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UNIVERSITA’ DI PISA
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
XXX CICLO
2017/2018
INDIRIZZO FILOSOFIA MORALE E POLITICA
Relatore Dottorando
Prof. A.M. Iacono Biagio Sarnataro
Indice
Introduzione:
La filosofia, il materialismo storico e lo sviluppo di strutture normative 5
Capitolo primo:
La chiusura operativa. Analisi funzionale e teoria dei sistemi
I.I. Primo tentativo di dispiegamento della tautologia propria della strategia conoscitiva.
Che cos’è una spiegazione funzionale? 23
II.I. Complessità e funzioni 25
III.I. La causalità è una forma di selettività: le equivalenze funzionali 28
IV.I. Osservazione e decisione 34
V.I. La relatività ontologica dei sistemi 42
VI.I. La sociologia come teoria dei sistemi sociali 48
VII.I. Riproposizione della domanda: Che cos’è l’illuminismo? 54
Capitolo secondo:
«Un mutamento continuamente selezionato»: analisi dei fondamenti della teoria dei sistemi sociali
6
IX.II. Latenza, contraddizione, conflitto. Una lettura funzional-strutturalistica della dialettica
servo/padrone 102
X.II. Interazione e organizzazione 108
Capitolo terzo:
Orientarsi ai problemi: il caso del «potere politico» e della «società civile»
Capitolo quarto:
«The Radical Luhmann»
7
Capitolo quinto:
Sociologia del sapere sociale e capitalismo
Conclusione:
Le conseguenze dell’autoriferimento sulla teoria della conoscenza. Meccanismi riflessivi e mondi
intermedi 207
Bibliografia 214
8
Introduzione:
La filosofia, il materialismo storico e lo sviluppo di strutture normative
L’esperienza della forza emancipativa che la riflessione dischiude al soggetto, nella misura in cui
questi ne diventa cosciente, è l’esperienza che sta alla base di ogni sviluppo della filosofia
sistematica tedesca, per come la si è conosciuta almeno a partire dalla rivoluzione copernicana1 di
Kant, e per come si può giudicare il lascito normativo di ogni scienza dell’esperienza della coscienza2
successiva. Tuttavia, dopo un’intera stagione di “crisi della razionalità” 3 è stato possibile
1
Cfr. E. Bencivenga, La rivoluzione copernicana di Kant, a cura di Alberto Jori, Bollati Boringhieri, Torino 2000. Oppure: F.L.
Cross, Kant’s so-called copernican revolution, http://mind.oxfordjournals.org/ at University of California, San Diego an
September 12, 2015; J.E. Green, Kant’s Copernican revolution. The transcendental horizon, University America, New York 1997. Ma
anche “la rivoluzione nella maniera di pensare”, ovvero il modo di Cassirer di riferirsi a Kant, cfr. E. Cassirer, La filosofia delle
forme simboliche, tr. it. Eraldo Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1965, vol.1, p. 10 e segg.
2
La possibilità di trovare un rigoroso ponte interpretativo che leghi la Fenomenologia dello Spirito hegeliana e la Crisi delle scienze
europee di Husserl, cosa che dovrebbe in un certo senso legittimare il nostro uso del sottotitolo dell’opera di Hegel al plurale,
non è un fatto scontato. Anzi, come scrive A. Ferrarin: «Per una storiografia alla ricerca di influenze documentabili,
filiazioni, assimilazioni e derivazioni che tema di divagare quando si trascendano i contesti storici e quando si sollevino
questioni che non siano già riconoscibili come inscritte nei testi che consideriamo, poco sembra più futile di un’analisi
comparata di Hegel e Husserl: non sembra qui esserci spazio per un dialogo. A parte puntate occasionali, del resto, veri e
propri dialoghi tra hegeliani e husserliani, cioè confronti non unilaterali o prevenuti in cui si sia già deciso da che parte stare,
non riempiono che una parte trascurabile di uno scaffale. Il modo frusto e incolore in cui Husserl dipinge una caricatura di
Hegel è segno della sua indifferenza e ignoranza, mentre a loro volta gli hegeliani sembrano poco interessati a rileggere
Hegel alla luce della fenomenologia o a imparare qualcosa da quanto ai loro occhi non è che l’ennesima forma di idealismo
soggettivo». Eppure, come poi continua: «Nella Prefazione al volume Hegel e la fenomenologia trascendentale, notando come i pur
fruttuosi confronti teorici tra dialettica e fenomenologia che il Novecento ci ha lasciato non abbiano fatto né scuola né
breccia nei pregiudizi reciprocamente ostili dei rispettivi fronti, parlavo di come stessero cambiando i tempi[…]». Ferrarin
scrive queste parole nella Prefazione a un testo che rappresenta, a suo dire, uno dei modi più concreti e tempestivi per
segnalare questo rinnovato interesse di ricerca storiografica e filosofica, ovvero oltre allo Hegel e la fenomenologia trascendentale, a
cura di Danilo Manca, Elisa Magrì e Alfredo Ferrarin, ETS, Pisa, 2015, al quale pure si rimanda, si tenga in considerazione,
proprio in virtù dell’analisi del concetto di Erfahrung e di esperienza della ragione che qui viene svolgendosi, il libro prefatto da
Ferrarin, ovvero: Danilo Manca, Esperienza della ragione. Hegel e Husserl in dialogo, ETS, Pisa, 2017.
3 Riguardo al senso che si può attribuire all’espressione, rimando diretto – per le cose che veniamo dicendo in questo incipit –
è di certo il testo di G. Lukács, La distruzione della ragione, 2 voll., Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2011. L’inesistenza di
Weltanschauung innocenti e, dall’altro lato, il problema della coppia irrazionalismo/imperialismo come via tedesca ad Hitler
nel campo filosofico, tuttavia, colpiscono, in generale, non soltanto un modello “puro” di Vernunft: ‘Critica’ è anche la
situazione interna all’autoriflessione della cultura europea, una crisi, cioè, della ragione storica, per come si può leggere, ad
esempio, nel testo di L. Calabi, La filosofia della storia come problema. Karl Löwith tra Heidegger e Rosenzweig, oppure, dello stesso
autore, nell’intervista: https://karllowith.jimdo.com/l%C3%B6withiana/1-interviste-italiane/lorenzo-calabi/. Il problema della
costituzione del soggetto della storia, di modelli di scientificità, la riproposizione filosofica dello schema newtoniano di
spiegazione dei fenomeni in analogia alla natura, così come la disfatta o anche il naufragio di questi, come è ben descritto da
H. Blumemberg in Naufragio con spettatore: paradigma di una metafora dell’esistenza, Il Mulino, Bologna, 1985, per cui, nella
costellazione ideale della Bildung, propria dell’universo di discorso filosofico trascendentale, idealistico, romantico e
fenomenologico, è evidente il richiamo al «massimo problema» dell’ Idea di storia universale da un punto di vista cosmopolitico, cfr.
I. Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmpolitico, in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a c. di F. Gonnelli,
Roma-Bari, Laterza, 1995, e alla «rovina» della Prolusione schilleriana del 1789, cfr. F. Schiller, Che cosa significa storia universale e
per quale fine la sistudia? Una prolusione accademica, in F. Schiller, Lezioni di filosofia della storia, introduzione, traduzione e cura di
Lorenzo Calabi, Edizioni ETS, Pisa, 2012, e che rappresenta quel disagio nella civiltà, si può aggiungere, in der Kultur, che si
mantiene vivido e ancora carico di conseguenze in Freud, nel testo del 1929, cfr. S. Freud, Il disagio nella civiltà, a cura di
Stefano Mistura, Einaudi, Torino, 2010, che fu anche motivo di dissidio negli affari della famiglia Mann, ponendosi alla base
della diatriba tra i fratelli Heinrich e Thomas, mostra una conciliazione mancata, una conciliazione non avvenuta all’interno
della configurazione spirituale del vecchio continente tra Zivilization e, appunto, Kultur, cfr. T. Mann, Considerazioni di un
5
affermare come il patrimonio filosofico consegnatoci da questa complessa tradizione abbia
prodotto sia un coraggioso radicalismo dello spirito, il potenziale esplosivo di una critica
fondata alla propria epoca, sia, al contempo, la permanente possibilità della dismissione dei
propri principi fondativi. Concepire la vitale relazione che sussiste tra il mondo del pensiero e il
mondo dell’azione, tra costituzione delle idee e costruzione della realtà statuale e sociale 4, ha
significato, talvolta, lasciarsi stordire dal pathos dell’assoluto5, credersi padroni dell’assoluto. In
Verità e giustificazione6 Habermas espone ed affronta gli effetti di questa situazione, affermando
che la filosofia si trova oramai ad oscillare tra l’impossibilità di tollerare alcun concetto enfatico
di verità e l’incapacità di esibirne uno suo proprio in forma canonica7.
impolitico, a cura di Marianello Marianelli e Marlis Ingenmey, Adelphi Edizioni, Milano, 2005. Rispetto a questa modernità che
si concepisce come epoca, la critica comincia già subito dopo Hegel, in Feuerbach, in Marx, in Nietzsche, e negli autori
esaminati da Raymond Aron, vicini – nonostante gli effetti e le autodecrizioni - a quelli che Löwith definisce “i dissolutori
dell’universale”, ovvero Scheler, Heidegger e Schmitt. Ordine di problemi, se si resta a questo Löwith, ben spiegati anche da
Habermas, cfr. J. Habermas Karl Löwith. La rinuncia stoica alla coscienza storica , in Idem, Profili politico-filosofici, tr. it. a c. di L.
Ceppa, Milano, Guerini e Associati, 2000. Una dismissione dell’universale proprio nel luogo della sua originaria emersione e
che domina, si può aggiungere, la coscienza europea nonostante la conciliazione tentata da Hans Jonas nel suo Il concetto di
Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 1997 (cfr., da ultimo, sul tema specifico, sebbene con una visione
antitetica alla nostra, F. Fossa, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Hans Jonas e la gnosi, ETS, Pisa 2014). Ma ‘crisi della ragione’
rappresenta anche la crisi di un modello di razionalità, di verità, di giustificazione e di legittimazione, un cambiamento di paradigma
che dipende, intanto, per dirla à la Rorty, dal liguistic turn, dalla crisi del fondazionalismo in matematica, per cui, tra gli altri, si
può rimandare a AA.VV, Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, a cura di A. G. Gargani, Einaudi,
Torino, 1979; ma poi anche J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari, 1975. Le istanze
inalienabili della liguisticità, della schiusura linguistica, si intrecciano con il tentativo critico di rinvenire componenti
semantiche e fattori epistemologici che restituiscano, in questa crisi dei fondamenti e delle condotte di vita, una normatività
sia in processi cognitivi che comunicativi. Il programma di Habermas coincide con questa possibilità, ad esempio, col
tentativo di un controllo ermeneutico dei fatti e delle norme che emergono nella prassi quotidiana di vita. L’ambito di
problematicità appena accennato, così come il tentativo di Habermas di trovare, ancora una volta, una soluzione all’interno
del canone trascendentale, rappresentano il contesto, a volte esplicito, altre volte meno, ma costantemente richiamato, dal
quale parte – e per cui resta orientato – il presente elaborato di tesi.
4 Rettore dell’Università di Berlino – il primo e unico rettore di origine ebraica in Germania, prima del secondo dopoguerra
– Ernst Cassirer così esordì nel discorso che venne chiamato a pronunciare l’ 11 agosto del 1928, in occasione del decimo
anniversario della fondazione della Repubblica di Weimar, dal titolo paradigmatico di Die Idee der republikanischen Verfassung:
«Signore e Signori!
Nell’invito a parlare dinanzi a loro, in questo giorno festoso, che il Senato di Amburgo mi ha fatto l’onore di rivolgermi, se
l’intendo correttamente, si esprime un convincimento generale: il convincimento cioè che i grandi problemi storico-sociali
che dominano e agitano il nostro presente non possano essere semplicemente sparati da quelle generalissime questioni
fondamentali dello spirito che la filosofia sistematica si pone e la cui soluzione essa ha cercato incessantemente nel corso
della sua storia. Non si tratta di due forze eterogenee, per non dire ostili, che si contrappongono l’una all’altra; si presenta
piuttosto ovunque una vitale azione reciproca tra il mondo del pensiero e il mondo dell’azione, tra la costruzione delle idee
e la costruzione della realtà statuale e sociale», cfr. E. Cassirer, L’idea di costituzione repubblicana, a cura di Renato Pettoello,
Morcelliana, Brescia, 2013, p. 33.
5 I termini e il modo di segnalare il problema appartengono a F.W. Nietzsche. Cfr. F.W. Nietzsche, Su verità e menzogna in
senso extramorale, e Sul pathos della verità, in Id. La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, trad.it. di Giorgio Colli,
Adelphi, Milano, 2006, rispettivamente pp. 227-244, e pp. 83-89. Sull’importanza che questo testo riveste per temi come
quello dello statuto di verità dei concetti, della centralità del pensiero simbolico, del prospettivismo e della importanza
ineludibile della metafora, proprio quando si parla di conoscenza, si rimanda a A.M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre,
imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano-Torino, 2010, in particolare pp. 127-145.
6 J. Habermas, Verità e giustificazione, trad.it. di Mario Carpitella, Laterza,Bari, 2001.
atteggiamento ‘deflazionista’ verso la ‘verità’ «viene analizzata nel contesto di verifica di azioni guidata dall’esperienza, dal
6
Se si vuole continuare a intendere per filosofia la forma più radicale di autoriflessione possibile
in una data epoca, diventa decisivo chiedersi – con Habermas, intanto – in quale nuovo
elemento debba fare ingresso il filosofare8, perché la filosofia non resti relegata a funzioni di
rischiaramento dei fondamenti razionali dell’esperienza e del giudizio, dell’azione e dell’intesa
reciproca, da un lato, e, per altro verso, per non limitarne il compito a quello di una scienza
punto di vista di un attore coinvolto. Il mentalismo viveva del ‘mito del dato’; dopo la svolta linguistica ci è inibita una presa
linguisticamente immediata su una realtà interna o esterna. La presunta immediatezza delle impressioni sensoriali non funge
più da infallibile istanza d’appello», ivi. p. 16; ovvero: «All’accertamento autoriflessivo di una soggettività attiva in foro
interno, al di là dello spazio e del tempo, subentra, allora, l’esplicarsi di un sapere che è di natura pratica e mette soggetti
capaci di linguaggio e di azione in grado di partecipare a siffatte pratiche superiori e di fornire prestazioni corrispondenti [...].
Nella visuale pragmatista le ‘conoscenze’ risultano dalla rielaborazione intelligente di delusioni esperite performativamente»
cfr. ivi, pp. 15 e 17.
8 Questo è sicuramente un problema che investe la filosofia come professione a partire dai modi di disporsi nei riguardi della
pesante eredità hegeliana. Non c’è pensatore che conti nel passato secolo che non si sia posto la questione di un
affrancamento critico o di una continuazione nel solco della dialettica hegeliana, altrettanto critica, si può dire. «Quella
hegeliana – infatti, scrive Lorenzo Calabi – è stata piuttosto il termine di confronto, la prova della possibilità stessa del
filosofare nell’epoca contemporanea», e non a caso queste parole si trovano in apertura del suo ultimo lavoro di traduzione
filosofica, dedicato a un importante capitolo della storia delle interpretazioni hegeliane del ‘900, e che segna un punto di
notevole importanza – storiografica e filosofica – rispetto al nodo tematico a cui stiamo alludendo. Interpretazioni che, per
ciò detto, non riguardano mai soltanto un capitolo della storiografia del pensiero, ma si estendono, quando si tratta di Hegel,
alle condizioni di possibilità stesse del filosofare. Cfr. L. Calabi, Prefazione, in J. Hyppolite, Introduzione alla filosofia della storia di
Hegel, a c. di e tr.it. di Lorenzo Calabi, ETS, Pisa 2016, p.8, mentre per l’idea di traduzione, si rimanda ivi pp.17-24. La
centralità della figura di Hyppolite, alla luce del lavoro di Calabi e della sapiente tessitura del contesto in cui questa centralità
viene dispiegata, assume una nuova e interessante articolazione: «Per rappresentarsi, pur solo in essenza, il complesso, la
ricchezza e l’innovatività della sua opera di studioso e di docente bisognerebbe forse – aggiunge Calabi – riprodurre per
intero le pagine conclusive de L’odre du discours, quella Lezione Inaugurale tenuta nel dicembre del 1970 suo successore
nell’insegnamento al Collège de France […]». Il nodo teoretico e storico, anche editoriale – cfr. ivi pp. 10-11 – riguarda la
fondata possibilità di presentare un Hegel già da subito filosofo della storia, sottraendolo all’inquadramento sotto la titolatura di
“teologo”, che ripete, appunto, il titolo – classico per la sistemazione bibliografica delle opere di Hegel – di “Scritti teologici
giovanili”. Hegel, a differenza di Shelling, Fichte, Kant, «rimane invece molto vicino al “concreto”; e il concreto sono per lui
la vita dei popoli, lo spirito dell’Ebraismo e del Cristianesimo […] per affrontare con una strumentazione adeguata il proprio
oggetto, la vita umana quale gli si presenta nella storia. Le preoccupazioni di Hegel sono anche di ordine pratico. Sotto
l’influenza della Rivoluzione Francese – che lo ha per un momento entusiasmato, come ha entusiasmato quasi tutti i suoi
contemporanei – egli pensa a delle riforme concrete destinate a ridare la “vita”, una vita unitaria, a un territorio “che non è
più uno Stato”», cfr., ivi pp.12-13. Il problema di una Verfassung, di una forma politica all’altezza dei tempi, al di là del
conflitto delle facoltà, di progetti di pace perpetua, e che pone il problema del suo rapporto con l’intendimento filosofico
della religione, con una religione positiva e la religione popolare che non sia più una estensione della ragion pura pratica,
secondo la quale bisogna ammettere che la morale conduce necessariamente alla religione, è la forma di un sapere che si
candida ad essere presupposto di ogni altro sapere che voglia rendere, nel pensiero, la concretezza effettiva della
rappresentazione di quel legno storto che è l’uomo. L’operazione teorica di Hyppolite, e anche di Calabi che propone questa
traduzione delle lezioni del filosofo francese, e che, come si legge, viene raccolta in essenza dal successore Foucault,
dipende da questa possibilità che la filosofia deve, in quanto può, concedersi. Nelle parole di Foucault questo vuol dire che
l’hegelismo di Hyppolite, concepito come uno schema d’esperienza della modernità, ci presenta una filosofia che «doveva sempre
tenersi discosta, rompere colle sue generalità acquisite e rimettersi in contatto con la non-filosofia; essa doveva accostarsi
quanto più possibile non a ciò che la conclude, ma a ciò che la precede, a ciò che non si è ancora destato alla sua
inquietudine; essa doveva riprenderle per pensarle, non per ridurle, la singolarità della storia, le razionalità regionali della
scienza, la profondità della memoria della coscienza; appare così il tema della filosofia presente, inquieta, mobile lungo tutta
la sua linea di contatto con la non-filosofia, non esistendo tuttavia che grazie ad essa e rivelando il senso che questa non-
filosofia ha per noi», M. Foucault, L’ordine del discorso, e altri interventi, tr.it. di Alessandro Fontana, Mauro Bertani e Valeria
Zini, Einaudi, Torino 2004, pp. 38-39.
7
ermeneutica di statuto riflessivo, qualora si prendesse la briga – e chissà quante mortificazioni –
di mediare tra la scienza e le prassi-di-vita9.
Secondo Habermas esiste un nesso logico e storico, nonché una dinamica psicologica, che lega
lo sviluppo della coscienza morale – l’accesso alla dimensione più astratta e universale
concepibile per un pensatore che si muove all’interno dell’universo filosofico kantiano –
all’emersione di strutture normative. Tale nesso si esprime nei termini di una progressiva
universalizzazione e interiorizzazione dei sistemi di valori, tale che, scrive Habermas in un saggio del
1970, dedicato alla esposizione critica dell’etica biologica di Gehlen10, «Il livello più alto della
coscienza morale coniuga l’ universale validità delle norme con una estrema individualizzazione
degli attori»11, sennonché, come sostiene nel seguito, anche queste forze erette interiormente
dall’universale astratto rimangono come un che di esteriore rispetto all’individuo. Da Hegel in
avanti, si può aggiungere, questo fenomeno non dovrebbe causare eccessivi problemi all’analisi:
l’interiorizzazione non è in grado di per sé di realizzare l’individuazione, ossia la «conciliazione
di universale e particolare. Essa rende ragione al momento di indipendenza da ogni potere
esterno, tuttavia, se volesse agire in maniera ragionevole e non soltanto ciecamente autoritaria,
questa forza interna non dovrebbe più essere caratterizzata dalla dignità quasi ontologica di un
legislatore intellegibile, posto “più in alto” della comunicazione reale dei soggetti agenti»12.
Una giustificazione razionale deve essere ricercata nella comunicazione reale dei soggetti agenti,
all’interno del «processo pubblico di formazione delle volontà che si subordini al principio della
comunicazione illimitata e del libero [herrschaftsfrei] consenso»13. Il corrispettivo fondamento è
possibile determinarlo nella struttura immanente del discorso possibile14. In un contesto teorico
9 Cfr. J. Habermas, La funzione vicaria e interpretativa della filosofia, in Id., Etica del discorso, a cura di Emilio Agazzi, Laterza,
Roma-Bari, 2015, pp. 5-23.
10 Cfr. J. Habermas, Arnold Gehlen 2. Sostanzialità contraffatta, in Id., Profili politico-filosofici, a cura di Leonardo Ceppa, Guerini e
13 Ivi, p. 88.
14 La situazione comunicativa ideale dipende dalla determinazione intramondana di legittimità, a partire dalla prassi di vita
quotidiana, tale che: «Il discorso può essere inteso come quella forma di comunicazione libera dall’esperienza e sgravata
dall’azione, la cui struttura assicura che oggetto della discussione sono unicamente pretese di validità virtualizzate di
affermazioni oppure di suggerimenti o ammonizioni; che partecipanti, temi e contributi non vengano limitati […]; che non
venga esercitata costrizione, eccetto quella dell’argomento migliore; che di conseguenza sono esclusi tutti i motivi eccetto
quelli della ricerca cooperativa della verità», cfr. J. Habermas, La crisi della razionalità, cit., p. 119. La questione rappresenta
uno dei lasciti filosofici più propri della speculazione habermasiana, la traccia e il senso delle sue opere più innovative: una
bibliografia completa dei rimandi non ci interessa in questo luogo; non a caso, infatti, si è presa la citazione in un luogo che
non sembra immediatamente il più indicato. Tuttavia, per il nesso interno che la razionalità comunicativa stabilisce
kantianamente tra diritto, politica e morale, mediante il quale il punto di vista morale viene stabilizzato all’interno delle
8
post-metafisico15, così come viene caratterizzato da Habermas, la pragmatica formale 16 è
utilizzata in quanto analisi della comunicazione tra individui, e assume la funzione di
prolegomeni ad ogni futura identità che voglia presentarsi come universalistica, che voglia cioè
essere inclusiva dell’altro17. Secondo Habermas il pragmatismo è quell’atteggiamento teorico che si
fonda sull’idea che l’ultima forma possibile di trascendenza sia quella deducibile a partire dalla
validità pratica, immanente al mondo e alla prassi comunicativa e proveniente dal contesto
normativo che emerge nella discorsività propria della prassi quotidiana di vita.
Tuttavia, si può vedere come le sue argomentazioni seguano un copione che è tipico delle
dottrine trascendentali: dal concepimento delle condizioni di possibilità di un certo fenomeno,
al fissare i limiti di questo concepire, fino alle immancabili ultime istanze. Ancora nel saggio del
1970 si legge: «Un ragionevole processo formativo della volontà dipende certo dalla
comunicazione degli interessati. Ma la pretesa di decidere ragionevolmente questioni pratiche potrà
collegarsi alla comunicazione ordinaria solo se quest’ultima si obbliga a rispettare i principi
dell’accesso illimitato e dell’assenza di costrizioni. Così le determinazioni dell’io intelligibile
ritornano come idealizzazione linguistica in cui si argomenta intorno a questioni pratiche»18, e
cioè, «In ogni comunicazione infatti […] noi pretendiamo di distinguere vero da falso» 19 e però,
come volevasi dimostrare, «In ultima istanza […] l’idea di verità esige che si ricorra a un
accordo che, per poter valere da index veri et falsi, dev’essere pensato come se fosse raggiungibile
procedure di produzione normativa, si guardi, tra li altri, a L. Ceppa, Legittimità tramite legalità. L’innesto habermasiano della
ragion pratica nel diritto positivo (Tanner Lectures), in “Fenomenologia e società”, 1994, n. 1, p. 93 segg.
15 Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, a cura di Marina Calloni, Laterza, Bari, 2006.
16 Habermas indica tra i vari motivi che lo portarono a distinguere il suo pensiero dalla Teoria Critica della Scuola di
Francoforte quello che va sotto il nome di ‘svolta comunicativa’, secondo cui «il mezzo categoriale per superare la carenza
normativa della Teoria Critica sarebbe […] un concetto di intesa comunicativa in termini di teoria del linguaggio», come
scrive Honneth, in J. Habermas, Dialettica della razionalizzazione. Jürgen Habermas a colloquio con Alex Honneth, Eberhard Knödler-
Bunte e Arno Widmann, in Id. Dialettica della razionalizzazione, a cura di Emilio Agazzi, Unicppoli, Milano, 1983, p. 227.
L’intuizione che Habermas ha poi sviluppato largamente nella sua opera principale – cfr. J. Habermas, Teoria dell’agire
comunicativo, 2 voll, a cura di G.E. Rusconi, Il Mulino, Bologna 1986 – e di cui appunto è debitore della teoria del linguaggio:
«E’ l’intuizione che nella linguistica è incorporato un telos di intesa reciproca. […] Fin qui dunque va il tentativo di accertarsi
di un concetto di ragione con i mezzi della pragmatica formale, cioè con i mezzi di un’analisi delle proprietà universali di un
agire orientato verso l’intesa – e continua – Naturalmente, questo può essere soltanto un primo passo. Il passo successivo
deve rendere applicabile a rapporti sociali, a nessi di interazione istituzionalizzati, il concetto di razionalità comunicativa», pp.
227-228. La “svolta linguistica” comporta un “mutamento di paradigma”, vale a dire dal paradigma della “filosofia della
coscienza” o “del soggetto” al paradigma della “filosofia del linguaggio” o, piuttosto, dell’ “agire comunicativo”.
L’abbandono della “filosofia della coscienza” comporta anche che i presupposti impliciti della riflessione filosofica, come
l’idea di un soggetto che agisce in solitaria, passa a quella di un soggetto che è tale in quanto parte di un contesto
intersoggettivo, strutturato linguisticamente. Sul tema, si rimanda anche a J. Habermas, Dall’ermeneutica alla pragmatica formale,
in Id. Verità e giustificazione, cit. pp.61-132, e J. Habermas, La svolta pragmatica, in Id. Il pensiero post-metafisico, cit., pp. 57-133.
17 Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di Leonardo Ceppa, Feltrinelli, Milano, 2013.
19 Ibid.
9
a partire dalle condizioni ideali di una discussione libera e illimitata» 20. Si potrebbe dire, questa è
una riproposizione dell’adagio: più che la verità è la certezza della verità, in quanto indice, ad
intervenire nella prassi teorica e nella razionalità della vita quotidiana, per conformare gli
orientamenti e le aspettative. Poiché le forme dell’intersoggettività costituite linguisticamente
determinano un ethos della reciprocità, la morale filosofica di Habermas si appella, in ultima
istanza, alla pace perpetua della comunicazione possibile, soltanto che questa pace non si dà più
all’interno di una “società civile” che faccia valere la legge della ragion pura pratica – come è
stato per Kant21 – bensì nell’ambito di una discussione senza costrizioni né limiti, nel mondo
governato dalle regole del liberalismo di Rawls22.
Ora, a partire da tali considerazioni, la questione può essere così formulata: è possibile che una
indagine, quale quella di Habermas, che arriva ad attestare che il fondamento dell’etica e della
morale è qualcosa che dipende da meccanismi intramondani di apprendimento, e che tali
meccanismi vengono innescati dalle simmetrie fondamentali di ogni possibile situazione
dialogica, dall’ ethos della reciprocità fattosi consapevole di sé, ovvero che la radice dell’etica e della
morale è nella comunicazione, che attraverso l’intersoggettività l’astratto si fa spazio nella storia,
orientandola a una conciliazione sempre ulteriormente determinata, trovi come soluzione
dell’antagonismo sociale una sorta di catechesi del discorso migliore, un’omeletica che
formalmente si lascia intendere nei termini di una etica della relazione feconda di altre relazioni 23 e
che, in questo senso, riesce ad influenzare eticamente i dispositivi di organizzazione e
integrazione sociale? Il problema di Habermas sembrerebbe consistere in ciò: poiché l’identità
dell’individuo, ovvero il raggio di azione che veridicamente – secondo un’adesione intima – il
soggetto riesce a mettere in scena, attraverso la costituzione del suo “Io pratico”, viene a
dipendere dalla comunità della comunicazione, dalle relazioni simboliche di attori individualmente
interagenti, sussiste allora la necessità di garantire, sul piano comportamentale, l’integrità e il
rispetto reciproco, poiché lo sviluppo della coscienza morale è legato alla profonda vulnerabilità
dell’Io. L’io, inteso in questa luce, non può fare a meno di appoggiarsi a una regolazione etica
20 Ibid.
21 Cfr. I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, tr. it. di Alfredo Poggi e a c. di Marco Olivetti, Laterza, Bari 2010, p.
