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Leandro Petrucci

FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO


STRUTTURA E INDICE
Prefazione
Introduzione
1. Coscienza
1. Certezza sensibile
2. Percezione
3. Forza e intelletto, fenomeno e mondo sovrasensibile
2. Autocoscienza
1. Signoria e servitù
2. Stoicismo; scetticismo; coscienza infelice
3. Ragione
1. Ragione osservativa
2. L’attuazione dell’autocoscienza razionale
3. L’individualità che è a se stessa reale in sé e per sé
4. Spirito
1. Lo Spirito vero: l’eticità
2. Lo Spirito che si è estraniato da se stesso: la cultura
3. Lo Spirito certo di se stesso: la moralità
5. Religione
1. La religione naturale
2. La religione artistica
3. La religione rivelata

1 Obiettivo e metodo della Fenomenologia


La Fenomenologia dello Spirito doveva essere solo l’introduzione al sistema filosofico di
Hegel, ma l’opera divenne presto un’ampia trattazione autonoma
A Jena Hegel arrivò presto a progettare un sistema della filosofia, ovvero un’esposizione dell’intero
sapere filosofico, organizzato secondo un ordine necessario. Tuttavia ci vollero alcuni anni perché il
«sistema» assumesse la sua fisionomia definitiva. Nell’estate del 1805 Hegel annunciò ai suoi
studenti che avrebbe tenuto un corso sull’«intera scienza della filosofia, cioè la filosofia speculativa
(logica e metafisica), la filosofia della natura e la filosofia dello Spirito». Il sistema doveva dunque
comporsi di tre parti. L’anno dopo Hegel tornò sull’argomento, ma fece precedere la prima parte del
sistema, cioè la logica e la metafisica, da una trattazione nuova, cui diede il nome di
«fenomenologia dello Spirito». Pensò anche di pubblicare un libro che raccogliesse fenomenologia,
logica e metafisica. Mentre lavorava a quest’opera, però, Hegel mutò il progetto iniziale,
arricchendo la fenomenologia di parti che inizialmente non aveva pensato di includervi. Quella che
avrebbe dovuto essere un’introduzione al sistema divenne una trattazione molto ampia e autonoma.
Hegel decise così di pubblicarla a parte, con il titolo di Fenomenologia dello Spirito (1807).
La «fenomenologia» è la «scienza dell’esperienza della coscienza»: esamina le forme in cui la
coscienza si manifesta, mettendone alla prova la pretesa di cogliere l’essenza della realtà

