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GNOSEOLOGIA: corso sbobinato

LEZIONE 1

Introduzione al corso
Che cos’è la conoscenza: il suo rapporto con la verità
Presumibilmente il saper fare qualcosa, ad esempio quella dell’artigiano è una conoscenza.
“Conoscere” significa anche venire a contatto con qualcosa, con la sua funzione. Tuttavia, per
distinguere la funzione di una cosa ci si mette un po’ di tempo, ne ho una conoscenza, ad esempio
quando distinguo una sedia da un ombrello.
La conoscenza ha a che fare con un concetto di verità. Perché dovrebbe avere a che fare con la
verità (facendo conto che la verità sappiamo cos’è)?
Bisogna pensare all’affermazione “so che”, limitiamoci al modo in cui parliamo, che non è tutto,
anzi, è molto deviante, e tuttavia è un buon punto di partenza perché parliamo tutti la stessa lingua.
Siamo noi che diciamo di avere conoscenze, questa è una teoria “ingenua” della verità, ossia che la
verità è come stanno le cose, la verità è oggettiva e la conoscenza, perciò, è universale.
La conoscenza ha a che fare con la verità, la verità è oggettiva, quindi la conoscenza è universale.
A me serve ancora sapere come la conoscenza si aggancia a questa verità.
La conoscenza può avere anche un ruolo culturale, per cui la verità può risultare relativa, se io vivo
in un certo contesto ragiono in un certo modo e di conseguenza la mia conoscenza ha delle strutture
precise.
Ma questo vale per tutti, quindi la relatività di questo è assoluta; è uno statuto di assolutezza della
sua relatività.
ES : Si accusa una persona dai capelli rosa di aver rubato dei soldi, e questa persona ovviamente
risponde di no, perché non l’ha fatto. Si fa un’indagine, ma è vincolata dalla relatività della
conoscenza e della verità, la quale potrebbe essere influenzata da fattori culturali tali per cui colui
che fa le indagini ha un pregiudizio sulle persone con i capelli rosa ergo la persona, quindi, è
colpevole.
Si può porre questa sentenza, ma questo dipende dalla gerarchia della situazione, quando la verità è
relativa decide chi comanda.
Rispetto ad un’idea di verità relativa decide o chi comanda o il consenso.
La conoscenza, poi, in questo senso, va sottoposta ad un vaglio. Io non sottopongo a vaglio una mia
prospettiva, ma qualcosa che credo essere vera.
Siamo vincolati ad una prospettiva, il caso più banale è la sedia, che la vedo da diverse prospettive.
Queste cose hanno inizio in cui qualcuno ha agganciato verità e conoscenza.
Ci sono cose oggettivamente relative, la prospettiva spaziale è relativa secondo leggi che la rendono
uguale per tutti.
La verità può essere anche vista con il successo, noi tendiamo alla verità, dunque, per migliorarci.
La storia della filosofia è una disciplina, ma è soprattutto un campionario abbastanza coerente di
modelli espressi da persone sufficientemente intelligenti, forse oltre la media dei loro tempi, per
questo è utile confrontarsi con la storia della filosofia.
La verità è quella che riesce, se la prova mi da elementi a favore della mia conoscenza, la verità ha
un successo ed lo è anche perché potrebbe essere un fattore di miglioramento, di progresso.
Questo mi dice perché forse la conoscenza è orientata alla verità. La conoscenza, che è un’attività
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umana, è orientata al Bene come tutte le altre attività umane.
Se io, per esempio, dico di sapere che “questa è una sedia”, in questo c’è la mia prospettiva, la mia
cultura e la mia tendenza al miglioramento, ma c’è dell’altro.
Cosa significa però che io ho conosciuto questa sedia? O meglio, quando qualcuno ha torto o ha
ragione, con cui siamo d’accordo o in disaccordo, dice che una cosa che conosce, che sa che una
cosa è fatta in un certo modo che cosa vuole dire?
Possiede un’informazione, una competenza e un’esperienza su quella cosa. La conoscenza è una
relazione tra due “enti”, tra due cose, ma è un contatto, non si basa esclusivamente sul fatto che
sappiamo a cosa funziona una determinata cosa, la conoscenza è stratificata.
Questa storia del contatto è classificata come un tipo di conoscenza, simile ad un’immedesimazione
(Heidegger diceva che la conoscenza è un contatto con l’essere).
Ad esempio, nel libro “De gli Eroici Furori” di Giordano Bruno c’è la storia di Diana e Atteone,
dove compare l’idea della conoscenza per contatto. Atteone è un cacciatore che vede Diana nuda, la
vuole guardare meglio e la guarda così tanto da immedesimarsi con lei, ma un branco di fiere lo
divora. Non c’è più differenza tra soggetto e oggetto. E’ il tipo di conoscenza che può essere detta
“mistica”.
Se la conoscenza è avere, in senso lato, esperienza e l’esperienza passa per i sensi, allora quella di
Heisenberg (si è parlato del suo principio di indeterminazione dove non è possibile misurare
contemporaneamente e con estrema esattezza le proprietà che definiscono lo stato di una particella
elementare; dunque la conoscenza sarebbe un semplice razionalizzare l’intera realtà e non vi è un
effettivo contatto con la verità) non è una conoscenza come esperienza che passa per i sensi, infatti,
qua non si è detto che la conoscenza e l’aspirazione alla verità e il legame tra la conoscenza e la
verità sia legato dalla base sensibile.
Il problema non è se l’oggetto è determinabile per tutte le sue caratteristiche, ma se quando dico una
cosa, pretendo dire la verità.
Nella semplice affermazione “io conosco che questa cosa è fatta così” perché pretendo che quello
che dico sia vero. Non c’è bisogno ulteriormente di mettere in relazione conoscenza e verità. Nel
modo in cui io esprimo la conoscenza, c’è già la pretesa di verità.

A: “Io so che le cose stanno così?”


B: “Ma è vero che le cose stanno così?”
C: “Sì, ti ho detto che lo so.”
Non sono costretto a dire “non lo vedi?”, non solo perché conosciamo cose ben più complicate in
cui il “guarda” non funziona (si riferisce al principio di indeterminazione), ma non sarebbe la
risposta giusta. Il gioco del confronto prevede che al 1° passo vi sia C.

Il contraddittore mette in gioco la verità. Colui che parla rivendica la propria conoscenza.
Nessuno può giocare al gioco della conoscenza senza fare così, poi si ragiona.
Chiunque possegga la conoscenza di qualcosa fa almeno due cose: pretende di dire qualcosa di vero
e prende posizione.

A: “Questa sedia è di legno.”


B: “Non è così, mi riferivo ad un’altra sedia.” Giocando sporco.
Nell’atteggiamento epistemico è connaturata la pretesa di verità e la presa di posizione, devo
sottopormi al giudizio altrui e devo prendere posizione.
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Tutto ciò appare chiaro dal modo in cui ci esprimiamo.
Non arrivo a dire di sapere che quella è una sedia dal nulla, non arrivo a formulare pretese di
conoscenza e di verità dal nulla, io ci arrivo partendo dal lato opposto, avendo fatto delle cose
prima.
Il percorso che affronteremo è un percorso di Fenomenologia della Conoscenza.
La prima cosa che ci troveremo a mettere a tema è la più elementare struttura della frase come
enunciato perché ogni volta che pretendiamo di possedere una conoscenza lo facciamo col
linguaggio.
Bisogna cambiare le banconote in spiccioli, bisogna iniziare dalle cose più semplici, e i problemi
più grandi diventano più piccoli e di dettaglio.
Husserl, filosofo e autore del libro in esame “Esperienza e Giudizio (Ricerche sulla genealogia della
logica)”, fu espulso dalla sua università in Germania (perché evangelico nell’epoca di Hitler), ed
erano in grave pericolo tutti i documenti che aveva lasciato, ma alla fine si salvano alcune di queste
opere, grazie a sua moglie che scappa con lui: tra cui non ci sono solo gli appunti del corso che
teneva, ma egli scriveva ogni giorno per 4 ore e visto che scriveva su fogli di agenda sappiamo
anche quando furono scritte quelle determinate cose (quello è un pezzo fondamentale dell’esercizio
fenomenologico che aiuta a risolvere quei problemi di dettaglio precedentemente citati).
Non è utile prendere posizione su perché si parta dal linguaggio, e nel caso di questo libro, perché si
parta da un linguaggio già inteso e fissato dalla grammatica della logica tradizionale. Se siamo
fortunati di questo enorme problema ne avremo una qualche idea alla fine.
Si parte dal linguaggio perché è la cosa più facile, la cosa della quale condividiamo tutti.
Come sia presumibile che, per esempio, qualcuno non conosca il principio di indeterminazione di
Heisenberg, è presumibile che tutti conoscano cosa sia una sedia; si parte sempre dalla base e dal
terreno comune.
Si parte dagli enunciati più piccoli dotati di significato che ci sembrano più quotidiani e ordinari,
ovvero quelli che si articolano su base sensibile.
La scelta di fare questo non significa pensare che quello è il tesoro della nostra conoscenza, ma
significa che su quello è più facile che tutti ci capiamo.
Una frase di senso compiuto deve avere delle caratteristiche: SOGGETTO E PREDICATO.
In alcune lingue si parla di eccezioni: Piove, una frase dotata di significato senza soggetto, non è
manchevole di qualcosa.
Per tutta la prima sezione del libro parla di questa formazione elementare e ci spiega un po’ di cose
che immediatamente non riguardano più solo la grammatica della logica tradizionale e il linguaggio.

Che cos’è l’esperienza?


“Esperienza” è il primo termine del titolo.
So che quando c’è il semaforo rosso devo fermarmi.
Al semaforo rosso bisogna fermarsi.
Sono due enunciati diversi, il primo riguarda l’esperienza, l’altro è un obbligo (che come il divieto,
la domanda ecc. gioca una partita sua), non è un saper fare, non c’è il “so”. Apparentemente le due
proposizioni sono uguali, ma in realtà non è così.
Il nostro enunciato empirico è anche di conoscenza.
Ogni volta che mangio il gelato, mi viene mal di pancia.
Questa frase ci fa capire di essere empirica perché mi mostra un dispiacere, inoltre si depotenzia
l’universalità (è capitato solo a me).
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Ho caldo (non è un enunciato di conoscenza perché non ho una pretesa di verità, se lo fosse la
proposizione sarebbe “fa caldo”).
Nei casi più chiari che hanno a che fare con l’esperienza sono quelli in cui c’è un verbo di
atteggiamento proposizionale, psicologico: sento, vedo, amo, odio; esprimono tutti un
atteggiamento del soggetto.
E’ una di quelle specie di enunciato o proposizione empirica quanto mai distante dalle proposizioni
conoscitive (di cui abbiamo parlato prima).
“Ti amo” non è un enunciato di conoscenza, ad esempio, perché non si può dire “non è vero”.
Dunque gli enunciati empirici possono essere di conoscenza o meno.

IL PRIMO CERCHIO RAPPRESENTA GLI ENUNCIATI EMPIRICI (CHE HANNO A CHE


FARE CON L’ESPERIENZA)
LA PARTE COLORATA RAPPRESENTA I GIUDIZI SIA EMPIRICI CHE EPISTEMICI
IL SECONDO CERCHIO RAPPRESENTA LE ASSERZIONI, OVVERO LE PROPOSIZIONI DI
CONOSCENZA O ENUNCIATI EPISTEMICI (IMPLICANO UN IMPEGNO, VOGLIONO DIRE
LA VERITA’)

Se dico “credo che la radice di 4 sia 2” è una credenza che in realtà non è opinabile. Non dovrebbe
essere, è così a prescindere. Il vero e il falso non hanno mezze misure, tutto o niente. La credenza è
graduale.
L’enunciato epistemico deve essere sottoposto a vaglio.

