causale per
fini definitori, non consente di concludere che tutte le riduzioni siano eliminative,
ovvero che il fenomeno ridotto risulti illusorio e non esistente. Nell’esempio della
solidità, la riduzione non comporta che non esista nella realtà una caratteristica
corrispondente ad essa – la solidità non è eliminata nonostante la riduzione la
costituisca come caratteristica superficiale rispetto alle cause che ne permettono
l’esistenza. La coscienza, quindi, è sì causalmente riducibile all’attività cerebrale ma
non è identificabile con essa, seppur in determinati ambiti venga posta in questa

26 Cfr. E. Fugali, Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è veramente
un’illusione?, Rivista di estetica [Online], 47 | 2011, online dal 30 novembre 2015, consultato il 16 avril 2020.
URL : http://journals.openedition.org/estetica/1906 ; DOI : https://doi.org/10.4000/estetica.1906, § 32.
27 J. Searle, La mente, op. cit., p. 99.
28 Ivi, pp. 107-108.

9
prospettiva – come se fosse l’attività biologica. La nostra reticenza a definire la
coscienza secondo le sue cause è dovuta, rileva Searle, alla necessità di possedere un
concetto che definisca la nostra esperienza di fenomeni ontologici di prima persona.
Essi sono reali, e irriducibili ontologicamente a fatti ontologici di terza persona.
Inoltre, continua l’autore, la coscienza è esente dai dubbi scettici riguardo la propria
esistenza, in quanto la possibile illusorietà degli stati mentali allo stesso tempo
ribadisce l’esistenza della coscienza. Possiamo quindi sintetizzare le quattro tesi
proposte da Searle che costituiscono la posizione del naturalismo biologico29: (1) gli
stati coscienti sono fenomeni reali dotati di una ontologia della prima persona e non
sono riducibili ontologicamente ai processi neurobiologici, né eliminabili come
illusori; (2) sono altresì riducibili causalmente, non essendo qualcosa che trascende i
processi biologici sottesi; (3) gli stati coscienti sono realizzati nel cervello quali loro
caratteristiche emergenti a un livello più alto rispetto a quello neuronale; (4) in quanto
caratteristiche reali, hanno efficacia causale. Da quanto detto finora, risulta ancora
poco chiaro in che modo la coscienza possa essere ridotta causalmente pur
mantenendo una specificità ontologica differente rispetto al sostrato materiale. In
particolare, come giustificare i passi (2) e (3)? Nel testo Il mistero della coscienza il
nesso viene esplicitato chiaramente:

Il cervello è un organo come altri, è una macchina organica. La coscienza è causata da processi
neuronali di livello inferiore che avvengono nel cervello ed è essa stessa una caratteristica del cervello.
Poiché è una caratteristica che emerge da alcune attività neuronali, possiamo pensare che essa sia una
“proprietà emergente” del cervello.30

Il rapporto tra attività neuronali e mente, dunque, è di tipo causale. Come già
sottolineato riguardo alla causalità intenzionale, per Searle la relazione causale è
rinvenibile anche tra non-eventi discreti, come, in questo caso, tra eventi e stati.
L’introduzione di questo strumento concettuale è fondamentale nell’economia
dell’intero discorso. Permette infatti di spostare la dicotomia mente-corpo all’interno
della struttura del cervello, in cui il nesso causale funge da ponte per evitare tanto il
materialismo quanto il dualismo. Il passaggio, però, presenta diverse criticità.
Innanzitutto, esaminando gli esempi più utilizzati da Searle – come la liquidità
dell’acqua, emergente rispetto alla sua costituzione molecolare – risulta evidente che
quella che dovrebbe essere una distinzione generale, la riduzione ontologica/causale,
ha la sua ragion d’essere esclusivamente per l’esistenza del mentale; qualsiasi altra
riduzione causale si rivela, infatti, anche ontologica, risultando le caratteristiche
emergenti superficiali. Perché quindi, viene da chiedersi, riservare uno statuto
ontologico speciale alla coscienza, se anch’essa risulta un carattere di superficie? Lo
stesso può dirsi riguardo alla differenza tra riduzioni eliminative e non. Gli esempi
portati sono quelli della solidità del tavolo per il primo caso e dei tramonti per il
secondo, con quest’ultimi che vengono definiti illusori perché pura apparenza.
Proprio questa asserzione ci sembra contestabile: se è vero che i tramonti sono