99-107. L’unico rimedio, si legge in queste pagine, al male radicale è la costituzione di una “società civile” che faccia valere
universalmente il diritto: il diritto di ogni individuo di diventare membro di una «comunità etica», come se si trattasse del
«regno di Dio sulla terra».
22 Cfr. Federica Liveriero, Habermas e Rawls: due modelli di legittimità a confronto, “Biblioteca della libertà”, LII, 2017 settembre-
10
delle pratiche discorsive, affinché si formi, in generale, e perché si formi liberamente24. Neanche
il ricorso alla pragmatica formale riduce l’ambiguità che si rileva allorquando si prova a stabilire
l’entità dell’elemento eticamente preminente in ogni formazione spirituale, ovvero l’ambiguità
che deriva dalla difficoltà di intendere se questo elemento dipenda dalla strutturazione
simbolica, dal potere normativo che ne rappresenta il nucleo, o dalla rilevanza cognitiva che
esibisce un ideale morale, in quanto si fonda sul concetto di una validità discorsiva
trascendentale.
Prima di appurarlo, possiamo constatare che in Habermas esiste già un metodo in grado di
valutare la manifestazione e la logica di sviluppo di strutture normative: questo metodo va
riconsiderato e rimesso sulla sua propria testa. In un contesto di revisione radicale dei
fondamenti delle scienze sociali25, è questa l’impostazione seguita da Habermas nel proporre il
suo programma di una «ricostruzione del materialismo storico»26.
Intanto: “per la ricostruzione del materialismo storico” vuol dire non una “restaurazione”, il
che significherebbe tornare a uno stadio originario irrecuperabile e ideologico, che come tutti
gli stadi originari sono ricostruiti ex post, in fase di ristrutturazione identitaria; non una
“rinascita” che vorrebbe dire il rinnovarsi di una tradizione appesantita dal tempo e bisognosa
di aggiornamenti considerevoli. Ricostruire una teoria vuol dire ricomporre in forma nuova i
concetti basilari e gli assunti fondamentali che la costituiscono, al fine di raggiungere meglio
l’obiettivo che questa si era posta, premesso che – nell’attuale inattualità del suo contenuto – il
suo potenziale di stimolo non sia ancora giunto ad esaurirsi27. Ricostruire il materialismo
storico, dunque, è consistito per Habermas nel raggiungere i seguenti tre obiettivi:
1) tenere la critica dell’economia politica al riparo da interpretazioni scientiste, ovvero salvare il
nucleo critico della teoria marxiana contro l’oggettivismo storico dell’evoluzionismo sociale,
improntato sulle idee di Engels e di Kautsky. Ciò ha significato riprendere le fondamentali
24
Cfr. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., in modo particolare la Prima parte e la Seconda parte, dedicate allo sviluppo della
coscienza morale, oppure Id., Teoria della morale, a cura di Vinci-Enzo Tota, Laterza, Bari, 1994, così come si tenga presente
l’importante capitolo Giustezza contro verità. Sul senso della validità prescrittiva dei giudizi e delle norme morali, in Id., Verità e
giustificazione, cit., pp.265-307. Mentre si rimanda, per la questione della forza emancipativa proveniente dall’azione
simbolicamente mediata dell’agire comunicativo in una situazione intersoggettiva, tra gli altri, al saggio L’energia liberatrice della
figurazione simbolica. L’eredità umanistica di Ernst Cassirer e la Biblioteca di Warburg, in Id. Dall’impressione sensibile all’espressione
simbolica, tr. it. Di Carlo Mainoldi, Laterza, Bari 2009, pp. 3-26.
25
Cfr. tra gli altri, Th. W. Adorno, K. R. Popper, Dialettica e positivismo in sociologia, a cura di Heinz Maus e Friedrich
Furstenberg, Einaudi, Torino 1972; J. Habermas, Logica delle scienze sociali, tr.it. di Gabriele Bonazzi, a cura di Enzo Melandri,
Il Mulino, Bologna 1970, Id., Dialettica della razionalizzazione, cit., Id., Teoria e prassi nella società tecnologica, tr.it. di Carlo Donolo,
Laterza, Bari 1969, che raccoglie saggi apparsi in varie riviste e volumi, per cui si rimanda alla Nota del curatore, cfr. ivi pp. 41-
42, e Id., Prassi politica e teoria critica della società, Il Mulino, Bologna 1973.
26 Cfr. J. Habermas, Per la ricostruzione del materialismo storico, a cura di Furio Cerutti, Etas Libri, Milano, 1979.
27
Cfr., ivi p.11.
11
assunzioni storico-materialistiche sull’evoluzione sociale e interrogarle a partire dai programmi
di ricerca avviati e stimolati da Freud, Durkheim, Mead, Piaget, Chomsky, perché, come già si
chiedeva Benjamin nei suoi Passages, il problema riguardava la possibilità di decidere rispetto a
quale sorta di conoscenza il materialismo storico fosse stato in grado di attribuirsi ancora
capacità euristiche, e cioè di porre al centro dell’apprensione del proprio tempo un problema di
perspicuità28;
2) esplicitare il fondamento normativo della teoria marxiana della società: per essere teoria
critica della società, una teoria doveva sfuggire alle false inferenze naturalistiche di teorie
implicitamente valutative. Ciò significava che per restare fedeli al punto di vista della critica
marxiana, bisognava esplicitare le basi su cui trovava fondamento ogni discorso che avesse
voluto presentarsi come valido scientificamente. Questa pretesa di validità Habermas ha potuto
declinarla secondo quattro livelli diversi di comunicazione:
- comprensibilità dell’espressione simbolica;
- verità del contenuto proposizionale;
- veridicità dell’esternazione intenzionale;
- giustezza dell’atto linguistico in riferimento a norme e valori ritenuti validi.
In questa articolata pretesa di validità, la teoria della comunicazione scorge una “pretesa della
ragione” che dev’essere riconosciuta dovunque e ogni volta che si voglia agire consensualmente.
Se questo modo di intendere il fondamento normativo della teoria marxiana può essere
accusato di idealismo, bisogna allora dire che esso riguarda le condizioni di riproduzione di un
genere – il genere umano disposto intersoggettivamente – che deve conservare la propria vita
tramite lavoro ed interazione, e, cioè, anche in forza di proposizioni capaci di verità e di norme che
abbisognano di giustificazione. Il che significa: i rapporti di produzione agiscono sulle forze di
produzione più di quanto non avvenga il contrario, ovvero che l’astratto, le forme incielate di cui
parla Marx29, dominano perché a loro spetta il dominio sul concreto da cui emergono;
28 Cfr. W. Benjamin, I «Passages» di Parigi, a cura di Rudolf Tiedemann, p. 515: «Un problema centrale del materialismo
storico che andrebbe finalmente riconosciuto: la comprensione marxista della storia si acquista necessariamente a prezzo
della perspicuità della storia stessa? Oppure: per quale via è possibile collegare un incremento della perspicuità con
l’applicazione del metodo marxista? – e il suo particolar modo di “non dire nulla” attraverso il fantasmagorico e critico
montaggio letterario - La prima tappa di questo cammino consisterà nell’adottare nella storia il principio del montaggio […]
nello scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale […] Nella struttura – teologica,
aggiungiamo noi – del commento».
29 Come si può leggere nella importante nota metodologica che si trova nel primo Libro de Il capitale: «Una storia critica della
tecnologia dimostrerebbe, in genere, quanto piccola sia la parte d'un singolo individuo in un’invenzione qualsiasi del secolo
XVIII. Finora tale opera non esiste. Il Darwin ha diretto l'interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioè sulla formazione
degli organi vegetali e animali come strumenti di produzione della vita delle piante e degli animali. Non merita eguale
12
3) «lavoro e interazione»30 significa che mentre Marx ha localizzato i processi di apprendimento
evolutivamente determinanti, in quanto avviano ondate epocali di sviluppo, nella dimensione
del pensiero oggettivante, del sapere tecnico ed organizzativo, nell’agire strumentale e strategico
delle forze produttive, Habermas allarga il fronte – sulla scorta di un ritorno motivante a Hegel
– alla dimensione del convincimento morale, del sapere pratico, dell’agire comunicativo e della
regolamentazione consensuale dei conflitti di azione. Tali processi di apprendimento dipendono
dalla dinamica intrinseca ai modelli strutturali che si dispongono secondo una logica di sviluppo
immanente alle tradizioni culturali e al mutamento istituzionale. A tal proposito Habermas parla
di strutture di razionalità che si cristallizzano in immagini del mondo, idee morali, formazioni di
identità, o anche in istituzioni e norme giurisprudenziali. Il mutamento di strutture normative
rimane dipendente sia dalle sfide evolutive rappresentate da problemi sistemici irrisolti ed
economicamente condizionati, sia dai processi di apprendimento che sono la risposta a tali
sfide. Ecco perché può allora sostenere: «La risposta descrittiva del materialismo storico dice:
attraverso conflitti sociali, attraverso la lotta, attraverso movimenti sociali e scontri politici (che,
nelle condizioni di una struttura classista, possono essere analizzati come lotte di classe). Ma
solo la risposta analitica può spiegare perché una società compia un passo evolutivo e come si
debba intendere il fatto che le lotte sociali portino, in determinate condizioni, ad una nuova
forma di integrazione sociale e quindi ad un nuovo livello di sviluppo della società» 31, perché «il
genere apprende non solo nella dimensione – decisiva per il dispiegamento delle forze
produttive – del sapere tecnicamente valorizzabile, ma anche nella dimensione – determinante
per le strutture di interazione – della coscienza pratico-morale. Le regole dell’agire
comunicativo si sviluppano in relazione a mutamenti nell’ambito dell’agire strumentale e
strategico, ma nel farlo seguono una logica propria»32.
attenzione la storia della formazione degli organi produttivi dell'uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione sociale
particolare? E non sarebbe più facile da fare, poiché, come dice il Vico, la storia dell’umanità si distingue dalla storia naturale
per il fatto che noi abbiamo fatto l'una e non abbiamo fatto l’altra? La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo
verso la natura, l’immediato processo di produzione dei suoi rapporti sociali vitali e delle idee dell’intelletto che ne
scaturiscono. Neppure una storia delle religioni, in qualsiasi modo eseguita, che faccia astrazione da questa base materiale, è
critica. Di fatto è molto più facile trovare mediante analisi il nocciolo terreno delle nebulose religiose che, viceversa, dedurre
dai rapporti reali di vita, che di volta in volta si presentano, le loro forme incielate. Quest’ultimo è l’unico metodo
materialistico e quindi scientifico», cfr. Karl Marx, Il capitale. Libro primo, tr. it. Di Delio Cantimori, Editori Riuniti, Roma,
1964, p. 414n.
30 Come si sa almeno a partire da J. Habermas, Lavoro e interazione. Osservazioni sulla filosofia dello Spirito Jenese di Hegel, tr.it. di
32 Ibid.
13
Nella integrazione operata da Habermas si vede come il rapporto di formazione della struttura e
dell’articolazione della sovrastruttura possa essere indagato partire dall’analisi della teoria dell’agire
comunicativo, così da poter fornire un valido contributo all’approfondimento e al ri-
orientamento del materialismo storico.
Secondo Habermas il materialismo storico è la teoria che tratta più scientificamente il problema
dell’evoluzione sociale, di cui Das Kapital è soltanto una parte. La teoria del materialismo storico
può essere riesposta secondo due concetti preminenti e due assunti fondamentali33.
Schematicamente, riporto questi due concetti e i due assunti ricostruiti da Habermas. A sinistra
si trova la categoria marxiana, a destra la corrispettiva ricostruita da Habermas:
a) CONCETTI:
- Lavoro sociale - Processi sociali di apprendimento
- Storia del genere - Agire comunicativo
b) ASSUNTI FONDAMENTALI:
- Teorema della sovrastruttura - Integrazione sociale
- Dialettica forze/rapporti di produzione - Crescita endogena di sapere
Come si può notare, poiché concetti e assunti sono alla base dell’idea di modo di produzione e la
direzione di Habermas nella sua ricostruzione è quella di raggiungere una maggiore astrazione
dei concetti, ricostruire il materialismo storico significa rendere più astratto il concetto di modo
di produzione. I risultati conseguiti da Habermas sono – e anche qui molto schematicamente:
- i problemi sistemici generatori di crisi, nell’ambito della riproduzione della vita materiale, che
non posso essere risolti senza nuovi elementi evolutivi, si determinano nell’ambito di base di
una società. E qui siamo all’interno del recinto marxiano;
- il modo di produzione di volta in volta superiore designa una nuova forma di integrazione
sociale che si cristallizza attorno ad un nuovo nucleo istituzionale;
- un meccanismo endogeno di apprendimento provvede all’accumulazione di un potenziale
cognitivo che può essere utilizzato per la soluzione di problemi sistemici generatori di crisi. E se
sostituiamo all’idea di logica di sviluppo quella di una dinamica dello sviluppo, cioè
all’impostazione teleologica e della “miglior determinazione” sostituiamo il modello razionale di
una gerarchia di strutture sempre più comprensive dei processi in cui si sviluppano i sostrati
33
Cfr. Ivi, pp. 112-118.
14
empirici, non si ha più bisogno di chiedere alla storia né unilateralità, né necessità, né continuità,
né irreversibilità;
- le nuove formazioni strutturali dipendono da alcune condizioni contingenti di contorno e da
processi empiricamente indagabili, ovvero da:
a) l’acquisizione di immagini del mondo della coscienza individuale nella formazione dell’Io
pratico e dell’Io epistemico, all’interno della prassi di socializzazione;
b) l’emersione di problemi sistemici che travalicano la capacità di controllo e la direzione del
processo di socializzazione;
c) la messa alla prova della tenuta istituzionale di fronte a nuove strutture di razionalità.
Il genere apprende nella dimensione del sapere tecnicamente valorizzabile e nella dimensione
dell’agire comunicativo. Le società allora apprendono in modo evolutivo perché utilizzano i
potenziali cognitivi contenuti nelle strutture di razionalità per la riorganizzazione dei sistemi di
azione. I nuovi livelli di apprendimento non equivalgono soltanto ad un ampliamento dei
margini di operazione, ma anche a nuove situazioni dei problemi, a nuovi problemi: la dialettica
dello sviluppo sociale si rivela nel fatto che, con l’acquisizione delle capacità di risolvere i
problemi sistemici, si acquista coscienza di nuove situazioni problematiche. E, dunque, per
un’analisi del presente che si interroghi intorno all’esaurimento del potenziale di innovazione e
di adattamento delle strutture sociali esistenti, la teoria dell’evoluzione sociale, impostata nel
senso di un ricostruito materialismo storico, conserva un significato sistematico. Sistematico vuol
dire che il dispiegamento delle forze produttive, connesse alla maturità delle forme di
integrazione sociale, riguarda i progressi denotabili nella capacità di apprendimento, sia nella
dimensione della conoscenza oggettivante, immediatamente sussunta alla logica di produzione,
sia nella consapevolezza pratico-morale: «I progressi in entrambe queste due dimensioni si
misurano in base alle due pretese universali di validità, a cui commisuriamo anche i progressi
della conoscenza empirica e della consapevolezza pratico-morale, vale a dire in delle
proposizioni e alla giustezza delle norme»34. I criteri del progresso storico, identificati dal
materialismo marxiano in termini di dispiegamento delle forze e dei rapporti di produzione,
mantengono un legame sistemico con la razionalità delle forme sociali di relazione. Proprio per
l’esistenza di questo legame, per “razionalizzazione” Habermas non può che intendere la
cancellazione dei rapporti di violenza, ovvero la forma di quelle relazioni penetrate
impercettibilmente nelle strutture comunicative, le quali impediscono, con blocchi
34
Ivi, p. 116.
15
interpersonali della comunicazione, che i conflitti vengano sostenuti consapevolmente e
regolamentati in modo consensuale. Gli stadi del diritto e della morale, della delimitazione
dell’Io e delle immagini del mondo, delle formazioni di identità del singolo come del comunità,
sono stadi di questo processo di allargamento della sfera dell’agire volto all’intesa, in constante
contrapposizione con l’impoverimento che deriva dalla sfera di apprendimento dell’agire
strategico.
Quando la riproduzione della società è messa in forse da una sfida evolutiva ingente, ciò che
Marx descrive nei termini di una rivoluzione dei rapporti di produzione, per Habermas si ha la
possibilità della creazione di condizioni per l’accesso ad un nuovo livello di apprendimento, a
una meglio determinata forma di astrazione pubblicamente condivisa. L’ anatomia della società
borghese è realmente la chiave per intendere le forme di sviluppo delle società precedenti:
tuttavia, è proprio nel modo in cui nei sistemi economici capitalistici sorgono perturbazioni del
processo di riproduzione che non si possono trovare i temi di una generalizzazione e di un
trasferimento di tali problematiche ad altre formazioni sociali, sic et simpliciter . In breve, la lotta di
classe deve cambiare metodi: la ricostruzione del materialismo storico arriva a sostenere che la
logica della genesi di problemi sistemici non dice quale logica segua il sistema sociale nel
rispondere a una sfida evolutiva. Nuovi livelli di apprendimento equivalgono alla posizione di
nuove situazioni dei problemi, ovvero: «La dialettica del progresso si rivela nel fatto che con
l’acquisizione delle capacità di risolvere problemi si acquista coscienza di nuove situazioni dei problemi»35.
Se la filosofia è la forma di autoriflessione più radicale in una data epoca, e, in questa luce, gli
spunti di un marxismo ricostruito sono sicuramente filosofia 36, allora, si può chiedere:
a) l’operazione teorica di Habermas ci aiuta a capire in cosa consista l’ autoriflessione? Si può
rispondere: si, poiché la sua teoria della morale e dell’agire comunicativo ci dicono come gli
individui e le società si formano “identità pratiche”;
b) la sua proposta di una ricostruzione del materialismo storico ci aiuta a capire di che genere è
l’ emancipazione promossa dalla forza che essa libera, l’uscita da stati di minorità intesi nei
termini di violenza? Si può dire: si, poiché l’emancipazione consiste nell’emersione di nuovi
livelli di apprendimento, cioè di livelli di comunicabilità più comprensivi ed inclusivi.
Tuttavia, questo assunto si basa su un presupposto problematico: la totale trasparenza dei
processi comunicativi. E, allora, proprio rispetto a questo, si potrebbe chiedere: il modello di
35
Ivi, p. 128.
36 Cfr. J. Habermas, Il ruolo della filosofia nel marxismo, in Id. Dialettica della razionalizzazione, cit., pp. 139-150.
16
una democrazia deliberativa, al quale Habermas perviene come al modello politico il più adeguato
possibile alla natura delle relazioni umane in un contesto di intersoggettività, conserva ciò che
promette? La validità prescrittiva dei giudizi e delle norme morali, la quale trova giustificazione
in concetti quali quello di razionalità comunicativa, agire comunicativo e condizione
intersoggettiva, naufraga nella riproposizione del trascendentalismo morale dell’agire orientato
secondo l’intesa. Nel suo impegno pratico la ragione comunicativa si conferma patrimonio di
idee costruttive che determinano la libera formazione delle volontà. Un giudizio o una norma
morale si riferisce immediatamente a una prassi e nel farlo esibisce uno specifico contenuto
proposizionale, generando attese di comportamento morale distinte da altre norme sociali,
poiché il senso prescrittivo di “comandato” o “proibito” risulta collegato al senso epistemico di
“giustificato” o “ingiustificato”, e ciò consente di giudicare un’azione non solo come conforme
o difforme dalla regola, bensì come “giusta” o “errata” riguardo alla regola stessa37. Tale
contenuto normativo richiede riconoscimento universale e pretende validità in un senso
cognitivamente rilevante, il quale deve potersi acquisire e giustificare a partire dal potenziale
razionale immanente alla prassi di vita quotidiana. Secondo Habermas si possono a tal
proposito assumere due diversi atteggiamenti: continuare a iscriversi nell’orizzonte dei
programmi di ricerca legati alla critica radicale e alla “distruzione della Ragione”, e cioè
ripercorrere i sentieri teoretici propri della dialettica negativa, della genealogia e della decostruzione,
oppure vagliare criticamente le proposte di quelle filosofie che invece guardano alla prassi dei
processi intramondani di apprendimento, come il pragmatismo, la fenomenologia, e l’ ermeneutica38.
I paradigmi di ricerca che guardano al potenziale razionale della prassi di vita quotidiana hanno
concepito la dissoluzione concettuale della tradizionale corrispondenza tra il concetto di
“totalità” e il concetto di “sistematicità”. La questione resta sempre quella di capire il perché si è
assoggettati in nome di certi principi, in vista di certi obiettivi e per mezzo di certe procedure 39,
tuttavia, nel farlo, non si ricorre a una immediata identificazione di tali principi, obiettivi e
procedure con forme della ragione, come forme della ragione. L’agire comunicativo mostra come
dalle dinamiche pratiche della costituzione di un Lebenswelt emergano norme da trattare in
termini di vincoli comunicativi e non soltanto in termini di dispositivi sociali.
17
Nella sua proposta di un’ etica del discorso, Habermas è in grado di fare qualcosa di ulteriore: non
soltanto attraversa metodologicamente la teoria del materialismo storico e i più importanti
indirizzi filosofici del XX secolo, bensì espone in modo nuovo e cogente, normativamente
denso di conseguenze, la possibilità di riproporre filosoficamente la domanda kantiana che cosa
mi è lecito sperare?, domanda che concerne la possibilità di sapere cosa si debba fare per essere
felici e per meritare questa felicità. Dover fare qualcosa, afferma Habermas, significa avere
ragioni per farlo. Tali ragioni emergono dalla prassi quotidiana di vita e si sviluppano tramite
processi di socializzazione, ovvero tramite:
a) riconoscimento intersoggettivo delle pretese di validità di ciascuno;
b) individualizzazione;
c) processi pubblici di formazione delle volontà e di apprendimento.
Questi tre ambiti costituiscono i nessi condizionali di determinazione di ciò che Habermas
intende per razionalizzazione. In tale cornice teorica, “morali” risultano essere tutte quelle norme
che ci indirizzano verso comportamenti di rispetto e riguardo nei riguardi dell’estrema vulnerabilità
che è strutturalmente insita in forme di vita storico-sociali, organizzate comunicativamente.
Tuttavia, verrebbe da chiedersi, la riabilitazione del concetto di ragione che il programma
teorico di Habermas sviluppa e presuppone nel corso della fondazione della filosofia morale, si
tiene al riparo da un pensiero centrato nel soggetto, al quale non è riuscito di tenere libera la
coazione spontanea della ragione tanto dai tratti totalitari di una ragione strumentale che reifica
e oggettifica tutto intorno a sé ed anche essa stessa, quanto dai tratti totalizzanti di una ragione
inclusiva che incorpora tutto ed alla fine trionfa come unità su tutte le differenze? E, poi,
dall’altro lato, considerare nei termini di metafora della legislazione l’apporto della modernità,
non ci offre la possibilità teorica di criticare il concetto stesso di normatività, in quanto
idealizzazione e astrazione indeterminata della forma-legge che si impone quale figura principale
della pragmatica formale? E, infine, quale è il reale destino che la categoria di evoluzionismo
sociale prescrive alla formazione di strutture normative in ambito storico-morale e cognitivo?
L’ambito di problematicità dischiuso da questi interrogativi trova ampio svolgimento nella
ricerca di Niklas Luhmann, così come viene da subito dichiarato allorquando quest’ultimo
venne indotto a difendersi dalla «critica sanzionatrice»40 di Habermas stesso, la quale, alla fine di
una serrata e ricca disamina, come sostenne il sociologo di Bielefeld, «perviene ad un confronto
40 Come si legge in J. Habermas, N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale. Che cosa offre la ricerca del sistema sociale?, tr.it.
di Riccardo Di Corato, Etas Kompass Libri, Milano, 1973, p. 196.
18
polarizzato – pressappoco sulla linea: critica o apologia dell’ordine dominante» 41. La diatriba
viene riassorbita in un discorso di riorientamento generale della teoria sociologica, del definitivo
superamento della sociologia come teoria dei sistemi d’azione. In breve, le tematiche conflittuali
riscontrate con Habermas diventano, nel corso della ricerca del sociologo, solo una parte delle
questioni che egli intende riformulare, e che trovano in Talcott Parsons il vero punto di
riferimento teorico-polemico.
Habermas vede in Luhmann l’ultimo esponente di un razionalismo meritevole di aver dato
nuovo impulso al tema dell’astrazione e del controllo razionale dei fenomeni. Tuttavia, sostiene,
il problema è che nel fare ciò Luhmann si sia visto costretto a cancellare le differenze tra prassi e
tecnica, da un lato, e, dall’altro, a nascondere, dietro una formidabile prestanza discorsiva, il
nucleo metaforico delle sue considerazioni, che risulta legato a una ri-appropriazione acritica
dell’eredità che discende immediatamente della filosofia del soggetto42. Possiamo, invece,
ridurre a quattro i punti di critica a cui Luhmann sottopone la teoria di Habermas:
- dal punto di vista teoretico-sistematico non si può conservare la tesi del discorso come non-
sistema e, pertanto, far valere le speranze ad esso legate;
- rispetto al tema dei processi sociali di apprendimento, che è alla base di ciò che Habermas
intende per contenuto normativo della modernità, e cioè al modo di intendere la costruzione
contingente della vita sociale in quanto legata a una estrema vulnerabilità, si deve dire:
“comunicazione” non può essere l’ambito di dispiegamento più autentico della condizione
intersoggettiva ma una funzione del sistema sociale, poiché la vulnerabilità estrema del mondo
di vita è l’ambiente del sistema sociale, è ciò che crea il sistema/i sistemi sociali, non una
creazione del sistema, sebbene sussista in questo nella forma determinata di riduzione della
complessità che di volta in volta assume;
- la razionalità della prassi di vita quotidiana, l’ambito dal quale emerge una validità universale e
che, per questo motivo, si presta a diventare il fondamento della teoria morale di Habermas, è
concepibile, e non solo prescrivibile, se e solo se la si intende come razionalità della
differenziazione tra sistema e ambiente, come insieme di processi di eventi che strutturano il
dislivello e l’asimmetria di complessità tra sistema e ambiente. Nel caso non ci fosse tale
dinamica, una unità di senso, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, non avrebbe alcuna
reale informazione per costituirsi e per operare nel modo in cui opera;
41 Ibid.
42 Come eloquentemente si legge, tra gli altri, nell’ Excursus sulla appropriazione dell’eredità della filosofia del soggetto da parte della
teoria dei sistemi di Luhmann, in J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, cit. pp. 366-383.
19
- la creazione di domini speciali di legislazione razionale è solo l’altra faccia di una medaglia
teoretica che appartiene alla tradizione vetero-europea, così come Luhmann stesso la definisce.
È solo un’altra delle conseguenze della centralità che in questa tradizione riveste il modello
oggettuale di spiegazione43.
Se si resta in un ambito di ricerca normale – legate a un primo grado di osservazione – la critica di
Habermas conserva la sua forza, poiché si mostra come quella critica che valuta le condizioni di
possibilità di ogni categoria, nel senso di unità di riferimento più o meno adeguato alla
fenomenicità da indagare. La teoria dei sistemi sociali nasce, invece, proprio dall’esigenza di
sostituire i riferimenti ultimi con riferimenti sistemici, dall’esigenza di reimpostare la teoria al di
là della concettualità legata alle categorie di “soggetto” e “oggetto”. E Luhmann può farlo
poiché pone al centro di questo programma teorico il metodo delle equivalenze funzionali,
deducibile su un piano di osservazione di second’ordine44.