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Perché Hegel scrisse la Fenomenologia? Per capirlo dobbiamo chiederci: quale compito svolge
quest’opera? La Fenomenologia deve servire a portare la coscienza comune o empirica, che Hegel
chiama «coscienza naturale», al punto di vista della scienza o del «puro sapere». Ciò equivale a dire
che, affinché ci si possa occupare della scienza filosofica, occorre prima essersi liberati da una serie
di false opinioni che sono connaturate al nostro modo abituale, “naturale”, di vedere la realtà. Con
le parole di Hegel:
Nella Fenomenologia dello Spirito [...] esposi la coscienza nel suo avanzare dalla prima immediata
opposizione sua e dell’oggetto fino al sapere assoluto. Questo cammino passa per tutte le forme del
rapporto della coscienza verso l’oggetto, e ha per risultato il concetto della scienza. (Scienza della
logica)
Hegel afferma che per arrivare al punto di vista della scienza occorre percorrere un lungo
«cammino». Ciò vuol dire che la verità non può essere raggiunta di colpo, grazie a un’intuizione
geniale, come avevano sostenuto i romantici e Schelling, ma solo a seguito di un processo lungo e
difficile, che Hegel chiama «la fatica del concetto». Il passo appena citato contiene un altro aspetto
importante. Il cammino da percorrere per arrivare al sapere assoluto deve partire dalla coscienza
comune, vale a dire dal nostro modo ordinario di pensare. Il punto di partenza, pertanto, non è un
confronto con le tesi contenute in altre filosofie, bensì il sapere che è implicito nella cultura diffusa.
Occorre verificare se il modo di vedere la realtà che è proprio della coscienza comune è capace di
produrre una visione coerente, non contraddittoria, delle cose. Tale verifica avviene mediante una
serie di “esperienze” compiute in prima persona dalla coscienza stessa. La fenomenologia viene
quindi definita la «scienza dell’esperienza della coscienza». Ha il compito di studiare tutti i modi in
cui la coscienza «appare», «si manifesta»: da qui il titolo dell’opera (dal greco phainomenon, “che
appare”). I modi di vedere la realtà sono in parte universali, cioè possono presentarsi in ogni epoca,
in parte legati alla situazione particolare di un certo periodo storico e di una certa cultura. Tutti sono
accomunati dalla pretesa di cogliere l’essenza del reale. Si tratterà allora di verificare tale pretesa.
Lo svolgimento della Fenomenologia si fonda sulla «negazione determinata »: le “figure” della
coscienza non vengono confutate in base a un criterio esterno, ma sulla base del loro
svolgimento logico
Ma in che cosa consiste, in concreto, la critica ai modi di apparire della coscienza? Come si fa a
svelarne la falsità? E in che modo la coscienza naturale si trasforma in sapere assoluto? Hegel
definisce «figura» o «configurazione» della coscienza ciascuna “tappa” dell’itinerario
fenomenologico. Tutte le figure pretendono di cogliere la vera essenza della realtà ma,
esaminandole in modo approfondito, ogni volta tale pretesa risulta illegittima. Questo esame
consiste nel mettersi dal punto di vista della coscienza in ciascuno dei suoi momenti e nel mostrare
che la pretesa che quel dato punto di vista riesca a esprimere l’essenza della realtà reca in sé una
contraddizione e quindi è infondata. Per Hegel è fondamentale sottolineare che la critica di ciascuna
“tappa” non ha un risultato solo negativo, cioè non porta ad astenersi da ogni conclusione (come
farebbe lo scetticismo). Infatti, scoprire che una credenza è falsa non significa ammettere di non
sapere nulla perché, in generale, negare qualcosa equivale ad affermare qualcosa. In altri termini, la
negazione è sempre «determinata». Per capire che cosa intende facciamo un esempio: la frase
«questo fiore non è rosso» equivale a «questo fiore è non-rosso»; essa cioè nega qualcosa del fiore
ma al tempo stesso afferma qualcosa, cioè che la qualità cromatica del fiore esclude il rosso; la
negazione determina lo spettro di colori in cui rientra la qualità cromatica del fiore (blu oppure
bianco oppure giallo ecc.). Facciamo ora un esempio tratto dalla Fenomenologia: nella sua forma
più semplice la coscienza crede che i sensi ci mostrino la realtà così com’essa è davvero. È facile
accorgersi che questa credenza è infondata (basta pensare alle illusioni ottiche). Nel momento in cui
scopriamo perché lo è, non abbiamo un risultato pari a zero, perché veniamo a sapere qualcosa in
più sul pensiero e sulla realtà. Lo stesso principio vale per tutte le altre posizioni della coscienza.
L’altro aspetto fondamentale è che la critica delle posizioni della coscienza non è condotta
“dall’esterno”, sulla base di tesi o principi già ammessi. Se così fosse si sarebbe già raggiunto il
punto di vista del sapere, che invece sta al termine del percorso fenomenologico. Ogni “tappa” si
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confuta da sé, ovvero arriva da sola a “falsificare” il proprio punto di vista. Questo processo di
autofalsificazione è ciò che Hegel chiama «esperienza della coscienza».
Il processo fenomenologico è costruito intorno al «movimento dialettico» che si fonda, a sua
volta, sulla distinzione tra certezza e verità
Come si svolge, in concreto, l’esperienza della coscienza? Attraverso il «movimento dialettico». Per
capire di che cosa si tratta occorre partire dal fatto che, per Hegel, la nostra coscienza è sempre
coscienza di qualcosa, di un “oggetto”. Questa posizione originaria della coscienza comprende due
aspetti:
• da una parte la coscienza avverte che l’oggetto è qualcosa di distinto e differente da lei;
• dall’altra cerca di conoscerlo, e a tal fine gli applica una serie di predicati per identificarne le
caratteristiche.
L’esperienza della coscienza contiene quindi due aspetti: la distinzione tra soggetto e oggetto, e il
loro rapporto. Con le parole di Hegel: la coscienza «distingue da sé un alcunché al quale in pari
tempo si rapporta». Il primo aspetto, cioè il fatto che l’oggetto ci appaia distinto dalla nostra
coscienza, è la sua «verità»: Hegel propone di chiamarlo l’«essere in sé» dell’oggetto. Invece il
secondo aspetto, ovvero il rapporto tra la coscienza e l’oggetto, è ciò che normalmente chiamiamo
«sapere» o «certezza», e che Hegel definisce l’«essere per la coscienza». La coscienza naturale
separa rigidamente il sapere e la verità. Essa cioè immagina che da una parte stia il soggetto,
dall’altra l’oggetto, e che la conoscenza consista nel far corrispondere l’uno all’altro. Le cose però,
spiega Hegel, stanno in maniera diversa. In effetti, dire che un oggetto è indipendente da noi
significa già attribuirgli un predicato, una qualità, cioè qualcosa che vale per la nostra coscienza; ma
allora l’oggetto non è veramente indipendente da noi, altrimenti non potremmo dirne nulla. Di
conseguenza non è solo la conoscenza dell’oggetto a ricadere all’interno della coscienza, ma anche
il suo essere «in sé». «Certezza» e «verità» sono due diversi modi di essere della coscienza. Ora è
possibile spiegare il «movimento dialettico» compiuto dalla coscienza. A ogni tappa la realtà appare
sotto una certa forma, che la coscienza esprime facendo ricorso a determinate categorie. Ma a un
esame più attento essa scopre che tale immagine della realtà non è veritiera. Ciò che all’inizio si
presenta come la verità dell’oggetto si rivela essere una semplice proiezione della coscienza: ciò che
sembrava la verità, l’oggetto «in sé», è tale solo per la coscienza; la sua separatezza dalla coscienza
era solo un’apparenza. Hegel chiama questa scoperta «rovesciamento della coscienza». In ciascuna
fase del suo cammino la coscienza ripete tale scoperta, e ciò la porta ogni volta a costruirsi una
nuova immagine della realtà. Pertanto ogni figura viene abbandonata per essere sostituita da una
nuova figura, più complessa e più aderente alla realtà.
Il “cammino” della coscienza termina quando essa ha eliminato ogni differenza residua tra sé
e la realtà
Il percorso fenomenologico ha termine nel momento in cui la coscienza non trova più alcuna «cosa
in sé» al di fuori di sé, e arriva così a comprendere che tutto ciò che le sembrava essenzialmente
distinto da lei, puramente oggettivo, è in realtà un suo prodotto; un prodotto, si badi, non della
coscienza singola di questo o quell’individuo, ma della coscienza universale, cioè dello Spirito.
L’esito finale della Fenomenologia consiste quindi nello scoprire che la verità, l’Assoluto, che la
coscienza comune colloca in una dimensione trascendente, è invece immanente al pensiero. Ciò,
come si è detto, non significa far dipendere la verità dalle opinioni e dalle credenze dei singoli, al
contrario: Hegel intende dire che, indipendentemente da ciò che possono credere i singoli, se ci si
mette dal punto di vista della coscienza, in ogni fase del suo sviluppo è possibile individuare un
processo dialettico che la porta ad acquisire consapevolezze sempre più precise e avanzate, fino a
quando essa arriva a far cadere la distinzione tra sapere e verità, tra pensiero ed essere. Dopo quanto
si è visto, si può affermare che la Fenomenologia consiste in una serie di confutazioni, di argomenti
scettici. Essa intende far cadere, una per una, tutte le false rappresentazioni della coscienza. In tal
senso ci dice soprattutto che cosa la realtà non è, e perché le varie figure della coscienza falliscono
nel tentativo di descriverla.

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2 Coscienza, autocoscienza e ragione