29 Ivi, pp. 102-103.
30 J. Searle, Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998, p. 14.

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riducibili ontologicamente al movimento dell’asse, allo stesso modo la solidità è
riducibile alla sua composizione molecolare. Quindi, o entrambi in una qualche
misura esistono, oppure, se riducibili ontologicamente, consegue che sono eliminabili
tanto l’uno quanto l’altro. Il fatto che, nel caso del tramonto, la relazione causale
appartenga a un ordine descrittivo “esterno” rispetto a quello molecolare, non sembra
giustificare una considerazione diversa dei due eventi. Al di là di questi rilievi, il
punto che ci preme sottolineare è un altro. La distinzione, operata da Searle, tra
riduzione causale e ontologica ha come risultato, rispetto alla coscienza, di
salvaguardare l’ontologia della prima persona, garante dell’irriducibilità della stessa
al livello biologico. Però, come osserva Fugali

Searle intende la dipendenza degli stati mentali nei termini di una relazione causale con i processi
cerebrali che li determinano. In questo senso, l’avere stati di coscienza dipende in ultima analisi
dall’esistenza di una struttura biologica e fisica ad essi soggiacente, e non da un osservatore, esterno o
interno che sia. Se le cose stanno così, allora il riferimento all’ontologia alla prima persona e alla
soggettività è semplicemente superfluo, essendo del tutto sufficiente il loro essere causalmente
determinati da processi materiali.31

Ciò che risulta insufficiente quindi, se si vuole evitare una teoria dell’identità, è il
carattere di prima persona inteso come salvaguardia di un’autonomia ontologica. Essa
infatti

è una proprietà ontologica formale di quell’ente che chiamiamo “coscienza”, “psiche”, ecc. Considerati
di per se stessi, gli stati mentali allora sono entità non-indipendenti, non solo e non tanto nel senso che
essi in ultima analisi devono la loro esistenza al sostrato materiale che ne costituisce certo la
condizione fattuale, ma al flusso di coscienza unitario di cui essi sono le parti non separabili.32

Il brano solleva due punti: l’ontologia di prima persona, in quanto “caratteristica di”,
presuppone un’ente di cui essere proprietà e, per mantenersi autonoma, non può
essere il livello biologico quell’ente. Il sostrato materiale, quindi, può essere inteso
come conditio sine qua non del mentale, non come causa. La differenza tra i due
concetti può essere illustrata con un esempio di natura giuridica, disciplina dove è
esiziale la distinzione. Immaginiamo una persona acquistare una pistola presso un
negozio d’armi. Qualche giorno dopo, in seguito a una lite, commette un omicidio
sparando con la pistola acquistata. Una volta arrestato, viene portato a processo.
L’avvocato, nella difesa del proprio cliente, chiede che venga prosciolto perché il
reato è attribuibile al venditore del negozio d’armi, in quanto è stata la vendita a
causare la successione di eventi che ha portato all’omicidio. La difesa, ovviamente
paradossale, viene respinta perché tra il venditore e il reato non sussiste alcun nesso
causale. Il vendere d’armi è solamente una condizione di possibilità di eventuali
azioni, tra cui i crimini, e non causa di esse. Si obietterà, però, che l’argomento non
rispecchia la proposta di Searle, poiché tra il venditore e l’azione che configura il
reato c’è un rapporto estrinseco – tra eventi discreti – contrariamente a quello tra

31 Edoardo Fugali, « Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è veramente
un’illusione? », Rivista di estetica [Online], op. cit., § 50.