L’equilibrio che di volta in volta viene raggiunto nel sistema sociale fra le diverse formule di
contingenza come la validità intersoggettiva, la morale, il diritto, e così via, è stato soppiantato,
nella teoria dei sistemi, da una differenziazione della selettività, mediante la quale, nelle società e
nell’organizzazione delle diverse condotte di vita, ha luogo la formazione stessa del sistema. E,
allora, concetti come “formule di contingenza” o “mezzi di comunicazione” si rendono
disponibili a ricerche di tipo più astratto, grazie al fatto che denotano nessi fattuali più
complessi. Metodologicamente questo significa che nei limiti in cui tale discorso ha luogo – e
diciamo pure che occorrerebbe prenderlo anche nei riguardi di altri media, della verità, del
potere, delle relazioni valutative e persino dell’arte – viene consolidandosi, al tempo stesso, la
convinzione della presenza di un legame fra la teoria della società, come quella di Habermas, e i
codici simbolici della stessa. Da ciò se ne può ricavare l’impressione che questa tipologia di
teoria consista in una autorappresentazione simbolica della società, redatta nei concetti dei suoi
stessi codici, e tale, tuttavia, da non raggiungere mai un grado di riflessione così elevato da
consentirle di riconoscere come contingenti anche i vari mezzi di comunicazione e le formule di
43 Per il concetto e la magistrale disamina del problema, nell’arco di tutta la teoria della conoscenza per come è venuta
determinandosi tra “analitici” e “continentali”, si rimanda a A.G.Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come
strutturazione dell’esperienza comune, Mimesis, Milano 2009, in particolare pp. 45-50.
44 Per l’idea di cibernetica di second’ordine cfr. H. Von Foerster, Cibernetica ed epistemologia: storia e prospettive, in La sfida della
complessità, a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, Mondadori, Milano 2007; Id, Sistemi che osservano, a cura di Mauro
Ceruti, Umberta Telfner, traduzione di Bernardo Draghi, Astrolabio, Roma 1987. Oppure, R. Ashby, Introduzione alla
cibernetica, Einaudi, Torino 1970.
20
contingenza che utilizza45. Nella misura in cui, invece, questo diventa possibile, ci si potrebbe
avviare alla formulazione di una teoria della società i cui elementi potrebbero essere presentati
non più soltanto in termini critici o in termini normativi, ma «finalmente comprensibili tanto
nel loro contesto, quanto anche in quello della storia»46.
La chiusura operativa dei sistemi autoreferenziali, teorizzata da Luhmann, ci spiega come ciò che è
possibile è reale (costruttivismo funzionale), ma che ciò che è reale è tale perché è eventuale
(relatività ontologica). La misura dell’eventuale è l’ improbabilità, e, come ricordava Keynes,
l’inevitabile non accade perché l’improbabile è preponderante47. Una ricerca che si iscriva
nell’orizzonte problemaico fin qui delineato, e che cerchi di affrontare ab intrinseco il dischiudersi
di un discorso, quello di Luhmann, così complesso e impegnativo, dovrà partire dal concetto di
complessità48, dal ruolo che questo concetto svolge in termini di riferimento ultimo dell’analisi
funzionale, per concepire tutti i sistemi in termini di comprensione e di riduzione di
complessità, e, dunque, per mostrare come la loro matrice comune li differenzi in un ambito di
sostituibilità e di equivalenza funzionale, nel contesto cognitivo e ontologico della selettività
sistemica: ciò che fa della complessità un problema reale e non soltanto uno pseudo-problema
scientifico49. L’idea è poter fare della problematica della complessità una teoria corrispondente,
cosa che per Luhmann vuol dire il tentativo di presentare la sua sociologia come livello
linguistico meta-linguisticamente non oltrepassabile, dominio nel quale provare a delineare, nel
senso dell’autoriferimento, i fondamenti di una teoria generale. Di questo se ne parlerà nel primo
capitolo.
Il programma, che costituisce anche il nucleo di quello che Luhmann definisce come illuminismo
effettivo50, si determina attraverso una articolata esposizione di concetti e nessi esplicativi. Nel
secondo capitolo si tenta perciò di mostrare l’emergere di questa ricchezza concettuale nel
luogo privilegiato della sua esposizione, in Sistemi sociali51, al fine di mostrare la direzione della
45 Come viene sostenuto in N. Luhmann, Scarsità, denaro e società civile, in Id. Potere e codice politico, tr.it. di Gustavo Gozzi,
Feltrinelli, Milano1982, pp. 100-135.
46
Ivi, p. 135.
47
Cfr. J.M. Keynes, Trattato sulla probabilità, a cura di Alberto Pasquinelli, Silvia Marzetti Dall'Aste Brandolini, Clueb,
Bologna 1994, pp. 43-45.
48
Per il concetto di complessità, i suoi legami e le sue implicazioni filosofiche, e per una bibliografia di orientamento si
rimanda a L. Mori, Il concetto di «complessità»: contributo alla chiarificazione delle implicazioni filosofiche, “Nóema”, Numero 3, anno
2012, http://riviste.unimi.it/index.php/noema.
49
Cfr. J. Bouveresse, Filosofia, mitologia e pseudo-scienza. Wittgenstein lettore di Freud, tr.it. di Anna Maria Rabbiosi, Einaudi,
Torino 2000.
50
Cfr. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, in Id. Illuminismo sociologico, a cura di Reinhard Schmidt, Il Saggiatore, Milano 1983,
pp. 73-102.
51
N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, tr.it. a cura di Alberto Febbrajo e di Reinhard Schmidt, Il
Mulino, Bologna 1990.
21
ricerca presente e lo spostamento di concezione, spostamento che conduce alla ri-formulazione
di problematiche tradizionalmente dense di significati e di conseguenze – non solo sul piano
della teoria – come quelle che prenderemo in esame nel terzo capitolo. Le categorie di “potere
politico”, “società” e “società civile”, vengono interrogate secondo un doppio livello di
referenza: rispetto a ciò che ci resta tramandato dalla filosofia politica moderna, e rispetto al ri-
concepimento offerto da Luhmann, in quanto campi specifici di applicazione della teoria dei
sistemi. Uno sguardo al tipo di operazione che la teoria generale dei sistemi sociali mette in
scena quando si tratta di affrontare il concreto della differenziazione sociale, lo spirito
dell’autonomia dei sottosistemi in formazione, così come avviene nel caso del sistema politico,
nel sistema economico, e nel sistema sociale detto società. Il confronto con la filosofia sistemica
classica52, viene tematizzato esplicitamente nel corso del quarto capitolo, in una sorta di diatriba
a quattro voci (Hegel, Marx, Habermas, Luhmann). Qui ci si prospetta di mostrare come sia
possibile intendere la proposta teoretica del sociologo nei termini di una costante
radicalizzazione della dialettica, da un lato, e del trascendentalismo, dall’altro. Espediente e
canovaccio del capitolo è rappresentato da un testo di recente pubblicazione in Italia, The
Radical Luhmann53, di Hans-Georg Moeller. L’analisi e la critica di questo, ci offre anche la
possibilità di una rilettura dello storico dibattito tra Habermas e Luhmann 54, e, da qui, nel
quinto capitolo, l’instradamento per un confronto tra l’epistemologia dei sistemi sociali e il
punto di vista marxiano della critica dell’economia politica.
Il doppio cambio di paradigma55 della teoria di Luhmann, rispetto alle scienze sociali e alla teoria
classica dei sistemi56, è stato possibile perché la differenza-guida, sostitutiva delle dicotomie e
delle aporie del modello oggettuale della tradizione teorica classica, ha acquisito un livello di
informazione tale da consentire un salto in termini di astrazione, riuscendo a raccogliere, grazie
52
Il riferimento a tale classicità del concetto di sistema, non storicamente, quanto tematicamente e logicamente, in reazione al
nostro interrogarci tra Habermas e Luhmann, è al movimento di pensiero che comincia con l’idea di architettonica della ragion
pura, l’arte del sistema, ovvero alla dottrina che definisce il modello di costituzione di qualsiasi sapere che voglia presentarsi
come scienza in Kant. L’idea della conoscenza sistematica riferita alla ragione, l’idea di un’architettonica della ragion pura,
appunto, è l’ esibizione integrale del concetto di ragion pura in quanto sistema, e dunque del fine e della forma del tutto che a essa
corrisponde. «Nessuno – dice Kant – potrà mai tentare di costruire una scienza senza porre a suo fondamento un’idea», I.
Kant, Critica della ragion pura, a c. di Pietro Chiodi, UTET, Torino 2005, p. 624; ciò significa che nessuno potrà mai costruire
una scienza senza porre a fondamento lo schema logico di una totalità di determinazioni possibili grazie al quale poter poi
rappresentare architettonicamente un tutto in base al principio del fine, in base cioè al principio della determinazione
completa come possibilità interna del concetto stesso. E il concetto è, in questo caso, la pura ragione.
53
H.G. Moeller, The Radical Luhmann, Columbia University Press, New York, 2011.
54
Cfr. J. Habermas, N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale. Che cosa offre la ricerca del sistema sociale?, cit.
55
Cfr. N. Luhmann, Mutamento di paradigma nella teoria dei sistemi, «Sistemi Urbani», 2, 1983, pp.333-347, e Id., Sistemi sociali,
cit., pp. 65-76.
56
Qui, invece, il riferimento è L. Von Bertalananffy, Teoria generale dei sistemi, Mondadori, Milano 1983, e, tra gli altri, T.
Parsons, La struttura dell’azione sociale, il Mulino, Bologna 1962, e Id., Il sistema sociale, Milano 1965.
22
al concetto di autopoiesis57, gradi di complessità sociali via via maggiori. L’autoreferenza è una
operazione necessaria, strutturalmente contingente, il correlato della complessità sul piano della
costruzione di unità e identità sensive. Come faccia la chiusura autoreferenziale a produrre una
apertura autoreferenziale è la questione con cui si conclude il presente lavoro: in particolare, la
possibilità di rispondere a tale quesito viene annunciata nei termini di un confronto tra la
formazione di meccanismi riflessivi58 descritta da Luhmann e la teoria dei mondi intermedi59.
57
Cfr. tra gli altri, R. Ashby, Principles of the Self-Organizing Dynamic System, “Journal of General Psychology”, vol. 37, p. 125;
G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, Id. Mente e natura, Adelphi, Milano 1984; G. Bocchi, M.Ceruti
La sfida della complessità, cit.; P.F. Drucker, L’era del discontinuo, Etas Kompass,1970; H. Maturana, (1988), Reality: The Search
for Objectivity or the Quest for a Compelling Argument, Irish Journal of Psychology, vol. 9, n. 1, pp. 25-82, Id. e F. Varela,
Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l'organizzazione biologica, Astrolabio-Ubaldini Editore, Roma 1992, Autopoiesi e cognizione,
cit., Marsilio, Venezia 1985, L’albero della conoscenza, Milano, Garzanti, 1987; I. Prigogine, Dìssìpatíve Structures in Chemical
Systerns, in Fast Reactions and Primary Processes in Chemical Kinetics, a cura di Stig Claesson, Interscience, New York; Id., Dall’essere
al divenire, Einaudi, Torino 1986, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981; F.Varela, Describing the Logic of the Living: The
Adequacy and Limitations of the Idea of Autopoiesis, in Autopoiesis: A Theory of Living Organization, a cura di Milan Zeleny, New
York 1981, pp. 36-48.
58
Cfr. N. Luhmann, Meccanismi riflessivi, in Id., Illuminismo sociologico, cit., pp.103-128.
59
Cfr. A.M. Iacono, L’illusione e il sostituto. Riprodurre, imitare, rappresentare, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2010; Id., Storie di
mondi intermedi, ETS, Pisa 2016; Id., Il sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia, Guerini e Associati, Milano 2016;
A.G. Gargani, A.M. Iacono, Mondi intermedi e complessità, ETS, Pisa2005.
23
Capitolo primo:
La chiusura operativa: analisi funzionale e teoria dei sistemi
I.I. Primo tentativo di dispiegamento della tautologia propria della strategia conoscitiva. Che
cosa è una spiegazione funzionale?
Un sistema è chiuso attraverso l’autoriferimento. Ciò vuol dire che ogni operazione del sistema,
quale che sia il suo significato, si riferisce, in ogni caso, anche al sistema stesso. Grazie a questa
particolare dinamica, un sistema apprendere entro i contesti che esso stesso crea e garantisce. «La
tradizione nell’ambito della riflessione teorica sulla scienza – scrive Luhmann nella Risposta
all’autore dell’Introduzione, dove l’autore in questione è Danilo Zolo e l’introduzione è quella
aggiunta all’edizione italiana del 1983 del primo volume di Soziologische Aufklärung – è ricca di
tentativi di evitare una concezione di questo tipo. Essi possono essere ricostruiti quasi in
termini dialettici: dalla certitude morale, o common sense, al suo opposto, che sono le “condizioni
trascendentali di ogni esperienza possibile” fino a giungere alla sintesi, costituita dall’attuale
concetto di “mondo di vita” (Lebenswelt)»
1. E continua: «Mi pare che si tratti di una strada sbagliata. In alternativa a ciò – potremmo dire
con Tarski – occorre “dispiegare” la tautologia e cioè schiudere la sua identità sostituendovi
delle differenze simmetriche o asimmetriche»2. Se queste differenziazioni simmetriche, atti di
decisione nell’orizzonte linguistico della sociologia di Luhmann, o asimmetriche – la sproporzione
di complessità che esiste tra sistema e ambiente, rappresentata attraverso la formazione di unità
di senso – si danno per scontate, analiticamente date come presupposti immediati, la cui
asseribilità è garantita dal riferimento ai contesti ermeneutici su citati, si percorre una via
battuta da sempre: ci si ritrova «nell’ambito della ricerca normale» 3. Dispiegare la tautologia
risulta possibile, invece, se si assume il punto di vista di una «second order cybernetics»4.
Il fatto che nel sistema rientrino le informazioni relative agli effetti prodotti dal proprio
comportamento, consente al sistema di assorbire complessità crescenti. Considerati in questa
4 Ivi, p. XXXVII.
24
prospettiva molti concetti tradizionali di importanza fondamentale, come quelli di deduzione e di
causa, ad esempio, subiscono un mutamento radicale.
Una logica ricorsiva di second’ordine è in costante relazione con l’asimmetria di complessità
che sussiste tra sistema e ambiente e, al contempo, con le operazioni che in questa dimensione
devono verificarsi. A partire dagli anni ‘60, e via via in modo sempre più convito e articolato,
Luhmann comincia a sostenere che la teoria della conoscenza, consegnataci dalla tradizione
vetero-europea, non ha saputo trovare il modo di legittimare, una volta per tutte, la forma che
attribuiva al processo di fondazione. La strategia fondazionalista, infatti, ha dovuto infine
prendere coscienza della sua matrice paradossale, o, come si è sostenuto, dell’ inafferenza delle
sue idee chiave5.
Nel concepire la teoria come una strategia asimmetrica di riduzione della complessità, piuttosto
che come forma di rispecchiamento astratto del dispiegamento di un soggetto6, o in quanto
autoesposizione dell’oggetto, come è ancora per Marx, Luhmann non si affida a cominciamenti
necessari né assoluti. Egli parte da qualcosa di più generale, da problematiche altamente astratte:
«Alcune formule che si prestano a questo scopo sono, ad esempio, la complessità
indeterminabile, l’apertura al mondo che caratterizza ogni “senso”, la tautologia
dell’autoriferimento, la doppia contingenza»7. Combinando fra loro queste formulazioni
problematiche, la complessità viene via via ridotta nella forma di unità di senso. Le
irreversibilità temporali, le relazioni sistema/ambiente, così come la stessa operazione di
deduzione, sono tutte forme di assunzione di questa riduzione. Esse non annullano l’identità
del sistema, spiega Luhmann, piuttosto servono a esplicitare i nessi e le relazioni formali che si
determinano tra l’emersione autopoietica delle unità di senso e l’osservazione di un osservatore.
L’idealismo, anche quello trascendentale, non assegnava alla riduzione e all’aumento della
complessità alcun ruolo autonomo: la “sintesi” era una facoltà del soggetto o rispondeva al
principio della doppia negazione. Gli effetti venivano assorbiti all’interno del concetto di totalità,
e questo concetto era declinato in termini di completezza e di compiutezza. Che si trattasse del
“mondo”, della “società” o dell’ “integralità dell’uomo”, l’oggetto rivelava la sua natura
5
Come, ad esempio, si è sostenuto magistralmente in A.G.Gargani, Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come
strutturazione dell’esperienza comune, Mimesis, Milano 2009. In particolare: «Più precisamente vogliamo dire che la
rappresentazione della conoscenza nei termini plastici di un possesso, di un’appropriazione di oggetti, stati mentali, interiori
è inafferente e irrilevante ai fini della funzionalità delle procedure cognitive, così come è inafferente l’istituto della proprietà privata per
l’esplicazione dei processi lavorativi».
6
Cfr. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, tr. It. di Gianni Millone e Roberto Salizzoni, Bompiani, Milano 2004.
7 Ivi, p. XXXVIII
25
autentica solo in quanto universalità e unità del concetto. La teoria dei sistemi diverge da questa
impostazione nella misura in cui traduce questi segmenti di tradizione semantica in funzioni
specifiche dei sottosistemi presi in analisi, e sostituisce all’orientamento al fondamento quello
all’auto-riferimento.
La teoria generale dei sistemi sociali sostituisce all’aporeticità del modello oggettuale della
tradizione vetero-europea la possibilità di tradurre i presupposti consueti della ricerca filosofica
in problemi, e propone di intendere questi come gli elementi costitutivi dell’autoriferimento
sistemico. Sia che si tratti del processo di strutturazione sociale, sia che si parli delle strategie
semantiche di significazione culturale, latu sensu. Potersi servire di problemi per la costituzione
di una teoria è un’ambizione specifica del metodo dell’analisi funzionale. Ciò che comunemente
viene inteso per realismo e per costruttivismo, viene conciliato attraverso l’uso del metodo
funzionale: “analisi” è infatti un’osservazione della realtà dal punto di vista dei problemi che
grazie a essa vengono risolti. La soluzione possibile sussiste sul piano funzionale: le funzioni
sono le soluzioni dei problemi, soluzioni che, proprio in virtù dell’origine contingente dei
problemi, sono sostituibili. Il metodo funzionale parte dalla consapevolezza che, in una
condizione di complessità, ogni struttura non soltanto si espone all’opera indeterminabile della
eterogenesi dei fini, rendendo il ricorso alla catena causale inafferente rispetto agli esiti da cui si
muove l’indagine, quanto anche alla sostituibilità delle cause.
Tanto più proficuo è l’impiego del metodo dell’analisi funzionale quanto maggiore è
l’articolazione e l’estensione dell’ambito problematico al quale si applica. La complessità è perciò il
dominio per eccellenza di applicazione del metodo funzionalistico.
Ma si chiederà: quali problemi risolve il tema della complessità? Più avanti verrà detto meglio,
ma intanto: problemi che riguardano la possibilità di costruire una teoria generale dei sistemi
sociali. Complessità, infatti, si dice in molti modi. Tuttavia, per Luhmann vuol dire: formazione di
sistemi sociali e di una teoria corrispondente. Ora, poiché non è un concetto indifferenziato,
dire complessità è dire ancora troppo poco. Il tema della complessità diventa interessante
quando smette di essere una determinazione astratta, o un puro noumeno, quando cioè si
comincia a parlare del concetto di complessità strutturata.
26
II.I. Complessità e funzioni
Un sistema che si differenzia dal suo ambiente raccoglie informazioni che guidano questa stessa
differenziazione. L’elaborazione delle informazioni costituisce l’orientamento di base di ogni
sistema, e lo dispone nel senso della riduzione di complessità e nel verso della strutturazione
conseguente. L’autoriferimento risponde alla complessità indeterminata e alla complessità
strutturata, costituendo da sé le soluzioni ai problemi che incontra: nel far ciò crea il proprio
canone evolutivo: «La mia proposta teorica, scrive Luhmann, consiste nel suggerimento di
assumere come punto di riferimento ultimo delle analisi funzionali il problema della complessità
stessa, di concepire tutti i sistemi in termini di comprensione e di riduzione di complessità e di
porli come comparabili ed intercambiabili fra loro a partire da questa prospettiva estremamente
astratta»8.
La “funzione della complessità”, come espressione, ha senso e consistenza teorica perché
implica e presuppone l’appartenenza al sistema chiuso della significazione semantica, e perché
viene riferita alla differenziazione sistema/ambiente, che è il riferimento sistemico della teoria,
appunto, in generale, e della teoria di Luhmann, nel nostro caso specifico. L’espressione ha poi
senso anche perché il suo processo di significazione passa per l’emersione di problemi che
concretamente si sviluppano nel corso dell’autoriferimento, e che per essere risolti hanno
bisogno di un orientamento: tale orientamento è garantito dalla formazione dei sistemi.
Dall’altro lato, invece, si può aggiungere: la “complessità delle funzioni”, sempre partendo dal
contesto comunicativo del sistema chiuso della teoria, riguarda la possibilità di scambiare
funzioni, l’equivalenza funzionale che si sviluppa nella contingenza dell’autoriferimento tra
pattern di variabili9. Ora, l’unità della teoria è garantita dall’unità del problema di fondo, la
complessità, o, per esprimerci meglio, dal rimando ad altre possibilità come codificazione della
complessità indeterminata, e nella conseguente determinazione semantica di “problema della
complessità”. Sappiamo che per l’esposizione unitaria di una tale teoria, in bella copia, per così
dire, si dovrà aspettare la pubblicazione di Sozial Systeme. Tuttavia, come ricorda Zolo, ancora
nella sua Introduzione, l’elaborazione epistemologica di Luhmann, come viene dispiegandosi
lungo gli anni sessanta del secolo passato, esprime «compiutamente il suo potenziale teorico»10,
11 Ad esempio, per come ne parla D. Zolo in, Complessità, potere, democrazia, In N. Luhmann, Potere e complessità sociale, tr. it. di
Reinhardt Schmidt e Danilo Zolo, Il Saggiatore, Milano 2010.
12 Cfr. D. Zolo, Funzione, senso, complessità, cit. XIV.
15 Ibid.
16 D. Zolo, Funzione, senso, complessità, cit. XIV.
17 Come si legge già nel titolo dell’opera di K. Devis, The Myth of Functional Analysis as a Special Method in Sociology and
21 Ibid.
29
III.I. La causalità è una forma di selettività sistemica: le equivalenze funzionali
Si dice funzionale ogni prestazione che concorre alla conservazione di un’unità strutturata in
maniera complessa, cioè di un sistema. Ma in che senso una prestazione “concorre”? La scienza
causalistica tradizionale è fatta di legami di invarianza (A ha per effetto B, B ha per causa A),
linearità dei processi causali e capacità di previsione. Si ragiona sulla “natura delle cause” e le
connessioni formali che questo schema teorico determina sono volte alla possibilità di
prevedere gli effetti. È la stessa regolarità delle funzioni a legare gli effetti alle cause e a fornire
al ricercatore la possibilità di formulare una teoria scientifica.
Ogni pretesa di spiegazione lineare implica l’adesione ad una concezione deterministica
dell’ordine sociale, mal celata dall’impiego, nelle sociologie positivistiche, della clausola ceteris
paribus22. Stesso discorso Luhmann ripropone per l’uso dei metodi statistici, rei di sostituire alla
necessità degli effetti la ricerca della loro probabilità, senza rinunciare allo schema formale
deterministico. Certo si può dire: alla illusorietà di un andamento regolare nei fenomeni sociali,
la teoria funzionalistica riesce ad opporre qualche inferenza, seppur debole. Se si trattasse di
oggetti, anche nel caso di espressioni quali “illusione” e “inferenza”, restando all’interno di una
osservazione di prim’ordine, la questione sarebbe più che conclusa, con l’ipostatizzazione dei
“casi limite” e delle “eccezioni” che confermano la regola. Ebbene, tali spiegazioni risultano
avere un certo successo in società poco differenziate. In un contesto complesso, invece,
l’operazione dell’inferire deve fare i conti con la possibilità che un problema implica sempre
l’esistenza di una pluralità di soluzioni diverse, e con la necessità di immaginare
conseguentemente tecniche analitiche capaci di utilizzare logiche meno ristrette di quelle
binarie23.
Il tentativo di replica alla critica neoempirista del funzionalismo classico definisce, si può dire,
sia rispetto agli anni ’60 che, se si guarda all’intera impalcatura della teoria di Luhmann, l’intero
statuto epistemologico e, al contempo, una chiave di comprensione generale di questa. Così
22 Difficoltà che coglie in pieno sia l’ambito dell’iduttivismo verificazionista, che quello del quasi-induttivismo
falsificazionista di Popper, così come dimostrò, in maniera paradigmatica, dopo qualche anno Imre Lakatos. Si guardi, ad
esempio, I. Lakatos, Critica e crescita della conoscenza (1975) , tr. it. di Giulio Giorello, Feltrinelli, Milano 1993.
23
Più avanti si amplierà l’argomentazione sulla questione, intanto, già in questo luogo, si rimanda a E. Esposito, L’operazione
di osservazione. Costruttivismo e teoria dei sistemi sociali, FrancoAngeli, Milano 1992. Come scrive Luhmann stesso nella Prefazione
al testo: «L’idea che lo guida [che guida il lavoro della Esposito] è che i mezzi formali di rappresentazione che vengono
elaborati nei calcoli non siano utilizzabili direttamente in sociologia, ma necessitino di una interpretazione. Esposito lo
mostra con delle analisi che seguono, collegandole tra di loro, le Laws of Form di George Spencer Brown e le riflessioni di
Gotthard Günter sulla logica polivalente», p. 8.
30
come gli è stato possibile aggirare quella critica allargando l’orizzonte dell’operazione di analisi,
e cioè coll’inserirla in processi sistemici di autoriferimento, così può spiegare che – e anche
questo è paradigmatico del suo modo di procedere – proprio in uno dei massimi interpreti del
funzionalismo classico è possibile intravedere una via di fuga e quel piano di analisi adeguato al
ribaltamento della problematica epistemologica, così come veniva svolta dal neoempirismo. La
possibilità, meglio determinata, di approdare a una logica polivalente, nel caso delle
formulazione di teorie sociali e antropologiche, dipende per Luhmann dalla possibilità di
intendere il risvolto che assume l’analisi della ritualità e della magia di Malinowski24. Come
esempio tipico dell’analisi funzionale, Malinowski taglia la catena della scienza causalistica
classica, poiché descrive una situazione di asimmetria, dove gli effetti esibiscono qualcosa che
supera il contenuto esposto nelle cause. Rito e magia, nella particolare accezione che ne dà
l’antropologo polacco, rappresentano due istituzioni collettive che sorgono in situazioni
emotivamente difficili.
L’improbabilità dell’emersione di certi riti ne determina il senso, ovvero la forma specifica che
assume la liturgia risulterebbe determinabile in quanto funzione di complessità. Ma Luhmann
scorge qualcosa nell’analisi di Malinowski che offre il modo per andare oltre l’autore stesso:
quando Malinowski afferma che la funzione del rito è di facilitare l’adattamento a situazioni
emotivamente difficili, aggiunge, «nasce implicitamente il problema dell’eventuale esistenza di
altre possibili soluzioni a questo stesso problema»25. Il rito, e ogni istituzione collettiva che si
rappresenti per mezzo di una liturgia, si pone in un rapporto di equivalenza funzionale con altre
possibilità di rappresentazione concreta, di messa in scena. Il grado di rigidità liturgica distingue da
un lato il peso sociale che il rito riveste e sgrava, dall’altro sostituisce sul piano cognitivo la
domanda sul perché sia esattamente così e non altrimenti.
Dunque, nel metodo funzionale non si tratta di studiare cause ed effetti per istituire relazioni
regolari e così formulare teorie che si fondano su una logica teleologica oppure probabilistica,
ma di «constatare l’equivalenza funzionale fra più cause possibili esaminate con riferimento a un effetto
problematico»26.
Chi agisce e opera, che si tratti di un osservatore o di un attore sociale, non soltanto deve
confrontare sempre le sue aspettative con l’ambito di una eterogenesi dei fini, tanto vincolante
24 Cfr. B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Bollati Boringhieri, Torino
2004.
25 N. Luhmann, Funzione e causalità, cit., p. 9.
26 Ibid.
31
proprio perché estremamente variabile, quanto tenere anche di vista che ogni fatto sociale
dipende da una equivalenza funzionale di cause, che, si aggiungerebbe, a definirle “cause” si è
già compiuto un bel salto nell’interpretazione delle strategie di riduzione della complessità. Ciò
che accade, così come si trova espresso forse per la prima volta nel concetto di intelligenza di
Hippolyte Taine27, non è l’effetto preciso di cause designabili con esattezza, quanto l’esistenza
di soluzioni sostitutive e sostituibili a caratterizzare la prassi dell’autoriferimento.