Ribadite le sue posizioni nella Prefazione e nell’Introduzione, Hegel sviluppa la
Fenomenologia attraverso sei momenti, a loro volta articolati in varie “figure”
La Fenomenologia si apre con una lunga Prefazione che fu composta per ultima, quando il resto
dell’opera era già stato ultimato. Hegel vi espone i punti fondamentali del suo pensiero, nel quadro
di una serrata polemica contro alcuni intellettuali del tempo, in particolare i romantici e Schelling:
le critiche che rivolge loro sono quelle che abbiamo esaminato nel capitolo precedente.
L’Introduzione espone, invece, il metodo seguito nel corso dell’opera e ne enuncia le tesi
fondamentali. A proposito del metodo l’autore specifica che non può esser tratto dalle scienze
matematiche, che per Hegel sono una forma di conoscenza del tutto diversa dalla filosofia. Infatti,
mentre in matematica le dimostrazioni servono soltanto a provare la verità dei teoremi, ma non
vengono conservate in essi, in filosofia tutti i passaggi logici che il pensiero deve seguire per
raggiungere le sue conclusioni non “spariscono” nel corso della dimostrazione, ma restano
conservati nei risultati, di cui costituiscono una componente essenziale (su questo punto torneremo
diffusamente nel prossimo capitolo alla p. 589). Concluse le considerazioni preliminari ha inizio la
trattazione vera e propria, che è suddivisa in sei «momenti»: Coscienza, Autocoscienza, Ragione,
Spirito, Religione, Sapere assoluto (il primo momento è scritto con la maiuscola per distinguerlo
dalla coscienza, che è la protagonista di tutta l’opera). Ciascuno di questi momenti si articola a sua
volta in diverse «figure », cioè in forme determinate del pensiero e dell’esperienza. I primi tre
momenti trattano la coscienza come facoltà del singolo individuo; negli ultimi tre, per contro, la
Coscienza è intesa come coscienza collettiva, cioè come la cultura e la “visione del mondo” propria
di una comunità.
La Coscienza è il primo momento della Fenomenologia: esprime la relazione immediata del
soggetto con la realtà esterna e si articola in «certezza sensibile», «percezione» e «intelletto»
• La certezza sensibile - La coscienza comprende tre figure. La prima è la certezza sensibile, cioè la
forma più immediata di rapporto tra noi e il mondo. I sensi ci danno la certezza che qualcosa esiste,
e che esiste indipendentemente dal fatto che lo pensiamo o no. Tale evidenza ci induce a concludere
che ciò che avvertiamo coi sensi, qui e ora, sia la verità. Ma tale definizione della verità non regge
al test più semplice: se ad esempio diciamo «adesso è notte», tale affermazione non sarà più vera tra
dodici ore, quando sarà giorno. Ogni esperienza immediata nega tutte le altre ed è smentita da tutte
le altre. Nel passaggio dalla prima affermazione a una nuova, peraltro, qualcosa resta fermo: i
termini “questo”, “adesso”, “essere” e simili, ovvero il linguaggio che si usa per descrivere
l’esperienza. Ecco quindi un primo «rovesciamento della coscienza»: la verità sembrava risiedere
nella realtà esterna, nell’oggetto, invece dimostra di dipendere da qualcosa di soggettivo. Ma non da
questo soggetto particolare, da questo «io» singolo, perché se ad esempio io vedo davanti a me un
albero, un’altra persona vedrà una casa, e allora la verità del primo «io» sarà smentita da quella del
secondo. L’essenza delle cose non sta quindi né nei singoli oggetti dell’esperienza sensibile, né nel
punto di vista dei singoli individui: essa sembra risiedere piuttosto nelle qualità universali che il
soggetto attribuisce agli oggetti.
• La percezione - La convinzione che l’essenza delle cose risieda nelle qualità che il soggetto
attribuisce loro determina il passaggio alla seconda figura della Coscienza: la percezione. Qui gli
oggetti dell’esperienza vengono conosciuti in base alle loro caratteristiche percepibili coi sensi: ad
esempio, di un granello di sale si dirà che è bianco, sapido, con un certo peso, e così via. Ma che
cosa rende vere queste osservazioni? Si direbbe che sia l’oggetto percepito, con la sua particolare
combinazione di proprietà. Tuttavia ciascuna di tali proprietà, ad esempio l’essere bianco, può
essere predicata di molte altre cose: e allora la verità della nostra percezione non starà nella cosa
percepita, in ciò che essa ha di unico, bensì nelle caratteristiche che essa ha in comune con altre
cose. D’altra parte le qualità sensibili, a ben vedere, sono entità astratte, giacché esistono solo nella

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misura in cui sono «proprietà» di questa o quella cosa particolare. Neppure è chiaro come facciano
le diverse qualità a “convivere” nello stesso oggetto. La coscienza insomma non riesce a tenere
insieme l’unità della cosa con la molteplicità delle sue proprietà. Essa non può stabilire se una certa
«qualità» sia un che di oggettivo o una proiezione del soggetto (Hegel allude verosimilmente alla
discussione seicentesca intorno alle qualità primarie e secondarie). Il concetto di percezione,
pertanto, non è in grado di cogliere l’essenza del reale nei suoi aspetti contraddittori. Il problema
che si pone è allora il seguente: come si concilia l’unità irriducibile di ogni ente con la molteplicità
delle sue qualità?
• L’intelletto - Nel tentativo di trovare una risposta a tale domanda, la coscienza lascia il terreno
della sensibilità e diventa puro pensiero. Come tale elabora un nuovo concetto, quello di forza.
L’ultima parte della Coscienza si intitola quindi forza e intelletto, fenomeno e mondo
sovrasensibile. Ogni forza esiste solo in quanto si manifesta, per cui in questo caso la «cosa»
coincide con le sue proprietà (mentre nei casi visti sopra non era così: non era chiaro, ad esempio,
quale rapporto ci fosse tra l’oggetto dolce e la proprietà di esser-dolce). La realtà appare ora come
un enorme gioco di forze, ciascuna in relazione a molte altre. La coscienza è quindi portata a
immaginare che dietro il mondo visibile, che risulta dalla combinazione di innumerevoli forze, vi
sia un mondo sovrasensibile, stabile ed eterno, e che solo quest’ultimo sia il «mondo vero».
Tuttavia di tale mondo posto al di là della portata dei sensi non si può sapere nulla: esso rimane una
rappresentazione vuota. Di esso si può dire, peraltro, che la sua essenza lo porta a manifestarsi, ad
«apparire». Ma allora si dovrà ammettere che il mondo dei sensi non è un mero inganno: se è
l’“apparenza” del mondo “vero”, deve esprimere, in qualche modo, la verità. Nel tentativo di
pensare insieme l’essenza e il suo apparire, l’intelletto arriva a formulare il concetto di legge. Le
leggi della natura racchiudono la struttura stabile della realtà; esse sono un condensato del mondo
fenomenico, depurato da ogni contingenza. Tuttavia la realtà non può esser definita nemmeno come
un mondo di leggi. Infatti la legge si limita a enunciare, attraverso una formula, un certo rapporto
tra elementi diversi. Essa cioè non spiega realmente ciò che accade, ma si limita a tradurlo in
formule, in espressioni linguistiche. L’intelletto si accorge allora che concetti come «mondo dei
fenomeni» o «mondo sovrasensibile», che considerava oggettivi, sono invece il prodotto di una
serie di passaggi logici che lui stesso ha compiuto. La coscienza scopre così che la verità non può
essere espressa adeguatamente finché viene pensata come uno dei due termini di un’opposizione:
cioè come l’essenza di contro all’apparenza, oppure come identità assoluta di contro alle differenze
(come accadeva nella filosofia di Schelling). La rappresentazione astratta delle leggi naturali cede il
posto a una nuova e più corretta visione, che include in sé, oltre all’identità, anche la differenza.
Hegel chiama questa più adeguata figura della verità «infinità semplice» o «concetto assoluto». Il
concetto assoluto permette alla coscienza di compiere un progresso ulteriore: essa ora sa che ciò che
le si presenta come distinto ed esterno è al tempo stesso identico a lei. Cioè: mentre pensa la realtà,
pensa al contempo se stessa. La coscienza diventa così autocoscienza.