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LEZIONE 2

DEFINIZIONI DI INTENZIONALITÁ (dibattito di età contemporanea): concetto chiave della


fenomenologia Husserliana.
1)Se ne è parlato in termini di “Causazione mentale”: in virtù delle cose che ho in mente, che
condivido con la mia cultura, famiglia, e di quello che so delle cose mi comporto in un certo modo
= Il nesso tra quello che so delle cose e come mi comporto è il nesso di causazione mentale.
ES: Vedo una persona che non conosco che mentre sta camminando sul marciapiede all’improvviso
scappa in concomitanza al passaggio di un gatto nero; questi due fatti non sono legati da nessuna
relazione, vengono legati da un passaggio ulteriore quando ipotizzo che quella persona è
superstiziosa. Questo percorso che va dal significato per lui di gatto nero al comportamento si
chiama INTENZIONALITÀ.
2)Quasi negli stessi anni in cui si recupera questa idea di intenzionalità se ne recupera un’altra, non
caratteristica del nostro linguaggio comune ma degli studenti di filosofia e di un uomo di media
cultura.
INTENZIONALITÀ = al riferimento: dire che una percezione, un desiderio, un pensiero hanno
carattere intenzionale non vuol dire altro che quella percezione è di un oggetto, che quel desiderio è
desiderio di qualcosa ecc ecc.
Questa idea di intenzionalità è anche quella di un movimento di cultura filosofica, il quale alla
domanda che cos’è l’intenzionalità risponde che è il fatto che ogni pensiero è il pensiero di qualcosa
e potrà dire anche per darsi delle aree, come fai a non saperlo siccome già Cartesio collegava ogni
Cogito a un Cogitato.

Questa idea di intenzionalità quando non viene presa troppo sul serio è un’idea che può essere
risolta in termini grammaticali o sintattici: la lingua che parliamo è una lingua che regge il
complemento diretto per questi verbi di atteggiamento psicologico (vedere, sentire, desiderare e
pensare). In sostanza quello che dici e come lo dici rispecchia bene il modo in cui la tua mente
funziona.

La definizione Huserliana NON è nessuna delle 2, ma non è detto che sia incompatibile con le due
che abbiamo espresso poc’anzi. Questa è una cosa positiva perché non ha gli stessi punti deboli
delle due definizioni precedenti: per quanto riguarda la prima è che noi non sappiamo realmente
cosa passa nella testa delle persone e quale sia il movente intenzionale (esempio del gatto nero
sopra), mentre per la seconda nel cambiare lingua non si ha più l’intenzione.

Ogni volta che si pensa attualmente all’intenzionalità si deve per forza dedicare un paragrafo a
Brentano. L’altro grande problema che si lega costantemente al termine intenzionalità è
COSCIENZA.

Negli ultimi 35/40 anni il pallino delle più grandi e finanziate scoperte scientifiche sta in mano alle
scienze cognitive.
SCIENZE COGNITIVE: sono un assemblaggio fatto da neuroscienze, linguistica e informatica,
questo grande paradigma di ricerca è giunto ad un punto abbastanza comune, Il punto è che con i
mezzi che abbiamo riusciamo a spiegare quasi tutti i comportamenti del cervello ma ci resta
qualcosa che non riusciamo a comprendere: LA COSCIENZA.
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Chi pensa che questo vuoto vada colmato lo fa quasi sempre appellandosi all’intenzionalità; si può
spiegare come funzionale l’occhio, ma non si può spiegare:
-Cosa vede chi vede
-Che effetto fa a quel soggetto vedere quello che vede.
Ultimamente la gente che pensa che questo gap vada coperto e che si riferisce all’intenzionalità e
all’effetto che fa, si è inventata una formula che è INTENZIONALITÀ FENOMENICA =
concetto che mette insieme quella relazione che assicura l’intenzionalità e l’effetto che fa avere
quella relazione.
A questo proposito si fa un esempio famoso che è quello di Mary, la neuroscienzata che ha vissuto
tutta la sua vita in un laboratorio. Mary studia le percezioni cromatica, quello che accade al cervello
quando si percepisce un colore, sa anche a quale lunghezza d’onda corrisponde qualsiasi colore,
sfortunatamente però si immagina che Mary abbia vissuto la sua vita in un laboratorio in bianco e
nero (quindi Mary non sa che effetto fa vedere ad esempio il rosso).
Quello che racconterebbe questa storia è che Mary sa l’effetto fisico e fisiologico della percezione
del rosso, sa la definizione di ogni colore dal punto di vista elettromagnetico, sa utilizzare la
grammatica della sua lingua, ma NON sa cosa sia la conoscenza dell’effetto e il significato
dell’intenzionalità della percezione.
Questo è un caso in cui l’aspetto fenomenico (quello che ti sembra quando percepisci) e quello
intenzionale mancano. Questo è l’assurdo (che però va giustificato) perché nel caso della percezione
cromatica l’intenzionalità è fenomenica (il riferimento percettivo è imprescindibile dall’effetto che
fa percepire).
ES: Noi vediamo un colore, la percezione di quel colore ha come oggetto il colore, ma quella
percezione noi la stiamo vivendo, ci fa un effetto. Quando ci viene chiesto ad esempio cosa
distingue il rosso cardinale da quello mattone diciamo che uno è più scuro e l’altro è più chiaro e lo
facciamo provare ad un’altra persona per farla accorgere di questa differenza.
In generale fino a 45/50 anni fa l’intenzionalità al di là dell’oceano atlantico era “diavolo”
(metafisica) e al di qua “acqua fresca”.
Non possiamo non chiamare in causa il nome di Franz Brentano: filosofo di origini Italiane
comasche che insegnò a Vienna per la maggior parte della sua vita, egli fa il filosofo aristotelico,
pubblica 2 scritti su Aristotele che rivoluzionerà la ricezione di Aristotele tra fine ‘800 e inizio ‘900,
fa anche lo psicologo e alleva una intera generazione di psicologia. Brentano lavora a sostenere
un’idea di filosofia scientifica e fu maestro di Husserl e Freud.
Nell’ultima metà dell’800 la penultima delle scienze filosofiche (la psicologia) si distacca, mentre
l’ultima è stata la logica. La psicologia si emancipa e prova a battere una strada sua. La più parte
della psicologia tardo-ottocentesca si libera per via fisiologica, una parte della psicologica tardo-
novecentesca prova a liberarsi in un altro modo.
Brentano cerca di individuare un campo per la psicologia che non fosse delimitato per via psico-
fisiologia ma che non dovesse nulla alla filosofia (se lui ci fosse riuscito la filosofia avrebbe dovuto
qualcosa alla psicologia).
In questo progetto c’era bisogno di delimitare il campo delle cose che poteva studiare la psicologia
da quelle che poteva studiare la fisica o psico-fisiologia.
La filosofia scientifica rivendica per la filosofia uno statuto di disciplina, questa idea di filosofia
la sosteneva fortissimamente Brentano e non solo (molti a Vienna).
Secondo Brentano se dovesse riuscire nel suo intento di liberare la psicologia questa potrebbe
salvarci = scarica rigore scientifico sulla filosofia.
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Brentano è anche l’autore di quel libro che fa svegliare un pensatore molto distante da quello di cui
stiamo parlando: Martin Heidegger, ma è anche un empirista tedesco.
La sua lettura di Aristotele è insieme realista ed empirista e l’idea di partire dalla psicologia viene
da questa fonte.
Brentano ad un certo punto pubblica un altro libro “La psicologia dal punto di vista empirico”, si
mette nel conflitto dal punto di vista empirico. Egli deve classificare gli oggetti della scienza
psicologica dalla scienza fisica, gli serve dire che ciò che studia la psicologia NON è la fisica, le
cose che studia la psicologia sono diverse perché i fenomeni che studia sono INTENZIONALI (lui
però non ha mai utilizzato il sostantivo intenzionalità). È un libro che fu letto e recensito da molti e
trovò anche molto consenso in Inghilterra. Brentano si pentì tutta la vita di aver utilizzato
quell’aggettivo (intenzionale) perché non voleva creare una teoria dell’intenzionalità, ma
anticipando il suo pentimento aggiunse una nota dove spiegava cosa significasse intenzionale.
Prima si parlava delle intentiones medievali (significati) ma il suo uso del termine intenzionale non
c’entra molto con quello dei medievali.
Brentano afferma che come i medievali anche lui voleva rendere un fatto che Aristotele aveva
espresso in questi termini: quando percepisco qualcosa non percepisco con gli occhi ma con la
mente e alla mente non arriva quel qualcosa, ma entra la sua forma.
Es. la sedia non entra nella mia mente, la forma percepita della sedia è quello che vedo = È IL
CONTENUTO DELLA MIA PERCEZIONE, invece di dire questo dico INTENZIONALE: è il
carattere di un contenuto percettivo, psichico, cognitivo di riferirsi ad un quale oggetto.
La psicologia quando studia la percezione, sostiene Brentano, non studia il complesso meccanismo
causale che giunge fino all’arrivo del segnale nervoso ad una certa parte del cervello, ma studia
un’esperienza che ha un contenuto: la forma dell’oggetto percepito e ha un oggetto= l’oggetto
percepito.
Parliamo di un contenuto intenzionale (riferito ad es. alla forma della sedia) perché è caratterizzato
dal fatto che è dentro di me ma si riferisce a qualcosa che NON sta dentro di me (che quell’oggetto
può essere reale o illusorio è irrilevante, anche l’allucinazione ha un contenuto forse NON un
oggetto = è un fenomeno psichico ed ha carattere intenzionale).
La soluzione di Brentano non fu distinguere due scienze a partire dal loro oggetto scientifico ma del
fenomeno che dovevano studiare. Uno dei suoi allievi Husserl continuò a fare il suo lavoro, ma
nella sua prima grande opera prese la teoria del suo maestro e la rivoltò.
Brentano dice che i fenomeni psichici, la percezione di una sedia si distingue dalla sedia perché la
percezione di una sedia ha carattere intenzionale; in virtù di questo carattere intenzionale la
percezione ha un contenuto. È il contenuto che ha come riferimento l’oggetto = la percezione è uno
stato mentale (questo stato mentale è intenzionale e ve lo posso far vedere perché ha un contenuto e
questo contenuto ha un riferimento).
L’intenzionalità Brentaniana è un’intenzionalità di stato: la percezione è intenzionale, infatti lo
psicologo studia uno stato mentale. Il carattere interzonale è un carattere di stato, appartiene agli
stati: la sensazione, il sentimento sono intenzionali (anche il brivido essendo un fenomeno psichico
è uno stato intenzionale).
Un’altra cosa che caratterizza l’idea di psicologia che ha Brentano è che la psicologia studia la
psiche, l’anima ovvero la coscienza (tutti gli stati intenzionali stanno nella coscienza, psiche). Lui
non ha intenzione di spiegare cosa sia la psiche ma non mette in dubbio la sua esistenza.
Brentano ha un’idea pessima della filosofia tedesca tra metà ‘700 e fine ‘800, individua periodi
pessimi della filosofia come quello dell’idealismo tedesco. L’idealismo tedesco simboleggia la
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bancarotta della filosofia e una cattivissima metafisica perché parla di cose che non giustifica. Per
Brentano solo la psicologia si sarebbe tolta di torno l’idealismo tedesco, lui confidava anche in
Bernard Bolzano (dalle origini italiane) il padre della logica formale.
L’aspirazione alla filosofia scientifica noi oggi la percepiamo legata solo all’ultimo pezzo di questa
storia (circolo di Vienna e filosofia analitica) ma i padri e i nonni di quella filosofia sono i padri e i
nonni della filosofia scientifica: filosofia come scienza rigorosa, una pratica di acquisizione di
conoscenze fatta di metodo, regole e confutazioni (una filosofia che avesse a che fare con le scienze
positive ma che rivendica per sé statuto di scienza).
Es. Il protagonista di questa storia è un guidatore di tir a lunga percorrenza, questo è un giochetto
che serve a dire quante parole ha in pancia la parola coscienza. L’autista raggiunge la destinazione
dopo almeno 3/4 d’ora e il suo interlocutore gli domanda che strada abbia fatto ma anche se si è
accorto che abbia aperto quel negozio in quel determinato punto che gli indicherà. Lo si fa sul
camionista perché lui deve stare attento, ci si aspetta che il guidatore sia cosciente, ma può capitare
che non saprà rispondere, può capitare che non si sia accorto di un sacco di cose. Chi ha proposto
questa storia ci parla di una sorta di coscienza che ci accompagna per quello che facciamo, ci fa
stare svegli e attenti, tuttavia in quel caso no. C’è una coscienza rotolante e in questa c’è un sacco di
roba (un minimo di effetto) ma a questa idea di coscienza non si accompagna nessuna
autocoscienza (la quale non serve per guidare). All’automobilista fanno effetto le cose che vede, le
distingue ma quell’effetto è continuo, le cose vanno avanti, lo accompagnano in quello che fa anche
se non lasciano tracce.
COSCIENZA DI SÈ: è possibile ma NON è necessaria alla coscienza transitiva (esempio
automobilista), sapere di sapere (alla coscienza è necessaria l’autocoscienza), significa sapere che
quella cosa è vera NON pretendere che quella cosa è vera.
Ritornando a Husserl ribalta l’idea di intenzionalità di Brentano. Innanzitutto dice che non gli serve
più distinguere tra psicologia e fisica e quindi la funzione di demarcazione classificatoria dei
caratteri intenzionali non ha più senso. Ritiene inoltre che nell’asserzione i fenomeni psichici sono
diversi dai fisici si utilizza in maniera equivoca il termine “fenomeno”:
-Fenomeno fisico vuol dire cosa che appare e la cui apparenza può essere misurata da strumenti
fisici
-Fenomeno psichico non è qualcosa che appare, a me stesso non lo posso dire perché non ho
necessariamente coscienza di me mentre percepisco (di conseguenza l’aggettivo intenzionale non
funziona).
Per giunta dice Husserl se io dovessi immaginare quello che tu mi stai descrivendo dovrei
immaginare un sistema di scatole cinesi dove avrei la coscienza, dentro ad essa uno stato, dentro lo
stato un contenuto e dentro il contenuto il riferimento. Per Husserl è una situazione complicata tanto
da avere problemi dinanzi alla banale domanda: Cosa vedo? A questa domanda posso rispondere
secondo una visione brentaniana in due modi:
-Dal lato del contenuto della visione
-Parlando dell’oggetto della visione
È mai possibile che per vedere una sedia io debba vedere la mia percezione di sedia? Io apprendo la
sedia non la mia percezione di sedia.
Queste cose obbligano Husserl a mettere le mani sulla nozione di fenomeno, di carattere
intenzionale (si parla ora di intenzionalità) e fa anche una distinzione tra contenuto e oggetto.