Con il concetto di equivalenza funzionale si ottengono due situazioni teoriche a dir poco
interessanti: da un lato si marca il distacco del funzionalismo dal metodo causalistico; dall’altro
si può finalmente abbandonare un pensiero dell’analogia che negli studi sociali ha creato più
problemi di quelli che si incaricava di risolvere, producendo, con rigorosa logicità, ideologie
costantemente rinnovate nel corso dell’ultimo secolo. Una funzione, infatti, non è un
particolare tipo di causa, ma uno schema di senso28, o, se si vuole, una funzione regolativa, intesa
kantianamente come unità dell’azione che consiste nel mettere sotto un denominatore comune
diversi concetti, per organizzare un ambito nel quale sia possibile la comparazione fra
prestazioni equivalenti. L’impostazione astratta dei problemi che concretamente si sviluppano
genera un processo, o meglio, la concezione dell’emersione di categorie operative sul piano
culturale, implica la possibilità di integrare i fenomeni osservati con le forme di
rappresentazione, senza cadere da un lato in empirismi ciechi, dall’altro in idealismi vuoti. Come
accade nella semiosfera29, si può aggiungere, avvengono dinamiche di rispecchiamento, tuttavia
anche il riflesso – per restare nell’ambito della metafora – è una forma del tutto autonoma di
messa in atto del rapporto. È e al contempo non è la stessa cosa.
Nell’operazione dell’osservazione, la funzione indica la regola secondo la quale è possibile
scegliere dalla classe di possibilità funzionalmente equivalenti – le variabili – le unità
complementari, gli elementi costitutivi dell’unità dell’azione. Tuttavia, rispetto alla sintesi
kantiana, questa possibilità non concerne una esclusiva facoltà del soggetto: Luhmann, infatti,
non parla di “rappresentazione”. L’equivalenza funzionale si riferisce alla variazione di variabili
nell’ambito di sistemi complessi, per le quali costanti appercettive o dati di sintesi delle
coscienza del soggetto conservano la loro funzione soltanto come condizioni di variazione e sono,
in quanto tali, variabili in vista della loro idoneità a svolgere questa funzione specifica per l’
27 Cfr. H. Taine, De l’intelligence, Hachette, Paris 1948, in particolare vol. I, pp. 25 e segg.
28 Cfr. N. Luhmann, Funzione e causalità, cit., p. 10.
29 Cfr. J. Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di S. Salvestroni, Marsilio, Venezia 1985. In
particolare, caratterizzazioni negantropiche come: «La cultura non crea infatti soltanto la sua organizzazione interna, ma
anche un proprio tipo di disorganizzazione esterna», p. 62.
32
individuo-che-osserva. Il problema di una sintesi assoluta, di un cominciamento senza presupposti,
che escluda un regresso all’infinito, viene aggirato dalla funzionalizzazione di questi stessi
presupposti, ovvero: ciò che rientra nella ricerca assume la forma problematica della
sostituibilità, nella sua configurazione attuale e potenziale.
Le equivalenze funzionali svelano la funzionalità delle equivalenze nel contesto della
differenziazione sistematica. Il funzionalismo delle equivalenze opera in modo tale da
giustificare una equivalenza tra fenomeni al di fuori della logica causale, ed è in grado di farlo
perché non si rivolge immediatamente agli oggetti, ma aiuta a formulare un criterio di
riferimento e dell’osservazione, grazie al quale può stabilire i confini della classe di tutte le
possibilità di prestazioni equivalenti degli elementi a cui fa riferimento.
Ora, poiché l’ambito di asseribilità e di riferibilità non è più garantito dai concetti di essere, ragione
o coscienza, spirito e via dicendo, né può ricorrere alla formulazione di altri feticci
epistemologici30, ma si confronta con il tema proprio del metodo funzionalistico, cioè con la
formulazione di problemi, la difficoltà dell’analisi funzionale risiede nel definire l’unità e la forma
del riferimento che avanza nell’atto dell’analisi, rispetto al quale le prestazioni funzionali di un
sistema appaiono come equivalenti. È un problema analitico ed empirico al tempo stesso,
riguarda la forza dell’astrazione e nonostante vi siano risonanze ed isomorfismi con il lessico
dell’ontologia, l’orientarsi ai problemi aiuta la teoria a tirarsi fuori dall’imbarazzo di doversi
giustificare sul paradosso di non riuscire più a giustificare alcun fondamento ultimo. Occorre
individuare, entro un determinato sistema, i criteri problematici che regolano le possibilità di
variazione delle classi di variabili, che individuano quelle strategie di riduzione della complessità
che spiegano come items estemporanei divengano elementi in grado di variare, e, dunque,
variabili in senso stretto, ovvero sistemico, affinché un certo criterio di riferimento possa
«fungere da criterio circa l’equivalenza di determinati dati di fatto»31.
Il problema dell’unità del riferimento è sostituito dalla capacità di fare di questa riferibilità un
problema, di riferirsi ad altre unità sistemiche che nella osservazione assumono la funzione di
categoria più astratta. Ciò che resta – si fa per dire – è la questione, tutta analitica, di ricercare di
volta in volta il legame che tiene insieme le differenti strategie di selezione e di riduzione della
complessità. La difficoltà sta allora nel disporre per gradi i problemi di riferimento e le classi di
30 Cfr. A.G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, cit., in particolare pp. 51-70.
31 N. Luhmann, Funzione e causalità, cit., p. 17.
33
equivalenza, nel dare consistenza e perspicuità a un processo di astrazione e di descrizione
controllabile, per il quale è rilevante la diversità delle funzioni e non l’identità delle forme.
L’identità, a differenza di come è stata intesa nella metafisica occidentale, e persino nel contesto
post-metafisico della intersoggettività, non può più essere concepita come esclusione di possibilità
e negazione di questa esclusione per via dialettica, per cui omnis determinatio est negatio, bensì,
sostiene Luhmann «come ordine delle altre possibilità dell’essere» 32. Qualsivoglia elemento si
intenda per identità, questo non è una sostanza auto-sufficiente, né una unità orientata all’ intesa,
ma è «una sintesi coordinante che conferisce un determinato ordine di rinvii ad altre esperienze
possibili»33.
In questo senso una identità è sempre un sistema, né un sinolo, né una monade. Il suo tipico
valore ordinativo – e proprio in quanto ha valore ordinativo – designa la possibilità che il
sistema sviluppi sottosistemi normativi e cognitivi, ovvero orientati normativamente o
cognitivamente alla soluzione dei problemi. Non c’è un regime monadico a regolare i rapporti
tra sistemi, poiché le identità sono per ciò detto comunicative: non hanno bisogno di interpellarsi
perché sono in costante comunicazione nell’attualità della loro differenziazione.
Servirebbe a poco – un poco notevolmente interessante, sia chiaro – trattarle come immagine del
tutto, o ricorrere a linee genealogiche e archeologiche di spiegazione. E questo perché, tenendo
valida la differenziazione operata da Heidegger34 tra esattezza e rigorosità della investigazione
matematica del mondo e delle scienze storiche dello spirito, lì dove la categoria di causalità
collega fra loro la teoria e le concezioni metodologiche, va inserito il principio
dell’autoriferimento teorizzato da Heinz von Foerster: I do not see what I do not see35. Ovvero: se si
muove dall’assunto che ogni processo è di fatto una riduzione di complessità, si intende la causalità
come un’interpretazione di questo processo che per determinate ragioni privilegia una struttura
binaria, improntata al principio di non-contraddizione – e dunque a intendere le formazioni di
senso in termini di “identità” e di contraddizione nella formazione di questa identità. Il senso
del processo inteso in termini casuali, in un contesto di osservazione quale quello offerto dal
principio dell’autoriferimento e rispetto al bagaglio ermeneutico della tradizione europea, ci dice
invece che non riguarda una qualche energia, né l’ottemperanza di qualche legge, ma l’
34
informazione: ci informa che in una sequenza causale le “altre possibilità” sono limitate e
controllabili.
Se su questo tipo di informazione si possa costruire una teoria, che questa teoria abbia poi alle
spalle una ontologia forte o debole, è un’altra questione. Il problema, invece, a partire da ciò, è
per Luhmann come una unità che assume la forma di identità si rappresenti questa
informazione e in che modo riesca a comunicarla. Non è un caso infatti, per fare un salto dal
piano epistemologico a quello che concerne una teoria dell’azione, che la questione centrale
delle scienze sociali riguardi la differenza fra l’ esperienza vissuta36 di chi compie un’azione e quella
di chi compie un’indagine, ovvero riguarda la difficoltà di conciliare, rispetto allo stesso
riferimento sistemico del rimando ad altre possibilità di ciascuna identità costituentesi, la libertà
dell’agire in relazione alle aspettative di comportamento37.
Da un punto di vista interno alla teoria dei sistemi, qualsiasi cosa si intenda per teoria, questa
costituisce un sistema di spiegazione che comprende in sé una descrizione di se stessa. Da un
punto di vista esterno, invece, tra “perdita di senso” e “aumento di complessità”, la teoria dei
sistemi sociali ha dinanzi «sia una difficoltà che un impegno. La difficoltà è immanente
all’oggetto stesso. Risiede nell’antinomia tra complessità e trasparenza»38. L’impegno, per ciò
detto, supera l’attività di un solo ricercatore. Allora, si può dire, il circolo, la fondazione autologica,
si profila come la figura centrale della teoria, soprattutto se si tiene conto del fatto, non certo
scontato, che “teoria generale dei sistemi” vuol dire per Luhmann teoria dei sistemi sociali. Se poi è
corretta la tesi secondo cui la società può esistere come sistema sociale soltanto sulla base di
una sua auto-descrizione, allora la teoria dei sistemi sociali può diventare una teoria sociologica
generale, e la sociologia, così intesa, la teoria chiamata a realizzare una adeguata auto-
descrizione della società, «a comunicare entro la società in maniera adeguata sulla società»39.
Una teoria dei sistemi sociali considera tutti gli oggetti come sistemi o sottosistemi, li considera
a partire dal punto di vista dell’auto-riferimento intrinseco all’oggetto. Ciò obbliga la teoria ad
36
Sul concetto di Erlebnis il dibattito con Habermas aiuta a contestualizzare il senso che Luhmann attribuisce a tale concetto,
cfr. J. Habermas, N. Luhmann, Teoria della società o tecnologia sociale, cit., pp. 12, 26-31, 34 segg., 46 segg., 61segg., 70 e segg.
37 Cfr. N. Luhmann, Funzione e causalità, cit., pp. 26-29.
38 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. XLI.
39 Ibid.
35
applicare l’autoriferimento anche a se stessa. Riferendosi agli oggetti che analizza non può che
riferirsi anche a se stessa e diventare proprio oggetto di analisi. In questo senso la teoria trova il
modo di riconoscere che il suo rapporto con gli oggetti è un momento del suo stesso auto-
riferimento: «è il suo oggetto che obbliga la scienza ad una epistemologia corrispondente» 40.
L’epistemologia coinciderebbe con l’operazione differenziante e differenziata dell’auto-
osservazione e dell’auto-riferimento, assunta su un livello di osservazione di ordine ulteriore al
primo.
Il rapporto tra la relativa inferiorità o superiorità dei tentativi di analisi esterna, come di
autoanalisi, varia storicamente e dipende dal livello di radicalità della teoria. Ad esempio, la
sociologia è adeguata al suo concetto di teoria generale del sistema “società” se acquista valore
sociale, e acquista un valore sociale nella misura in cui contribuisce alla realizzazione di
un’adeguata auto-descrizione della società.
Secondo il punto di vista sistemico, una teoria conserva due aspetti fondamentali: da un lato le
appartiene un carattere oggettivo, quella componente di astrazione e attesa di aspettative che
rendono una teoria capace di essere discussa e verificata: teoria, dunque come fatto sociale,
strutturazione metodica dell’esperienza comune. Dall’altro è una vera e propria prassi, una produzione
dipendente da presupposti e dall’oggetto a cui si rivolge, così come dall’ambiente di ricerca nel
quale si iscrive e prende forma. Un ricercatore, come chiunque altro individuo, quando si trova
nella situazione di agire, quale che sia l’azione, si trova di fronte alla necessità di operare
selezioni. Soltanto la diversa organizzazione di questa selettività distingue l’appartenenza a
determinati sistemi, l’oscillazione in termini di equivalenze funzionali nel pattern di variabili
coinvolte nel processo di differenziazione. La teoria implica e dipende da una prassi. In quanto
tale, ha in comune con ogni altra prassi sociale il nesso di socialità che vige in condizioni di
complessità: la selezione e la riduzione di complessità.
I limiti pratici della possibilità di operare selezioni dipendono dai limiti dell’elaborazione
consapevole delle informazioni. Prassi è allora quel concetto che si riferisce alle strategie
concrete di accrescimento della complessità programmaticamente controllabile e che si
identifica con il problema «della regolazione in presenza di un sovraccarico di complessità
accompagnato da possibilità di scelta»41. Nell’azione quotidiana esistono più possibilità di
quante possono essere prese in considerazione: ciò determina l’emersione del problema, la
42 Ivi, p. 301
43 Ivi, pp. 301-302
44 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 85-86.
37
ricerca, per il quale si contrapponeva, al “cominciamento assoluto”, l’assoluta relatività del
prospettivismo dei punti di vista45 – dell’ ordine sociale. Tale preoccupazione ha condizionato
l’epistemologia funzionalista a tal punto da indurla ad identificare il concetto di funzione con
quello di una causa speciale. Luhmann sottolinea come in questo ambito la teoria confondi le
sue prerogative con quelle di una discussione più o meno efficace dei dettami provenienti dal
metodo. Nel saggio Metodo funzionale e teoria dei sistemi46 viene spiegato come sia possibile
superare questa sovrapposizione, perché «Ogni metodo deve certamente dimostrare la propria
validità attraverso i propri risultati, ma non sta o cade con un unico risultato» 47. La scienza,
come sistema chiuso, è sottoposta alla stessa richiesta di prestazione sistemica di ogni altro sistema
sociale, cosicché un solo metodo può determinare l’emergere di più teorie e di confutazioni di
queste, e, allo stesso tempo, rendere visibili risultati ai quali non era neanche intenzionato. Un
metodo, rispetto a una teoria, è quindi una prestazione che richiede un livello di astrazione più
alto, e lo sarebbe anche nel caso si mettesse a punto una teoria del metodo. Per Luhmann la
questione diventa: «sapere se è possibile concepire una specifica metodologia funzionalistica e
come può essere pensato il suo rapporto con la teoria»48.
Il primo passo per l’elaborazione di un’autonoma dottrina del metodo deve partire dall’
esposizione del metodo funzionale come metodo comparativo: non è l’identità della forma (principio di
45 Non è tanto il concetto di scienze sociali in relazione alla filosofia, come si può leggere nella prima è fondamentale opera di
Peter Winch, Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia, tr.it. di Marco Mondadori e Massimo Terni, Il Saggiatore,
Milano 1972, o non soltanto, quanto invece come quel tipo di fondazionalismo onto-logico si sia protratto per lungo tempo,
escludendo dalla teoria il ruolo e l’esistenza materiale dell’ osservatore, che è qualcosa di operativamente più complesso che
non un operatore linguistico. D’altronde in Winch, come si legge in Fabio Dei, Il significato e l’azione: Wittgenstein tra gli
antropologi, «Quaderni di Teoria Sociale», n. 1 | 2017, pp. 45-46: «La sua idea centrale è quella di rileggere tramite
W[ittgenstein] la tradizione “comprendente” delle scienze dello spirito di ascendenza diltheyana. Il Verstehen va inteso per
Winch non come una sorta di identificazione empatica con i soggetti sociali, o una forma di accesso ai contenuti della loro
coscienza; piuttosto, come descrizione dei sistemi di regole condivise dagli attori e radicate in forme pratiche di
comunicazione e interazione tra di essi. È infatti in tali regole che consiste il significato dell’azione sociale, sia per chi la
compie sia per chi intende descriverla dall’esterno. Da qui la difficoltà peculiare in cui si imbatte la sociologia. Da un lato,
essa è un’attività scientifica governata da regole interne al proprio campo. Dall’altro, tuttavia, il suo stesso oggetto di studio è
un comportamento (o un discorso) governato da regole: “queste regole, e non quelle che governano la ricerca del sociologo,
specificano cosa vale per “fare lo stesso tipo di cosa” in relazione a quel tipo di attività” [Winch 1958, p.87]». Nella teoria dei
sistemi, invece, come declinazione di ambizioni generali proprie della cibernetica di second’ordine, si relativizza l’osservatore
in modo molto più radicale che come avveniva per la filosofia del punto di vista. Ovvero: l’osservatore viene messo in relazione
alla sua osservazione, al fatto che può vedere solo ciò che può vedere e non può vedere ciò che non può vedere, in quanto “osservare”, come
operazione di base, risulta essere uno tra i tanti vincoli autopoietici. Risulta perciò possibile, seguendo questo schema
argomentativo, conciliare visioni idealtipiche con altre estremamente storicistiche. Tuttavia, come è chiaro, nel senso che
Luhmann stesso ha voluto darne, in un opera più tarda rispetto a quelle che qui stiamo tematizzando. Si guardi, in fatti, alle
sue Osservazioni sul moderno, le quali, poste in costante relazione con la cibernetica di secondo ordine e la legge della forma di
Radcliff-Brown, e in sede di giustificazione delle forme di intendimento del sapere autoreferenziale, ci informano di una
distinzione decisiva «tra osservazione di primo e di secondo ordine e con ciò una maggiore storicizzazione», propria
dell’indagine sistemica, cfr. N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, tr. it. Francesco Pistolato, Armando Editore, Roma 1995, p.
50 e la nota n°48.
46 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, in Id. N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., pp. 31-56.
47 Ivi, p. 32.
48 Ibid.
38
feticismo della rappresentazione, omogenizzazione di partenza49) ma la differenza della funzione
(principio di equivalenza, sostituibilità delle cause) a segnare l’ orientamento di base del metodo. La
formula incentrata sui problemi e sulla soluzione di problemi ha via via soppiantato la formula
incentrata sulla stabilità. Alla conservazione dei sistemi sociali giova infatti di più la possibilità di
creare strutture che consentano una permanente sostituibilità delle prestazioni funzionali in
gioco al proprio interno che non il contrario. Questo spostamento, significativamente
enunciato da Luhmann, non poteva che avvenire nell’ambito della metodologia causalistica
classica, e Ernst Cassirer, potremmo dire, ne rappresenta il momento teoretico inaugurale più
consapevole, almeno se si resta in Europa50.
Tuttavia, afferma Luhmann, «Dato che questa sostituzione è stata compiuta, per così dire, sotto
banco e quasi inavvertitamente, non si è fatto finora pienamente chiarezza sulla sua portata» 51.
L’orientamento di base del metodo deve poter essere integrato con l’aiuto del concetto di
sistema: «In questo modo è possibile comprendere la separazione e la reciproca dipendenza del
metodo e della concezione teorica»52. Il problema del rapporto tra fattualità e razionalità del
comportamento fattuale rientra in questo dominio problematico. La sociologia, per citare alcuni
grandi paradigmi, da Comte a Weber, ma anche in Habermas, è stata in grado di tener conto del
comportamento fattuale considerando unicamente le premesse e le conseguenza causali,
aprendo la strada all’ambito di ricerche che per reazione ha poi concentrato il proprio focus sulla
49 Cfr. A.M. Iacono, Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di Defoe, Turgot e Adam Smith, ETS, Pisa1982,
in particolare, a pp. 20-21: «La storia dell’universalismo e del suo affermarsi moderno influenza anche l’osservatore e i suoi
modi di interpretare i processi che intende descrivere. Vi è un implicito che determina il punto di vista, che, a sua volta,
nasconde la parzialità del vedere […] Il “falso evoluzionismo” descritto da Lévi-Strauss, ovvero quel processo che in questo
lavoro è stato chiamato “omogenizzazione di partenza” e che si caratterizza, come già si è accennato, attraverso un processo
universalizzante di riconoscimento dell’altro, ma in una gerarchia temporale (la non contemporaneità dei selvaggi
contemporanei) che rende diseguali uomini e popoli, ha funzionato da implicito per modelli di interpretazione che
pretendevano di descrivere i in modo semplice e trasparente». Per una indagine critica di questo implicito, su un piano contiguo,
cfr. Id., Teorie del feticismo. Il problema filosofico e storico di un «immenso malinteso», Giuffrè, Milano 1985, in un sorta di indagine
cibernetica, diremmo à la Luhmann, del punto di vista del punto di vista, ovvero del feticismo (operativo nell’osservazione)
del feticismo (omegenizzato dell’osservato), come anche a Id., Storia, verità e finzione, Manifestolibri, Roma 2006. Al tema dell’
«omogenizzazione di partenza» ha fatto esplicito riferimento Niklas Luhmann nel saggio, appunto, Die Homogenisierung des
Anfangs. Zur Ausdifferenzierung der Schlerziehung, in Zwischen Anfang und Endean die Pädagogik, herausgegeben von N. Luhmann
und K.E. Schorr, Suhrkamp, Frankfurt a M. 1990, pp. 73-111, in particolare cfr. p. 89.
50 Cfr. E. Cassirer, Sostanza e funzione : ricerche sui problemi fondamentali della critica della conoscenza, a cura di Massimo Ferrari, La
Nuova Italia, Firenze 1999. D’altronde, anche nella più tarda opere Filosofia delle forme simboliche, la quale viene costruita come
prosecuzione, rimando e svolta proprio a partire dal lavoro degli anni ’10, e in relazione alla possibilità di intendere la critica
della ragione anche come critica della civiltà, il che significa prendere sul serio il concetto di Dialettica trascendentale in Kant, si legge:
«La questione decisiva sta sempre nell’alternativa se noi cerchiamo di intendere la funzione partendo dal prodotto o il
prodotto partendo dalla funzione, se facciamo in modo che quest’ultimo “si fondi” sulla prima o viceversa», cfr. E. Cassirer,
Filosofia delle forme simboliche, cit., vol. 1, p. 12.
51 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, cit., p. 34.
52 Ivi, p. 33.
39
dinamica di emersione delle forme di vita, sulla centralità dei corpi. Un confronto tra la sociologia
di Luhmann e le tradizionali scienze sociali di impostazione normativa sul punto della
definibilità critica – condizioni di possibilità – del comportamento effettuale può partire da qui:
nel quadro della teoria causalistica l’effetto di una data causa, o riconducibile a un concorso di
cause, una volta classificato e tipizzato, smette di risultare interessante di per sé, mentre è
proprio qui che si trova il nocciolo della questione.
La formula incentrata sui problemi svela come la riconduzione degli effetti alle cause non sia
l’esclusiva ambizione teorica del funzionalismo delle equivalenze. Caratterizzati come problemi,
gli effetti assumono l’aspetto di cause ulteriormente determinabili. Si dirà: impostando così il
discorso, non si farebbe altro che sostituire alla cattiva infinità di un regressus ad infinitum quella di
un progressus ad infinutum, poiché in entrambi i casi sfuggirebbe il principio che informa la serie.
«La problematica inerente al concetto di problema viene […] trasposta prematuramente sul
piano della fattualità»53, per poi compiere un salto meta-fattuale, in coerenza col tipo di schema
formale aprioristico esibito dal ricercatore.
Una teoria è una prassi, in quanto opera una selezione e perché corrisponde all’attività sensibile
di soluzione di una problematica. Un problema è una risposta che ci interpella in quanto
formulatori di domande: è una risposta in cerca di domanda. Risolto nel concreto, il problema
si ri-attualizza come dato conoscitivo grazie a una domanda sulle sue condizioni di possibilità.
Le contraddizioni che si incontrano nell’analisi dei processi concreti svolgono una funzione
catalitica, di auto-catalisi, sia che si guardi al giudizio dei fenomeni sia se si tiene conto dei
fenomeni in quanto tali. Tuttavia, secondo Luhmann, ed è chiaro che non si tratta soltanto di
una questione terminologica, più che di “contraddizioni” sarebbe più opportuno parlare di
conseguenze disfunzionali54. Non è logicamente possibile, infatti, dedurre l’intero sviluppo
temporale a partire dalla logica oppositiva di posizione e negazione, da una contraddizione
rilevabile a livello dei contenuti determinati di una certa forma di sviluppo, nonostante si accetti
«il presupposto teorico di tipo ontologico che sta alla base di una tale deduzione, cioè l’assunto
secondo cui ciò che è realmente e stabilmente non può non-essere»55. O meglio: dedurlo è
40
possibile – in quanto è stato fatto56 – ma che risulti operativa come entità astratta è un altro –
notevolmente complesso – problema da considerare57.
Nella tradizione di pensiero filosofico tedesco la fusione della dimensione temporale e di quella
materiale era possibile nell’atto stesso della comprensione operata dal soggetto. Nell’universo di
discorso tipico di una apprensione del proprio tempo secondo il pensiero, queste
considerazioni ci avvicinano a una riflessione sulle dinamiche di sviluppo di un sistema quando
si fa riferimento al ruolo che la coscienza può rivestire in questa dinamica. Al di là di questo, che
è un tema piuttosto complicato e che merita una analisi e un confronto specifici, possiamo
sintetizzare così la posizione del Luhmann che stiamo trattando: per il sociologo tedesco è
insufficiente impostare il concepimento dei problemi e il loro superamento a livello sistemico se
si colloca il soggetto nello spazio esclusivo della sua comprensione. In tale dominio
problematico «nell’ambito dei presupposti fondamentali non ci si può accontentare di una
confutazione logica. Molto più interessante e fecondo è chiedersi quale sia, dietro queste
ipotesi, l’immagine che l’uomo ha di se stesso»58.
Ora, invece, poiché «La soluzione di un problema richiede che ci si orienti rispetto ad
alternative tanto al livello del pensiero quanto al livello dell’azione»59, il funzionalismo può
56 Ad esempio, rispetto alla dialettica e al modo di intendere il buon uso della contraddizione, si può dire, Marx lo ha fatto.
Ci riferiamo alla posizione del concetto di capitale, del perché solo con la pubblicazione del primo libro di Das Kapital Marx
fosse stato in grado di uscire dal “modo della ricerca”, del continuare a scrivere delle Introduzioni, delle Zur..., e di arrivare al
“modo dell'esposizione”, alla scrittura dell’autoesposizione dell’oggetto, per la quale l’espressione “Critica della economia
politica” poteva finalmente essere solo un sottotitolo. È noto che l’elaborazione scientifica di Marx, infatti, si alimenti della
distinzione che fissa tra Forschungs- e Darstellungs-weise. Per il critico dell'economia politica, infatti, «il modo di esporre un
argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l’indagine. L’indagine deve appropriarsi il materiale nei
particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’intimo concatenamento. Solo dopo che è
stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera convincente», cfr. K. Marx, Il capitale, I, cit.,
«Poscritto alla seconda edizione». Questa distinzione riassume i fondamenti metodici dell’opera di Marx, e perciò anche del
procedimento «dall’astratto al concreto», teorizzato come procedimento «scientificamente corretto», come ne parla nella
“soppressa” Introduzione del 1857, cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica della economia politica, tr. it. di Enzo Grillo,
Firenze, La Nuova Italia, 1968-1970, I, p. 26 segg. Anche per il linguaggio di Marx, possiamo dire, proprio in virtù del suo
peculiare percorso intellettuale, filosofico e politico, si deve parlare di epoche della sua formazione, come egli parlava di
epoche della formazione della struttura economica della società: nel porre il concetto di capitale come astrazione
determinata, forma specifica in grado di avere una logica e una dinamica di sviluppo storico-logico, decisivo è quel ritorno di
termine tra Arbeitkraft e Arbeitvermögen, per cui l’impoverimento dell’espressione che rimanda a un che di più naturale, segnala
l’avanzamento progressivo, dunque più concreto, della formazione del capitale in quanto capitale, e perciò implica la
posizione di un concetto più astratto, ma astrattamente determinato, ovvero la posizione - più che della ‘possibilità’ e
‘capacità’ - della forza-lavoro, così come si legge in K. Marx, Manoscritti del 1861-1863, a cura di Lorenzo Calabi, Editori
Riuniti, Roma 1980, pp. 389-391 (ovvero alla n.d.c. n°36).
57 Da questo punto di vista, sempre restando in una dimensione di discorso di progressività del rapporto di capitale, e che
riprende temi luhmanniani, ad esempio come si può leggere in N. Luhmann, La descrizione del futuro, in Id. Osservazioni sul
moderno, cit., ci pare utile segnalare il testo di Elena Esposito, Il futuro dei futures: Il tempo del denaro nella finanza e nella società,
ETS, Pisa 2009.
58 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, cit., p. 36.
59 Ivi, p. 37.
41
descrivere questa possibilità affermando che il lavorio60 del pensiero consiste nel riconoscere la
sostituibilità fra possibilità diverse, e che un problema è dotato di senso «se si è in grado di
risolverlo attraverso un confronto tra alternative»61. Il contributo specifico della conoscenza per
Luhmann consiste in ciò, nell’esigenza di una possibilità di confronto. Questa possibilità
consente un incremento conoscitivo grazie al fatto che non costringe il metodo a conformarsi
all’oggetto analizzato. Ciò che esiste diventa suscettibile di conoscenza non perché esclude altre
possibilità, ma, al contrario, proprio per il fatto – empiricamente riscontrabile e
metodologicamente indagabile – di riordinarle e renderle accessibili (omnis negatio est
deteminatio)62.