L’autocoscienza è la coscienza che si ritrova nella realtà e che si imbatte in un oggetto diverso
dagli altri: un’altra autocoscienza. La dialettica che ne deriva dà luogo ad alcune delle figure
più celebri della Fenomenologia: «signoria e servitù» e «coscienza infelice»
• Dalla coscienza all’autocoscienza - Come abbiamo visto, la coscienza si è resa conto che il
mondo esterno, le «cose», non sono indipendenti da lei, come sembrava in un primo tempo: infatti,
perché qualcosa possa apparirci come distinto da noi occorre pur sempre pensarlo come tale; ma
allora la sua separatezza è a sua volta un contenuto della nostra coscienza. In altri termini, è la
stessa coscienza a distinguere, all’interno dei propri contenuti, tra se stessa e ciò che le si presenta
come distinto. Ciò significa che è sbagliato pensare che da una parte ci sia il soggetto, dall’altra
l’oggetto: la vera distinzione da fare è tra il soggetto che pensa se stesso e il soggetto che pensa
qualcos’altro. Seguendo questo ragionamento la coscienza cerca ora la verità non più in qualcosa di
diverso da sé, ma per l’appunto in se stessa. Anche qui l’itinerario fenomenologico si articola in
alcuni passaggi. All’inizio l’autocoscienza punta a superare l’apparente indipendenza dell’oggetto, a
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mostrare come esso dipenda dal soggetto. Diventa così «appetito », «concupiscenza», e sotto tale
veste si appropria dell’oggetto. Ciò accade, banalmente, ogni volta che si consuma del cibo:
dell’apparente indipendenza dell’oggetto non resta nulla. Potrebbe sembrare, a questo punto, che il
dominio del soggetto sulla realtà sia completo, dato che l’oggetto viene consumato e quindi
annientato. Invece proprio l’appagamento che si ricava dal consumare le cose presuppone che le
cose ci siano e si rendano disponibili. Il soggetto quindi non elimina fino in fondo l’oggetto. Inoltre
l’appetito, che è uno stato di passività, non appena viene soddisfatto rinasce di nuovo. Ha così inizio
un processo inverso a quello che si è prodotto finora. Fin qui ciò che si presentava come realtà
esterna alla coscienza si rivelava condizionato dalla coscienza stessa, cioè esisteva soltanto in
quanto era «per» lei. Ora invece la coscienza deve fare i conti con l’indipendenza reale del suo
oggetto: oggetto che dapprima è solo una cosa inanimata, oppure la vita stessa, ma che in seguito si
presenta come un’altra autocoscienza, come un soggetto. Si assiste così alla duplicazione
dell’autocoscienza. L’oggetto della coscienza adesso è a sua volta un’autocoscienza e non più
qualcosa di essenzialmente diverso da lei, com’è avvenuto finora. E c’è di più: l’autocoscienza non
è veramente se stessa finché l’altra autocoscienza non la riconosce come tale. Con ciò Hegel vuol
dire che noi diventiamo pienamente persone solo quando gli altri ci riconoscono come tali, e non
come cose. Il confronto con gli altri genera dapprima smarrimento, perché l’altro soggetto è diverso
da noi; ma poi ha un effetto positivo, poiché ciascuno amplia la propria idea dell’umano. Questa
dialettica del riconoscimento reciproco, che prefigura il concetto di Spirito, si svolge attraverso tre
passaggi principali.

• Signoria e servitù - Il primo momento del riconoscimento si realizza nella figura della signoria e
servitù. Ciascuno dei due soggetti si rende conto di aver di fronte a sé un essere cosciente e non una
cosa, ma all’inizio nessuno dei due si presenta all’altro come autocoscienza. A tal fine, cioè per
dimostrare di essere una soggettività libera, ciascuno dei due individui mostra all’altro di non essere
attaccato solo alla propria autocoscienza e a null’altro - neppure alla vita. Ne scaturisce uno scontro
all’ultimo sangue, «una lotta per la vita e per la morte», in cui ciascuno dei contendenti cerca di
uccidere l’altro ma mette anche a repentaglio se stesso. Questo perché «soltanto mettendo in gioco
la vita si conserva la libertà, si dà la prova che […] nell’autocoscienza niente è per lei presente, che
non sia un momento dileguante, e ch’essa è soltanto puro esser-per-sé» (cioè pura soggettività
pensante). Lo scontro termina quando lo sconfitto chiede al vincitore di risparmiargli la vita, cosa
che ottiene a patto di sottomettersi al vincitore e di entrare al suo servizio. Così facendo dimostra di
tenere più alla vita che alla libertà, e ciò lo “squalifica” come soggetto. Il vincitore appare
“moralmente” superiore allo sconfitto. La prima forma di rapporto stabile tra individui è quindi la
servitù. Tramite il servo, che lavora per lui, il signore può ora godere delle cose senza sentirsene
dipendente (come accadeva prima). Si sente allora confermato nella sua libertà e pienamente
padrone della natura. Tuttavia il suo dominio sul mondo è apparente, perché è possibile solo grazie
al lavoro del servo. Il servo, da parte sua, con il suo lavoro dà forma agli oggetti, impara a
conoscere e dominare la natura, disciplina il proprio comportamento. Si riscatta così dalla sconfitta
patita e dal suo stato di sudditanza. Il lavoro imprime stabilità alla sua vita. Tutto ciò lo rende più
forte del padrone, la cui libertà finisce invece per essere fine a se stessa.

• Stoicismo e scetticismo - Inizia qui una nuova figura, che comprende in sé due atteggiamenti
filosofici e intellettuali: stoicismo e scetticismo. Il punto di partenza è che per la coscienza adesso la
realtà non è più qualcosa di estraneo: essa le appare strutturata secondo concetti, cioè
essenzialmente aperta alla conoscenza. L’individuo trova nel pensiero una fonte di libertà e
sicurezza, un rifugio dalle incertezze e dai pericoli del mondo esterno. Ai suoi occhi anche la
distinzione tra signore e servo non ha più alcuna importanza: la coscienza si sente libera sotto
qualsiasi condizione, «sul trono e in catene». Questa posizione è rappresentata, storicamente, dallo
stoicismo. Per gli stoici la verità risiede nel pensiero puro, che non dipende da nulla: il pensiero
afferma la sua superiorità su ogni forma particolare di esistenza. Tuttavia il pensiero non sa dare un
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contenuto concreto ai suoi principi astratti: lo stoicismo è cioè incapace di indicare una via da
seguire nella vita. Ciò porta alla figura successiva, lo scetticismo. Con lo scetticismo
l’autocoscienza trae le conseguenze del movimento dialettico compiuto finora. La non-verità di
tutte le posizioni precedenti la spinge a dubitare e a sospendere il giudizio. L’unica certezza che le
rimane è l’esistenza del pensiero, tutto il resto vacilla. Mentre però lo stoico si era limitato ad
affermare la libertà del pensiero contro ogni contenuto particolare, lo scettico accetta il fatto che la
coscienza abbia un contenuto empirico. Con lo scetticismo, dunque, l’autocoscienza assume due
atteggiamenti contraddittori: da un lato astrae da ogni legame con la realtà e dubita di tutto;
dall’altro decide di darsi un contenuto, di prendere per vero qualcosa, perché sente l’esigenza di
agire in qualche modo.