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3 LEZIONE

Le caratteristiche dell’intenzionalità Brentaniana sono:


1. intenzionalità di stato;
2. fenomeno psichico che è interno alla coscienza;
3. stato, contenuto e oggetto.

Da queste cose si deducono due problemi importanti.


Il primo problema importante discende immediatamente dalla distinzione tra fenomeno fisico e
psichico. C’è una conseguenza importante che deriva da tale distinzione. Un fenomeno fisico è la
cattedra mentre il fenomeno psichico è la mia percezione della cattedra. L’Utilizzo del termine
carattere intenzionale è finalizzato ad una distinzione tra scienze.
Visto che queste scienze hanno due argomenti diversi producono un tipo di conoscenza diversa. La
conoscenza sui fenomeni fisici è una conoscenza indiretta, probabile e mai completa. La
conoscenza dei fenomeni psichici sarebbe la conoscenza non ingannevole, piena ed evidente.
Questo ricalca la distinzione tipicamente moderna tra senso interno ed esterno.
Il senso interno è massimamente evidente, il senso esterno non lo è. Da un lato conoscenza di ciò
che capita dentro di me e conoscenza di quello che capita fuori di me. Laddove esiste questa
differenza la conoscenza di ciò che capita fuori di me è sempre meno certa di quella che capita
dentro di me.
Esempio. Percepisco una cattedra posso anche sbagliare cosa percepisco ma non posso sbagliare a
dire che sto percependo e quindi pensando (penso=sto pensando di Cartesio). La conoscenza dovuta
al senso esterno non è allo stesso modo evidente come quella del senso interno. È evidente
l’immanente ciò che dentro è, mentre non è evidente ciò che è fuori.
La psicologia è alla base della filosofia, ci metto alla base della filosofia una scienza che può
raggiungere il massimo di evidenza. La psicologia funge per Brentano da base della filosofia perché
deve risvegliare questa filosofia. Questa funzione base è motivata anche dallo statuto delle
conoscenze di quel tipo di scienza. La psicologia guadagna conoscenze evidenti. L’Evidenza,
dunque, è prerogativa esclusiva del senso interno, l’evidenza è la chiarezza a me stesso di me
stesso.
Ci sta un secondo elemento da sottolineare. Come abbiamo detto i fenomeni psichici servono a
riempire di significato la coscienza. La coscienza è tutta caratterizzata da fenomeni psichici, non c’è
qualcosa che accade nella coscienza che sia intenzionale. La coscienza è tutta intenzionale. Ogni
volta che c’è uno stato di coscienza c’è un oggetto.
Ci sta un terzo elemento. Se è vera la nozione aristotelica del carattere intenzionale secondo cui
la percezione di un oggetto lascia l’oggetto fisico fuori e dentro io ho la forma dell’oggetto allora la
forma dell’oggetto che io chiamo carattere intenzionale è come se esistesse nella coscienza.
L’oggetto esiste fuori la coscienza mentre la sua forma vive dentro la coscienza. La forma di un
oggetto è così dotata di una in-esistenza intenzionale nel senso di un’esistenza dentro la coscienza.
Le cose fisiche esistono perché sono fuori mentre le cose psichiche non esistono perché sono
dentro. In-Esistenza sottolinea un duplice significato ovvero che non esistono fuori ma esistono
dentro.
Husserl ribalta questa concezione puntando su alcuni di questi snodi. Partiamo da quello più
semplice ovvero quello del senso interno. Hauser contesta che via sia una differenza di statuto
epistemico tra senso interno ed esterno. Poniamo una tipica con coscienza del senso interno
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ovvero so che sto percependo e poniamo che la conoscenza del senso esterno sia questa cattedra è di
legno.

Cosa distingue queste due conoscenze? Certamente il tipo di oggetto, un conto è la cattedra e un
conto la mia percezione di essa. Ma è vero che entrambe queste conoscenze hanno un oggetto
altrimenti non sarebbero conoscenze? Stando ad una definizione minimale di intenzionalità
quest’ultima ha almeno un riferimento quindi queste due conoscenze sono due conoscenze con
riferimento a qualcosa.
Questo qualcosa lo puoi conoscere meglio o lo puoi conoscere peggio, qui si vede la differenza di
certezze di evidenza ma questa differenza non la di vede sul tipo di conoscenza. Senso interno non è
di per sé più evidente, infatti, condivide con il senso esterno il riferimento ad un oggetto. L’idea di
evidenza Hauser non la relega più al solo senso interno. Il primo passo è capire che l’evidenza non
sia prerogativa del senso interno.
Se io mi tengo una definizione minima di intenzionalità e riconosco che senso interno ed esterno
sono intenzionali perché hanno un riferimento, entrambi hanno un oggetto, questo li accumuna non
li distingue.
Inoltre, l’evidenza del senso interno è l’evidenza del fatto che se penso sto pensando. È un’evidenza
che mi sommerge a cui non posso resistere, è immediata e istantanea.
Per Hauser invece l’evidenza è un processo, una serie di operazioni che portano ad un risultato.
Se io relegassi l’evidenza al senso interno sarebbe un’evidenza come lampo, illuminazione. Se io
distribuisco l’evidenza a entrambi ai tipi di conoscenza posso ragionevolmente dire che è tanto
complesso riconoscere una cattedra quanto quello che sta capitando dentro di me. Certamente hanno
delle differenze queste due differenze ma le differenze stanno su un altro piano.
Primo punto di caduta ovvero l’abolizione della differenza di statuto epistemico tra senso interno
ed esterno che non nega la differenza tra le due cose però divengono entrambi evidenti, entrambi
almeno minimo si riferiscono ad un oggetto, quindi, sono accumunati dal riferimento ad un
oggetto.
Esempio. Pensiamo alla cattedra. Posso dire ho conoscenza della cattedra via via più ampia, via via
più ricca a mano a mano che la guardo da più lati. A mano a mano che guardo e acquisisco nozioni
sull‘oggetto la mia conoscenza sarà più ricca. La ricchezza o la povertà della mia conoscenza
dipende dal rapporto che ho con l’oggetto. Dire che entrambi i sensi hanno un riferimento
all’oggetto significa scaricare il grado di evidenza sul rapporto con l’oggetto non su una pretesa
iniziale di evidenza su un senso rispetto ad un altro. Per definizione l’oggetto di una conoscenza
non è a sua volta la conoscenza. La conoscenza della cattedra non è la cattedra nel tanto meno la
conoscenza della mia percezione della cattedra non è la mia percezione.
Se dico che una conoscenza ha un riferimento ad un oggetto dico molte cose ma in particolare dico
che la conoscenza non è l’oggetto. C’è una conoscenza e un oggetto e sono differenti. Questo
accumuna senso interno e senso esterno. Senza dubbio senso interno ed esterno sono diversi ma non
stiamo spiegando come siano diversi ma il tipo di conoscenza che si volge loro è uguale quanto a
carattere intenzionale quanto a differenza con l’oggetto.
Proviamo ora a individuare un bersaglio più piccolo. Il problema è muoversi all’incontrario
ovvero provare a costruire la nozione di coscienza a partire dall’ intenzionalità non partire dalla
coscienza e utilizzare l’intenzionalità per riempire la coscienza.