Ciò che esiste è suscettibile di essere conosciuto nella misura in cui riordina l’accesso – e non
esclude il riferimento – ad altre possibilità, accessibili grazie all’impiego di astrazioni via via
meglio determinate – più astratte, sul piano dell’osservazione, più improbabili, sul piano della
riproduzione sistemica. La possibilità di comparazione è già un dato teorico notevole del
metodo funzionalistico: su questo si fonda la corrispondente possibilità di costruire singole
discipline e teorie regionali, ovvero meta-teorie dal punto di vista teorico del metodo
comparativo. Ciò che manca è il criterio, il riferimento funzionale secondo il quale disporre le
classi di variabili e operare le comparazioni che si offrono in quanto materia prima per la
formazione della teoria.
Paradossalmente la classe di possibilità funzionalmente equivalenti, in opposizione al
funzionalismo causalistico classico, si restringe se si tiene conto del fatto che un sistema, come
tale, ha bisogno di risolvere più problemi contemporaneamente. L’astrattezza dell’analisi
funzionale ha dunque bisogno di essere integrata da una teoria, per garantirsi una dimensione di
scelta dei temi e delle problematiche, e, cosa non secondaria, un certo grado di operatività. La
teoria dei sistemi si presta a fornire tale integrazione. Eventi aleatori e improbabili diventano
rilevanti non già a partire dalla loro somiglianza immediata, bensì in relazione alla comparazione
che il ricercatore riesce a instaurare tra funzioni, all’interno di una reale classe di variabili. In
60 Più che richiamare lo Hegel della Fenomenologia dello spirito, il riferimento diretto di Luhmann è a Husserl, in particolare in
relazione alle “possibilità aperte” e “possibilità problematiche”, distinzione contenuta in E. Husserl, Esperienza e giudizio :
ricerche sulla genealogia della logica, pubblicate e redatte da Ludwig Landgrebe, tr. it. di Filippo Costa, nota introduttiva di Enzo
Paci, pp. 105 segg.
61 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi , cit., p. 37.
62 Sosterrà Luhmann, in un altro importante saggio della raccolta che stiamo tematizzando: appurato che il contenuto
dell’esperienza non è più in grado di fondare verità da un punto di vista ontologico, «Il procedimento con il quale si giunge
alla logica del pensiero funzionale è l’inversione del presupposto ontologico. Ciò che costituisce il senso dell’identità è di
conseguenza il senso di ciò che è, non l’esclusione del non-essere, ma al contrario il rinvio ad altre possibilità», cfr. Id., Verità
e ideologia, in Illuminismo sociologico, cit., p. 60.
42
questo senso la teoria dei sistemi integra l’analisi tipica del metodo funzionale poiché si serve di
concetti che orientano alla comparazione il punto di vista funzionale del metodo.
Riassumendo: a) il metodo è funzionale, opera comparazioni poiché sceglie teoricamente di
disporre il suo procedere in relazione alla complessità in quanto presupposto della formazione
dei sistemi. In questo senso necessita di una fondazione autologica e tuttavia il dispiegamento
della tautologia è superato ogni qual volta si riesce a rendere conto della situazione di
asimmetria; b) la teoria è sistemica, come meta-teoria o super-teoria, poiché si fonda
sull’autoriferimento di base del metodo funzionale. “Funzionale” è il carattere degli elementi
concepibili perché conosciuti secondo il riferimento sistemico, il quale viene sempre meglio
determinato e coincide, di volta in volta, con l’attività di un osservatore; funzionale è anche il
carattere del metodo in quanto strategia di riduzione della complessità, dato che traduce il
rimando ad altro in termini di funzioni. Detto ciò, che sia una teoria dei sistemi a integrare il
metodo funzionale, dipende esclusivamente da Luhmann quale osservatore specifico e dal suo
particolare contributo alla storia delle teorie sociologiche.
Cosa intenda Luhmann per teoria dei sistemi negli anni ’60 è facile indicarlo: la teoria dei sistemi
aperti di Ludwig von Bertalanffy e la teoria dei sistemi d’azione di Parsons. Continuamente vi si
richiama e non mancano le occasioni in cui ci spiega come egli si rappresenti il proprio lavoro
nei termini di una originale e innovativa continuazione di queste proposte teoriche. La
definizione luhmanniana di sistema chiuso, concetto formato in relazione al concetto di autopoiesi,
determinato in ambito di biologia cognitiva da Francisco Varela e Humberto Maturana, è
presentato come una radicalizzazione della teoria dei sistemi, grazie al quale si supera, sosterrà
Luhmann in Sistemi Sociali, non soltanto analiticamente, ma anche sul piano della generalità della
teoria dei sistemi, gli esempi su citati, arrivando concretamente a fornire i fondamenti di una teoria
generale.
Prima di questo sviluppo, che si registra nell’arco di un trentennio, tuttavia, la teoria dei sistemi
ha avuto importanti predecessori. La teoria degli organismi viventi, da un lato, e la teoria delle
macchine dall’atro, sono stati i due momenti inaugurali di questo serrato processo di
43
acquisizione63. In particolare, omeostatica e cibernetica, nei rispettivi ambiti, sono state in grado
di superare la concezione ontologica classica che presiedeva alla concettualità teleologica e
meccanicistica della teoria della conoscenza64.
Da un lato l’organismo vivente non è più stato inteso soltanto come un “essere animale”, come
organismo del vivente, ma in quanto “sistema adattivo”. Dall’altro una macchina viene
presentata nei termini di “impianto auto-regolativo”. La concezione ontologica intendeva il
sistema come l’unione delle parti, e orientava la teoria all’indagine sulla natura e sui modi di
questa unione. La differenziazione interna veniva intesa come variabilità delle forme di
composizione dell’ordine interno, e si prestava attenzione esclusivamente alla razionalità di
quest’ordine. Questo isolamento del sistema in se stesso viene abbandonato sotto la pressione
delle ricerche empiriche. L’importanza del concetto di azione per lo studio dei sistemi sociali, ne
è un altro esempio. Ecco perché Luhmann può sostenere che il grande rimosso della teoria
sistemica classico è il concetto di ambiente del sistema. Programmaticamente «ignorato o
considerato unicamente come ordine interno di un sistema complessivo»65, l’assenza di una
riflessione sul tema ha ipostatizzato un concetto di identità relativamente stretto. La
stabilizzazione del sistema diventa, nell’ottica del metodo funzionale, invece, più che la
soluzione o l’effetto del problema della ricerca dell’ordine, il problema stesso.
Ogni sistema, analizzato secondo la prospettiva delle funzioni che lo determinano, rimanda alle
possibilità che libera con la sua operazione di strutturazione della complessità. La stabilità non è
più la qualità che definisce per essenza i sistemi, ma una relazione mutevole tra sistema e
ambiente. Le principali prestazioni sistemiche, la cui analisi costituisce l’oggetto della ricerca
funzionalistica, infatti, riguardano la «conservazione di un’indifferenza relativa nei confronti dei
movimenti ambientali, di una distaccata autonomia e di un’elasticità e mobilità nelle relazioni
tali da poter compensare gli inevitabili flussi ambientali» 66. Da ciò, segnala Luhmann, discende
una serie di conseguenze di vasta portata. Intanto, si potrebbe aggiungere in partenza: il
concetto di indifferenza relativa, proprio se si resta nel campo ontologico, è una vera
rivoluzione nell’intendimento del rapporto universale/particolare, rispetto alle strategie teoriche
di cui si parlava poco sopra, ovvero proprio in relazione alla risonanza con la hegeliana Aufebung
e con la dottrina della contraddizione marxiana.
63
Cfr. A.M. Iacono, L’evento e l’osservatore, cit.
64 Cfr. N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi , cit., pp. 42-51.
65 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi , cit., p. 42.
66 Ivi, p. 43.
44
La teoria funzionalistica amplia il concetto di identità ontica grazie all’uso del concetto di
equivalenza funzionale, e riesce a farlo perché si riferisce, nel corso delle indagini che
intraprende, costantemente al rapporto sistema/ambiente. Inserire nelle proprie riflessioni
anche il riferimento all’ambiente, rende la teoria funzionalistica luhmanniana capace di porre
accanto al problema della organizzazione il problema ricorsivo della organizzazione di questo
organizzare, la funzione dell’organizzazione in un regime di differenziazione e di invarianza
relativa tra un sistema e un ambiente. Nel vagliare questa dinamica, nel porsi dal punto di vista
del punto di vista di un sistema che si differenzia, e che quindi non soltanto si organizza ma
anche e soprattutto organizza la propria organizzazione in relazione all’ambiente, l’osservatore
ha la possibilità di enunciare «formule-guida»67. Tra le più importanti nella tradizione
occidentale sicuramente quella di scopo, può essere, alla luce di ciò, così riletta: «la funzione
svolta dalla scelta dello scopo ai fini dell’invarianza di un sistema (a differenza della motivazione
degli scopi attraverso il ricorso a valori) può diventare oggetto della ricerca» 68. E, dunque, non
“scopo” come categoria che disvela la natura autentica di un sistema, quanto lo studio di sistemi
che orientano la differenziazione funzionale verso il proprio ambiente in termini – anche
classici – di scopo, intendendo questo come una variabile in relazione alla formula di
contingenza definita come “stabilità”.
Il concetto di funzione può servire a operare comparazioni se viene definito come forma di
relazione tra sistema e ambiente. Inoltre, poiché non tutto può mutare contemporaneamente,
ogni mutamento – per essere tale – deve far riferimento a delle costanti. Queste sono
desumibili a partire dalle relazioni di scambio che si instaurano tra sistema e ambiente. In virtù
di queste, un’altra importante conseguenza dell’applicare il metodo funzionale è quella di
intendere tali operazioni in quanto confini, membrane che mettono in comunicazione un dentro
e un fuori e che rappresentano lo spazio di esibizione tipico dei rapporti di diminuzione e
aumento di complessità che sussistono nella situazione di asimmetria nella quale opera, e solo
può operare, un sistema. La formazione di un sistema e il suo rapporto di invarianza relativa
all’ambiente diventa un problema nella misura in cui l’idea che anima la teoria sistemica riguarda
la possibilità di descrivere come questa formazione «deve essere strappata a un ambiente
avverso, ricorrendo a una combinazione particolare di prestazioni sistemiche, e che essa resta in
67 Ibid.
68 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi , cit., p. 44.
45
questo senso problematica»69. In ogni altro caso si dà a prescindere dal sistema di un
osservatore interessato.
L’analisi viene collocata al livello del rapporto sistema/ambiente, e il suo interesse specifico
consiste nel trovare empiricamente confermato il presupposto metodologico «secondo il quale
ogni accertamento di funzioni serve a indicare delle varianti per la soluzione di determinati
problemi»70.
Il concetto di ambiente, ovvero la sua assenza, ci fa capire come il contesto formale descritto
dalle teorie finalistiche arrivava a formare teorie riduzionistiche, semplicistiche e perciò pronte
all’uso. La difficoltà di mantenere le strutture sistemiche e di rifondare continuamente i confini
tra sistema e ambiente ci mette dinanzi a una quantità di situazioni che non possono essere
stipate tutte sotto l’unico concetto di scopo. E questo perché, il nesso sistema/ambiente, in
poche parole, non pone un problema soltanto. Intanto si deve tener presente che «i problemi
vissuti e le difficoltà comportamentali non sono semplicemente identici ai problemi che
costituiscono il punto di riferimento funzionale»71. A fare da ponte è il concetto di latenza,
intesa come complessità ambientale presente e indeterminata, ovvero, rispetto alla dimensione
temporale, ancora non-determinata.
Il carattere latente dei cosiddetti “problemi di fondo” ha un ruolo sul piano dell’osservazione
non meno importante che su quello della riproduzione sistemica. Da un lato, quest’altro aspetto
della invarianza relativa si mostra come la capacità specifica del sistema di non dover reagire
costantemente a tutti i problemi di ordine ambientale; dall’altro, invece, segna la possibilità
strutturale di decisionalità allargata per gli attori sociali. Un sistema è tale, infatti, non perché
risponde sempre allo stesso modo, né perché intende sempre nello stesso modo gli impulsi che
riceve dall’ambiente: è un sistema perché di fronte ai mutamenti dell’ambiente dispone di più
alternative per reagirvi, alternative che sono funzionalmente equivalenti, determinabili
analiticamente sotto punti di vista sempre più astratti, propri della teoria dei sistemi. La
comparazione funzionale ci aiuta a considerare che ciò che esiste è in rapporto ad altre
possibilità. Tale operazione teorica fissa i criteri astratti rispetto ai quali è possibile sostituire ciò
che è con qualcos’altro. L’assunto che lega teoria dei sistemi e analisi funzionale è il seguente:
entrambi sono permeati e uniti da un’ipotesi comune, quella secondo la quale un sistema può
69 Ivi, p. 45.
70 Ibid.
71 Ibid.
46
essere spiegato a partire dalla sua «potenziale razionalità»72. Per operare una comparazione c’è
bisogno di accostare al metodo criteri di riferimento, ricavati da una teoria che si mostra
all’altezza della sostituibilità delle cause: questa teoria, appunto, è la teoria dei sistemi.
La differenziazione tra metodo e teoria fin qui descritta può essere applicata al caso specifico
della ricerca sociale. Partendo dalle conclusioni a cui arriva Talcott Parsons, l’argomentazione
fin qui sostenuta può assumere la seguente forma: il metodo comparativo e la teoria del
rapporto sistema/ambiente vengono impegnati per interpretare l’azione sotto il punto di vista
delle alternative funzionalmente equivalenti e per considerare l’agente alla luce di una razionalità
di cui egli stesso è capace, sebbene gli resti sconosciuto l’aspetto di organizzazione informale73 e di
latenza di questo stesso agire.
Da questo punto di vista, si può dire con Luhmann che un «sistema d’azione è razionale nel
caso in cui gli interessi che ne assicurano la stabilità sono generalizzati in modo tale che di
fronte a un mutamento delle condizioni ambientali si delinea un numero sufficiente di
possibilità di soddisfarli» 74. L’ambiente non pone infatti un unico problema, e le difficoltà di
mantenere le strutture sistemiche in condizioni di invarianza dipende proprio dalla autonomia
di cui gode l’ambiente e il sistema, rispettivamente. Ecco perché la classificazione delle variabili
parsoniane dovette sembrare a Luhmann un altro esempio – sebbene il miglior esempio fin lì
possibile – di una filosofia del rispecchiamento. In «maniera molto elementare»75, scrive
Luhmann, antropologia sociale e sociologia funzionalistica hanno inteso le difficoltà suddette in
termini di “contraddizione”, “conflitto”, “esigenze funzionali di carattere contraddittorio”. Nel
caso di Parsons: «la tesi più importante consiste nel dire che ciascun sistema d’azione ha da
risolvere quattro diversi problemi fondamentali […] l’adattamento (adaptation), il
raggiungimento dello scopo (goal atteinment), l’integrazione (integration), e il mantenimento delle
strutture latenti (latent pattern maintenance)»76. Legato allo schema ontologico dell’identità, Parsons
concepisce il fine ancora come una caratteristica sostanziale dell’azione, omogenizza ancora
metodo e teoria all’interno di una visone che cela la propria matrice costitutiva, e che,
nonostante ciò, continua ad orientare la stesura della teoria. L’errore commesso dal sociologo
americano non si inscrive su un piano analitico, e dunque la critica di Luhmann non si appella a
criteri di cogenza. Il problema teorico – quindi non meta-teorico, come sarebbe da un punto di
72 Ivi, p. 51.
73 Ivi, p. 46.
74 Ivi, p. 54.
75 Ivi, p. 46.
76 Ibid.
47
vista interno alla teoria stessa, secondo lo schema congettura/confutazione – si innesta sul
piano del metodo: ogni ambito è assunto in quanto variabile del rapporto sistema/ambiente,
tuttavia i fini e gli scopi vengono concepiti ancora come una qualità sostanziale dell’azione. Così
facendo Parsons si preclude la possibilità di concepire un problema sistemico più astratto e
quindi fondamentale: la stessa funzionalità delle determinazioni dette finalistiche. Tuttavia, si
può aggiungere, sulla scorta di Parsons, un’altra conseguenza importante dell’aver assunto il
punto di vista della teoria dei sistemi e dell’analisi funzionale è il poter affermare che i sistemi
risolvono i propri problemi attraverso la formazione di strutture.
I sistemi sociali consistono effettivamente in azioni fattuali e nelle connessioni di senso che tra
queste si definiscono. Una connessione di senso è tale perché reindirizza costantemente le
selezioni successive. L’azione non è una cosa in sé, piuttosto può dirsi “sociale” perché
nell’evento del suo emergere è strutturalmente connessa alla possibilità della sua riproduzione.
È questa possibilità ad agire come struttura e a poter acquisire «durata, coerenza e capacità di
creare consenso per il fatto che l’azione diventa prevedibile in quanto norma»77. Il passaggio
successivo è l’ istituzionalizzazione di questa norma, la stabilizzazione esplicita di una forza latente
e delle aspettative di comportamento che libera sul piano della comunicazione.
Per rendere invariante una struttura sistemica occorre che il senso, secondo la dimensione
temporale, materiale e sociale, operi processi di generalizzazione e istituzionalizzazione delle
aspettative di comportamento. Superando lo schema finalistico si è in grado, perciò, di
concepire un insieme di azioni come sistema sociale, nella misura in cui, dinanzi ai mutamenti
ambientali, non lo si immagina come una concatenazione di effetti lineari, ma in quanto insieme
che dispone di più di un’alternativa per reagire alle sollecitazioni dell’ambiente. La sicurezza o la
stabilità di un sistema non coincide con l’identità del sistema, come se si trattasse di una
simulazione costantemente ripetuta in relazione a un “originale” che tende a ripresentarsi quale
sogno di una copia78, ma con la capacità di creare strutture, di organizzare alternative. La struttura
sociale che è in grado di innescare questa produzione di unicità – che corrisponde anche alla
possibilità per l’osservatore di staccarsi dall’atteggiamento del pensiero rappresentativo, dallo
schema formale soggetto/oggetto – riguarda le aspettative di comportamento.
Bisognava operare un ampliamento in senso metodologico, riformulare il funzionalismo
causalistico come funzionalismo comparativo, perché si cominciasse a valutare, accanto
77 Ivi, p. 47.
78 Cfr. A.M. Iacono, Il sogno di una copia. Del doppio, del dubbio, della malinconia, Guerini, Milano 2016.
48
all’eterogenesi dei fini, la possibilità strutturale di sostituzione delle cause. La teoria dei sistemi
aveva già per molti versi disposto e utilizzato questo ampliamento su un piano teorico. La
delimitazione concettuale tra azione e aspettative, tra senso delle azioni e azione del senso,
doveva fare il resto: almeno per Luhmann e rispetto alla possibilità di una teoria generale dei
sistemi sociali. Ovvero, ricapitolando: in base alle strutture prodotte, un sistema utilizza i
problemi che incontra come criteri di riferimento. Questi diventano i punti da cui può partire
l’analisi funzionale e i nessi per la regolazione dei processi di sostituzione. Diversamente da
quanto ci si aspetterebbe, la sostituibilità di una unità di senso, che si tratti di un’azione, una
norma, un rito, un enunciato, ci informa del suo significato specifico, della sua unicità. Ma
soltanto tramite il riferimento a una rete complessa di problemi sistemici è possibile valutare
quali alternative risultino realmente soddisfacenti. Questa rete complessa di problemi sistemici è
il canovaccio79 – oltre che la condizione di possibilità reale – per la formulazione di una teoria
sociologica intesa nei termini di una teoria generale.
La sociologia di Talcott Parsons rappresenta per Luhmann il punto di arrivo della ricerca
sociologica, l’ultimo e più compiuto esempio di ricerca che ha voluto e saputo assumersi l’onere
di una teoria che avesse pretese di universalità. Questa ambizione ha tuttavia un carattere
differente rispetto a quello esibito da concetti come quello tradizionale di totalità. Universale si è
detto in molti modi: in Parsons significa la possibilità di tener conto dell’unità della disciplina,
fondata sulla fecondità euristica del riferimento sistemico, l’ azione. Viene cioè abbandonata la
pretesa dell’esclusività e della giustezza assoluta della teoria generale. Il limite, invece, della
teoria dei sistemi d’azione sarebbe riscontrabile in certi elementi di senso che vengono sottratti
alla problematizzazione, come conseguenza diretta, sostiene Luhmann, dell’anteporre in fase di
analisi il concetto di struttura a quello di funzione. Il metodo struttural-funzionalistico di
Parsons non è capace di definire teoricamente il concetto di struttura perché lo ipostatizza in
quanto concetto-chiave del metodo. Invertendo la relazione parsoniana, Luhmann dichiara di
riuscire a «porre il problema della funzione di strutture sistemiche, senza dover presupporre
79Al di là della metafora teatrale, la trama delle opere di Luhmann è qualcosa di realmente particolare se si guarda al metodo
di composizione e a quanto questo risulti sintomaticamente legato al suo modo di concepire il cominciamento come gli
sviluppi della attività di scrittura teoretica. Cfr. H.G. Moeller, Per comprendere Luhmann, cit., pp. 27-32.
49
l’esistenza di una struttura sistemica complessiva quale punto di riferimento del problema» 80 –
come succede nel caso specifico con le azioni.
La sociologia si colloca in un rapporto di rottura rispetto alla razionalità della vita quotidiana,
poiché se questa e quella coincidessero non ci sarebbe bisogno di ricorre alla formulazione di
alcuna scienza. Rispetto ai giudizi di valore, all’ambito delle motivazioni, allo schema formale
che, ad esempio, seguono i behavioristi, Luhmann è, da questo punto di vista, assai più tedesco
che non americano. La difficoltà è sempre stata quella di rinvenire, nella fenomenicità sociale,
un filo conduttore81, per dar conto dei legami che sussistono tra motivazioni reali e motivazioni
apparenti, tra strutture e sovrastrutture, anche quando queste interessano lo stesso modo del
conoscere. Questioni che «nella ingenua vita quotidiana, ma anche dai concetti giustificatori e
razionalizzatori usati dall’agente»82, non è possibile desumere. Infatti, si può ancora leggere, «è
del tutto fuori discussione che la distanza dal piano dell’esperienza della vita quotidiana
costituisca un presupposto della costruzione della scienza che sia teoricamente compiuta, della
sua relativa invarianza quale sistema di concetti e giudizi»83.
Ora, eliminare il riferimento a una struttura fondamentale non vuol dire abbandonare l’analisi
alla deriva della mancanza di alcun tipo di riferimento. Ogni analisi funzionale, infatti,
presuppone l’esistenza di un punto di riferimento rispetto al quale una funzione viene svolta,
poiché si comincia sempre da un quid irrisolto e problematico. La questione è quella di stabilire
in base a quali criteri tale elemento è stato concepito come riferimento, seppur iniziale.
Dalla storia delle scienze sociali sappiamo che l’analisi struttural-funzionalistica aveva
individuato nel problema del mantenimento dell’ordine interno al sistema il presupposto di ogni
ricerca: ciascuna teoria aveva l’incarico di designare gli elementi che concorrevano alla
conservazione del sistema nei termini di strutture di identità, differenziate a partire dall’univoca
funzione del rispetto dei rapporti di conservazione interni al sistema. Nella teoria funzional-
strutturalista di Luhmann il punto di partenza è rappresentato invece dalla differenziazione fra
un dentro e un fuori, e dal rimando che questa differenziazione rende possibile all’idea di un’entità
80 N. Luhmann, La sociologia come teoria dei sistemi sociali, in Id. Illuminismo sociologico, cit., p. 131.
81 «Filo conduttore» è espressione tipica di un certo modo di intendere il procedimento di indagine teoretica. L’espressione
italiana traduce Leitfaden: è interessante ricordare come questa ricorra nel Kant della Idea di storia universale da un punto di vista
cosmopolitico, già nel titolo dello Schiller della Sulla prima società umana secondo il filo conduttore del documento mosaico e anche nella
Prolusione Accademica che questa, come le altre Lezioni di filosofia della storia , precede, ma è anche espressione che si trova in
Marx, nel documento che annuncia la cosiddetta concezione materialistica della storia. Marx vi parla in quanto «filo conduttore
per i miei studi», nella Prefazione del ’59, cfr. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. Emma Cantimori Mezzomonti,
Editori Riuniti, Roma 1984, p.4.
82 N. Luhmann, Metodo funzionale e teoria dei sistemi, p. 52.
50
di riferimento che non ha più alcun fuori a delimitarla. Questa entità è per Luhmann
contrassegnata dal concetto di mondo. L’analisi funzionale deve poter confrontare le soluzioni
funzionalmente equivalenti a questo problema analitico dell’emergere di un orizzonte non
strutturato, un’entità finita che conferisce significati pur rimandando all’infinito 84, in quanto
insieme di tutte le possibili equivalenze funzionali di un dato sistema. Mondo come problema
designa in ogni momento una data relazione tra un determinato sistema e il problema del suo
riferimento, attuale o potenziale, a questo mondo.
Il mondo diventa un problema non rispetto al suo essere, ma in quanto ente astratto che denota
una complessità eccessiva. Ciò che accade dipende da ciò che esiste: il modo di questo esistere
riguarda la possibilità e la capacità di operare connessioni di senso. La funzione di rimando è la
prestazione sistemica e teorica propria del senso, l’unica funzione di riduzione della complessità
che è in grado di essere contemporaneamente selezione nel contesto delle altre possibilità e
rinvio. Un’altra mancanza della teoria sistemica che antepone il concetto di struttura a quello di
funzione consiste proprio nell’intendere la categoria di senso come un che di essenziale
all’azione, una componente intrinseca e necessaria, una struttura che poi funziona, appunto, nel
modo del senso – previa definizione di che cosa sia una tale funzionalità.
I sistemi sociali hanno il compito di cogliere e riordinare la complessità che si genera dalla
compresenza di sistemi sociali diversi, in una sorta di mediazione tra la complessità massima del
mondo e la capacità del sistema sociale interessato di stabilire di volta in volta funzioni di
differenziazione tra un dentro e un fuori. Complessità meno improbabile del sistema e
complessità più improbabile del mondo sono assunte come variabili che stanno tra loro in un
nesso di corrispondenza in quanto «la complessità presuppone di per sé la formazione di sistemi»85.
Un sistema impara a distinguersi dal proprio ambiente, ad escludere un numero più alto di
possibilità rispetto a quelle del mondo e perciò a fondarsi su un ordine “superiore”, più
improbabile. L’improbabilità è un prodotto della determinazione, la quale dipende dall’operazione
propria del senso. Ecco allora perché possiamo intendere il nesso che fa corrispondere
aumento e riduzione di complessità al potenziale selettivo del sistema, in relazione alla concreta
strutturazione della differenziazione funzionale nel quale si trova a riprodursi. Non a caso,
infatti, Luhmann fa notare che questo processo chiarirebbe la differenza evolutiva tra le società,
84Il riferimento è a Husserl, infatti si legge: «Husserl ha cercato di cogliere nell’immagine dell’ “orizzonte” questa
particolarità del mondo dell’uomo che consiste nell’apparire come un’entità finita che conferisce significati pur rimandando
all’infinito», il problema per la sociologia è vedere cosa c’è dietro alla felice metafora del fenomenologo, il contenuto
problematico da cui deriva, cfr. N. Luhmann, La sociologia come teoria dei sistemi sociali, cit., p. 132.
85 Ivi, p. 134.
51
sostit uendo alla semantica del progresso86 quella della complessità, per la quale si può dire che
«Le società relativamente semplici hanno un mondo più semplice delle società differenziate» 87 -
ovvero si fondano su un ordinamento meno improbabile.
Col crescere della complessità interna il sistema accresce la sua capacità di mantenersi in
autonomia, nel senso che riesce sempre meglio a strutturare la propria specifica forma di
indifferenza relativa all’ambiente e al mondo. I sistemi sociali conservano questa autonomia
perché sono in grado di istituzionalizzare le regole di comprensione e di riduzione della
complessità che scoprono di perpetuare nella riproduzione. Una di queste è contrassegnata da
Luhmann con la formula di «trasposizione del problema»88, l’altra con quella di doppia selettività,
in base alla differenziazione fra “struttura” e “processo”.
Nel primo caso, un sistema diventa capace di un aggiramento del problema del riferimento
esterno: il problema-mondo, concepito in quanto rimando a una estrema complessità dei
fenomeni, viene tradotto come problema interno al sistema, trasposto nell’ambito delle
possibilità individuabili come funzioni sostituibili. In questo modo il problema viene riferito al
sistema, il quale risulta così in grado di elaborare informazioni di tipo selettivo.
Questa dinamica di rappresentazione interna dei problemi, o meglio, dell’acquisizione di
informazioni in quanto problemi, innescata dall’esigenza di rispondere a problematiche esterne, è
la base di sviluppo di processi riflessivi89, della trasmissibilità di contenuti semantici e, dunque,
dell’emergere e del perpetuarsi delle tradizioni culturali. Creando una «cornice di riferimento
semplificata»90, alcune trasposizioni diventano insostituibili nell’uso corrente, altre assumono la
funzione di presupposti indiscutibili.