• La coscienza infelice - Dalla contraddizione intrinseca all’autocoscienza sorge la figura della


coscienza infelice, nella quale Hegel esprime la sua visione della cultura tardoantica e dell’Alto
Medioevo, anche se alcuni interpreti vi hanno visto addirittura la “cifra” dell’intera filosofia di
Hegel. La coscienza infelice è segnata da uno stato di lacerazione interiore. L’individuo non riesce a
conciliare la dimensione limitata della propria esistenza con l’essenza eterna e immutabile che il
pensiero gli ha reso accessibile: Dio. Di fronte alla perfezione divina ogni forma di impegno terreno
appare vana, insignificante. L’uomo sente allora il bisogno di superare, o quantomeno di ridurre la
distanza tra la sua esistenza terrena e Dio. Dapprima tenta di elevarsi al divino con la devozione, in
cui pensiero e sentimento si mescolano. Poi riscopre il valore delle abilità umane e del lavoro, in
quanto li accetta come un dono di Dio (si pensi al motto benedettino Ora et labora). Tuttavia, il fatto
che il lavoro e i suoi prodotti siano considerati un bene non in se stessi, ma solo in quanto
rimandano a una volontà ultraterrena, lascia ancora la coscienza nell’incertezza: si onora Dio con il
lavoro oppure con la preghiera? Nel dubbio si fa strada un senso di ripugnanza verso ogni aspetto
naturale dell’esistenza: è la scelta dell’asceta, che rinuncia a ogni piacere e mortifica il corpo. Alla
fine si delinea una soluzione diversa: affidarsi a un mediatore tra sé e il divino - il sacerdote della
Chiesa - il quale agendo in nome di Dio libera l’individuo dalla colpa e dall’infelicità; in cambio il
fedele dà prova del suo distacco dalla sfera terrena sottomettendosi a un culto in gran parte oscuro,
puramente “positivo”. Così facendo la coscienza singola acquista la certezza di essere una cosa sola
con il divino e trova finalmente sicurezza e pace.

La ragione è la coscienza certa della razionalità del reale. Dapprima tale razionalità viene
ricercata nel mondo naturale, quindi nella sfera etica e politica, tanto a livello collettivo
quanto a livello individuale
• La ragione osservativa - Nelle figure della ragione la coscienza si trova per la prima volta
conciliata con il mondo. Essa raggiunge la «certezza di essere ogni realtà», ovvero si rende conto
che la realtà, nei suoi vari aspetti, è pensiero. Tale certezza è ciò che definisce l’idealismo, che
Hegel intende non come una filosofia particolare, ma come una visione del mondo. L’essenza del
reale, che finora la coscienza pensante aveva cercato in qualcosa di altro-da-sé (il mondo esterno,
forze o essenze misteriose, l’al di là), le si rivela ora come identica a lei: è la razionalità del reale.
Non basta però sapere che il mondo è razionale, occorre anche scoprire in che modo. Per farlo la
ragione compie una serie di passi. Il primo è la ragione osservativa. Qui la ragione descrive e
classifica i fenomeni, cerca di scoprirne le leggi, compie esperimenti. Incontra però grandi difficoltà
quando tenta di comprendere la realtà organica e il finalismo della natura. Ciò la induce a rivolgersi
non più al mondo oggettivo ma al soggetto, e a studiare le leggi logiche e psicologiche che
guiderebbero il pensiero nelle sue operazioni. Anche qui, però, ci si scontra con una serie di
problemi: in particolare non si riesce a conciliare la molteplicità delle facoltà dell’animo con l’unità
dell’autocoscienza. La ragione, tuttavia, non demorde. Essendo convinta che esista una precisa
corrispondenza tra i fenomeni della natura e le leggi dell’intelligenza, si mette a cercare le prove di
tale corrispondenza; e crede di trovarli nell’espressione del volto umano, nel linguaggio dei gesti, o

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addirittura nella forma del cranio. Qui Hegel sottopone a una critica spietata due pseudoscienze
molto in auge ai suoi tempi, la fisiognomica e la frenologia.

• La ragione attiva - Il fallimento completo della fisiognomica e della frenologia suggerisce di


abbandonare del tutto l’ambito della conoscenza e di rivolgersi alla sfera pratica della ragione. Si
arriva così alla seconda figura della ragione: l’attuazione dell’autocoscienza razionale. Ricompare
ora, su nuove basi, il tema della realizzazione dell’autocoscienza. I rapporti tra gli individui non
sono più all’insegna della lotta o della sottomissione, ma si fondano sul riconoscimento reciproco:
ciascun soggetto tratta gli altri come autocoscienze libere. L’indipendenza degli individui va ora di
pari passo con la loro unità: è questo il «regno dell’eticità», che secondo Hegel può realizzarsi solo
nel popolo, inteso come una comunità culturalmente e linguisticamente omogenea, sorretta da valori
e costumi condivisi. Anche in questo caso, peraltro, non si resta fermi alla situazione di partenza.
All’inizio gli usi e le consuetudini del popolo sono come una seconda natura per i suoi membri, che
si limitano a seguire le tradizioni. È però inevitabile che col tempo i singoli si mettano a riflettere
sulla realtà cui appartengono e quindi si rendano conto che le usanze e i modi di pensare del loro
popolo non sono affatto “naturali”, né gli unici possibili. L’individuo perde così quello stato di
felicità ingenua in cui viveva quando si sentiva parte di un tutto; e si trova a dover progettare da sé
le condizioni della propria felicità. La soluzione più a portata di mano è godere dei beni terreni
senza tanti pensieri, vivendo “alla giornata”; solo che alla coscienza, dopo che ha consumato ciò
che le dava piacere, non rimane che un senso di vuoto e dipendenza. Si fa quindi forza su se stessa,
e matura la convinzione che non esista altra verità al di fuori dei suoi sentimenti e desideri. La
coscienza trasforma la propria interiorità in una «legge del cuore», che è un generico e non ben
precisato anelito al bene. Ogni individuo vorrebbe che la sua “legge del cuore” valesse per tutti; ma
ciò non accade, anzi gli altri fanno resistenza a tale pretesa. Dove una volta c’era coesione tra gli
uomini si ha ora la difficile coesistenza di tanti egoismi morali e sentimentali. La coscienza prova a
superare tale situazione imponendosi un ideale di virtù, e per realizzarlo ingaggia una lotta contro il
comportamento ordinario degli uomini. Da tale lotta, tuttavia, esce sconfitta, perché è incapace di
andare oltre i propositi astratti e le belle parole.

• L’individuo in sé e per sé - La fase successiva vede la ragione impegnata a realizzare i propri