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Se io ho un’intenzionalità di stato, se devo descrivere la percezione di qualcosa la distinguo nei
termini di una percezione che ha un contenuto e un oggetto e l’ultimo sembra stare nella scatola del
penultimo e il penultimo nella scatola del primo e questo a sua volta nella scatola della coscienza.
Aldilà dell’inadeguatezza di questa descrizione questo significherebbe che io quando dico che la
cattedra è di legno lo dico perché percepito un contenuto della mia percezione grazie alla
percezione del contenuto della mia percezione mi sono fatto un oggetto davanti a me. Significa che
ogni volta che io parlo della cattedra è come se volessi avere davanti agli occhi tanto la mia
percezione quanto la cattedra. Ma non è così!
Critica Brentano. Husserl sta riprendendo pari pari, criticando Brentano, la teoria delle idee di
Locke secondo cui io non percepisco mai l’oggetto ma le idee congiunte che sono gli effetti delle
qualità dell’oggetto.
Esempio. Ho una palla di neve davanti a me, percepisco la palla davanti a me ma cosa percepisco
realmente? L’insieme delle idee di rotondo, bianco, freddo che a loro volta sono gli effetti interni su
di me delle qualità di rotondo, bianco e freddo. Quando percepisco la palla di neve sto in realtà
mettendo insieme le idee di bianco, rotondo, freddo quello che sta davanti ai miei occhi davvero in
massima evidenza sono le idee di bianco, rotondo, freddo tutto insieme.
Tutto assieme perché mi fido della simultaneità con cui questi idee mi si presentano e mi fido della
simultaneità perché questa simultaneità è il sigillo della garanzia del fatto che ci siano cause
prossime una all’altra. Vi sono cause che fanno effetti simultanei saranno simultanee. Se io ho
simultaneamente idea di bianco, freddo e rotondo vuol dire che queste idee sono venute da cause
che sono tutte in quel momento presenti. Quello che ho davanti nella testa sono le idee.
L’Opinione di Husserl è che quando tu hai messo tutta questa roba assieme ovvero stato contenuto e
oggetto stai ripetendo quello che dice Locke. Perché per percepire un tavolo devo percepire la
percezione del tavolo. Ma non funziona così! Quando percepisco un tavolo ho dentro di me
l’immagine di tavolo, per Husserl non funziona così! È controintuitivo pensare che quando dico
comprendo quello che un altro dice perché ho l’immagine delle parole di quello che un atro dice ed
è altrettanto controintuitivo pensare che quando facciamo una dimostrazione matematica abbia
l’immagine dei numeri, delle cifre.
Husserl vuole dire a Brentano che nel fenomeno psichico o ci trovi il vissuto o ci trovi l’oggetto.
Il prof chiede a Martina :“cosa vedi?” “La lavagna”. Martina si trova difronte l’oggetto della sua
percezione mentre il prof si trova difronte la percezione di Martina e quindi l’oggetto sparisce.
Vedo in seconda fila un ragazzo con la maglia a righi. Ho espresso la mia percezione. Ho avuto la
percezione di un ragazzo con la maglia a righi in seconda fila. Sto dicendo che ho avuto la
percezione o di qualcosa o di quell’altra, di entrambi gli oggetti mai! Quando un vissuto è in atto è
trasparente, quando un fenomeno psichico è in atto è trasparente. Quando si vede il fenomeno
psichico allora l’oggetto non conta più, conta la descrizione del vissuto.
C’è una direzione retta che è quella del vissuto rispetto all’oggetto e c’è una direzione obliqua che è
quella sul vissuto. Il vissuto in atto è riferito solo all’oggetto, puoi riflettere in seguito sul vissuto
pensando e parlando poi di vissuto. Il vissuto diventa l’oggetto del nuovo discorso. Se esprimo una
percezione dico l’oggetto della percezione se io esprimo il vissuto della percezione esprimo il
vissuto che però è un oggetto. Il vissuto è trasparente fino a che non si parla di lui, quando si parla
del vissuto il vissuto si opacizza.
Quando dico che la cattedra è di legno io pretendo di dire le cose, il mio riferimento è all’oggetto
cioè al fatto che la cattedra è di legno. Se qualcuno mi domanda il perché a quel punto il vissuto che
era trasparente si opacizza e io devo rendere conto di quanto ho detto non del fatto che la cattedra è
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di legno. Quando dico che la cattedra è di legno dico di dire la verità ovvero come stanno le cose.
Se qualcuno mi domanda perché io devo giustificare non la cattedra ma quello che ho detto, il
vissuto si opacizza e io parlo di quello che ho detto non a cosa mi riferivo. Questo smonta quella
tripartizione. Non dici mai perché quella cattedra è di legno, è inutile! Parli del tuo vissuto.

Domani piove? Perché? Non si risponde perché c’è una perturbazione… Tu rispondi l’ho sentito da
qualche parte, rispondi istintivamente sulla cosa che hai detto tu non sul tuo riferimento.

Segue un altro affondo. Possiamo parlare di intenzionalità quando ci sta questa alternanza di
trasparenza e opacità. Il vissuto è intenzionale quando è in atto, c’è un oggetto e riflettendoci sopra
parlo del vissuto. C’è un altro bersaglio di Husserl. La coscienza non è tutta intenzionale! Vi sono
larghissimi pezzi di coscienza che non sono intenzionali perché se ci penso su non trovo alcun
oggetto innanzitutto le sensazioni. Se io esprimo la sensazione di caldo io non lascio mai spazio
all’oggetto. Dico ho caldo, punto.

Quando ci penso sopra e dico che ho avuto una sensazione di caldo non cambia niente rispetto a
prima. La sensazione non è intenzionale. C’è un mare di cose che accadono alla coscienza che non
sono intenzionali. Se io avessi caldo avrei tanti oggetti che corrispondono alla sensazione di caldo
non un solo. Se caldo avesse un oggetto sarebbero tanto quante sono le sensazioni di caldo. Le
sensazioni non sono intenzionali! I sentimenti non le emozioni come tristezza, dolore non sono
intenzionali.

Dopo aver liberato la coscienza da tutta questa roba Husserl fa un passo in avanti. Visto che a me
interessa la conoscenza e la descrizione della coscienza è per noi funzionale alla conoscenza,
facciamo così ovvero isoliamo solo i vissuti intenzionali di conoscenza. Tolgo i sentimenti e le
sensazioni, mi resta comunque altra roba come gli ordini, le preghiere, i desideri. Husserl dice
siamo concordi nel dire che ordini, preghiere e desideri non esprimono conoscenza? Se siamo
d’accordo proviamo ad isolare solo i vissuti che esprimono conoscenza.

Fino ad ora ci stiamo tenendo una nozione di intenzionalità minima, esile. Corollario di questa
definizione minima è l’alternanza tra vissuto e oggetto, trasparenza e opacità.
Vediamo come questa definizione minima di intenzionalità si arrochisce se penso solo al vissuto
della conoscenza. Partiamo dal caso più semplice che è quello della conoscenza dato che desideri,
ordini sono difficile da spiegare.

Come si caratterizza un vissuto di conoscenza? Pretende di dire la verità. Questa cosa potrebbe
essere sintetizzata con la definizione minima di riferimento. Ma non basta! La pretesa di dire la
verità è anche la pretesa di poter dare prova di quello che ho appena detto è verità. Pretendo di dire
la verità è anche pretendo di poter confermare quello che ho detto. Pretendo di dire le cose ma
pretendo di avere prova di quello che ho detto. Dice come stanno le cose, si riferisce all’oggetto ma
dice guarda che io posso avere le prove del fatto che le cose stanno come le ho dette.

Husserl utilizza questa metafora ovvero qualsiasi espressione sia dotata di significato e che abbia
una pretesa di conoscenza è una cambiale che pagherò. Se viene pagata è una pretesa giustificata
ovvero che si può dare la prova che quella è una pretesa vera. Se non viene pagata là mia
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espressione resta una cambiale, non diventa carta straccia ma diventa una cambiale se non la pago
mi vengono a prendere.

In un vissuto di conoscenza c’è questa caratteristica intenzionale che non c’è da nessun’altra parte, è
fatta su due piani di cui il primo è quello del riferimento e il secondo quella della conferma. Il
primo piano è sufficiente per dire che è sufficiente che quell’espressione ha un riferimento, dotata di
significato, è intenzionale ed è una cambiale. Il secondo piano è necessario perché la pretesa deve
essere giustificata.

Questo è un doppio piano in cui non c’è nessun altro vissuto. Il mio vissuto intenzionale di
conoscenza non è soddisfatto ma confermato dal fatto che la cattedra è di legno, nel primo caso
faccio una richiesta al mondo e il mondo mi risponde.

Abbiamo un’intenzionalità in Husserl che non è un’intenzionalità di stato ma un riferimento che o si


nota dal fatto che c’è un oggetto o dal fatto che sto riflettendo sul vissuto. Vissuto o oggetto non ci
sono contemporaneamente per la trattazione di filosofia. Nella trattazione analitica del vissuto o c’è
la cattedra o c’è la mia percezione. Il piano dell’analisi fenomenologica è quello delle espressioni di
vissuti intenzionali, linguistiche o meno.

Espressione significa riferirsi a qualcosa. Ciò che può riferirsi l’espressione può essere vero, falso,
esistente, non esistente, reale, non reale… Affinché ci sia l’espressione ci deve essere il riferimento
all’oggetto. Resta una cambiale anche se non viene pagata. La cattedra è rossa è una cambiale
anche se non verrà pagata perché la cattedra non è rossa. Ogni espressione è un vissuto riferito ad
un oggetto.

Teniamoci solo l’andata del tragitto ovvero il significato di espressione quindi riferimento
all’oggetto. L’espressione Si può confermare, può non essere confermata oppure non confermare.

Vi sono tre possibilità:


1. può essere confermata (si procede per gradi);
2. non confermata (o non è confermata o non lo è di fatto);
3. non può essere confermata (non si può fare non il fatto che sia troppo complicato).

Facciamo tre esempi:


- finestra è aperta;
- 2 alla terza=8;
- vietato fumare.

1. ha un riferimento e può confermata o disconfermata, se fosse chiusa non sarebbe


confermata;
2. è un calcolo, è necessario spiegare quanto faccia 2 alla terza? Perdiamo tempo! Non serve!
Lo spiego una volta per farlo capire ma poi non è più necessario. Funziona come espressione senza
conferma;
3. alla lettera non può essere confermato perché non vuole dire la verità ma vuole esprimere un
divieto. È un’espressione che ha un riferimento ma il suo riferimento è un comportamento da
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rispettare. Non può essere confermato, che significa confermare un divieto? Non vuole la conferma,
non se ne importa.

Tre possibilità:
1. Confermabile (A);
2. Non confermata (B);
3. Non confermabile (C).

Espressione confermata (A) abbiamo andata e ritorno. Abbiamo espressione e intuizione


(conferma). Espressione significa riferimento ad un oggetto. Espressione di conoscenza serve
almeno la possibilità di tornare indietro (conferma).

B e C pur essendo diversi sono accumunati dal fatto che non fanno il ritorno. In virtù di questa
suddivisione chiamiamo le prime espressioni ovvero la (A) espressioni significative dotate di
significato. Il significato è il riferimento all’oggetto tale che permette di tornare indietro.

Le altre (B) e (C), pur essendo diverse, si chiamano segni accumunati dal fatto di rimandare a
qualcosa senza la necessità di confermare ciò a cui si rimanda.

Il segno è una gamma ampissima di espressioni. Il segno è un’espressione che non può essere
confermata perché il suo riferimento sta proprio per fatti suoi, è lontanissimo dall’espressione. I
segni rimandano ad altro che è estraneo all’ espressione, non ha niente a che fare.

Da un punto di vista oggettivo il segno non ha niente a che fare con il suo riferimento. Ma da un
punto di vista soggettivo devo mettere insieme due vissuti che non hanno niente a che fare l’uno
con l’altro, ad esempio, tra percezione e comportamento (il caso vietato fumare), oppure una
percezione e un ricordo (il caso del marchio sulla schiena dello schiavo).

Da un punto di vista oggettivo il cartello vietato fumare non è il comportamento. Da un punto di


vista soggettivo mettiamo insieme ad esempio la percezione del cartello e la prefigurazione di un
comportamento da adottare. Dal punto di vista oggettivo sono due oggetti diversi. Dal punto di vista
soggettivo mettiamo insieme vissuti diversi.

Quando parliamo di espressione significative ciò non accade, abbiamo un diverso rapporto con
l’oggetto e abbiamo un diverso percorso per capire l’espressione e confermarla. I segni sono un tipo
di espressione, rappresentano una determinata relazione tra oggetti e corrispondentemente indicano
una determinata combinazione di vissuti. Da un punto di vista oggettivo il segno mette insieme
oggetti diversi, da un punto di vista soggettivo vissuti diversi.