Vi sono diversi problemi sostitutivi della complessità, tuttavia storicamente si può constatare
l’importanza di tre trasformazioni di problematiche latenti: assumono questa connotazione
concetti come quello di stabilità, per quanto concerne la dimensione del tempo, di scarsità
quando ci si riferisce alla dimensione materiale, e di dissenso se si guarda alla dimensione sociale
dei problemi di comunicazione91. In conseguenza di ciò non solo ci si abitua a pensare
correntemente, ma si creano tradizioni di pensiero e ambiti di erudizione che considerano come
irrilevanti, o comunque meno rilevanti, gli eventi del mondo che non riguardino il
86 Come viene ben spiegato, ad esempio, in L. Calabi, «Progrès » e «Progress », «Perfection » e «Improvement ». Sul lessico di alcuni
autori dell'Illuminismo in Francia e Gran Bretagna, in «Società e storia», n. 60, pp. 279–307, 1993.
87 N. Luhmann, La sociologia come teoria dei sistemi sociali, cit., p. 134.
88 Ivi, p. 135.
89 Cfr. N. Luhmann, Meccanismi riflessivi, in Id., Illuminismo sociologico, cit., pp. 103-127.
90 N. Luhmann, La sociologia come teoria dei sistemi sociali, cit., p. 136.
91 Ibid.
52
compromettere o il favorire della stabilità nel sistema temporale di riferimento, la riduzione o
l’incremento nella dimensione materiale di riferimento, l’incoraggiare o il frenare il dissenso nel
sistema sociale di riferimento. Ridefinire il problema della complessità indeterminata nei termini
di stabilità, dissenso, scarsità, aiuta il sistema a differenziare e specificare le sue operazioni
interne. In breve: il concetto di trasposizione indica il modo in cui i problemi vengono
circoscritti grazie alla formazione di sistemi. Tuttavia, «Con ciò – chiosa Luhmann – non si
compie, lo ripetiamo, alcuna spiegazione, ma si fornisce un presupposto necessario di qualsiasi
spiegazione»92.
L’altro modo per dotarsi di strutture orientate alla risoluzione dei problemi, come dicevamo, è
la doppia selettività, l’operazione interna di rimando tra struttura e processo. Una struttura è una
proiezione di senso e, in quanto tale, è già un atto selettivo, il prodotto di un’operazione di base
del sistema. «Il rischio – dice Luhmann – di vivere entro il mondo viene così diviso: esso viene
assorbito in larga parte dalle strutture, e per il resto viene affrontato caso per caso»93. Come atto
selettivo una struttura nasce dall’esclusione di una complessità che coglie in modo generico e in
termini di altre possibilità.
In un certo senso ogni tipo di struttura si origina e crea un processo simile a quello della
illusione, ovvero risulta determinata dalla possibilità indeterminata di accedere all’autentica
complessità del mondo. Ogni processo di formazione di strutture deriva da questa possibilità di
escludere, come dalla presenza di una latenza funzionale che orienta in un senso specifico la
selettività. L’elemento funzionale riguarda la capacità di accrescere entro certi limiti la
complessità di un sistema sociale e la capacità di comprendere la complessità ambientale, poiché
«più una struttura è generalizzata, più alto è il numero delle azioni che essa permette» 94.
Il metodo comparativo e la teoria del rapporto sistema/ambiente risulta efficace perché nel
caso della rappresentazione dei legami tra prassi quotidiana e astrazione ricorre all’assunto che
qualsivoglia azione è selezione e opera tramite selezioni. In ciò consiste l’universalità della teoria
dei sistemi. Luhmann è dunque in grado di accostare i due ambiti senza ricorrere a dimensioni
trascendentali, trasposte dal primo al secondo livello – come succede nel pragmatismo
americano e in Habermas – o dal secondo al primo – come si dà nel criticismo kantiano. Certo,
si può dire, fenomenologicamente che la comparazione non riconduce ciò che è all’ essenziale;
tuttavia, si può aggiungere: essa offre un incremento di analisi della razionalità sistemica in
53
relazione alla certezza che «a determinate condizioni non sia necessario che ciò che è resti se
stesso»95. Una libertas indifferentiae che il sistema sviluppa, e che gli consente di organizzare il
livello e la forma della propria selettività interna, recuperando, in caso di necessità, strutture che
aveva momentaneamente escluso.
Una volta realizzate queste possibilità di comparazione e le cognizioni fondate su queste, un
blocco – se così si può dire – sul contesto, l’altro su valori costituiti a partire dallo schema
dell’aspettativa di comportamento e istituzione delle norme – anche e soprattutto latenti –, i
sistemi risultano dipendere esclusivamente dai criteri di riferimento rispetto ai quali si effettua la
comparazione, mentre risultano essere completamente indipendenti dalle ragioni per cui questi
stessi criteri di riferimento vengono definiti come pertinenti dalla teoria. L’individuazione di
equivalenze non autorizza alla sostituzione di criteri di riferimento, mentre non ha alcun legame
con i criteri che presiedono alla scelta di questi: in altre parole il passaggio da una motivazione
teorica a un’altra fondata su valori fa in modo che la prassi possa appropriarsi delle conoscenze
scientifiche senza che ne risulti falsificato il contenuto di verità. Dunque, né il metodo né una
teoria dei modelli di attribuzione possono rispettivamente garantire in maniera esclusiva la
razionalità della comparazione.
La ricerca di modelli teorici da applicarsi alla razionalità sistemica – che consiste di invarianza
relativa e indifferenza ontologica, come abbiamo detto – deve tener presente che la riduzione di
complessità è il presupposto per la formazione dei sistemi, e il modo di questa formazione non
può che essere processuale.
Processo e sistema sono due aspetti diversi della selettività. Un processo è la categoria analitica
che designa la fattualità del fenomeno selettivo e che rileva la necessità di tracciare confini; il
concetto di sistema, invece, designa quali confini è necessario tracciare per riprodurre una certa
struttura selettiva.
Poiché aumenta il numero di rimandi a possibilità di selezione, è necessario che si creino
strutture in grado di potenziare le selezioni già avvenute e di ridurre il tempo nella selezione di
nuove selezioni. La selettività in questo modo viene caratterizzata in due modi: come riduzione
e come complessità, come processo e come rimando, come senso e come mondo.
Ad esempio, la complessità di un sistema sociale cresce grazie alla generalizzazione delle sue
aspettative di comportamento e in base alla differenziazione funzionale in sistemi parziali: il
concorso di questi due livelli di formazione innesca il bisogno sempre crescente di dipendenza
Un sistema opera per la propria autonomia, non per la propria autarchia, il che risulterebbe
semplicemente errato sul piano analitico, e falso su quello autopoietico, dato il presupposto
55
della complessità. Un sistema non lavora per sussistere ma per persistere nel proprio essere. Nella
teoria dei sistemi sociali razionale è ciò che concerne il processo di formazione dei sistemi come
sistemi autonomi, e autonomi in quanto chiusi operativamente. L’auto-posizione, l’autarchia di un
modello universale di “ragione” e di “progresso”, inteso nei termini di un dispiegamento
necessario, per cui il fine coincide con la fine, il télos con l’ éschaton, al confronto con le strategie
di selezione della complessità in atto nella concreta formazione di strutture sistemiche, si
mostra come un modello che rende prestazioni teoriche esigue.
Se per “illuminismo” continuiamo ad intendere al contempo «lo sforzo di ricostruire le
condizioni razionali dell’esistenza umana a partire dalla ragione e senza alcun legame con la
tradizione e il pregiudizio»99, allora il problema teorico e pratico dell’Illuminismo storico risulta
essere un problema irrisolto o incompiuto100, ma dal punto di vista della perspicuità, poiché «[…]
riguarda il modo in cui si possono elaborare insiemi eccessivamente complessi di
informazioni»101. La sovrabbondanza di possibilità nella costruzione dei sistemi e delle forme di
rappresentazione, crea situazioni di incongruenza massima tra esperienza e conoscibilità di
questa, tra crescita e riduzione della complessità. Una esperienza che ci pare venga segnalata da
56
Kant stesso102, nonostante il chiliasmo filosofico103, e che ci rimanda alla parabola di un altro
illuminista, al pensiero di quel Cassirer così fiducioso di aver posto l’ idea di una costituzione
repubblicana104 nel 1929, chiamato a celebrare la Repubblica di Weimar, da arrivare infine ad
interrogarsi sulla natura mitica della stessa idea di Stato105.
I tentativi di caratterizzare il contenuto dell’illuminismo, come epoca o come atteggiamento106, in
quanto uscita107 o come caduta108, hanno portato ad indicare, esclusivamente, elementi propri di
autodescrizioni sociali. Questo è valso per l’associazione che storicamente si è data tra il
concetto di “moderno” e l’idea di un “illuminismo della ragione”, nella querelle tra antichi e
moderni posta sotto il segno di una libertà progressiva e di una certa idea di autonomia, almeno a
partire, se si vuole, dal quadro delineato da Turgot109. Stesso discorso può essere fatto per la
modernità culturale ed economica del borghese «nelle forme successive del proprietario di schiavi,
102 Rispetto al tipo di discorso sulla storia di Kant, si può vedere come si è fatto in tempo a costruire tribunali per la ragione
e chiese per gli uomini di volontà buona, ma non a intervenire nei nessi di una “società civile” per cui il principio morale non
era, come non sarà mai, il principio architettonico di formazione – d’altronde già i moralisti scozzesi avevano messo in
guardia, uno su tutti l’Adam Ferguson del Saggio sulla storia della società civile, tr. it. e c. di Alessandra Attanasio, Editori Laterza,
Bari 1999. Ciò per cui è stato possibile individuare nel principio della legislazione, come ha fatto Kant quando si è trattato di
discutere del rapporto della teoria con la prassi nel diritto dello Stato, ovvero discuterne contro Hobbes, in I. Kant, Sul detto
comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi (I793), in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, pp. 136-152,
l’autenticità e la forza di ogni costituzione repubblicana, ma che nel proporre l’idea di questo «contratto originario» è stato
poi costretto ad ammettere che «colui che in questa legislazione ha il diritto di voto si chiama cittadino (citoyen, ossia
cittadino dello Stato, non cittadino della città, bourgeois)», che la qualità che si esige a questo fine è esclusivamente che egli sia
suo proprio signore, ovvero che abbia una qualche proprietà, ma che tuttavia risulta «alquanto difficile, lo ammetto,
determinare i requisiti necessari a poter pretendere alla condizione di uomo che è suo proprio signore», cfr. ivi p. 148.
Mentre sul tipo di discorso filosofico di Kant rispetto all’intendimento della storia, si rimanda a L. Calabi, Il sentiero della
ragione e il tribunale del mondo. Introduzione, in F. Schiller, Lezioni di filosofia della storia, introduzione traduzione e cura di Lorenzo
Calabi, ETS, Pisa, 2012, e Id., Filosofia della storia in Kant e Schiller. Riflessioni su di un confronto, in Schiller lettore di Kant, a c. di
Alberto L. Siani e Gabriele Tomasi, ETS, Pisa 2013.
103 Il non esaltato chiliasmo filosofico di contro alla rappresentazione terroristica, eudemonistica e abderitistica della storia,
di cui parla Kant in Cfr. I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni. Seconda sezione: il conflitto della facoltà filosofica con la giuridica.
Riproposizione della domanda: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in I.Kant, Scritti di storia, politica e diritto, a
cura di Filippo Gonnelli, Laterza, Roma-Bari, 2009, p.225; mentre per quanto concerne il «si vede bene che anche la filosofia
può avere il proprio chiliasmo», cfr. ivi, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, p. 39.
104 Cfr. E. Cassirer, L’idea di costituzione repubblicana, cit.
105 Cfr. E. Cassirer, Il mito dello Stato, tr.it. di Camillo Pellizzi, SE, Milano 2007.
106 Cfr. M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières? «Magazine littéaire», 207 (1984), tradotto da F. Polidori in, F. Polidori, Il
problema del presente. Una lezione su “Che cos’è l’Illuminismo” di Kant, «Aut-Aut», 205 (1985), n. 1, pp. 11-19. Il problema
dell’intendimento del “presente” e del ruolo svolto da Kant nell’elaborazione del filosofo francese, cfr. ad esempio, G.
Marramao, Introduzione a Illuminismo e attualità: il moderno come interrogazione sul presente. Due testi di Michel Foucault e Jürgen
Habermas, «Il centauro», 11-12 (1984), pp. 223-228.
107 Cfr. F. Schiller, La prima società umana secondo il filo conduttore del documento mosaico, in F. Schiller, Lezioni di filosofia della
storia, cit., pp.77-102, e. L. Calabi, Il sentiero della ragione e il tribunale del mondo. Introduzione, cit., p. 32.
108 Come invece è per Kant, cfr. I. Kant, Inizio congetturale della storia degli uomini (1786), in I. Kant, Scritti di storia politica e diritto,
A.-R.-J. Turgot, Le ricchezze, il progresso e la storia universale, a cura di R. Finzi, Einaudi, Torino 1978. Per una critica dell’idea e il
paradigma moderno della progressività, cfr. A.M. Iacono, Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di Defoe,
Turgot e Adam Smith, cit.
57
del libero imprenditore, dell’amministratore»110, in quanto «soggetto logico dell’Illuminismo»111.
Succede ancora oggi, con la circolazione di espressioni quali “società del rischio” o “società
dell’informazione”, ad esempio. Ciò che restava e resta inspiegato è la matrice costitutiva e lo
statuto della differenza112 che una configurazione sociale moderna, appunto, gioca contro le altre
formazioni, nell’acquisizione temporale di un intero spaziale, e nella proiezione che compie
lungo il corso di un tempo concepito come freccia.
Quando la società moderna definisce se stessa come tale, si identifica servendosi di un rapporto
di differenziazione nei confronti del passato, di ciò che intende per “passato”. Rispetto alla
dimensione temporale la società, dettasi “moderna”, appunto, può costruirsi un’identità
richiamandosi costantemente al proprio passato, vale a dire distinguendo l’autoreferenza
dall’eteroreferenza113. Si tratta, in poche parole, della creazione di un contesto di diversità114.
Il sociologo, per ciò detto, «non può non rendersi conto che il discorso sul Moderno viene
condotto costantemente a livello semantico»115. Questo perché le strutture complesse risultano
sempre più evidenti all’analisi che non l’ordine autoreferenziale che si sviluppa in rapporto con
la paradossia di base di un autoriferimento che implica la riproposizione operativa della
differenza tra autoriferimento ed eteroriferimento. La prima cosa da fare per cogliere il
problema è distinguere i piani del discorso: da un lato la strutturazione e la differenziazione
della società, dall’altro la semantica116. La preferenza per un tale cominciamento lega la
proficuità dell’indagine al modo di sviluppo di qualsivoglia sistema. La distinzione tra struttura e
semantica è infatti già una distinzione semantica, e dunque, come operazione, ripresenta la
paradossia di un sistema che definisce se stesso come differenza del proprio riferirsi a sé e del
proprio riferirsi ad altro da sé. In questo fenomeno sistemico si trova «la base della fecondità
110 Cfr. T.W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo, tr. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino, 1997, p. 91.
111 Ibid.
112Anche Foucault, ma qui la differenza in quanto tale, ovvero per Luhmann, la questione diventa descrivere concettualmente in
maniera più precisa questa caratteristica specifica di una razionalità che si orienta verso la distinzione, cfr. N. Luhmann,
Osservazioni sul moderno, cit.
113 Marx già aveva notato che sistemicamente solo i “problemi” che possono essere risolti risultano comprensibili, Luhmann in
più ci spiega come “problema” sia ciò che riguarda la possibilità di autoriferimento, l’innesco e il suo correlato. Cfr. Cfr. N.
Luhmann, Osservazioni sul moderno, cit., p.12.
114 Cfr. J.M. Lotman, Testo e contesto : semiotica dell’arte e della cultura, a cura di Simonetta Salvestroni, Laterza, Roma Bari 1980, e
Id., Tesi per una semiotica delle culture, a cura di Franciscu Sedda, Meltemi, Milano 2006.
115 Cfr. N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, cit., p. 9. Qui il riferimento è direttamente Habermas, per il quale si rimanda al
Baraldi, G. Corsi, E. Esposito, Semantica e comunicazione. L’evoluzione delle idee nella prospettiva sociologica di Niklas Luhmann, Clueb,
Bologna 1987.
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delle analisi che sviluppano la loro paradossalità»117 e insieme «sostanzialmente già tutta la teoria
del Moderno»118.
Un modo davvero radicale, potremmo aggiungere, di ricostruire l’unità del principio
dell’identità del non-identico, senza cadere nella trappola del blocco epistemologico119 della
uniformità, della omogenizzazione di partenza. Seguendo Luhmann la discussione si sposta
metodologicamente dalle autodescrizioni della società moderna ai criteri del moderno, alla
formulazione di una teoria adeguata, a «una semantica del rapporto tra struttura e semantica,
una teoria dell’autodescrizione della società che si riproduce in strutture»120.
L’operazione di definizione è, in ogni caso, l’operazione di un osservatore. L’osservatore opera
una distinzione che rientra121 nella designazione iniziale [quella per cui l’osservatore indica se
stesso in quanto differenza] retroagendo sull’osservazione di partenza [è improprio fornire un
tipo di spiegazione in ordine allo schema prima/dopo, la spiegazione dovrebbe mantenersi a
livello funzionale, l’unico punto di vista in grado di sviluppare la paradossia; nonostante ciò, si
può dire: ex post, come osservazione di second’ordine, mentre era già, per il solo fatto di
operare, distinta dal non-operare-una-distinzione] in quanto ciò che è differenza che fa differenza si
ripropone continuamente come doppio riferimento, come doppia modalità di acquisizione di
informazioni, tra auto ed etero-riferimento.
Ora, poiché un osservatore disegna per sé, e designa per l’altro da sé, una distinzione, ogni
designazione non può che essere contingente (sicuramente se si guarda alla struttura cognitiva
del re-entry, mentre si intendere come necessaria sul piano operativo). Un sistema «si esclude
operativamente dall’ambiente e si rinchiude in sé osservando»122: per questa particolare teoria
dell’osservazione non può esistere alcuna contrapposizione tra soggetto e oggetto, bensì
«semplicemente una concatenazione circolare di attività diverse (diciamo sensomotorie)» 123.
scientifico: contributo a una psicoanalisi della conoscenza oggettiva, a cura di Enrico Castelli, Gattinara, Cortina, Milano 1995.
120 N. Luhmann, Osservazioni sul moderno, cit., p. 13.
121 «Questa presunzione corrisponde al calcolo delle forme di George Spencer Brown, che inizia con una paradossia
nascosta, cioè con l’indicazione di porre una “distinction” che consista in distinction e indication ma che sia da trattarsi come
unico operatore; tutto ciò conduce alla paradossia evidente di un “reentry” della distinzione in ciò che è distinto», ivi p.9n.,
come più avanti nel testo, alle pp. 46-47. Cfr. G. Spencer Brown, Laws of Form, The Julian Press, New York 1972, in
particolare p. 69 segg.
122 N.Luhmann, La razionalità europea, in Id., Osservazioni sul moderno, cit., pp. 48-49.
123 N. Luhmann, La contingenza come valore proprio della società moderna, in Id., Osservazioni sul moderno, cit., p.63. Tuttavia, anche
sul “diciamo sensomotorie” si può guardare, F. Varela, Complessità del cervello e autonomia del vivente, e K. Pribram, Contributi
sulla complessità: le scienze neurologiche e le scienze del comportamento, in Bocchi, Ceruti, La sfida della complessità, cit. .
59
Tutto diventa contingente se ciò che viene osservato dipende da chi lo osserva: non sussiste
alcuna possibilità di trovare un’autodescrizione della società moderna che superi il valore e
l’importanza – cognitiva ed etica – della possibilità astratta di autodescrizione in generale. Per
concepire il portato reale della modernità, anche come atteggiamento, si dovrebbe compiere un
salto dalla semantica storica124 al calcolo delle forme del re-entry, dato che, afferma Luhmann, il
problema del moderno della società moderna non riguarda i “post” o i “pre” modernismi, quanto che
tale società oggi dipende, quasi senza via d’uscita, esclusivamente da se stessa 125. La
proclamazione del “Postmoderno”, ha avuto l’unico merito di mostrare che la società moderna
non crede più – o non crede di credere più – di saper fornire descrizioni corrette su se stessa,
poiché ammette l’esistenza di altre possibilità, e vive questa ammissione con falsa coscienza, come
rigetto diretto del distinguere126.
Nel contesto di osservazione non si può trovare alcuna posizione privilegiata, nessun punto di
vista che riesca a legare immediatamente osservazione e referenza – si deve passare sempre e
comunque per la via della designazione. I giudizi di razionalità devono pertanto essere
svincolati dai significati dati a priori dall’esterno, e venire applicati a una unità di autoreferenza
ed eteroreferenza producibile sempre e solo all’interno del sistema127. Di conseguenza non si
tollera alcuna idea definitiva, alcuna autorità, nemmeno nel caso in cui venga
intersoggettivamente dedotta oppure pragmaticamente esposta come immanente al mondo in
quanto orizzonte di senso. Nel processo di osservazione della differenziazione sistemica «non si
124 Per come paradigmaticamente si può trovare in R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti,
Genova 1986.
125 Cfr. N. Luhmann, Il Moderno della società moderna, in Id., Osservazioni sul moderno, cit.
126 Cfr. N. Luhmann, La razionalità europea, p. 56.
127 Da questo punto di vista anche la pragmatica universale teorizzata da Habermas, rispetto al concetto di “apprendimento
intramondano”, come processo di formazione aprioristico ancorato a una certa idea di “razionalità” delle prassi quotidiane
di vita, verrebbe a trovare un arduo ostacolo da aggirare. Luhmann considera Spencer Brown nella prospettiva critica di
Quine, ovvero: l’empirismo moderno è stato per molta parte condizionato da due dogmi, da una presunta discriminazione
fra verità che sarebbero analitiche per il fatto di basarsi sul significato dei termini, e non su dati di fatto, e verità che sarebbero
sintetiche perché si fondano su dati di fatto, e, poi, dalla tesi per cui tutte le proposizioni significanti sono equivalenti a certi
costrutti logici, sulla base di termini in relazione diretta con l’esperienza immediata. Luhmann propone una sostituzione, che
non è solo terminologica, evidentemente, per abbandonare il piano di spiegazione segnato dalla compresenza dei due
costrutti dogmatici appena accennati. Nella sociologia dei sistemi sociali alla distinzione analitico/sintetico, e al nesso di
definizioni vetero-europei, si contrppone il circolo autologico di autoreferenza (analitico) ed eteroreferenza (sintetico). Le
cosiddette verità analitiche «sono […] l’ambito in cui l’autoriflessione del sistema può riconoscere la propria base
paradossale e risolverla con l’aiuto dell’asimmetria tra sistema e ambiente, nel senso di autoreferenza ed eteroreferenza», e
questo crea altri tipi di problemi (come quelli categoricamente teorizzati da Gödel o Ashby). Percorrendo questa strada, per
un verso si assiste a un offuscarsi della distinzione fra metafisica e scienza naturale; per un altro un accostarsi, in Quine, al
pragmatismo, in Luhmann, a un costruttivismo corretto dalla logica della cibernetica di second’ordine. Cfr. W. Van Orman
Quine, Da un punto di vista logico: saggi logico-filosofici, a cura di Paolo Valore, Cortina, Milano 2004, in particolare il noto
discorso che apre il testo, Due dogmi dell’empirismo. Per Luhmann, invece, cfr. N. Luhmann, Il Moderno della società moderna, cit.,
pp. 21-22. Interessante è anche – come diventa consueto nelle opere degli anni ’90 – il richiamo a Saussure e a Derrida, cfr.
ivi, p. 21n.
60
tratta pertanto di una emancipazione verso la ragione, bensì di una emancipazione dalla ragione,
e questa emancipazione non deve essere perseguita, bensì è già avvenuta»128.
Chiunque si ritenga ragionevole può venire osservato e decostruito. Tuttavia ricostruire la
decostruzione dovrebbe riguardare la possibilità di osservare questa osservazione, per poter fugare
ogni accusa di arbitrarietà: sicuramente riguarderebbe questioni di verità e di giustizia 129. E,
infatti, Luhmann spiega come la chiusura operativa implichi una differenziazione specifica:
l’autonomia è una specifica forma di dipendenza, sebbene questo dipendere non possa essere
associato a uno stato di minorità130. In questo caso, infatti, a differenza di una tradizionale
osservazione di prim’ordine, per cui si assumeva in termini di progressività la differenziazione
sociale, ci ritroviamo dinanzi al tentativo di indagare la contingenza di queste forme dirette di
osservazione.
L’operazione della comunicazione sociale produce l’unità del sistema sociale, rifacendosi ad altre
comunicazioni e distinguendosi da queste, dando così luogo a una differenza tra dentro e fuori,
tra sistema e ambiente. Questa differenza, eseguendo l’osservazione, esegue un’operazione che
si espone a sua volta a una osservazione ulteriore. E così via. Quello che viene costruito come
“realtà” è garantito dall’osservabilità dell’osservazioni. Il costruttivismo di Luhmann offre solo
questa garanzia, nulla di più, nulla di meno, per cui si è poi in grado di dire: «la modernità
specifica di questa osservazione di second’ordine non dipende più da un mondo comune, non è
più predisposta ontologicamente, bensì si chiede, anche se non prioritariamente cosa possa
vedere un osservatore con le sue distinzioni»131. Si risponderà: intanto la formazione dei sistemi
funzionali, come esecutori operativi della razionalità della società moderna. Rispetto
all’osservazione della formazione di questi ci si dovrà accontentare di poter dire: la razionalità
funzionale della differenziazione è una forma autoimplicantesi di operazione e osservazione.
meraviglia, del guardare con altri occhi, Feltrinelli, Milano 2000, in particolare p. . I problemi nascono sul piano delle descrizioni,
del guardare con altri occhi: in questo senso, allora, il pericolo è dietro ogni atto di autoriconoscimento e di autoreferenza, come
se si trattasse del processo di una servitù volontaria, così come classicamente risulta spiegato in Etienne De La Boétie, Discorso
sulla servitù volontaria, Jaca Book, a cura di Luigi Geninazzi, Milano 1979.
131 Questa modernità dell’epoca moderna è anche il modo di intendere la sua espressione letteraria, dell’interesse
conseguente della filosofia per la letteratura, della centralità di questa nelle modalità di un’osservazione di second’ordine e
che, ad esempio, restando in un panorama italiano, tra i copiosi rimandi che si potrebbero fare, dovrebbero offrirci la chiave
di ingesso per una discussione tra mondo scritto e mondo non scritto, a partire da Italo Calvino, innanzi tutto. Cfr. I. Calvino,
Mondo scritto e mondo non scritto, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 2002, ma anche per come se ne parla in A. I.
Davidson, Prefazione, in Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura di Arnold I. Davidson, Einaudi, Torino 2005,
pp. XVI-XVII.
61
Che la differenziazione già agisca nell’atto in cui si scopre, rispetto al come e al quando si scopre, è il
punto cieco del processo dell’autoriferimento. La modernità conserva il suo carattere più
proprio grazie alla paradossia di dover rappresentare un mondo nel modo della inosservabilità132,
sollecitata come è a sciogliere questa condizione con le distinzioni che trova, per raccogliere la
sfida della complessità, che vuol dire la possibilità di concepirsi – in quanto discorso – in
relazione a una società per cui si deve ricorrere costantemente alla forma modale della
contingenza, se si vuole comprenderne l’ ethos.
Il quesito costitutivo della filosofia moderna va allora integrato in relazione a una teoria che
possa applicare il concetto di contingenza alla relazione struttura/semantica. La sociologia dei
sistemi autoreferenziali può sostenere la complessità di questa richiesta. Anzi, meglio: «Nella
sociologia, l’illuminismo può rischiarare se stesso e organizzarsi come lavoro» 133: la tensione tra
ideazione del mondo ed esperienza attuale del mondo non si spiega più acquisendo il punto di
vista del Sole134 ma sviluppando la convinzione che la complessità del mondo possa essere
compresa soltanto se si riesce a ridurla. «Solo questa legge – la legge di riduzione e di aumento
della complessità, la legge della formazione dei sistemi, aggiunge Luhmann – le dà la possibilità
di individuare le condizioni e le prospettive di un illuminismo effettivo»135.
Una teoria della riduzione della complessità, e cioè la teoria dei sistemi, rende accessibili
all’esperienza e all’azione classi di possibilità diversamente non disponibili. La questione da cui
muove Luhmann è: si prenda il caso della teoria dei sistemi d’azione, nella sua tensione teoretica
e rispetto al suo scopo, questa si mostra come la massima espressione di ciò che la sociologia
può esprimere in termini di rischiaramento, almeno se la si guarda in un contesto disciplinare. E,
dunque, Luhmann si chiede: è possibile avere più conoscenza di quella esibita – anche e
soprattutto inconsapevolmente – dall’individuo che agisce?