32 Ibidem.

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cervello e mente. Conscio di ciò, l’avvocato della difesa tenta un’altra strada nel
processo d’appello. L’assistito non è imputabile del reato, in quanto al momento
dell’atto era in preda a un eccesso d’ira – causata da processi neuronali documentabili
su basi scientifiche – tale da costituire un caso d’infermità mentale. L’elemento su cui
il giudice dovrebbe decidere è la determinazione o meno degli stati psichici rispetto
alle attività mentali. Nel caso le seconde fossero sufficienti a spiegare i primi, allora la
distinzione tra conditio e causa sarebbe pleonastica, ma, allo stesso tempo, lo sarebbe
anche la distinzione ontologica; l’ontologia di prima persona diverrebbe solo una
“proprietà formale” dell’attività biologica. Al contrario, il nesso andrebbe individuato
tra gli stati psichici e il soggetto stesso, in cui le attività neuronali fungono da conditio
sine qua non. La domanda, quindi, viene a spostarsi sul tema del libero arbitrio, di cui
Searle tratta33 propendendo – pur ammettendo che le soluzioni siano ancora aperte e
non definitive – per una posizione vicina al determinismo. Risulta ad ogni modo
rilevante per il nostro discorso che la trattazione proposta da Searle sia incentrata sulla
funzionalità biologica del cervello, ponendo la questione del volere
determinato/volere indeterminato discernibile sul piano della maggiore attendibilità
tra cervello meccanico/cervello quantistico. Questo rileva, dunque, la mancanza
concettuale, nelle tesi dell’autore, di un ente unitario a cui si possano ricondurre
ontologicamente le attività coscienti. In definitiva:

L’impressione complessiva alla quale il lettore non può sottrarsi è che la soluzione suggerita da Searle
non sia molto più che un escamotage verbale: sì, è vero che l’intenzionalità e la coscienza si
contraddistinguono per un’ontologia alla prima persona e per il fatto che, dal punto di vista
epistemologico, esse sono accessibili in via esclusiva al loro portatore, ma in ultima analisi non si tratta
d’altro che di proprietà materiali d’alto livello, che rientrano nel medesimo ordine di causalità dei
fenomeni naturali.34

Infine, prendendo un punto di vista esterno rispetto al merito delle tesi searleiane, la
necessità di ricondurre gli stati di coscienza – pur con le distinzioni concettuali
presenti – a una causalità di ordine biologico, sembra ricalcare quella che Arendt
chiamava “un’antica fallacia metafisica”:

La nostra tradizione filosofica ha trasformato la base da cui una cosa nasce nella causa che la produce,
per poi assegnare a questo agente produttivo un grado di realtà più alto di quello attribuito a ciò che
viene meramente incontro ai nostri occhi. La credenza che una causa debba essere di rango superiore
all’effetto (così che si può agevolmente svalutare l’effetto riconducendolo alla sua causa) rientra forse
tra le fallacie metafisiche più antiche e radicate.35


33 J. Searle, La mente, op. cit., cap. 8, p. 195-212.
34 Edoardo Fugali, Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è veramente
un’illusione?, Rivista di estetica [Online], op. cit., § 55.
35 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009, p. 106.