I vissuti diversi in un segno sono legati in modo particolare chiamato motivazione, ad esempio, non
fumo perché ho visto il divieto oppure è uno schiavo perché ha un marchio dietro la schiena. Il
segno è un’istruzione sempre dicendo che devo fare e io so che devo fare in motivo del segno.

I segni solo tali perché si riferiscono ad un oggetto, non basta perché l’espressione è l’oggetto nel
caso dei segni sono molto diversi, non hanno niente a che fare l’uno con l’altro, sono estranei. Da
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un punto di vista oggettivo il segno è l’accoppiata di due oggetti disparati, dal punto di vista
soggettivo della comprensione del segno è guidata dalla motivazione. Segno e motivazione stanno
insieme. Segno e istruzione per l’suo stanno insieme.

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4 LEZIONE
Recap:
Nozione elementare e minima di intenzionalità: riferimento di un contenuto (non di uno stato); se
analizzo fenomenologicamente una nozione mi trovo o l’oggetto o il contenuto del vissuto.
Qual è l’intenzionalità tipica dei vissuti di conoscenza? Un’espressione di conoscenza: si soddisfa
con la conferma o la disconferma.
Conferma = viaggio di ritorno rispetto al riferimento che ha espresso l’intenzione (per Husserl
“riempimento”)
Vissuto=contenuto
Assunta questa classe ristretta, ci sono dei vissuti che possono essere confermati; ci sono dei vissuti
che non devono essere confermati, ci sono dei vissuti che non possono essere confermate.
Pertanto ci sono delle espressioni che possono/non devono/non possono essere confermate.
Cosa accomuna queste tre espressioni? Dalla condizione necessaria per avere un’espressione:
riferimento/intenzione; un’espressione senza riferimento non è un’espressione.
Abbiamo visto l’altra volta l’esempio della cambiale di Husserl.
• Vuoto/pieno
Tutte le espressioni possibili fanno un riferimento A VUOTO, fanno riferimento a qualcosa ma non
è detto che esso possa essere confermato. Quando viene confermato (oppure SE viene confermato)
il riferimento si riempie (Husserl: conferma=riempimento).
• Imperfetto/perfetto
Imperfetto, quello che non ha un termine, perfetto quello che ce l’ha. Quando il riferimento viene
confermato si perfeziona un atto, ovvero viene completato.
Questo primo pezzo (riferimento/intenzione) è l’unico che ha uno dei tre generi di espressioni che
abbiamo analizzato, questo pezzo iniziale è l’unico pezzo che hanno le espressioni che non possono
avere conferma; sono solo imperfette. Questo primo pezzo è quello che caratterizza le espressioni
che abbiamo chiamato “segni”. Le espressioni segniche hanno solo il primo pezzo.
Stiamo quindi definendo il pezzo in comune a tutte e tre le espressioni; visto che una delle tre
tipologie ha solo il primo pezzo allora si chiama segno, ma anche le altre due hanno il carattere di
segno.
Un’espressione conoscitiva come “La finestra è aperta” se non viene confermata/non ci interessa
confermarla, allora è un SEGNO.
Poi ci sono quelli che restano segni e non vogliamo renderli altro e segni che restano per forza
segni.
Segno
1. RELAZIONI TRA ESTRANEI
descrizione sul piano degli oggetti = riferimento di qualcosa che può essere un
simbolo/immagine/parola; oggetto 1 che si riferisce ad un oggetto 2 completamente
estraneo.
2. RELAZIONE MOTIVAZIONALE
sul piano del vissuto: questo rapporto di oggetti viene spiegato in termini di motivazioni; il
vissuto dell’ascolto di un ordine motiva il mio comportamento.
Nonostante da un punto di vista conoscitivo il segno ha un ruolo abbastanza circoscrivibile (tutta la
conoscenza matematica è segnica per Husserl), il l ruolo del segno nella conoscenza è molto molto
più ampio: se io devo analizzare l’esperienza nella sua interezza il segno ha molto più valore.

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Quando parlo di segno parlo sul piano dell’oggetto del rapporto tra due oggetti estranei, mentre se
sto sul vissuto parlo di motivazione.
Guardiamo alle ESPRESSIONI CHE POSSONO ESSERE CONFERMATE.
Il pezzo iniziale sono segni ed hanno in comune anche un’altra caratteristica: hanno dal punto di
vista dell’oggetto un supporto materiale fisico.
Es: cartello vietato fumare; quel cartello è un segno nel senso che il suo valore per me è quello di un
segno. Una persona che non parla italiano non capirà eppure vedrà lo stesso cartello.
Segno ed espressione significativa condividono segno + supporto materiale
Questo supporto materiale è necessario, ma non sufficiente.
Il cartello posso vederlo, ricordarlo, immaginarlo: queste tre prestazioni cognitive sono
1. PERCEZIONE
2. RICORDO
3. IMMAGINAZIONE.
(non posso fare altro)

Queste 3 condividono la base materiale: il cartello, da un punto di vista oggettivo.


Da un punto di vista soggettivo condividono la base sensibile.
Da un lato abbiamo il segno che abbiamo isolato come carattere comune a tutte e tre le espressioni e
carattere saliente + sufficiente per un tipo di espressione; le espressioni non possono non essere un
segno, ad alcune basta essere un segno.
Comparazione espressioni con significato ed espressioni segniche: hanno in comune pezzo iniziale
+ base sensibile (questa è indispensabile e, a seconda dei casi, può essere rilevante/irrilevante).
Queste 3 attività sono possibili casi di espressioni; in alcuni casi limitati sono anche l’oggetto di
espressioni: “ho un ricordo che mi fa male”; qui sto parlando di percezione, memoria ed
immaginazione però non voglio esprimere una conoscenza sull’oggetto bensì comunicare un mio
vissuto personale.
Escludiamo i casi in cui i vissuti sono oggetto di espressioni.
Prendiamo i casi in cui i VISSUTI sono BASE di espressioni: per Husserl il vissuto che sembra più
semplice è la percezione.

“La finestra aperta” è un enunciato a base percettiva.


Io non sto parlando della mia percezione ma sto parlando in virtù della percezione che ho (non dico
“vedo una finestra aperta”).
“La finestra aperta” è un enunciato a base percettiva e questo mi spiega che
-Nello stesso scenario percettivo (vedendo la stessa cosa), ciascuno di noi potrebbe dirla
diversamente.
Esempio di Husserl: un merlo prende il volo nel giardino/un uccello nero si è posato su un
albero; queste cose condividerebbero lo scenario percettivo e l’oggetto dicendolo in tanti
modi diversi PUR AVENDO LA STESSA BASE PERCETTIVA.
Hanno come base la percezione, ma non dicono la stessa cosa.
PER CAPIRE COSA DICIAMO NON BASTA CONDIVIDERE LA STESSA BASE
PERCETTIVA; la base percettiva è indispensabile MA non spiega quello che ciascuno di noi vuole
dire.
- Stessa base percettiva pur dicendo cose diverse.

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Perché è così importante sottolineare che hanno base percettiva? Enunciati come “La finestra è
aperta.”
(Per Husserl guardare il linguaggio ci può far vedere anche altro)
-SI VEDE che gli enunciati hanno base percettiva, lo capiamo dall’uso dell’articolo
determinativo come un dimostrativo:
“QUESTA finestra è aperta” si riferisce sicuramente non ad un ricordo, ma sulla base di una
percezione.

Se dico “questa finestra è aperta” un’altra persona mi capisce perché riconosce la struttura della
frase, condividiamo lo stesso linguaggio.
In questo caso la base percettiva è una condizione necessaria, non sufficiente a capire cosa voglio
dire ma che traspare.
Siccome per Husserl linguaggio e pensiero non sono dissociabili ed il linguaggio tradisce il pensiero
(considerando il pensiero = insieme di riferimenti che noi costruiamo), secondo lui noi con queste
parole vogliamo fare delle cose IN PARTICOLARE (non in generale); questa è la cifra della
fenomenologia.
Secondo le espressioni, questa base percettiva ce l’hanno, non è sufficiente al significato ma
traspare/emerge (tramite l’articolo usato come dimostrativo).
Prendiamo la cosa più complicata.
“Questa finestra è aperta”
IL SIGNIFICATO NON E’ RACCHIUSO DALLA PERCEZIONE, perché pur condividendo lo
stesso scenario percettivo posso vedere cose diverse.
Per capire cosa mi è stato detto devo guardare all’espressione; è dall’espressione che capisco che è
una base percettiva.

IL SIGNIFICATO
IL SIGNIFICATO, questa struttura che consente il percorso all’indietro, NON È’ RIDUCIBILE
ALLA BASE DEL VISSUTO (percettiva, immaginativa, memoriale); il significato è altro.
Che significa che le espressioni hanno significato?
Prendiamo un certo tipo di espressioni che hanno una certa base empirica (percezione, ricordo,
immaginazione); prendiamo una prestazione cognitiva.
La più semplice è la percezione: espressione con significato + base percettiva
(Dico una base perché esistono espressioni che hanno come oggetto il vissuto; uso espressioni che
indicano come stanno le cose. queste le mettiamo da parte perché ora non voglio comunicare di
come sto ma di come stanno le cose.)
Hanno base percettiva ma non si risolvono in essa: il loro significato non si riduce alla percezione.
Il mio interlocutore può vedere esattamente quello che vedo io ma non capire quello che dico io.
Possiamo radicarci ora nel significato.
Il significato non si può ridurre alla percezione né al contenuto della percezione; a rigore, pur
stando nello stesso scenario percettivo noi avremmo un contenuto percettivo leggermente diverso.
I singoli contenuti percettivi (contenuti dei vissuti) non possono mai essere gli stessi per ognuno di
noi: né i miei con quelli degli altri, né i miei con i miei.
Noi diamo per scontato che l’espressione del nostro interlocutore abbia SIGNIFICATO. (Se c’è un
prof giapponese che parla diamo per scontato che stia dicendo qualcosa id sensato anche se non
capiamo il giapponese)
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Questi casi sono detti CASI DI COMPRENSIONE DEL SIGNIFICATO ed hanno base percettiva
ma non sono riducibili alla base percettiva.
Il significato consente di capirci perché il suo riferimento non è al vissuto ma alle cose stesse;
elemento primario: un’espressione dotata di significato si riferisce ad un oggetto e al modo in cui
stanno le cose. L’interlocutore si impegna su ciò che dice.
Il minimo sindacale è capirsi tra interlocutori: abbiamo l’atteggiamento elementare rispetto all’altra
persona di concedergli di aprire bocca per dirgli qualcosa.
Dire qualcosa significa dire qualcosa di significativo, che mi impegno a dire qualcosa e che accetto
che il mio interlocutore dissenta.
Cosa ci permette di capirci? Diamo per scontato che il nostro interlocutore dica qualcosa dotato con
significato. Il significato consente di capirci perché il suo riferimento non sono i nostri vissuti ma
gli oggetti/il modo in cui stanno le cose.

Il significato è questo tipo di riferimento intenzionale che riguarda un oggetto quando è singolo e un
modo in cui stanno le cose (uno stato di cose) quando si tratta di più oggetti insieme:
1. “La borsa” è un significato nominale con riferimento un oggetto
2. “La borsa sta a terra” è un enunciato con riferimento ad uno stato di cose

Il tipo di conoscenza che ci interessa è quella che riguarda gli enunciati sugli stati di cose 2); la
conoscenza su base di oggetti/cose non è vera conoscenza, per Husserl.
La conoscenza che sta a cuore a Husserl, che indaga la fenomenologia è quella fatta di enunciati
basati su stati di cose; usando un nome e basta sembra che lo utilizziamo quasi come se quel nome
fosse appiccicato sull’oggetto.
Questa cosa è visibilissima quando effettivamente il nome è quasi appiccicato sull’oggetto: non
abbiamo differenza riferimento e conferma; pasta, pizza, pranzo, non c’è distanza. La Nutella
è la Nutella
Il nome non lascia spazio per confermare quello che si sta dicendo: ecco perché non è talvolta una
conoscenza confermabile.