L’etica illuministica «si è interrotta con durezza improvvisa nel XX secolo» 136, il risultato è stato
un contrapporre al formalismo la dialettica, ai chiliasmi l’opera di Nietzsche. Oggi, ovvero al
tempo in cui Luhmann scriveva di illuminismo sociologico, ma si potrebbe dire ancora riguardo alla
configurazione attuale, sicuramente nei suoi riflessi accademici, «Resta una buona dose di
pragmatismo e di fiducia nella scienza, resta soprattutto il valore umano dell’impegno nel
campo delle riforme sociali, ma questo impegno fa riferimento ai problemi indotti, proprio del
132 Cfr. N. Luhmann, La razionalità europea, pp. 55-56.
133 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 102.
134 Cfr. I. Kant, Il conflitto delle facoltà in tre sezioni, cit.
135 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 102.
62
nuovo ordinamento sociale, definisce la propria collocazione a partire da questo e non trova in
esso la base per potersi confrontare alla pari con la tradizione vetero-europea della filosofia
politico-sociale o anche soltanto con l’illuminismo»137.
Tralasciando per ora il piano di un confronto con la teoria politica, rispetto all’illuminismo,
l’impegno che un illuminismo sociologico si candida ad assumere, come si può vedere, è già di
per sé piuttosto oneroso. Non si renderebbe giustizia né alla sociologia né all’illuminismo se si
cercassero presentimenti sociologici nel periodo dell’illuminismo o slanci illuministici nella
sociologia, sostiene Luhmann. Il tema è molto complesso, tuttavia si può dire: «Due soprattutto
sono i presupposti centrali dell’illuminismo razionalistico che hanno suscitato il sospetto della
sociologia; l’eguale partecipazione di tutti gli uomini a una ragione comune, posseduta senza
ulteriori mediazioni istituzionali, da un lato, e dall’altro la fiducia ottimistica nella possibilità di
riuscire a realizzare condizioni sociali giuste»138.
Ora, se rispetto al suo schema teorico l’illuminismo razionalistico non è più rinnovabile,
rispetto al suo fondamento e a come questo è venuto articolandosi da Kant alla crisi delle scienze
europee, è possibile una riproposizione del quesito kantiano nei termini della teoria dei sistemi.
La loro connessione «suggerisce una interpretazione specifica dell’idea di fondo che anima
l’illuminismo, e cioè l’interpretazione secondo la quale illuminismo significa ampliamento della
capacità umana di cogliere e di ridurre la complessità del mondo» 139. E, dunque: rispetto alla
conoscenza dell’azione, dalla certezza morale della filosofia pratica, alla quale venivano
assegnate prestazioni consultive nell’edificio della pura ragione, fino all’opera di smascheramento
messa in atto dalla scuola del sospetto di Marx, Nietzsche e Freud, ciò che realmente veniva messo
in scena, senza mai essere nominato, riguardava il problema di base della modernità. L’impegno
della chiarificazione e del rischiaramento, così come l’obiettivo della demistificazione, girava intorno a
un problema che prima di Husserl, ammette Luhmann, rimane ancora latente. Il vero problema
della modernità è «la contingenza sociale del mondo»140.
Come problema, la costruzione contingente della realtà mondana agita ma non entra mai a far
parte della teoria. Ancora in Weber e in Durkheim è così 141. Tuttavia sono proprio questi
137 Ibid.
138 Ibid.
139 Ibid.
140 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 77.
141 Cfr. ibid., si legge: «Max Weber si attiene decisamente al senso attribuito all’azione dal soggetto quale unico dato di fatto,
tentando, a partire da esso, di costruire determinati tipi ideali di formazioni sociali e di svolger in base ad essi ricerche
comparative di ampio respiro. Emile Durkheim maschera la contingenza sociale attraverso la sua tesi della materialità
oggettiva delle realtà sociali».
63
tentativi a manifestare un legame tra illuminismo e sociologia, nonché la sua costruzione come
scienza autonoma. «Da questo momento è possibile fondare una teoria che abbia un ampio
respiro unicamente come proposta di soluzione di questo problema, non più, cioè, come una sorta
d’illuminismo sempre più demistificatore, ma come una penetrazione entro i confini
dell’illuminismo, come un chiarimento del significato dell’illuminismo» 142. Il senso attribuito
all’azione e ai sistemi d’azione, le forme dell’agire comunicativo, così come la ricostruzione
strutturalista e neo-strutturalista della materialità oggettiva della realtà sociale, hanno sempre
aggirato, e perciò anche mostrato per rimando, il problema della complessità inconcepibile di
un mondo socialmente contingente. Porsi sulla strada della concepibilità di questo è l’impegno
che va sotto l’espressione di “illuminismo sociologico”, o, se si vuole, di illuminismo
dell’illuminismo.
La questione diventa: la determinazione del senso di un’azione passa per la riabilitazione degli
elementi offuscati, per la problematizzazione della latenza. Il rimosso, il non detto, l’escluso, ciò
che è nascosto diventa il tema che traccia il senso della ricerca di un punto di vista più adeguato
all’agire in situazioni di complessità. Tuttavia, non basta una genealogia, né il ricorso a una
archeologia dei saperi, né tanto meno può giovare una pragmatica universale della
comunicazione: «La scienza potrà permettersi di illuminare l’individuo agente sui problemi e
sulle strutture che gli sono latenti, sulle “ragioni” inconsce del suo agire soltanto se conosce i
nessi funzionali di tali fenomeni, soltanto se conosce, oltre a ciò, anche la funzione che la
latenza stessa assolve per l’individuo agente, e se, infine, è in grado di offrire qualche alternativa
funzionalmente equivalente ad essa»143. La latenza della funzione tradotta nella funzione della
latenza, poiché non è soltanto un processo filogenetico a prendere forma, ma un rapporto di
interpenetrazione144 sempre attuale e ulteriore.
«Se si vuole considerare in una formula succinta lo sviluppo della teoria sociologica dal XIX
secolo ad oggi»145, il passaggio da teorie fattoriali a teorie sistemiche si è originato proprio
dall’esigenza di disporre di un strumentario analitico che fosse all’altezza di oggetti molto
complessi come l’interpenetrazione dei sistemi in atto. Non solo le ragioni “vere e proprie”
dell’azione ma anche quelle, per così dire, “false e improprie”, occupano il centro dell’analisi,
che, appunto, non identifica più le unità di senso in termini di fattori singoli ma in quanto
142 Ibid.
143 N. Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 78-79.
144 È così che Luhmann definirà il processo tipico dei sistemi sociali, più vanti se ne parlerà più distesamente.
64
funzioni. In breve, il mondo artificioso delle apparenze, privo di un fondamento sussistente,
della sovrastruttura, delle forme incielate, viene reinserito in un contesto problematico. «Non ci si
adopera – scrive Luhmann – più di abbattere brutalmente l’auto-rappresentazione che i sistemi
d’azione forniscono di sé, ma di indicarne le contraddizioni interne, gli aspetti ulteriori da
prendere in considerazione, le altre possibilità»146. Di rivolgersi, assieme alla loro forma alienata, a
una comprensione adeguata di fenomeni paralleli in altri ambiti funzionali.
L’analisi funzionale compie un radicale mutamento di prospettiva in questo senso, poiché
sostituisce alla stabilità il bisogno di prestazioni, all’evidenza dei dati di fatto i problemi.
L’utopia illuministica di una educazione del genere umano si affida a una immagine di progressività
del sapere che «non illumina più, ma si perde nelle sfere lontane del sapere acquisito ma non
disponibile»147. Incapace di individuare i propri limiti, l’illuminismo storico li ha assunti senza
averne consapevolezza, manifestandosi successivamente come romanticismo, «come predilezione
per il passato e per la cultura, per l’irrazionale, per il mistero della vita, per ciò che è cresciuto
organicamente e non è stato prodotto artificialmente, per la forza della decisione e per il culto
del paradosso elevato a principio»148. L’incongruenza della nuova situazione dipende dalla
difficoltà di mettere a disposizione dell’azione l’incremento delle possibilità costitutiva della
complessità del mondo.
La sociologia ha motivi particolari per interessarsi a tale discrepanza, poiché nella comprensione
e nella riduzione di complessità, la dimensione sociale si impone come questione preponderante
– non si dà ente che non ne venga a contatto. Quanto più distintamente si manifesta come
problema il divario tra crescita di possibilità e uso di queste possibilità nell’azione, tanto più si
impone un problema di riduzione della complessità: tanto più si impone la necessità di
assumere questo limite proprio dell’illuminismo razionalistico come principio di una teoria.
Anche in questo caso l’illuminismo sociologico è un rischiaramento, in quanto si offre come
processo storico e teorico che si sforza «di far sì che le possibilità del mondo diventino in
quanto senso, accessibili all’esperienza vissuta e all’azione»149.
Ma di che riduzione sta parlando Luhmann? La ricerca di una teoria trascendentale della
costituzione intersoggettiva del senso è un punto di riferimento decisivo per accostarsi
filosoficamente, in maniere adeguata, al problema della complessità. Ma qui non si tratta di
65
riduzioni fenomenologiche. Il problema concerne l’aspetto di socializzazione della natura
trascendentale, se si resta nell’universo di discorso husserliano, della concezione della concerta
costituzione del senso, ovvero della vera natura della intersoggettività.
Le conoscenze fornite dall’analisi funzionale consistono nella possibilità di ridurre complessità
tramite comparazione. La disponibilità di altre possibilità fa del problema – che sia il problema del
senso, o di ogni altro – non una dimensione dell’essere o del cogito che impone una soluzione sul
piano della «attendibilità di un accertamento ontologico»150, o rigorosamente trascendentale,
pena l’incoscienza o l’incompiutezza, ma un punto di osservazione dei rapporti tra sistema e
ambiente. Sono i sistemi, si legge più sotto, «che mediano fra l’estrema e indeterminata
complessità del mondo e il ristretto potenziale di senso presente nell’esperienza vissuta e
nell’azione di volta in volta attuali»151. In questo senso i sistemi sono strumento dell’illuminismo.
C’è una differenza notevole tra l’intendere l’evidenza della soggettività trascendentale in termini
di accessibilità fenomenologica garantita dalla base di una razionalità in comune a tutti gli
uomini, nella forma e nei contenuti, appunto, trascendentali, e intendere questo tipo di evidenza
come il limite dell’illuminismo razionalistico, anche del positivismo trascendentale della
fenomenologia husserliana, nei termini di un problema. Il problema di ogni riduzione è che è
riduzione di complessità, ovvero differenziazione e sostituibilità del potenziale umano di
afferrare e ridurre complessità del mondo, attraverso la formazione di sistemi. Mentre
l’illuminismo aprioristico si è sempre mosso entro i limiti oggettivi dell’esperienza soggettiva del
mondo, che si trattasse delle condizioni di possibilità dell’esperienza del soggetto-uomo o del
soggetto trascendentale, l’illuminismo sociologico trova davanti a sé barriere intrinseche, limiti
della sua stessa efficacia.
La complessità sociale è un dato di fatto che la sociologia rileva e analizza. Quando decide di
subordinare se stessa e la propria funzione a questo problema, si inserisce entro la sfera dei
propri oggetti di indagine, concependosi come un sistema tra gli altri. Tuttavia, come sistema
che sviluppa una descrizione di sé, a differenza degli atri sistemi, riconosce e si riconosce come
sistema funzionale che pratica riflessività: l’analisi funzionale dell’oggetto “sociologia” coglie la
disciplina in quanto sistema riflessivo di riduzione della complessità, in grado di delineare, a
partire da sé, equivalenze funzionali. Posta sotto il segno del metodo funzionale, la sociologia si
pone sotto il postulato dell’illuminismo: considera i sistemi sociali sotto il punto di vista della
67
Capitolo secondo
«Un mutamento continuamente selezionato»: analisi dei fondamenti della teoria dei sistemi sociali
Il «travaglio di Husserl» – così come viene sostenuto da Luhmann nella conferenza tenuta a
Francoforte nel 1968, in occasione del 16° Congresso dei sociologi tedeschi – posto di fronte
alla crisi della tradizione trascendentale e fenomenologica, culmina nella riflessione seguente: la
costituzione del mondo e del senso deve essere riconosciuta e concettualizzata in quanto
«prestazione intersoggettiva»
68
1. Da un punto di vista sociologico ciò significa che la formazione di senso e del mondo
dipende e corrisponde alla contingenza sociale dell’intrinseca costituzione di questi ambiti, la
quale implica una considerazione del “dato” dal punto di vista delle altre possibilità compresenti
e compossibili.
Il problema di un riferimento speciale nell’ideazione di un discorso sulla società non può più
riguardare l’ambito di criticità legato alla contingenza politica del “buon vivere”, del diritto o
della philia, della ciceroniana concordia ordinum o della insocievole socievolezza kantiana, al problema,
in definitiva, dell’adempimento del fine e della soddisfazione dei bisogni. Tutte queste formule
vanno tradotte nel linguaggio della contingenza sociale, devono essere intese come la trama
semantica di una tradizione di pensiero politico e sociale che ha seguito, senza il dovuto
distacco, l’emersione e la formazione della società civile, rispecchiandone la differenziazione e la
strutturazione, più che concependo la dimensione costituente dell’epoca moderna. Aggiunge
Luhmann: «Perciò, una teoria dei sistemi sociali deve corrispondere a questo problema oppure
essa potrà servirsi della parola sociale soltanto in modo arbitrariamente limitato e soltanto con
cattiva coscienza»2. Accostarsi teoricamente alla società senza falsa coscienza significa stabilire
le condizioni di possibilità teoretiche per proporre un’analisi dal punto di vista dello sviluppo
più concreto di questa.
Ciò che è importante evidenziare è che il raggiungimento dell’obiettivo teoretico di Luhmann
resta legato alla possibilità di articolare la definizione di contingenza attraverso la categoria di
complessità, all’idea di un ri-orientamento della teoria sociale verso un adeguato concepimento
del problema della contingenza sociale dell’esperire vivente di senso. In questa prospettiva
problemi di eccedenza del senso, della irriducibilità della Lebenswelt, possono essere intesi come
aspetti «di quella complessità del mondo non misurabile che deve essere portata a riduzione
mediante la formazione del sistema»3.
Al di fuori del campo della ricerca sociologica strictu sensu la teoria della società, nel corso della
sua storia, si è sempre mossa nel senso di una comprensione via via più adeguata della
complessità sociale. Per quanto riguarda invece la teoria del sistema, Luhmann registra la
tendenza verso uno sconfinamento meccanicistico delle spiegazioni, talvolta con esiti magici e
soteriologici – come nel caso delle metafore della mano invisibile4, dell’ astuzia della ragione5. Due
risultano essere gli ambiti di problematicità che si aprono all’indagine: da un lato capire perché è
1 N. Luhmann, Le teorie moderne del sistema come forma di analisi sociale complessiva, in J. Habermas, N. Luhmann, Teoria della società
o tecnologia sociale. Che cosa offre la ricerca sociale?, tr.it di Riccardo di Corato, Etas Kompass, Milano 1973, pp. 2-3.
2 Ivi, p. 3.
3 Ivi, p. 4.
4 Cfr. A.M. Iacono, L’evento e l’osservatore, cit., pp. 103-119.
5 Ibid.
69
ancora motivabile il problema che «ci resta tramandato»6 di un primato della società nei confronti
degli altri sistemi sociali; dall’altro stabilire, con un alto grado di cogenza e precisione, se la
società venga compresa in modo scientificamente più adeguato quando la si concepisca nei
termini di sistema sociale.
A partire da Aristotele lo schema formale della teoria della società si è sempre appoggiato a una
certa idea di natura dell’uomo. Su questa base le condizioni sociali dell’esistenza del genere umano,
riunito in comunità politiche, era distinto in due sensi: favorevoli o dannose. Che il politikòn zôon
dovesse rispondere di una originaria disposizione al bene o di una propensio o concupiscientia al male,
come è ancora per Kant7, poteva avere un unico significato: la relazione singolo-comunità si
muoveva in una struttura prestabilita di bisogni e finalità. «Di conseguenza», rileva Luhmann, «i
problemi da risolvere erano l’interferenza da parte di altri e la dipendenza da altri, metus et
indigentia, le corrispettive formule teleologiche di pace e giustizia, pax et justitia»8, e questi erano
problemi che dovevano essere risolti sul piano della costituzione di un potere politico compiuto
e legittimo.
Proprio il tema della compiutezza del potere politico, inteso in termini di statualità, mostra come
la questione rappreseti il principale nucleo speculativo anche per la filosofia del diritto
hegeliana: il livello assai più concerto della formazione della società civile rese possibile il
riconoscimento del punto nodale, dell’essenza costitutiva di questa forma dello Spirito Oggettivo.
Tuttavia, il senso della «contraddizione sempre crescente (Der immer sich vergrössernde
Widerspruch)»9 che ha luogo nel cuore del “sistema dei bisogni” e che fu il tema che più di tutti
rappresenta una costante in Hegel, non venne sviluppato nella direzione di concetti come
quello di “funzione”, “struttura” e “processo”, “azione” e “senso”, “informazione” e
“complessità”, ma, come si sa, nella direzione di una filosofia del diritto statuale.
Secondo Luhmann ciò che ha tenuto ancorate l’antica filosofia pratica europea e la teoria
moderna della società allo stesso ordine di problematicità è stato l’intendere il sistema sociale
come un tutto, l’assimilare il concetto di sistema sociale all’immagine di un organismo o di un
6 Ivi, p. 2.
7 Secondo natura, nell’uomo è da ricercarsi l’originaria disposizione al bene e, insieme, la radicale tendenza al male. La differenza tra
una disposizione e una tendenza (propensio), riguarda il carattere della relazione che intercorre tra le massime soggettive e il
fondamento originario della natura umana: una disposizione si riferisce sempre a un insieme di determinazioni essenziali
dell’uomo; una tendenza, invece, al fondamento soggettivo della possibilità di un’inclinazione, alla predisposizione a bramare
un godimento contingente rispetto all’umanità in generale, si legge in, I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit.
p.20. E continua: «In tal modo si viene a dire che il bene o il male è presente nell’uomo fin dalla nascita, ma non che la
nascita ne sia precisamente la causa».
8 N. Luhmann, Le teorie moderne del sistema come forma di analisi sociale complessiva, cit., p. 2.
9 Come si legge nel frammento hegeliano da cui prende avvio l’importante testo di Remo Bodei, cfr. R. Bodei, Scomposizioni.
13 Ibid.
71
trovi in qualche regione speciale dell’esperire umano. Consente di capire in cosa consiste
l’espressione “sistema costitutivo di senso”, senza instaurare un circolo viziato dal richiamarsi
infinito dei due concetti: quello di sistema e quello di senso. L’attenzione si sposta così all’analisi
dell’azione funzionale che intercorre tra i due termini: riguarda la forma della loro costituzione.
Costitutivo di senso significa che un sistema tiene vivo il rapporto che sussiste tra l’ordine condensato
selettivamente e l’apertura verso altre possibilità. E, allora, la questione si sposta dal tentativo di
definire una “natura del senso” a quella di dovere integrare l’attualità dell’esperire vivente di
senso con l’orizzonte che la trascende, e porre questi due livelli al cospetto dell’elaborazione
dell’esperienza vissuta.
Che si tratti di sistemi psichici o sistemi sociali, il problema è quello di inquadrare
adeguatamente la differenziazione temporale tra attualità e potenzialità, tra sovrabbondanza del
possibile e il ristretto spazio entro il quale si forma una unità di senso.
Questo rapporto ha la duplice struttura di complessità e di contingenza poiché nel primo caso si
fa riferimento al sussistere sempre ulteriore di possibilità dell’esperire e dell’agire, nel secondo
con il rischio di selezionare situazioni di possibilità che possono presentarsi in modo diverso da
quello atteso. Quindi: «complessità significa praticamente cogenza selettiva» 14, contingenza
«rischio di delusioni e necessità di compromettersi nei rischi»15. Un sistema costitutivo di senso
ha conseguentemente la forma di una selettività piena di rischi. Un sistema implica e dipende da
una relazione selettiva che si instaura tra la differenza sistema/ambiente e il mondo, e le sue
prestazioni selettive consistono nel rendere possibile contemporaneamente riduzione e
mantenimento dei livelli di complessità.
Un sistema psichico e un sistema sociale si basano sulla possibilità di accedere a un mondo di
potenzialità momentaneamente inattuali, sulla capacità di negare, sul primato funzionale della
negatività16. E questo proprio perché il senso si manifesta oggettivamente nell’essere altro.
Si legge: «ciò che sarebbe da comprendere è questo guadagno di capacità ai fini della
costruzione di possibilità complesse e contingenti e di un orientamento selettivo ad esse. La
base di paragone di una teoria generale del sistema sta nella rappresentazione di un sistema che
si delimita nei riguardi dell’ambiente, che genera selettività organizzata mediante una
differenziazione tra struttura e processo»17. I sistemi costitutivi di senso hanno la particolare
14 N. Luhmann, Il senso come concetto fondamentale della sociologia, in Teoria della società o tecnologia sociale, cit., p. 19.
15 Ibid.
16 Cfr. ivi p. 21. Per un inquadramento della tematica, in particolare se si tiene conto della sua importanza rispetto a l’uso di
logiche plurali, si rimanda a Elena Esposito, L’operazione di osservazione, cit., pp. 175-254. Oppure, C. Baraldi, G. Corsi, E.
Esposito, Semantica e comunicazione. L’evoluzione delle idee nella prospettiva sociologica di Niklas Luhmann, Clueb, Bologna 1987, pp.
113-163.
17 N. Luhmann, Il senso come concetto fondamentale della sociologia, cit., p. 62.
72
caratteristica di riprodursi organizzando processi di selettività di volta in volta più adeguati alla
configurazione attuale dei propri elementi, alla possibilità di negare in modo sempre più
differenziato. La difficoltà di questo programma teoretico, tuttavia, sta proprio nel sembrare di
non aver esaurito, almeno a questo livello di elaborazione – ovvero rispetto al punto in cui è
pervenuta l’elaborazione di Luhmann nel 1968, nell’atto della sua enunciazione alla conferenza
francofortese qui presa in esame – il richiamo all’analogia tradizionale della società come
“organismo vivente”, o comunque di non aver differenziato adeguatamente il concetto stesso di
riproduzione di un sistema vivente da quello di un sistema costitutivo di senso, sia nel caso si
tratti di un sistema sociale propriamente detto, sia che si tratti di un sitema sociale di ordine
psichico. Il profilo di una teoria generale della società è ciò che mette a punto Luhmann
vent’anni più tardi, quando pubblica Soziale Sisteme. L’impresa di pensiero che culmina in
quell’importante testo non soltanto lo lega alla tradizione specialistica del discorso sociologico,
se si vuole, alla linea che congiunge Comte a Parsons, ma apporta qualcosa di ulteriore: il livello
di astrazione in cui si innesta il discorso di Luhmann e che egli stesso elabora nel corso della
definizione della sua teoria, candida davvero questa impresa speculativa alla successione di una
«filosofia congedata»18, come la intese Habermas, ad esempio, il quale fu l’interlocutore
principale della conferenza sopra citata19, ovvero come successore di una filosofia congedatasi
da ogni ambito di intervento discorsivo positivo. Alla base di ciò c’è sicuramente la ridefinizione
del concetto di senso: tuttavia, anche il principio del rinvio ad altre possibilità doveva
rispondere di vincoli funzionali ulteriori. Non è azzardato perciò dire che la ricerca teoretica di
questi vincoli, confrontata con la stagione di rinascita della centralità della biologia, avvenuta a
partire dagli anni sessanta del secolo passato, all’interno del contesto delle scienze naturali,
abbia portato Luhmann alla definizione di un campo di corrispondenze autoreferenziali, quello
tipico dei processi di autopoiesi.
Il concetto centrale intorno al quale ruota la possibilità di fondare una teoria complessiva dei
sistemi sociali è il concetto di autopoiesi. Il concetto venne sviluppato originariamente dai due
biologi cognitivisti Humberto Maturana e Francisco Varela. Questo concetto spiega come un
74
validi al più alto livello, e quali dovranno essere abbandonati per conto dei loro legami con la
vita?»(But which attributes af autopoiesis will remain valid on this highest level, and which will have to be
dropped on behalf of their connection with life?)»22, e, cioè, cosa si perde e cosa si conserva del
concetto originario, allargando il campo di indagine sulla scorta di un ri-orientamento
dell’analisi concettuale e senza perdere, al contempo, di perspicuità? Da un lato l’analisi
concettuale dovrà improntare una teoria generale dei «sistemi autoreferenziali autopoieci (self-
referential autopoietic systems)»23, dall’altro distinguere, a un livello via via più concreto, i differenti
sistemi autopoietici in living systems, phychic system e social system – sistemi vitali, psichici e sociali.
Dalla biologia di Maturana sappiamo che autopoietico è in sistema che non soltanto si auto-
organizza rispetto alla disposizione funzionale dei suoi propri elementi, ma genera e realizza di
volta le modalità di relazione tra questi. Così, aggiunge Luhmann: «tutto ciò che viene utilizzato
come unità dal sistema è prodotto “come un’unità” dal sistema stesso (everything which is used as a
unit by the system is produced as a unit by the system itself»24)», che si tratti dei singoli elementi, dei
processi che li coinvolgono, dei confini che li specificano o delle strutture che informano, così
come per la sintesi di molteplicità concrete che identifica la configurazione attuale del sistema
stesso. Un sistema così concepito non può essere una monade autarchicamente regolantesi: è
inserito e non soltanto giustapposta ad un ambiente, dato che soltanto nella situazione di
asimmetria che si instaura tra questi due domini è possibile decifrare i problemi di costituzione
delle configurazioni attuali, le quali svolgono la funzione (e si mostrano in quanto) di identità e
differenza.
Nel caso dei sistemi sociali la riproduzione autopoietica riguarda le forme della comunicazione.
«Le comunicazioni», cioè, «non sono unità “viventi”, non sono unità “coscienti”, non sono
“azioni” (Communications are not ‘living’ units, they are not ‘conscious’ units, they are not ‘actions’)»25. Il
principio di organizzazione comunicativa, dipende dalla sintesi di diverse tipologie di selezione:
dall’informazione (information), dall’espressione (utterance), e dalla comprensione (understending).
Questi tre aspetti funzionano anche al di là del linguaggio verbale e non si limitano ad attivare le
loro specifiche sintesi sistemiche attraverso il linguaggio verbale. La comunicazione consiste
nell’ «interconnessione degli eventi che produce se stessa (network of events which produces itself)»26.
La sintesi di informazione, espressione e comprensione non è programmabile nei termini di un
linguaggio costituito, nel senso di una acquisizione più o meno completa di competenza
22Ivi, p. 172.
23 Ibid.
24 N. Luhmann, The autopoiesis of social system, cit., p. 173.
25 Ivi, p.174.
26 Ibid.
75
linguistica ed esecuzione linguistica, come poteva essere per il Chomsky di Aspects of the Theory
of Syntax27, ma è ristabilita di volta in volta in rapporto alla diversa disponibilità degli elementi
di condizionarsi a vicenda.
Soltanto nell’attualità dell’evento di sintesi comunicativa un quid può assumere la forma e il
carattere di ciò che fino a quel momento non poteva essere inteso come informazione o
espressione o comprensione, e soltanto un quid così determinato può concorrere alla
costituzione di un sistema come quello della comunicazione.
Sintesi, allora, non coincide virtualiter con ciò che è già da sempre in atto, ma è tale, è unità di
molteplicità e non solo uniformità a un modello ideale di dispositio, in quanto è in atto soltanto
come sintesi di elementi potenziali. Ovvero: «la sintesi comunicativa dell’informazione,
dell’espressione e della comprensione è possibile soltanto come unità elementare di un sistema
sociale in corso. Come unità operativa essa è indecomponibile, svolgendo il suo lavoro
autopoietico solamente come un elemento del sistema (the communicative synthesis of information,
utterance and understanding is possible only as an elementary unit of an ongoing social system. As the operating
unit it is undecomposable, doing its autopoietic work only as an element of the system)» 28.
Il sistema sociale è un sistema ricorsivamente chiuso secondo lo schema della comunicazione,
ma anche il concetto di chiusura va riformulato in termini di autopoieticità del sistema.