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4. Conclusioni

Intento del presente lavoro era mostrare i presupposti ontologici impliciti nella teoria
epistemologica di Searle. Abbiamo iniziato, quindi, prendendo in esame l’analisi del
Cattivo argomento proposta dall’autore, rimarcando come l’ambiguità della
“consapevolezza di” sia scioglibile soltanto passando da una prospettiva della prima
persona a una della terza, in cui l’elemento di disambiguazione viene a costituirsi
nell’oggetto del mondo reale. A ragione di ciò – e in conformità alla compresenza di
un portato ontologico in ogni disamina epistemologica – abbiamo sottolineato che la
caratteristica della percezione di essere sempre “indicale”, quindi che sia sempre
presente un’affermazione d’esistenza in ogni contenuto percettivo, comporta
l’impossibilità di distinguere, nella prospettiva della prima persona, tra contenuti
percettivi veridici e illusori. Per questa ragione, siamo passati all’analisi “della strada
inversa” proposta da Searle, in cui ricerca la risposta al quesito circa il modo in cui il
campo percettivo soggettivo fissi determinate condizioni di soddisfazione
presentandole come caratteristiche del campo visivo oggettivo. Le soluzioni
tradizionali – somiglianza e causalità – vengono scartate in quanto insufficienti nel
giustificare la connessione interna tra la fenomenologia e le condizioni di
soddisfazione. Arriva quindi a formulare il concetto di causazione presentazionale
intenzionale, a partire dal fatto che tra l’essere di un oggetto e il suo apparire – e
quindi il percepire questa causalità – esista un nesso interno. Nell’esposizione
dell’argomento, Searle precisa gli assunti su cui si fonda l’analisi: sia la coscienza e
l’intenzionalità che la disposizione di Sfondo di porre l’oggetto come ciò che causa
l’esperienza percettiva sono biologicamente date, esattamente come lo sono la fame o
la sete. Queste assunzioni permettono all’autore di circoscrivere il problema
epistemologico senza affrontare direttamente i presupposti ontologici sottesi, ma
semplicemente assumendoli come “dati”. Un riverbero di questa impostazione, si ha
nella possibile obiezione che l’argomento risulti o “banalmente vero” o del tutto falso.
Abbiamo quindi preso in esame alcuni testi delle opere La mente e Il mistero della
coscienza al fine di approfondire la visione ontologica contenuta nelle assunzioni del
“biologicamente dato”. La proposta del naturalismo biologico avanzata da Searle, si
inserisce all’interno di un panorama teoretico che – secondo la ricostruzione
dell’autore – oscilla tra due correnti opposte, il materialismo e il dualismo. Entrambe
portatitrici di un nucleo di verità, la fallacia che le accomuna risiederebbe
nell’incapacità di affrancarsi dalla dicotomia mente/corpo nei termini ereditati dalla
modernità. Riformulando alcuni assunti contenuti in questa prospettiva, Searle
propone una lettura del rapporto mente-corpo che preservi tanto le evidenze empiriche
sulla natura dei processi cerebrali quanto l’ontologia della prima persona della
coscienza. In particolare, contesta il concetto tradizionale di riduzione, proponendo la
distinzione tra riduzione causale e riduzione ontologica, sottolineando inoltre che non
tutte le riduzioni ontologiche sono eliminative. La coscienza, quindi, è delineata come
una capacità emergente rispetto alla struttura del cervello e alle attività
neurobiologiche, causalmente – ma non ontologicamente – riducibile ad esse.
Riguardo a questo punto, abbiamo sollevato una serie di criticità. Innanzitutto, la

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distinzione tra riduzione causale e ontologica non ha una valenza generale, in quanto
la seconda è applicabile di fatto solo agli stati coscienti. La riduzione eliminativa,
invece, sembra essere applicata non conseguentemente per tutte le riduzioni
ontologiche, ponendo una distinzione di carattere descrittivo. Il punto più rilevante
sollevato – secondo la nostra opinione esposta anche tramite il contributo di Fugali –
riguarda l’insufficienza dell’esistenza di stati in prima persona per garantire
l’irriducibilità degli stati mentali al sostrato materiale. L’ontologia di prima persona,
infatti, si rivela una proprietà formale e, in quanto tale, deve riferirsi a un qualcosa di
cui essere, appunto, proprietà. Nel caso in cui fosse il cervello quell’ente – come il
rapporto causale lascia supporre – allora diverrebbe inevitabile una teoria
dell’identità. Abbiamo quindi introdotto il concetto di conditio sine qua non, a nostro
avviso più idoneo a rappresentare il rapporto mente-cervello e l’autonomia ontologica
della prima rispetto al secondo. Infine, riferendoci alle tesi di Searle riguardo il libero
arbitrio, abbiamo rilevato la predominanza delle istanze biologiche nell’analisi delle
tematiche affrontate, per le quali l’autonomia attribuita dall’autore al mentale risulta
ridotta se non del tutto pleonastica.

Bibliografia

- Alessi A., Sui sentieri della verità, LAS, Roma 2003

- Arendt H., La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009



- Descartes R., Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, 2 voll., UTET, Torino 1994

- Fugali E., Husserl e Searle su intenzionalità e coscienza: la fenomenologia è


veramente un’illusione?, Rivista di estetica, 47 | 2011

- Searle J., Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998

- Searle J., Vedere le cose come sono, Raffaello Cortina Editore, Milano 2016

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