scopi. È questa l’ultima figura della ragione: l’individualità che è a se stessa reale in sé e per sé.
Agendo, operando, la coscienza scopre di possedere capacità e talenti. Ciò la incoraggia a essere
sempre più attiva. Il risultato del suo impegno è un oggetto dotato di qualità riconoscibili e stabili:
una «cosa», quale può essere un’invenzione, uno strumento, una teoria. D’altra parte, proprio
perché quest’opera non è effimera, ma radicata nella razionalità del reale, altri individui vogliono
perfezionarla. Ne scaturisce una situazione di rivalità in cui tutti pretendono di agire solo
nell’interesse dell’opera, mentre in realtà essa è il pretesto per avere successo come singoli. Da
questa situazione di ipocrisia si esce solo quando tutti i rivali si rendono conto che stanno
contribuendo, ciascuno per proprio conto, a un’opera comune. Quest’opera comune, che svela a
ognuno il suo legame con gli altri, è la «sostanza etica», che Hegel chiama anche essenza spirituale.
La sostanza etica era già comparsa come fondamento inconscio della vita del popolo; ora diviene
consapevole di sé, e si esprime sotto forma di leggi. Sorge una nuova difficoltà. A prima vista le
leggi etiche - del tipo: «ognuno ha il dovere di dire la verità», «ama il tuo prossimo come te stesso»
- sono del tutto ragionevoli; tuttavia, a ben vedere, esse non indicano doveri precisi, ma si limitano a
esprimere una generica esigenza morale. La ragione risulta cioè incapace di prescrivere norme
precise; quindi si accontenta di esaminare quelle esistenti. Ma neanche così ottiene risultati
affidabili. Infatti il metro che adotta per giudicare i principi che guidano le azioni umane è
puramente formale (Hegel allude al criterio dell’universalizzabilità delle massime proposto da
Kant), e non è in grado di giustificare perché una certa scelta sarebbe da preferire a quella opposta.
La coscienza può uscire da tale vicolo cieco solo diventando «autocoscienza della sostanza etica»,
cioè comprendendo che le leggi tramandate sono giuste in sé.
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Prof. Leandro Petrucci

3 Spirito, religione e sapere assoluto

Lo Spirito è la coscienza che sa, non solo che la realtà è razionale, ma anche che è un prodotto
dalla ragione: sa, cioè, che la realtà è ragione in atto
• Dalla Ragione allo Spirito - Sono due le novità che conducono dalla Ragione al momento
successivo, lo Spirito: - la prima è che la coscienza non si limita più a “trovare” nella realtà un
ordine e una razionalità “già pronti” (come quando, nella figura della “ragione osservativa”,
studiava le leggi naturali o psicologiche); ora ha la certezza che la razionalità del mondo è un suo
prodotto. La realtà non è solo razionale, ma è ragione in atto, o, come scrive Hegel, «effettuale»; -
la seconda novità consiste nel fatto che protagonista del percorso fenomenologico non è più la
coscienza singola, astrattamente intesa, ma la coscienza collettiva: a un Io astratto, indefinito, si
sostituisce un Noi concreto, questa comunità ben precisa. In tal senso Hegel osserva che «lo spirito
è la vita etica di un popolo». Ciò implica che le figure dello Spirito non sono più solo «figure della
coscienza», cioè non si limitano a descrivere atteggiamenti o schemi mentali; sono anche «figure di
un mondo», ovvero esprimono le forme di vita e di cultura che hanno accompagnato lo sviluppo
storico dei popoli. Il capitolo dedicato allo Spirito è il più lungo dell’opera. Contiene un’ampia
esposizione delle fasi principali della storia dell’umanità, articolata in tre parti: lo Spirito vero, la
cultura e lo Spirito morale.
• Lo Spirito vero (l’eticità) - Lo Spirito vero (o eticità), è la forma originaria dello Spirito. Il punto
di partenza coincide con il punto d’arrivo della ragione: è la «bella vita etica» della polis greca,
nella quale ogni individuo si sente parte integrante del tutto, di una «sostanza etica». Entro tale
realtà si insinua però un principio di lacerazione, che Hegel vede simboleggiato esemplarmente
nell’Antigone di Sofocle. La realtà etica della polis è segnata dalla lotta tra due «potenze»
contrapposte: la legge umana, che esprime la «sostanza etica» della comunità, e la legge divina e
«senza tempo», cioè i diritti e doveri propri dei legami familiari. Antigone, dando sepoltura al corpo
del fratello Polinice, ucciso dai tebani, disobbedisce a un ordine del re di Tebe, Creonte, che
fraintende il gesto della donna come atto di insubordinazione e la condanna a esser rinchiusa in una
grotta. Ciò che scatena la tragedia, fa notare Hegel, è il fatto che tanto la legge “positiva” di
Creonte, quanto la norma non scritta seguita da Antigone, esprimono un legame etico: da una parte
c’è il vincolo della comunità politica (in cui trova espressione l’elemento maschile), dall’altra
quello familiare (in cui si compie, per Hegel, la destinazione della donna). Con il suo gesto
Antigone incrina la coesione etica della città-Stato. Ma la comunità entra in crisi anche per
intrinseca debolezza, cioè perché il piccolo territorio e il limitato numero di abitanti la rendono
incapace di resistere agli attacchi esterni. Hegel allude alle città-Stato greche, in perenne guerra tra
loro fino al sopraggiungere di una potenza straniera più forte (prima l’impero macedone, quindi
quello romano). Il nuovo Stato, sorto sulle rovine della polis, non è più espressione di una comunità
omogenea (per lingua, tradizioni, costumi), per cui può reggersi solo su rapporti di forza e di
dominio. Al posto della partecipazione di ogni cittadino alla vita pubblica subentra la sottomissione
di tutti a un despota o «signore del mondo»: prima Alessandro Magno, poi gli imperatori di Roma.
E al posto di cittadini attivi e responsabili compaiono ora dei semplici sudditi, persone
politicamente insignificanti. Tanto i rapporti reciproci tra i singoli quanto il loro comportamento ora
non sono più regolati dalle consuetudini, dallo «spirito» vivente della comunità, bensì dalla legge
dello Stato, cioè da una norma coercitiva. Alla libera spontaneità si sostituisce un’imposizione. Il
diritto, inoltre, stabilisce che cosa ciascuno può o non può fare, ma non indica un fine da perseguire,
non dà un significato alla vita. Il perfezionamento della giurisprudenza - caratteristica eminente
della civiltà romana - va quindi di pari passo con la crisi della vita pubblica. Il singolo individuo
non trova più usi e costumi condivisi nei quali identificarsi.
• La cultura - Lo Spirito si è dunque reso estraneo a se stesso; la sua «vita immediata» è
tramontata. Ora lo Spirito non trova più nella realtà un orizzonte di senso precostituito, ma deve