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5 LEZIONE

Riprendiamo dalla definizione che avevamo provato a dare di un tipo particolare di intenzionalità.
La nozione di intenzionalità l’abbiamo descritta con due piccolissime proprietà:
1) intenzionalità dei contenuti, un qualsiasi vissuto quando è in atto, quando si sta realizzando lascia
spazio a ciò a cui ci si riferisce, qualsiasi ne sia il vissuto, anche se si tratta di un vissuto di
desiderio o di ordine e quando invece si pensa al vissuto stesso, ciò che ci troviamo a raccontare,
non è tanto il pezzo di vita a cui il contenuto corrisponde, ma al contenuto; per questa ragione se
dovessimo scrivere il vissuto o dovremmo parlare di ciò di cui si riferisce o del suo contenuto.
Visto che non possiamo attribuire l’intenzionalità all’oggetto:
es: “l’aula oggi è meno piena della scorsa volta”.
Si presume sia un’espressione di un vissuto che sto compiendo, ma ciò che si dice è la distinzione di
uno stato di cose; non posso attribuire un carattere intenzionale a questa descrizione, all’aula e alla
sua capienza, non posso che attribuirla al vissuto in quanto stato, ma in quanto contenuto.

Se estrapoliamo una proprietà dobbiamo attribuire a qualcosa, ma non all’oggetto (la sedia non è
intenzionale). Questa definizione minima è però troppo larga, prende tutto.
Se noi volessimo individuare una proprietà specifica in cui vi sono i vissuti di conoscenza e che
inevitabilmente interessano molto a Husserl, ma interessano anche a noi.
Dobbiamo, quindi, trovare un tipo di proprietà più specifica, che hanno i vissuti di conoscenza e che
non hanno gli altri, poiché sono fatti in modo particolari, sono caratterizzati da una pretesa di verità.
In esprimere un certo stato del mondo e sono caratterizzati da un impegno; questo impegno ha una
declinazione particolare nel caso dei vissuti di conoscenza perché è un impegno a confermare e
difendere quello che dico.
Con la definizione minima di intenzionalità queste tre stazioni non le riesco a spiegare. Un ordine
può essere poco impegnativo, ad esempio.
Devo capire qual è la caratteristica dei vissuti intenzionali in virtù della quale i vissuti intenzionali
riescono a fare altre cose che gli altri vissuti non riescono a fare, abbiamo bisogno di un riferimento
che sia capace di essere transitivo, un riferimento ad un oggetto e passibile di conferma.
Qual è la caratterizzazione migliore di questo tipo di intenzionalità ?
Intenzionalità dei vissuti di conoscenza deve essere caratterizzata attraverso il significato, che
rappresenta la differenza specifica dei vissuti di conoscenza. Il significato è più rigido degli altri
riferimenti, è più invariabile e lo è da molti punti di vista: perché posso ripetere esattamente le
stesse parole che ha detto un altro per esprimere una conoscenza.
È rigido sintatticamente, grammaticalmente, ma anche per il suo significato; se non avessi questo
elemento che differenzia gli atti di conoscenza, il vissuto epistemico, della conoscenza, non potrei
venire a capo delle cose che caratterizzano la conoscenza.
Questa caratteristica ci ha consentito di distinguere tra le espressioni che posso dare. Il significato è
ideale e rigido al di là delle circostanze. Quello che dico oggi, è vero solo oggi, ma si capisce
sempre. Il significato di quello che dico lo capisco al di là del momento in cui io lo dico. È reale il
suono della mia voce, è reale, è un dato fisico. Quello che dico va al di là di questo dato fisico, non
è sovrasensibile, perché anche se non parlassi io e non utilizzassi questo tono, anche se non
utilizzassi questa voce, questo avrebbe lo stesso significato. Il significato è ideale, riesce a fare da
tracciato per andare “avanti e indietro”, se quello che dico non avesse validità e comprensibilità
ideale, non potrebbe essere confermato o contestato e frainteso.
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Nel caso del dito puntato, questo non crea un riferimento rigido perché posso indicare qualsiasi
cosa, posso voler dire 1000 cose diverse, è un atto di riferimento non rigido; se il mio dito è
imbalsamato e cammino indico 1000 cose diverse.

Il vissuto di conoscenza ha un’intenzionalità a parte, ha una caratteristica specifica è che ha


un’intenzionalità significativa, semantica, che consista nel riferirsi non ad un oggetto, ad un
comportamento, ad una pratica, ma ad uno stato di cose, un modo in cui stanno le cose.
Questo distingue il significato dai segni che invece si comportano in un altro modo, come classe di
espressione (un po’ di segno ce l’hanno tutte le espressioni, nella parte iniziale del riferimento, nel
“primo pezzo”).
C’è un’altra cosa che accomuna i segni ai significati, 1) intendendo con significato la caratteristica
di intenzionalità dei vissuti di conoscenza, 2) poi dopo anche il significato degli enunciati; il
significato acchiappa il contenuto del vissuto. Questa è una cosa impossibile da realizzare in natura,
non si studia il pensiero senza parole. Nella vita normale le due cose non sono mai scisse. Altro
conto è dire, invece, che il significato ha radice nel contenuto del vissuto, ciò non significa che
posso dire un contenuto di vissuto senza parole.
ENUNCIATO = ESPRESSIONE
FRASI HANNO SIGNIFICATO, NON POSSO NON DOMANDARMI “DI COSA SIANO
ESPRESSIONE E SULLA BASE DI COSA SI FORMULANO QUESTE ESPRESSIONI”; LE
ESPRESSIONI SONO ESPRESSIONI DI PENSIERI E SI REALIZZANO SULLA BASE DI
VISSUTI
Perché è così banale come risposta? Perché ogni volta che uno dice qualcosa qualcun altro può
chiedere “che cosa hai detto?” e “perché lo hai detto?”.

ES: 1) “questa aula è meno piena di martedì”, qualcuno può domandarmi “ma cosa intende dire?”, e
gli rispondo con una parafrasi, utilizzando altre parole e si fa questo in maniera istintiva, ma
facendo questo sto implicitamente ammettendo che è possibile dire la stessa cosa che ho è detto con
altre parole, ossia che esiste una differenza tra ciò che si è detto e le parole che sono state utilizzate.
Già solo questo ci dimostra che una cosa è l’espressione e una cosa è ciò che esprimiamo, un
pensiero, in termini fenomenologici esprimo un significato.
2) “ma perché continui a dire che l’aula è meno piena di martedì?” e io rispondo “perché lo vedo e
perché la cosa mi rassicura circa la mia incolumità”, non parlo più di ciò che ho è detto, quindi il
significato del mio enunciato, ma ho raccontato sulla base di quale vissuto, ho formulato
l’espressione di partenza, chiunque lo fa. Questo è un dato molto elementare.

Quindi l’espressione è significato, va bene, diamola per buona, ma quando apro bocca chiunque è
legittimato a domandarmi cosa ho detto e perché l’ho detto, quando mi si domanda la prima cosa
rispondo col significato, quando mi si domanda la seconda cosa rispondo con il contenuto del
vissuto ergo ogni espressione è espressione di un significato, sulla base di un vissuto.
L’intenzionalità semantica significativa, non può che essere spiegata in termini di significato e
contenuto di vissuto e non significa dire che viene prima il pensiero e poi la parola, se lo si volesse
dire lo si dovrebbe dire in un altro modo, ma non è questo il punto. Il punto è che per spiegare il
fatto che un’espressione abbia il significato non posso non riporre da questa prospettiva al
contenuto del vissuto.
Il significato necessariamente dev’essere un carattere del contenuto del vissuto, deve avere i piedi
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sul vissuto, deve partire da là e deve, per essere un significato, deve essere un tipo di riferimento a
qualcosa.
Inevitabilmente, se io non sto parlando della mia percezione, il riferimento di ciò che dico è uno
stato di cose. Il significato quindi si riferisce ad uno stato di cose.
La base percettiva è la cosa in comune, il primo pezzo dell’intenzionalità. Così come il segno può
avere la memoria di qualcosa, anche il significato può fare una cosa simile.
Abbiamo anche detto che IMMAGINAZIONE, PERCEZIONE E MEMORIA sono le principali
prestazioni che si devono avere. Una cosa che bisogna spiegare bene è la differenza fra queste tre
prestazioni, perché queste tre sono non solo i tre vissuti che possono stare alla base di un vissuto di
conoscenza, ma sono anche i tre vissuti al quale dobbiamo appellarci per confermare un vissuto di
conoscenza.
Bisogna far emergere le caratteristiche che questi tre vissuti hanno. Innanzitutto, bisogna far
emergere la differenza fra percezione ed immaginazione, non perché con la memoria le cose siano
più facili, anzi sono più complicate, ma la distinzione segue un’altra strada.
La percezione
Cosa fa la percezione? Come abbiamo detto il vissuto non possiamo esprimerlo, come si
caratterizza un enunciato su base percettiva? Un enunciato percettivo è visibilmente percettivo
perché utilizza tutta una serie di pezzi che altrimenti non si utilizzerebbero: i dimostrativi, i lessicali
(circostanza in cui si parla).
Cosa vuole un enunciato percettivo? Il presente. Cosa intendiamo con questo? Poiché è legato alle
contingenze. Una persona che ha memoria, ma formula un enunciato percettivo, ma sono capaci
anche di fare altro. Le contingenze, per esempio, possono essere legate ai sensi.
Contigenza, presente, nuovo, immediato sono quattro cose che stanno bene insieme.
“E’ stato il tuo compleanno, ma invece di lasciarti il regalo a tua madre, te lo voglio portare di
persona; vengo di persona.”
Qui non è che si scomoda l’idea di persona, la metafisica della persona. A questa espressione si
ripensava agli anni in cui stavamo davanti ad uno schermo durante i quali molti ricominciavano a
rivendicare l’importanza di vedersi di persona. In quei due anni le persone sembrano avessero
capito benissimo che significava vedersi di persona. Era chiaro.
L’espressione tedesca è “esser presenti in carne ed ossa” (laid aft), significa “essere presenti come si
è presenti quando ci si guarda in faccia”. La percezione vuole questo, un’espressione percettiva
pretende di presentare il suo oggetto in carne ed ossa, di persona.
Questo non significa che questa presentazione sia istantanea e veritiera. Posso parlare di persona
con qualcuno e non avere nessuna esperienza di intimità e immediatezza, ma si distingue il parlare a
telefono con il parlare di persona. Poi le maschere ci sono anche di persona, ma non è questo il
punto.
Si tratta di un’investitura reciproca di cuori.
Per la stessa ragione se io formulo l’espressione su base percettiva, il modo migliore per
confermarla è avere una base percettiva. Chi vuole confermare o misconfermare ciò che dico deve
avere la stessa, o meglio una base percettiva simile alla mia.
L’immaginazione
ES: Se qualcuno ascoltasse da fuori di quest’aula o da fuori da questo luogo le mie parole. se uno di
voi sta registrando quello che dico, capisce ciò che dico e il significato di “quest’aula è abbastanza
capiente”, ma non è nelle perfette condizioni di capire se questa situazione sia vera o falsa.
Poniamo che queste registrazioni le ascoltiate tra un mese, in quel caso o vi ricordate cosa era
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accaduto quel giovedì o si può immaginare. Si capisce quello che dico in virtù del significato che
non si riduce alle basi vissute, ma se oltre a capirlo, volete capire se fosse vero, bisogna ricordare o
immaginare.
In che condizioni si è se si fa affidamento sulla memoria e in che condizioni si è se si fa affidamento
sull’immaginazione. Di cosa si è più sicuri? Della memoria. Con l’immaginazione non si ha alcuna,
o quasi sicurezza. Si riesce a fare una semi-prova, di tutto quello che si dice. L’immaginazione è
meno prestante per confermare, ma a modo suo può confermare un sacco di cose.
Siamo riusciti a visualizzare cosa appartiene alla percezione ed in particolare l’espressione
percettiva, la pretesa di presentare cose in carne ed ossa.
Ogni volta che apro bocca per formulare una conoscenza voglio dire le cose come stanno, tranne
che io non menta, ma è diverso.
Quando formulo un’espressione percettiva voglio dire che non solo le cose stanno così, ma che
stanno così in carne e ossa. La pretesa di verità non va ridotta a vissuti percettivi.
Abbiamo visto come si comporterebbero gli altri due vissuti se fossero chiamati a confermare
un’espressione percettiva e ci appare chiaro che la percezione funzionerebbe meglio, la memoria di
meno e l’immaginazione non sarebbe decisiva. Cosa accadrebbe se io formulassi un’espressione
epidemica di conoscenza, ma non su base percettiva, ma su base del ricordo.