Esistono due occorrenze del termine, una relativa all’ambito della società, l’altra a quello più
selettivo dell’interazione. Per società dobbiamo intendere un sistema che comprende tutti gli
eventi che assurgono alla funzione di comunicazione. Da questa funzione è escluso il problema
dell’ intesa reciproca: il consenso non appartiene, come tema, al sistema sociale poiché la
comunicazione non si rivolge, né è perturbabile da parte dell’ambiente, dalla componente che si
staglia come orizzonte di comprensibilità, e che al livello della società consiste esclusivamente
nei limiti e confini che di volta in volta il sistema comunicativo riesce a costituire nell’attualità
dell’evento sistemico. Dall’altro lato, invece, sono proprio le interazioni che dipendono dalla
comunicazione ambientale, dal riconoscimento della presenza di altri partecipanti all’interazione
e che per questo motivo vi partecipano non come eventi comunicativi ma come qualcosa di più
complesso, in quanto “ruoli”, “obblighi”, “persone”, “cittadini” e così via.
27 Cfr. N. Chomsky, Aspects of the theory of syntax, The MIT press, Cambridge 1965. Chomsky come paradigma, si potrebbe
aggiungere, perché tutti i discorsi sulla competenza linguistica sono viziati da questa dipendenza con l’enunciazione e si
costruiscono per rimando a una dimensione più originaria, la parte illocutiva del discorso che è intese come la vera fonte
della comprensione. Tuttavia questo non porta Apel né Habermas a superare il paradigma di ricerca che fonda le loro
proposte e che si basa su una particolare idea di trasparenza del discorso.
28 N. Luhmann, The autopoiesis of social system, cit., p. 174.
76
Chiusura qui significa che le interazioni motivano la comunicazione solo nel contesto del
sistema sociale di comunicazione, ovvero adattandosi alla nuova situazione che si configura, in
modo da risultare comunicative o non comunicative a seconda del fatto di decidersi o no per la
riproduzione dei propri elementi. Non esistono «terze possibilità (third possibilities)»29, né per la
vita né per la comunicazione. Ogni selezione deve porsi nella forma della riproduzione
autopoietica, ovvero deve agire come sistema, oppure morire in quanto funzione di sintesi.
“Morire”, in questo caso, vuol dire porsi nella forma di una struttura che si specializza
nell’interruzione della riproduzione del sistema, così come nello stesso sistema comunicativo si
sviluppano altre strutture specializzate nella perpetuazione delle possibilità di interazione, le
quali garantiscono che la comunicazione continui anche nel caso di una espressione corrotta o
di una informazione depauperata.
Il concetto di comunicazione non concerne né rimanda a quello di interazione, perché non
consiste nell’azione di soggetti che si dicono qualcosa per uno scopo o in vista dell’intesa
reciproca. Comunicazione è, a differenza delle strategie complesse di interazione tra unità
sensive e biologiche, un processo di base, proprio perché «solo la comunicazione è
necessariamente e intrinsecamente sociale. Le azioni no (only communication is necessarily and
inherently social. Actions not)»30. Il che significa: l’azione implementa la comunicazione ma sconfina
in altri sistemi, i quali si adattano al sistema comunicativo, che li assorbe a seconda del ruolo che
assumono nell’ambito di selettività più complesse, in relazione all’informazione, all’espressione,
e alla comprensione. La comunicazione, in breve, non consiste nella dinamica di scambio di
messaggi, non riguarda una esclusiva dinamica input/output, ma si identifica come condizione
funzionale dell’autoriproduzione del contesto in cui si richiede la scambiabilità dei messaggi.
Luhmann è convinto che qui si pongono le basi per una rivoluzione concettuale in ambito
sociologico, c’est-à-dire nell’universo concettuale del tedesco, rispetto alla teoria in generale:
azione e comunicazione vengono caratterizzati come «livello operativo elementare del sistema
(elementary operative level of the system)»31. In un sistema autopoietico, o nell’altro verso, in un
processo autopoietico, la sistematicità del riferirsi a sé esclude in linea di principio l’esistenza di
entità esterne denominabili come “azioni” o “comunicazioni” perché al posto di queste
caratterizzazioni ontiche vede collegamenti tra sintesi di selezioni ulteriori.
29 Ivi, p. 176.
30 Ivi, p. 177.
31 Ibid.
77
III.II. La sfida della complessità: i vincoli e le possibilità
Tutto ciò può apparire paradossale, ed è Luhmann stesso a dirci che essere paradossale è una
caratteristica tipica dei sistemi sociali. Come sistema autopoietico costitutivo di senso, un
sistema sociale, nelle operazioni autoreferenziali, non determina soltanto le condizioni di
possibilità della propria riproduzione, ma anche forme di riflessività, forme di auto-
osservazione. Una teoria generale dei sistemi autopoietici postula una chiara distinzione tra
auto-riproducibilità e osservazione. Senza il riferimento a questa distinzione il sistema non
potrebbe realizzare l’auto-semplificazione necessaria per la propria osservazione.
È il sistema stesso che pone le condizioni di riflessività, e che può distinguere un meccanismo
riflessivo da altre unità sensive, quali possono essere le azioni o le singole osservazioni, poiché,
come abbiamo già detto, l’autopoiesi si differenzia attraverso la gestione e l’allocazione di
contingenza e arbitrarietà, configurandosi – e questo non lo avevamo ancora incontrato –
secondo «gerarchie a grappolo (tangled hierarchies)»32. Conoscere l’andamento del proprio
comportamento pone la questione della riflessione e dell’autoriflessione nei termini di vincoli
autopoietici33. I vincoli sono tanto importanti quanto fondamentale è la dimensione temporale,
nella riproduzione autopoietica. Un sistema autopoietico, sotto questo aspetto, infatti, non può
annullare il processo di decadimento funzionale. L’incessante rinnovamento a cui è costretto ci
dice che è l’evento a segnare il grado di complessità dell’autopoieticità di un sistema, e che gli
eventi, al contempo, non possono essere accumulati come cose in sé, in quanto occupano una
sequenza temporale ridotta. Se questi non fossero ancorabili a elementi che assurgono alla
funzione di vincoli, svanirebbero nel nulla.
Dal punto di vista del sistema, il tempo consiste nella capacità funzionale di determinare pattern
di coordinamento di elementi e unità sensive, in risposta agli eventi e alle prestazioni di sintesi.
Luhmann può allora aggiungere: «Tutte le stratificazioni del sistema sociale devono essere
fondate su questo cruciale dato di vanificazione di eventi, sospensione di gestualità o parole che
stanno per scomparire (All structures of social systems have to be based on this fundamental fact of
vanishing events, disappearing gestures or words that are dying away)»34. Espressioni come “memoria” o
“scrittura” hanno, ad esempio, la funzione di preservare non tanto gli eventi ma la possibilità di
salvaguardare il potere di discernimento a un livello meglio differenziato. Gli elementi in un
sistema autopoietico sono operazioni e funzioni di sintesi sottoposti a un regime di
32 Ivi, p.178.
33 Cfr. come ad esempio se ne parla in M. Ceruti, Il vincolo e la possibilitá, Feltrinelli, Milano 1989.
34 N. Luhmann, The autopoiesis of social system, cit., p. 179.
78
«disintegrazione e reintegrazione, di disordine e di ordine (disintegration and reitegration, disordering
and ordering)»35. Dal punto di vista del sistema, si può dire, determinazione e negazione
corrispondono.
Ora: «Se l’autopoiesi si è fondata su eventi, una descrizione del sistema necessita non di una, ma
di due differenze: la differenza tra sistema e dell’ambiente, e la differenza tra evento e situazione
(If autopoiesis bases itself on events, a description of the system need not just one, but two dichotomies: the
dichotomy of system and environment, and the dichotomy of event and the situation)»36. Entrambe le
dicotomie riguardano il modo dell’osservazione, sono formulazioni che aiutano da un lato a
descrivere come il sistema performativamente ri-entra ed assorbe la differenza tra sistema e
ambiente nel sistema stesso, dall’altro a identificare come una limitazione di scelta l’imporsi di
un sistema che è incapace di procedere da un event-in-situation ad un altro. I sistemi che
corrispondono a questa dinamica si muovono in sequenze temporali che non sono
rappresentabili in nessuno dei modi classici di raffigurare il tempo: né come freccia, né come
circolo.
Fedele all’analisi funzionale, Luhmann si rivolge all’analisi della «struttura transitoria del tempo
(temporal structure of time)»37, in relazione cioè al sistema e al proprio specifico tempo di
formazione. E, allora: «La differenziazione strutturale della società come sistema autopoietico
autonomo richiede la co-evoluzione di corrispondenti strutture temporali con il risultato ben
noto dello storicismo moderno (The structural differensation of society as an autonomous autopoietic
system requires the co-evolution of corresponding temporal structures with modern historicism as the well-known
result)»38. La differenza sta nel concepire un sistema non come necessario in generale ma in
quanto esistente solo nella forma di sistema autopoietico. Come per i sistemi viventi, un sistema
sociale, o un sistema psichico, può scegliere soltanto di continuare a riprodursi o decadere. Nel
caso si tratti di un sistema sociale questo può riprodursi soltanto come comunicazione. L’unità
del sistema autopoietico, al cospetto della totalità delle possibilità, consiste nel processo
ricorsivo della produzione delle differenze come condizione della sua specifica continuità. A
ogni passo un sistema autopoietico compie la sua particolare opera di selezione e questa, si può
leggere, «non è una questione di preferenze, né una questione di conquiste (This is not a question
of preference, not a question of atteinment)»39. Diversamente, questa proceduralità può essere intesa
nei termini di codice dell’esistenza.
35 Ibid.
36 Ivi, p.180.
37 Ibid.
38 Ibid.
39 Ivi, p.182.
79
Nel caso di un sistema sociale si dovrà dire che esso non solo può continuare a mantenersi in
vita in quanto comunicazione, ma che la comunicazione lo tiene in vita proprio perché è il
meccanismo più adeguato in cui sperimentare di volta in volta gradi e forme diverse di
selettività sociali. E, infatti: «la comunicazione della contraddizione, della controversia e del
conflitto sembra funzionare come una specie di sistema immunitario del sistema sociale (the
communication of contradiction, controversy and conflict seems to function as a kind of immune system of the
social system)»40. Questo meccanismo immunologico determina la formazione di strutture
positive – diritto, norme, pratiche – che orientano la prassi quotidiana dell’interazione ai fini del
processo sistemico di comunicazione. Ogni singolo fenomeno epigenetico, poiché è sistemico
proprio in quanto si presenta situato in un evento e rispetto a una specifica selezione, tenderà
alla sua specifica unità autopoietica. Questa tendenzialità, spiegabile dal punto di vista del
sistema, si cristallizza in forme di controllo del processo, e maggiore è il livello di complessità
del sistema sociale, meglio determinata dovrà essere la forma che il sistema assume sul piano
normativo.
La teoria complessiva dei sistemi non ammette possibilità non conoscibili in linea di principio, e
l’aspetto interno della enucleazione della complessità indeterminata e astratta che si cerca di
determinare è assimilata al concetto di complessità riducibile. Complessità vuol dire crescita
della quantità e delle specie dell’agire e dell’esperire vivente possibili, che si stia parlando di
sistemi viventi, sociali, o psichici.
Bisognava ridefinire il concetto classico di sistema nella prospettiva dell’autopoiesi offerta dai
biologi Maturana e Varela per poter formulare una teoria generale dei sistemi aperti alla
contingenza del loro farsi. La teoria, nonostante la sua astrazione, ma, si dovrebbe dire, proprio
in virtù della sua astrazione, non può che riferirsi alla realtà della contingenza sociale di
costruzione del senso: la notevole conquista epistemologica riguarda il fatto che, in caso di
successo, la teoria complessiva dei sistemi non interpreterà la sua proposta teorica come un
copia di questa stessa realtà, ma lo farà esclusivamente nei termini di pensiero sistemico, ovvero
di auto-osservazione: come un’informazione che ci ragguaglia sulla propria complessità interna.
40 Ivi, p. 183.
80
IV.II. Osservare un sistema in atto
Data la complessità, le considerazioni di una teoria generale dei sistemi sociali partono dal
presupposto che i sistemi esistono41. La teoria dei sistemi non comincia con un dubbio
gnoseologico, né attribuisce ai sistemi una valenza esclusivamente analitica; dall’altro lato,
sebbene non manchino esempi empirici, “sistema” non è e non può essere una categoria
immediatamente desumibile dall’esperienza. Il presupposto dell’analisi dei sistemi passa per
«un’analisi dei sistemi reali del mondo reale»42, e se una tale teoria pretende di avere validità
universale, si legge poco più sotto, «per tutto ciò che è sistema, essa comprende anche sistemi
del comportamento analitico e conoscitivo e figura quindi essa stessa fra i tanti oggetti del
mondo reale di cui si occupa»43.
Il confronto con la realtà effettuale, e la rappresentazione dell’oggetto in quanto oggetto della
propria rappresentazione, implica la necessità di riorientare la teoria dei sistemi nel senso di una
teoria di sistemi autorefrenziali. Su un piano epistemologico – e, si può aggiungere, anche
ontologico – l’autoriferimento, in quanto costrutto dell’osservazione e dell’auto-osservazione,
supera i tradizionali problemi di fondazione grazie al suo programma di ricerca, il quale ha
come unico banco di prova la conferma o la smentita dell’applicazione della teoria a se stessa.
Basato sulla differenza tra sistema e ambiente, l’autoriferimento soppianta la dicotomia
valido/non valido e il rischio di una ricorsività tautologica poiché sostiene che non vi può
essere né un sistema generato in modo esclusivamente autoreferenziale né un sistema dotato di
un ambiente qualunque. Il riferirsi a sé risponde della strategia di selezione del senso e ciò
significa che non può darsi in realtà che un qualsiasi elemento assuma un carattere ordinativo,
ovvero che i sistemi esistono ed hanno specifiche funzioni: tutte le volte va spiegato il punto di
emersione di unità di senso che strutturano e processano un autoriferimento che è di per sé il
risultato del riferirsi concomitante di ciascun sistema con sé e con il proprio ambiente. In altre
parole: ogni elemento si interpenetra rispetto alla complessità da cui muove, contro una
complessità indeterminata che gli si oppone, per ridurre il rumore che interferisce con la sua
attività autopoietica. In un contesto così strutturato è possibile raccogliere le informazioni che
rendono un qualsivoglia elemento un evento della riproduzione, in modo da riuscire ad
attribuirgli un certo valore ordinativo. «Ne consegue» secondo Luhmann «che l’autoriferimento
41 Cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, cit., p. 81.
42 Ibid.
43 Ibid.
81
esiste e può esistere solo e soltanto come modalità del rapporto con un ambiente strutturato in
maniera non arbitraria».44
Un sistema esiste proprio in quanto è un sistema autoreferenziale, ovvero solo in quanto i
sistemi sono in grado di stabilire relazioni con se stessi e di differenziare questo tipo di relazioni
rispetto alle relazioni con il proprio ambiente. Questa capacità è possibile esplicitarla nel
contesto di una descrizione del contesto del sistema per il tramite di un altro sistema, quello
anche qui in atto, e cioè il sistema della rappresentazione teorica. Tuttavia, ricorda Luhmann,
«anche qui occorre distinguere diversi riferimenti sistemici»45: i sistemi citati, l’ambiente dei
sistemi, l’ambiente. Il sistema scientifico è l’unico in grado di giovare direttamente di questa
ripetizione dei riferimenti poiché è in grado di analizzare altri sistemi sotto aspetti che risultano
inaccessibili agli stessi sistemi presi in oggetto, e questo perché il sistema della spiegazione
scientifica – quale sia il significato che all’attribuzione venga scelto di dare – sviluppa al suo
interno il medium dell’astrazione. E aggiunge: in questo senso una teoria è capace di svelare e di
formulare strutture e funzioni latenti. Dall’altro lato, però, è possibile, e ciò si verifica spesso,
che i sistemi sviluppino forme di accesso alla complessità inaccessibili, o comunque
difficilmente accessibili, all’analisi scientifica.
Vi sono diversi livelli di generalità della teoria dei sistemi. In rapporto alla forza dell’astrazione
che la teoria esibisce si possono elaborare teorie specifiche ordinate per tipi. L’assunto notevole
sta nel fatto che il tipo di riferimento non è filtrato da un’analogia ma attraverso la strada più
lunga della generalizzazione, seguita dalla rispecificazione46. Nel seguire la strada dell’analogia,
infatti, l’uguaglianza dei rapporti perseguita nasconderebbe ciò che è essenziale per la ricerca
funzionale: le equivalenze tra strutture. Generalizzazione e rispecificazione metodologicamente
funzionano come operazioni poiché non ricorrono a concetti, immagini o enunciati come a un
quid che esprime caratteristiche e qualità intrinseche alle cose, ma come a «concetti che indicano
problemi»47.
La teoria generale dei sistemi «ricorre al linguaggio dei problemi e delle soluzioni dei problemi,
che fa inoltre capire come, per determinati problemi, possono esistere soluzioni differenti,
funzionalmente equivalenti»48. Funzionale diventa anche il genere dell’astrazione, dato che
presiede, implica e dipende da una comparazione tra diversi tipi di sistemi. Questi si orientano
al proprio ambiente attraverso il rinnovamento di strutture che tengono viva la differenza con
44 Ivi, p. 83.
45 Ibid.
46
Cfr. Ivi, p. 84.
47 Ibid.
48 Ibid.
82
l’ambiente stesso. La differenza è regolata tramite confini, e un confine lavora come un vincolo
autopoietico: è una conquista evolutiva di primaria importanza, poiché si conforma al rischio di
improbabilità della riproduzione. «In questo senso – aggiunge l’autore – la conservazione del
confine (boundary maintinence) coincide con la conservazione del sistema»49. E, dunque, poiché i
sistemi esistono, allora i concetti sono problemi e soluzione di problemi, e lo stesso concetto di
sistema concerne un problema specifico e generalissimo. Il concetto di confine dal punto di
vista interno, cioè rispetto al sistema e all’ambiente del sistema, è un vincolo operativo,
condizione di possibilità della possibilità di autoriferimento come condizione, mentre da un punto di vista
esterno, ovvero come ambiente e ambiente dei sistemi, implica che il suo oltrepassamento
determini formule di contingenza, condizioni di prosecuzione diverse rispetto alle precedenti.
«L’ambiente attinge la propria unità soltanto dal sistema e solo in relazione al sistema»50: così
dice Luhmann, tuttavia è chiaro che non si tratti di un noumeno. Unità è infatti un elemento
prodotto dal sistema come riduzione di complessità, uno dei modi di relazionarsi alla possibilità
tra le altre, indeterminate, possibilità.
Il riferimento all’ambiente come imputazione esterna è una strategia, una caratterizzazione
dell’autoriferimento del sistema, che rispetto alla differenza con l’ambiente è in grado di
raccogliere in relazione a una dinamica incrementale tutto ciò che si pone tra il suo
autoriferimento determinato e il rimando, l’attribuzione, l’imputazione al resto delle possibilità
in quanto informazione.
Ecco perché un sistema non può essere una parte dell’ambiente, e non si costituisce come
principio di organizzatore delle proprie parti. Alla dicotomia tutto/parti Luhmann sostituisce
quella più astratta di identità e differenza, ma in un senso operativo, il che significa non solo
pragmatico, né tantomeno – o tanto più – ontologico. Nell’atto della ridescrizione dei fenomeni
di differenziazione sistemica è possibile far ricorso a codici semantici come quello della unitas
multiplex, della gerarchizzazione o dell’uguaglianza, o anche attraverso una divisione in centro e
periferia. Ciò dipende dal fatto che differenziandosi il sistema «accresce la propria sistematicità
acquisendo – accanto alla sua mera identità (differenziandosi da altro) – una sorta di seconda
versione della propria unità (attraverso la differenza rispetto a se stesso)»51. Il tema per
l’osservatore diventa allora quello dell’adattamento alla differenza fra sistema e ambiente, e alla
forma non determinabile a priori di questo adattamento.
49 Ivi, p. 86.
50 Ivi, p. 87.
51 Ivi, p. 88.
83
È questa dinamica che determina le importanti conseguenze rispetto al concetto di causalità
analizzata nel capitolo precedente. Scrive Luhmann: «Il sistema e l’ambiente concorrono
sempre alla realizzazione di tutti gli effetti»52, dunque più che descrivere una catena di cause più
rilevanti «occorre […] chiarire il motivo per cui la causalità si distribuisce fra sistema ed
ambiente e il modo in cui ciò avviene»53. Proprio a condizione e proprio in virtù del fatto che si
rinunci a «dominare la totalità delle cause si approda ad astrazioni che vengono realizzate in
modo auto-organizzativo ed auto-produttivo»54, e si è in grado di intendere, di volta in volta, il
carattere e la forma specifica – produttiva di effetti – della causalità della causa in atto. E
ancora: «Se si vuole comprendere la produzione non si deve partire, perciò, da leggi naturali,
bensì dai vantaggi offerti dalla selezione»55.
Questa sorta di costruttivismo si applica anche ad altre categorie elementari, anche, e in modo
molto interessante, se ci si rivolge al concetto stesso di “elemento” e di “relazione”. L’unità
della differenza è ciò che si differenzia come unità: in entrambi i casi «la differenza forma unità
(si dice, infatti: “la” differenza), pur operando soltanto come differenza»56.
L’unità della differenza è una espressione ambivalente: può essere letta secondo il senso
soggettivo e, al contempo, oggettivo del genitivo. Le unità di senso, comunicate attraverso il
linguaggio coi termini di elemento e di relazione, si formano in quanto si rimandano come
differenza, e la differenza in quanto struttura in atto, ovvero in quanto processo, consente
l’elaborazione dell’asimmetria in termini di informazione, per cui un determinato quid è
elemento di una relazione, relazione di elementi, o relazione di relazioni. Nel caso in cui si
prenda in esame il primo o il secondo tipo di genitivo si possono valutare le due forme di
scomposizione di un sistema. Dal punto di vista del sistema si chiamerà differenziazione
sistemica quel processo che vede il ripetersi a livello sub-sistemico delle relazioni di tipo
sistema/ambiente; mentre si definirà complessità sistemica il caso in cui la scomposizione
avviene a un livello di astrazione più elevato, nel caso in cui quella differenza viene ripetuta in
termini di elementi e relazioni. Ciò che interessa nel primo caso «sono le stanze della casa, nel
secondo i mattoni, le travi, i chiodi»57 - i quali risultano essere più concreti per la costruzione ma più
astratti per il costruire.
52 Ivi, p. 89.
53 Ivi, p. 90.
54 Ibid.
55 Ibid.
56 Ivi, p. 91.
57 Ibid.
84
L’autoriferimento anche qui mostra la possibilità di superare formule tautologiche e
teleologiche di pensiero: l’incremento della differenziazione sistemica, come concretizzazione di
selezioni e riduzioni di complessità, implica l’aumento di complessità del sistema, poiché
aumenta le possibilità di connessione, aggiungendo a un insieme indeterminato e improbabile
un elemento o una relazione, o una relazione di relazioni, determinato e improbabile fino
all’atto del suo entrare in scena, come selezione avvenuta ed evento. Scomporre il concetto di
elemento e riconnetterlo alla sua qualità di essere un elemento-in-un-sistema serve anche a de-
ontologizzarlo: l’unità di un elemento se è una qualità è una qualità che gli appartiene, non tanto
come patrimonio ontico, ma in quanto esprime, nella possibilità di connessione che avanza,
specifiche funzionalità. «Un elemento – chiarisce Luhmann – è quindi, di volta in volta, ciò che
funge da unità non ulteriormente scomponibile per un sistema»58.
L’impossibilità teorica, avanzata dalla teoria dei sistemi, di determinare, indipendentemente da
questi, ciò che di volta in volta funge da elemento, e l’impossibilità empirica, espressa dalla
nozione di autopoiesi, di fotografare l’atto del farsi elemento di un dato item, spiega come è
possibile e come si costituisce una riduzione di complessità. Riduzione vuol dire selezione,
complessità organizzata, e organizzare la complessità è possibile solo se un sistema si dota,
sempre ulteriormente, di relazioni selettive fra elementi. Una teoria non deve fare altro – si fa
per dire – che mettere in luce quelle proprietà che emergono dall’organizzazione stessa della
complessità, a partire dall’emersione della stessa possibilità di astrazione. Ora: «con l’aumento
del numero di elementi che devono essere tutti insieme entro un sistema o per un sistema, quale
suo ambiente, si giunge molto rapidamente a una soglia oltre la quale non è più ogni elemento
in relazione con ognuno degli altri»59. A questo punto la relazione si regola attraverso una
formula di contingenza: nel caso più astratto questa si chiamerà limitazione intrinseca. La selezione
colloca e qualifica gli elementi, e implica un aumento progressivo del rischio autopoietico di
vedere interrotto l’autoriferimento.
L’impossibilità di decidere, come in una teoria dei giochi, quale elemento si svilupperà a partire
da certe selezioni e condizionamenti di selezione, svela come una teoria dei fenomeni complessi
richiede teoricamente l’integrazione con una teoria evoluzionistica. Non vi è, si legge più avanti,
«una corrispondenza puntuale fra il sistema e l’ambiente»60. Se così fosse non sussisterebbe né
la necessità di selezione esibita da un sistema, né l’ordine di elementi e relazioni, poiché non
potrebbe sussistere alcuna differenza, il sistema sarebbe l’ambiente e viceversa – che è la strada
58 Ibid.
59 Ivi, p. 95.
60 Ivi, p. 96.
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percorsa dall’ontologia, classicamente. Un sistema non soltanto si forma ma dispone i propri
elementi in modo da selezionare quanta più complessità ambientale gli riesca, e risulta tanto più
funzionale quanto meglio può determinare la propria riduzione di complessità e aumentare la
propria capacità di rispondere all’improbabilità della propria autopoiesi. Un assunto della teoria
generale può essere allora quello di poter affermare che il rapporto esistente fra la complessità
del sistema e quella dell’ambiente va intesa come rapporto incrementale e che, da questo punto di
vista, importa chiedersi quali siano i fattori da cui dipende tale incremento – e il successivo
equilibrio.
Riassumendo: la teoria lega il concetto di sistema a quello di complessità in termini di
differenziazione e riduzione di complessità, di dislivello e asimmetria di complessità tra sistema
ed ambiente, e tutto questo come condizione necessitante di selettività. Per dar conto di questa
impostazione teorica Luhmann, in contrasto con la produzione scientifica che fino a quel
momento si era interessata al tema, ammette che bisogna rendere il concetto di complessità a
sua volta complesso: l’aumento di complessità consiste nell’aumento del numero degli elementi e
del numero di relazioni realizzate tra essi; riduzione di complessità, invece, nella possibilità che
le strutture relazionali di un fenomeno complesso vengano ricostruite da un altro fenomeno
caratterizzato da un minor numero di relazioni, come a dire che «solo la complessità è in grado
di ridurre la complessità»61. Ancora più concretamente: l’azione di riduzione di una complessità
organizzata rispetto ad un’altra ambientale è possibile perché la complessità meglio determinata
– confinata nel senso della propria specifica riproducibilità, ovvero ordinata secondo il senso
della propria selezione – funge da misura della carenza di informazioni, del «l’informazione che
manca al sistema per poter cogliere e descrivere compiutamente il proprio ambiente
(complessità ambientale) o se stesso (complessità sistemica)»62. I sistemi, allora, pur non
essendo in grado di recepire tutta la complessità che gli si prospetta, si dotano di strumenti che
li rendono in grado di problematizzarla, reagendo «all’immagine imprecisa di sé che produce» 63.
Ma si potrebbe chiedere: e in che modo reagiscono? L’integrazione di complessità e analisi
sistemica conferma la valenza della spiegazione funzionale di fronte al ruolo svolto dai confini
in un sistema. I confini indicano l’ambito di funzionalità di un elemento, e servono tanto a unire
quanto a separare il sistema dall’ambiente. Un confine separa gli eventi, ma lascia passare gli
effetti causali. Sotto questo profilo si svela il portato fondamentale di un confine, come
conquista evolutiva per eccellenza. Diventa, cioè, la messa in scena, come ripetizione, della
61 Ivi, p. 97.
62 Ivi, p. 99.
63 Ibid.
86
differenza: è nel suo dominio che è possibile orientare e programmare il carattere della
selettività sistemica, nonché la possibilità di auto-osservazione del sistema. E, infine, chiosa
Luhmann: «Il requisito principale del processo di differenziazione di sistemi è dunque, oltre alla
costruzione di elementi propri di quei sistemi, la determinazione di confini»64.
Rispetto alla dottrina sistemica classica, quando ad esempio ci si riferiva ai concetti di Grenze e
Shranke65, la teoria dei sistemi sociali intende i confini in termini di prestazione, suscettibili
d’essere incrementati e sostituiti. L’incremento può assumere la forma dell’ adattamento tra
sistema e ambiente e anche viceversa, secondo il quale un sistema arriva a consistere in una
complessità strutturata che reagisce a ogni evento, in relazione alla contingenza di un ambiente
che rappresenta l’eccesso di possibilità di sintesi non ancora applicate dall’autopoiesi e
all’autopoiesi. Detto in poche parole: «I sistemi complessi non devono adattarsi solo al loro
ambiente, ma anche alla propria complessità»66.
Ne consegue che un sistema deve poter far fr