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Prof. Leandro Petrucci

crearlo da sé. Questa ricerca di senso è la cultura, intesa come processo di «formazione» (in tedesco
Bildung) di sé e del proprio mondo. La cultura è dunque la seconda figura dello Spirito. L’eticità
originaria, spontanea, dei popoli antichi viene sostituita dalla ricerca di valori e rapporti sociali
nuovi. Intorno a tale ricerca prendono forma la civiltà medievale e moderna, di cui Hegel offre qui
la sua interpretazione filosofica. Due distinti principi si impongono ora alla coscienza: da un lato un
principio di aggregazione e cooperazione tra gli uomini, lo «Stato»; dall’altro un principio
individuale, la «ricchezza», cioè l’iniziativa privata in economia. La coscienza trova ragioni
sufficienti per considerare ciascuno dei due principi ora buono ora cattivo: lo Stato sostiene
l’individuo e lo eleva all’universale, ma d’altronde lo vincola e l’opprime; d’altra parte, con la
ricchezza gli uomini soddisfano i propri bisogni e acquistano coscienza di sé, ma anche si isolano
gli uni dagli altri e perdono di vista i valori essenziali. Quando fa valere gli aspetti positivi dello
Stato e della ricchezza, la coscienza è «nobile»; quando invece tien fermi i lati negativi, è
«spregevole». In una prima fase, corrispondente alle forme più antiche di monarchia nell’Europa
medievale, è «nobile» l’atto con cui i cavalieri feudali rinunciano alla propria autonomia per
mettersi al servizio dell’universale (il Sacro Romano Impero). Ma ciò non basta alla tenuta dello
Stato, che ha bisogno non solo di leggi ed esecutori, ma anche di una volontà centrale che lo
governi. Questo avviene in una seconda fase, che corrisponde alla nascita della monarchia assoluta,
quando intorno al sovrano si forma una corte stabile, che ubbidendogli e adulandolo lo conferma nel
suo ruolo. Ora al vertice dello Stato c’è un Io personale. In cambio della loro trasformazione in
cortigiani, i nobili ricevono dei vantaggi materiali. Di conseguenza la ricchezza diviene il perno dei
rapporti sociali. Ha così inizio un processo di disgregazione dello Stato, cui si collega un processo
di “estraneazione” dello Spirito: se tutto si misura col denaro, che è un puro strumento di scambio,
allora non resta più nulla di sostanziale. Di conseguenza la terza e ultima fase della cultura, che
corrisponde alla monarchia nel secolo dei Lumi, si caratterizza per un profondo senso di vanità, di
mancanza di serietà e convinzione, ben esemplificato dalle conversazioni brillanti e leggere dei
salotti del Settecento, dove l’analisi dei problemi è un mero espediente per intrattenersi. Di fronte a
un esito simile, in cui ogni solido punto di riferimento sembra smarrito, la coscienza reagisce con la
fuga dal mondo e la ricerca di valori trascendenti: la fede. Alla dimensione terrena la fede
contrappone la verità eterna di Dio. Ma riporre l’essenza assoluta in un “al di là”, in un “altro”
mondo, è a sua volta una forma di estraniazione della coscienza. Sull’incapacità della fede di
lasciare davvero il terreno del mondo effettuale si appuntano le critiche che le rivolge l’Illuminismo
(Aufklärung). L’Illuminismo ha buon gioco nello svelare che la fede contiene superstizione e
pregiudizi, che essa proietta su Dio aspetti e caratteri umani. Tuttavia l’immagine del mondo
alternativa proposta dagli illuministi è povera: essi infatti spezzettano la conoscenza in tanti
contenuti finiti, mentre dell’Assoluto non sanno dire nulla. Un passo in avanti verso una visione
unitaria del reale viene compiuto quando il pensiero scopre che ogni cosa è «utile», ovvero che non
sta per conto suo, isolata, ma “serve” a qualcos’altro. Ciò vuol dire che «il suo esser-in-sé è
essenzialmente esser per altro». Anche le cose che a prima vista sembrano autonome rispetto all’Io
hanno senso solo in quanto l’Io attribuisce loro una finalità. A questo punto la coscienza scopre di
essere lei a dare senso alle cose, quindi di avere un potere illimitato. È la «libertà assoluta». Ora non
resta più nulla di esterno o superiore alla coscienza, qualcosa che le faccia resistenza. La verità è in
funzione del soggetto. La coscienza, consapevole di tale libertà assoluta, vorrebbe trasformare la
realtà secondo le proprie idee, abbattere con la forza le istituzioni del passato che non trovano
giustificazione; e tuttavia non vi riesce, perché la volontà che essa esprime non è realmente
universale, ma è la forma astratta della volontà individuale; e su tale base è impossibile conciliare il
volere dei singoli con l’interesse generale. Hegel ha in mente la parabola della rivoluzione francese,
i cui protagonisti si eliminano a vicenda, senza pietà, perché non considerano se stessi come
semplici individui, ma come incarnazioni di principi assoluti. La furia rivoluzionaria (il «Terrore»)
lascia comunque in eredità alla coscienza un insegnamento duraturo, poiché la sottopone alla prova
più dura: il rischio della morte. Per evitare il pericolo dell’autodistruzione completa, la libertà
impara a conservare anche le differenze (tra gli uomini, nei ruoli sociali ecc.) che fin qui erano state
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Prof. Leandro Petrucci

semplicemente negate. La volontà universale adesso non si impone a danno della volontà singola,
bensì convive con essa.
• Lo Spirito morale - Sorge così la terza e ultima forma dello Spirito, lo «Spirito certo di se stesso»
o «Spirito morale». Qual è la novità? Mentre nella figura precedente lo Spirito agiva, ma non si
ritrovava nei prodotti del suo agire (tanto che o si disperdeva nella realtà, oppure fuggiva da essa),
ora invece si riconcilia con se stesso. La coscienza sa ormai che l’unica realtà sensata è quella che
lei stessa è in grado di produrre. Hegel si riferisce qui alla svolta che Kant, e poi Fichte, avevano
impresso al pensiero quando avevano definito la libertà come autonomia della ragione. La libertà
del volere, per Kant e Fichte, non è semplicemente la facoltà di scegliere tra alternative che ci sono
date dall’esterno (dai sensi, dall’imitazione degli altri ecc.). È molto di più: è la capacità del
soggetto di autodeterminarsi e quindi di “plasmare” la realtà secondo le proprie leggi. Tale
convinzione sta alla base della «concezione morale del mondo», secondo cui il corso naturale delle
cose non tende spontaneamente al bene, e tuttavia l’uomo può modificarlo in base alle leggi della
ragione. La libertà assume quindi la forma del dovere; e nel dovere la coscienza pone ora la verità
ultima. Ma qui Hegel coglie una difficoltà di fondo: la visione morale è indifferente al corso
oggettivo delle cose, eppure pretende di modificarlo. Inoltre esige dal singolo che contrasti le
inclinazioni naturali (egoistiche) in nome del dovere (altruistico), tuttavia per attuare il bene deve a
sua volta ricorrere alla sensibilità, alle passioni. Insomma, da una parte si tien ferma l’opposizione
tra moralità e natura, dall’altra si pone il bene nel superamento di tale opposizione. Si arriva così al
paradosso che la concezione morale non può seriamente volere che le leggi della ragion pura siano
realizzate, perché se ciò avvenisse non ci sarebbe più bisogno di adempiere al proprio dovere, gli
uomini sarebbero buoni senza sforzo, e quindi la moralità, che presuppone un ostacolo e una lotta,
scomparirebbe. Ma allora la visione morale del mondo deve auspicare che la moralità non si
realizzi: il che costituisce una completa «distorsione» del punto di partenza. Come sfuggire a tali
aporie? Rinunciando a pensare che il dovere sia qualcosa di astratto, cioè che sia il contenuto di una
legge universale, e concentrandosi invece sulle situazioni concrete con cui dobbiamo confrontarci.
Alla morale del dovere, di stampo kantiano, si sostituisce così una morale centrata sulla situazione,
il cui fondamento non è la legge ma la coscienza singola, con la sua capacità di discernere volta per
volta che cosa sia giusto. La morale non è più vista come qualcosa di precostituito in un mondo
ideale, che attenderebbe solo di essere applicato, bensì prende forma caso per caso a opera della
«coscienziosità» (in tedesco Gewissen, cioè “coscienza” in senso morale) di ciascun individuo. Ma
anche qui sorge una difficoltà: la certezza morale della coscienza, sciolta dall’imposizione della
legge, scivola facilmente in una posizione che non riconosce alcuna legge sopra di sé. Inoltre,
poiché per agire occorre determinarsi verso una scelta concreta, e quindi accettare vincoli e
compromessi, questa nuova forma della coscienza preferisce non sporcarsi le mani e restare
inattiva. L’«anima bella» (come la chiama Hegel, alludendo a un capitolo del romanzo Wilhelm
Meister di Goethe, e alla filosofia di Jacobi) si mette allora a giudicare gli altri dall’alto del suo puro
sentimento. E per ogni atto apparentemente nobile trova una motivazione meschina, privata. Nel
timore di mostrare la propria finitezza, l’anima bella smaschera la finitezza altrui. Da questa
situazione si esce solo quando le coscienze singole accettano l’una i limiti dell’altra e riconoscono il
proprio valore spirituale. Una simile comunione tra gli uomini, in cui ciascuno “perdona” agli altri
la loro finitezza, è la Religione.