ES: “Stamattina ho fatto colazione alle 07:30”, nessuno ha a disposizione il mio ricordo e nessuno
ha a disposizione la percezione di me quando facevo colazione, quindi queste due sono escluse per
principio. Bisogna fidarsi dell’immaginazione.

Le espressioni memorative sono un molto complicate perché è difficile stabilire qual è la fonte di
prova su quell’espressione. Qual è il metodo di verifica.
La cosa che generalmente facciamo è che ce lo immaginiamo in modo particolare, non molto
sfrenato (fancy, fantasia che si usa per scrivere i romanzi).
L’immaginazione quindi è vincolata, perché immagina ciò che avreste fatto voi a colazione;
dunque, è un innesto tra immaginazione e ricordo.
Per ricordo, la cosa migliore da fare, se lo devo provare e quindi fare il “viaggio di ritorno”, è quello
di utilizzare un vissuto immaginativo, ma vincolato.
E se invece, formulo un’espressione immaginativa? Come la si conferma? E soprattutto visto che io
posso parlare di quest’aula tanto su base percettiva quanto su base immaginativa, cosa cambia tra la
percezione di quest’aula e l’immaginazione di quest’aula?
La descrizione dell’immaginazione di Husserl è fondamentale, perché distingue due generi di
immaginazione:
- l’immaginazione;
- la fantasia, di cui fa parte anche la fancy, la fantasia sfrenata.
Un vissuto immaginativo è quello in cui ciò che vedo è simile a ciò che intendo. Un’immaginazione
si realizza quando quello che vedo, quello che ho in mente è simile a ciò che intendo.
Partiamo dal caso di immaginazione più semplice. La scuola di Atene è un quadro lo posso vedere
come un qualsiasi altro oggetto fisico, non lo starei vedendo come la scuola di Atene, ma come un
quadro. Immaginiamo una persona che invece non sappia chi è Raffaello, cosa sia la scuola di
Atene e si rende conto che è un quadro.
Cosa fa costui? Secondo Husserl costui vedrà questo pezzo di locandina come un quadro, quando lo
vedrà come immagine; si renderà conto che ciò sta vedendo è simile a ciò che deve intendere.
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Questo non significa che questa cosa è valida solo per l’arte figurativa, ma vuole dire che la
semplice base percettiva non è sufficiente a capire che quello è un quadro e che quello che
effettivamente vedo.
Quando banalmente si dice “questa non ti sembra una grande opera d’arte perché non sai cosa
significa”, dove l’utilizzo di “significa” è fuori luogo. Si dovrebbe dire “non sai a cosa è analogo”,
“non sai qual è il secondo termine dell’analogia”, non gli deve somigliare come un padre somiglia
al figlio e al nonno, questo è un tipo di somiglianza molto elementare, non è quella a cui pensa
Husserl, Husserl dice un’altra cosa. Dice “colui il quale capisce che quella è un’immagine, prende
ciò che vede come è analogo a ciò che bisogna intendere”, cioè sa che c’è questa differenza e che
questa differenza è per analogia. Capire che quelle sono immagini, significa che quelle immagini
stanno in analogia con qualcos’altro. Se io esplicito il significato dell’espressione quotidiana
“apprendo un’immagine”, “capisco che è un’immagine”, se io la esplicito dico “sto capendo che
quello che vedo è analogo ad altro".
Quest’analogia può essere di diversi gradi. L’analogia (l’immagine ha un rapporto con l’analogia) è
un tipo di legame meno forte del significato (designa uno stato di cose) e più forte dell’indicazione
propria del segno (il segno indica una cosa a lui estranea). Sono tre rapporti:
- uno è largo = segno;
- uno è stretto = significato;
- uno è la via di mezzo tra i due = analogia, immaginazione.
Di tutte e tre queste cose, posso aggiungere un “di” (segno di, significato di, immagine di).
Attribuisco la locuzione a qualcosa di particolare:
- Questo qualcosa sta da un’altra parte rispetto all’oggetto indicato;
- In questo caso il “di” lo utilizzo come portatore di questo significato, ad un pensiero;
- Attribuisco l’espressione “immagine di” al soggetto dell’immagine e metto dopo il “di” l’oggetto
dell’immagine (questa è l’immagine della scuola di Atene, ma non è la scuola di Atene stessa).
Questa è l’immagine di altro. Dire “analogia”, per Husserl, lo stesso che è “l’immagine di…”, ma
rendendomene conto. Non esiste un’immagine senza rendersene conto e vale sempre lo stesso, ad
ogni distinzione di oggetti equivalgono distinzioni di vissuti. Se non me ne rendo conto non la
prendo come un’immagine.
Legato a questo nesso di analogia che nulla a che fare con la copia, con la figuratività, ma c’è anche
un’altra caratteristica: colui il quale prende qualcosa come un’immagine di qualcos’altro è come se
vedesse quel qualcos’altro.
L’immaginazione è un vissuto di una visione “come se”; “Come se lo stessi vedendo”, “come se lo
stessi percependo”.
Questo ha un enorme impatto sull’allargamento delle immagini.
Il simbolo indica, il significato designa, l’immagine è analoga. Su un piano di oggetti il simbolo è
estraneo all’oggetto indicato, sul piano dei vissuti è una motivazione; il vissuto del segno motiva il
vissuto dell’indicato (divieto di fumo indica che non si può fumare). Il significato designa uno stato
di cose, quando intendo il significato penso allo stato di cose, non al significato (il cielo è blu).
L’immagine è analoga all’oggetto dell’immagine, per capire che una cosa è un’immagine, devo
capire che quello che ho in mente è in analogia con qualcos’altro. Da un punto di vista soggettivo
quello che faccio è di “vedere” l’oggetto dell’analogia, come se fosse presente.
ES: Il teatro è un caso strano di coscienza immaginativa. Ha una base percettiva fortissima, se non
si va a teatro non si vede la rappresentazione scenica ed è un tipo così forte di rappresentazione
percettiva perché bisogna fare un sacco di cose, ma soprattutto prendere gli attori come se fossero
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personaggi.
Se si segue la rappresentazione teatrale si è completamente immersi nella coscienza immaginativa, è
come se si vedessero i personaggi.
Fino a che l’attore non sbaglia o qualcuno tossisce io l’attore non lo vedo. Se vedo l’attore è finita.
A teatro non si è in uno stato di trance; quindi, c’è sempre la possibilità che uno tossisca e che
l’attore dimentichi la battuta. A quel punto tutto torna com’era fuori al teatro.
A teatro vediamo una situazione di contrasto sopito tra la vigilanza percettiva e il tipo di credenza
che la percezione si porta dietro e la coscienza immaginativa. Queste due cose non è che esistono
solo quando emerge quel contrasto. Al di là della pertinenza con la “teoria del teatro” o con
qualsiasi gioco di ruolo, la cosa interessante è che quest’esempio qua ci fa capire bene cosa intende
Husserl per coscienza immaginativa. L’analogia non sta nel riconoscere che quello sia “Enrico IV”,
ma è quel tipo di riferimento e quel tipo di presentazione “come se” che è importato dalla coscienza
immaginativa.
Quest’è l’immaginazione e può essere una base di conoscenza, anzi, una base importante di tanti
tipi di conoscenza soprattutto quelli più sofisticati.
La fantasia
Dall’immaginazione così descritta, si distingue la fantasia.
La fantasia di cui sentiremo parlare in “Esperienza e Giudizio” fa una cosa in particolare, è la
prestazione che scompone, che divide e varia.
ES: Come può essere un astuccio? Di tanti colori e forme. Per fare questo, a partire da un astuccio
visto e percepito, per fare questo io non posso affidarmi soltanto all’immaginazione, devo fare un
lavoro che utilizza l’immaginazione, ma devo anche far utilizzare la fantasia. Devo prendere questo
astuccio e devo fantasticare nel modo in cui potrebbe essere, restando quest’astuccio. Scompongo e
vario.
Mentre vario, ho un oggetto percettivo di partenza, gli cambio i connotati e li scompongo. Potrebbe
essere in un altro modo che non è sua condizione essenziale. Ad un certo punto arrivo a dire una
cosa che quest’astuccio e quelli simili non possono non avere. Ma un astuccio per essere un
astuccio non può non essere così. Ogni astuccio deve essere così.
Questa cosa è opera della fantasia. La fantasia arriva quasi a “far scoppiare” l’oggetto di partenza.
Quando io riuscissi a cogliere ciò che è essenziale per l’astuccio, starei ad un passo dal cambiare
tipologia di oggetto. Non si trovano le caratteristiche necessarie e sufficienti come prescriverebbe la
teoria aristotelica della definizione. Si descrive un campo di variazioni e ci si è detti, alla fine, che
un astuccio non può non avere una determinata cosa (colore, tessuto).
La fantasia può partire da qualsiasi cosa: qualcosa in carne ed ossa, immaginata. Ma questo è
irrilevante, ciò che rileva è ciò a cui si arriva, che non è una stringa di caratteristiche necessarie e
sufficienti, ma il campo di variazioni (colore, materiale, peso). Questa variazione si chiama
“variazione eidetica” ed è quella cosa che Husserl non ha mai espresso così chiaramente come in
“Esperienza e Giudizio”, è un’acquisizione molto tarda per Husserl.
La memoria
La memoria è un fatto complicatissimo perché è quella delle tre prestazioni che ha un rapporto
minimo col tempo. Il tempo è il grande problema fenomenologico. Husserl scrisse diversi libri sul
tempo, gli ultimi due non furono pubblicati perché li abbiamo in forma di manoscritto, insieme sono
migliaia di pagine.
Questo è un tema cruciale della fenomenologia e troveremo nel libro in esame tre luoghi dove
Husserl parla del tempo, non ne parla sistematicamente in una sezione, ma tre volte: del presente,
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della continuità dell’esperienza, della unità temporale quando quest’unità è molto estesa.
La memoria è difficile da trattare perché oltre a quello che abbiamo brevemente detto implicherebbe
un trattamento ampissimo.
ES: Questo è un esempio molto diffuso nella filosofia-psicologia di fine 800, inizio 900 e nella
letteratura neurocognitiva contemporanea che pone la sua banalità a una serie di proprietà.
“Io sento una melodia, una canzone, un brano musicale, anche un discorso.”
Poniamo che io quel brano musicale non lo conosca e che quindi non me lo ricordi e non sappia
come va a finire. Cosa faccio quando ascolto un brano musicale? Cosa faccio durante tutta la durata
del brano? Sento nota per nota? Mi ricordo come sia iniziato? Mi aspetto come andrà a finire? Nella
loro validità queste sono domande essenziali per capire la temporalità di Husserl. Devo distinguere
la tenuta della mia esperienza, il modo in cui, è legato il presente con il passato prossimo. La
facilitazione che la filastrocca presenta è perché riusciamo a memorizzarla facilmente, non tanto
perché ti ricordi della rima precedente, ma perché tieni il filo. Se ci si capisce è perché l’altra
persona tiene il filo; la persona tiene il filo, ma non è detto, anzi, è escluso che tenga il filo
ricordandosi di quello che ha appena detto.
Lo si fa raramente, come quando si dice “come abbiamo detto prima…”, ma ad una scala che non è
né troppo lunga né troppo breve si tiene il filo.
ES: Operazione matematica, camminare.
Nessuno di noi decide di tenere il filo, in altri casi decidiamo di ricordare, in altri casi ci vien fatto
di ricordare e in altri casi vediamo qualcosa e ci ricordiamo di qualcos’altro. Ma tenere il filo,
nessuno lo decide. E non si tratta neanche di una prestazione attentiva, si può dire che uno è attento
tiene il filo più lungo, ma uno che non tiene il filo non vuol dire che è disattento, semplicemente
non ha continuità nella propria esperienza.
Questo legame tra il presente e il passato prossimo (immediatamente precedente al presente, in
termini oggettivi), è nella coscienza assicurato da una cosa che Husserl chiama “ritenzione”; è un
termine coniato nel linguaggio filosofico moderno da Locke, ripreso da Leibniz e utilizzato da
Husserl.
La ritenzione non è memoria, è la coda di ogni impressione. Il presente che ha in mente Husserl è
infatti è un presente esteso, un presente che incorpora un po’ di passato prossimo e incorporandone
un po’ riesce a legarsi con quello ancora precedente e ancora precedente e ancora precedente. Si
può legare, però questo non significa che per ogni presente esteso io abbia padronanza sulla mia
memoria, ma questo significa che il mio presente esteso è legato a quello che è accaduto prima che
io me ne ricordi o no; posso non ricordarmi cosa è successo prima, ma grazie al mio presente esteso
so che è venuto prima.
Il presente esteso che un amico di Husserl conia, Stern anche lui grandissimo psicologo, anch’egli
fu costretto all’esilio, essendo di religione ebraica; questo presente esteso non è un attimo, un punto,
ma un tratto che per come è fatto si lega ai tratti precedenti, si lega appunto per continuità, non per
contenuto dei momenti precedenti. In ogni presente non sono consapevole di ciò che è accaduto
prima, anzi.
La ritenzione è un’impalcatura elementare della coscienza interna del tempo.
Il pezzo senza la quale la coscienza interna del tempo non ci sarebbe. Se io ho il più piccolo pezzo
di coscienza temporale che è già esteso avrò continuità, se il mio più piccolo pezzo di coscienza
temporale non è esteso, è un punto, non posso avere continuità. Ci capitano cose molto diverse nella
vita che ci creano discontinuità nella coscienza del passato. La continuità è il filo, anche malgrado
noi del nostro passato non vogliamo essere coscienti.
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ES di Locke: L’uomo ubriaco la sera prima ha commesso un omicidio, viene portato in carcere, e
quest’uomo dice che non se lo ricorda. “Io sono ciò di cui mi ricordo”, ma non funziona questo.
Quando si parla di questo filo, non si parla di una continuità di contenuti, ma un filo di continuità
della coscienza.
Non esiste impressione senza ritenzione.
ES: Assolo di Jimi Hendrix, la melodia è un fenomeno fisico che riguarda il suono, non è lo
sfumare della nota la ritenzione.
Ma è la coda dell’impressione, è quello che lega l’impressione con l’altra dietro, dietro e dietro. Ed
è quella che inizia a far scendere di un piano la mia impressione, mi consente di sprofondare un po’
nel mio passato.
Di quel passato posso non ricordarmi niente, ma non me ne posso liberare.
IL FILO DI PERLE: il filo è la ritenzione, le perle sono quello che è accaduto. il suo passato sarà
granulare tanto quanto lo saranno i contenuti del suo passato, ma staranno in fila quei grani grazie
ad un’impalcatura che ha come modulo che si ripete sempre impressione-ritenzione.
Il passato sembrerà difformemente granulare tanto quanto i contenuti della memoria, ma il filo è un
fatto che dipende da tante cose, ma anche da una decisione, o un incontro con qualcosa che me lo fa
ricordare. La nostra coscienza interna non è altro che quel filo. Se si taglia in un punto, si trova
quello che serve per capire tutto il filo.
La ritenzione è passiva (non capita, ma è una legge, l’unica legge della coscienza interna) come una
legge della coscienza interna, non si attiva, ma al massimo si può avere più fili, in casi patologici,
(nel caso della schizofrenia non avrai mai una riduzione, ma il bisogno di metterci le perle perché il
filo ti sembra debole e vuoi la sicurezza di qualcosa che ti tenga ancorato da qualche parte) ad ama
mai la riduzione a “pezzettini”. Questo accomunava il soggetto psicotico al soggetto non psicotico.