Nella Religione lo Spirito chiarisce a se stesso, attraverso simboli e rappresentazioni, la


propria natura
Il concetto di Religione, spiega Hegel, può essere inteso in un senso generico e in uno più specifico.
Nel primo caso si ha «religione» quando gli uomini credono a un’essenza assoluta, a una “verità”
ultima. Tuttavia il concetto di Religione è ben più ricco e, a questo stadio di sviluppo, la coscienza
ormai sa che l’Assoluto non è una sostanza immobile, un ordine oggettivo che trascende
l’intelligenza, bensì è soggetto, «Spirito». Ma come esprimere tale verità? La Religione dà una
prima risposta a questa domanda: tutte le religioni hanno in comune l’idea che la realtà non si
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Prof. Leandro Petrucci

esaurisca nella dimensione della finitezza, cioè che dietro al nascere e perire delle cose terrene operi
un principio eterno. Tale intuizione corrisponde all’essenza dello Spirito. Nella Religione, pertanto,
lo Spirito cerca di chiarire la propria natura, e per farlo propone una «rappresentazione» simbolica
di se stesso. Ciò avviene in modi diversi, via via più adeguati, che corrispondono ai principali
generi, o forme, della religione. Per prima viene la religione naturale. Qui lo Spirito viene
rappresentato sotto forma di natura animata, vitale. Il principio ultimo dell’essere vien posto
dapprima in un’entità naturale invisibile (religione della luce), poi in una molteplicità di spiriti in
lotta tra loro (religione dei fiori e degli animali), infine in un «artefice», un’entità superiore che
opera in modo istintivo. In seguito, grazie ai greci, la religione diviene artistica, ovvero esprime il
divino sotto forma di un principio attivo, i cui prodotti sono opere d’arte: sculture, riti e culti,
epopee. A differenza della luce o degli spiriti naturali, gli dèi greci sono principi autocoscienti.
Tuttavia anche questa «rappresentazione» dello Spirito è difettosa, in quanto è priva della necessaria
mediazione tra il finito e l’infinito: gli dèi greci restano indifferenti alle sorti degli uomini. Invece
nel cristianesimo, che è la religione rivelata, il divino si incarna in un uomo, e dell’uomo condivide
per intero il destino, fino alla morte. L’Assoluto non è più separato dall’esistenza. Tuttavia anche la
religione per descrivere lo Spirito usa un linguaggio simbolico, cioè parla di «Padre», «Figlio» e
così via. Inoltre annuncia la conciliazione tra soggetto e oggetto, tra coscienza pensante e realtà, ma
solo come una condizione che si realizzerà in un futuro trascendente. Tale conciliazione, invece, è
già presente: allo Spirito basta ormai riflettere su se stesso per rendersene conto.
Il Sapere assoluto riformula il contenuto della religione rivelata in forma scientifica:
rappresenta pertanto il punto finale dell’itinerario compiuto dalla coscienza
Ora alla coscienza resta da compiere solo un ultimo passo: reinterpretare in termini filosofici i
simboli della religione cristiana. Non appena riesce a farlo, lo Spirito conosce finalmente se stesso
in una forma adeguata al suo concetto. Tale forma corrisponde a quanto Hegel aveva scritto
nell’Introduzione dell’opera:
• l’essenza della realtà non è sostanza, ma soggetto;
• non esiste alcuna verità indipendente dal pensiero;
• sapere ed essere sono identici.
Il compito della fenomenologia può quindi dirsi esaurito. L’esito finale del cammino della
coscienza è il «Sapere assoluto» che accoglie in sé, come propri elementi costitutivi, tutte le singole
«figure» o tappe della coscienza. Giunto a questo punto, però, il sapere non resta fermo, bensì
ripercorre per intero l’esperienza fatta fin qui dalla coscienza, fermandosi su ciascuna tappa. Il
Sapere assoluto, pertanto, sarà da un lato la scienza dei momenti essenziali della conoscenza,
dall’altro l’esposizione storica della loro formazione.
La Fenomenologia ha posto le basi per la scienza filosofica: alcuni suoi contenuti ritorneranno
nelle opere successive, ma in una prospettiva diversa
Il Sapere assoluto è il punto di vista della Filosofia, finalmente raggiunto dopo un lungo, ma
necessario cammino. Come tale esso permette di impostare il lavoro filosofico vero e proprio, che
consisterà nel dedurre uno dopo l’altro tutti i concetti fondamentali della scienza, e nel dar loro
ordine sistematico. In questo senso la Fenomenologia dello Spirito, come si è detto, precede il
sistema e serve come avviamento a esso. Tuttavia la Fenomenologia contiene, soprattutto negli
ultimi tre momenti, diverse analisi e considerazioni che ricompariranno nelle opere successive di
Hegel, cioè in alcune parti del sistema. È il caso, per esempio, del fondamento della morale, della
vita etica dei popoli, del valore dell’arte, delle diverse forme di religione. Occorre però tener
presente che, al di là delle indubbie affinità di contenuto, la Fenomenologia si prefigge una finalità
del tutto diversa dal sistema vero e proprio: essa deve mostrare come la coscienza arrivi da sé al
punto di vista del sapere e della scienza. A cambiare, quindi, è il punto di vista da cui sono trattati
gli stessi argomenti. Così, quando ad esempio Hegel parla di religione nella Fenomenologia, il suo
intento è di calarsi nel “punto di vista” proprio della coscienza religiosa, di mostrare dall’interno le
caratteristiche dell’esperienza religiosa; invece quando parla di religione nell’ambito del sistema,
presuppone già di ragionare nell’ottica del sapere assoluto, della scienza, cioè dal punto di vista
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Prof. Leandro Petrucci

della filosofia. In sintesi: nella Fenomenologia la religione espone se stessa; nel sistema, invece,
sarà la filosofia a parlarci della religione, come di ogni altro argomento.

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