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6 LEZIONE

Piano degli oggetti:


1) Segno → comportamento, informazione, conoscenza di sfondo.
2) Significato → si riferisce ad uno stato di cose (come stanno le cose) = la relazione che unisce le
cose, che in questo caso è molto importante. Parliamo di stato di cose e non di oggetto perché c’è un
altro caso in cui il significato fa riferimento all’oggetto: il nome, il quale designa un oggetto ma non
rappresenta un esempio vero di conoscenza perché il nome è appiccicato all’oggetto e (io) non ho il
tempo di confermare la distanza. Husserl parla del nome come un designatore rigido, statico
(non ho il tempo di andare e venire).
3) Immagine → caratterizzata dall’analogia, si correla per analogia all’oggetto dell’immagine.
Sul piano del vissuto:
1) Motivazione
2) Presentazione
3) Esperienza come se, come se avessi davanti agli occhi l’oggetto dell’immagine ––> in Husserl
troviamo anche il termine “quasi”, riferito all’oggetto quasi presente.
Se io non ho a disposizione la descrizione di tutti e due questi piani non posso fare un’analisi
appurata di tutte e tre le specie intenzionali che abbiamo precedentemente elencato, in altri termini
non posso descrivere un segno solo sul piano oggettivo ma lo devo descrivere anche sul piano
dell’esperienza (piano soggettivo) e così via. Questo implica che non esiste una classificazione per
generi naturali di queste tre specie di intenzionalità.
Un segno è anche un’immagine, ma se lo prendo come un’immagine non capisco quello a cui serve,
però lo posso prendere come immagine, non c’è infrazione. Nonostante questa variabilità, come in
questo caso, io posso sempre dire “se quel modo di apprendere quell’oggetto” è corretto o meno. È
un’apprensione scorretta, ma è possibile farlo, è la motivazione di un errore (ad esempio
l’apprensione del cartello di fumo come un’immagine, il divieto di fumo vuole motivarci a fare una
cosa). Se prendo un’immagine come oggetto percettivo quasi sempre sbaglio, lo prendo banalmente
per vero, ma non è solo la percezione che mira alla verità dato che non è l’unica portatrice di verità
→Hai preso quello che vedi come se fossi stato presente in carne ed ossa, in sostanza non hai inteso
l’analogia.
Bisogna anche spiegare il lato soggettivo (esperienza) quindi il vissuto, ma la tradizione della
percezione della fenomenologia in Italia e non solo è quella per cui è valido il termine “vissuto”
(Erlebnis in tedesco = esperienza). È un’esperienza che viene vissuta.
La fenomenologia dal suo inizio è una teoria dell’esperienza in tutte le sue trasformazioni, (ha avuto
varie declinazioni) ma tuttavia rimane teoria dell’esperienza. Il libro che affronteremo è il
manifesto della fenomenologia come teoria dell’esperienza. Allo stesso tempo è anche una forma
di empirismo, non solo per le letture che hanno formato Husserl e per gli autori di Husserl ma
perché riprende una cosa in maniera cristallina dell’empirismo. Un amico di Husserl scrive due
saggi sull’empirismo classico, dove dice che siamo abituati a considerare il fondatore
dell’empirismo moderno Locke ma in realtà il più intelligente per lui era Husserl.
Hobbes scrive nel “De Corpore” la definizione minima di empirismo, dice che la cosa più mirabile,
non è l’apparire di una cosa o dell’altra, ma l’apparire stesso e intende dire che per alcuni animali
esiste l’apparenza. La cosa da pensare e dai cui partire è che per l’animale umano le cose sono come
appaiono. Non possiamo partire da altro se non dall’apparenza, quindi dall’esperienza che sono
perciò la medesima cosa (Husserl, quindi è empirista).
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Le cose sono come appaiono, non significa dire che le cose sono solo la loro apparenza, significa
che io non so niente se non attraverso la loro apparenza ma non si riducono al loro apparire.
Il ragazzo in prima fila (a lezione) è come appare benché io non lo veda da tutti i lati e quindi non lo
posso identificare con il modo in cui attualmente mi pare, ne con il modo con cui l’ho conosciuto a
lezione fino ad oggi perché è molto altro nella sua vita; quindi non è SOLO ciò che mi appare per
me, è come mi appare. Posso grazie all’apparenza capire ciò che mi manca da sapere, tramite la
ripetitività dell’apparenza e dell’esperienza, ma ciò che mi manca di lui non è più reale di ciò che
vedo. Questo è ciò che fa della fenomenologia una forma molto netta di empirismo.
La fatica enorme di Husserl di analisi dell’esperienza è la fatica di capire attraverso quest’analisi ciò
che l’esperienza può e ciò che non riesce a cogliere.
La massima della quinta ricerca logica è un dilemma: Le cose appaiono e l’esperienza è vissuta;
le cose appaiono e l’apparire delle cose è l’esperienza ma l’esperienza a sua volta non appare.
SPIEGATA IN MODO SEMPLICE: Quando faccio esperienza guardo all’oggetto, quando torno
sull’esperienza guardo all’esperienza. L’esperienza può essere tema della mia riflessione, ma
l’esperienza a sua volta quando la faccio non mi appare, mi appare l’oggetto.
Punto caratterizzante dell’empirismo husserliano: La fenomenologia non è un metodo, ma una
disciplina (piattaforma concettuale), è un modo sistematico di mettere insieme tre cose: una teoria
della coscienza, della conoscenza e della logica.
Si chiama fenomenologia per sottolineare quest’elemento empiristico. La fenomenologia è teoria
del fenomeno. Parte dall’apparire, però quell’husserliano è particolare poiché l’apparire delle cose
è esperienza.
Concetto fenomenologico di fenomeno per Husserl: ESPERIENZA = IL FENOMENO.
L’esperienza che Husserl studia è caratterizzata da una proprietà: l’intenzionalità. L’esperienza che
la fenomenologia studia è caratterizzata anche da una semplice legge interna: impressione-
ritenzione. L’esperienza è intenzionale e a suo modo continua, connessa.
Il modo in cui mi appaiono le cose non dipende solo da me, ma anche dalle cose stesse che mi
appaiono.
L’esperienza è intenzionale e continua perché Hume scrive in un trattato: “se io apro l’esperienza
trovo degli atti di esperienza, una percezione, un ricordo, un’immaginazione in atto. Se la mente,
l’esperienza non fosse all’opera non ci troverei niente. Quello che i miei contemporanei chiamano
“io” sono in realtà un fascio di sensazioni”.
Qual è la riforma che anche il primo Husserl fa rispetto a questo assunto hummiano? Per Husserl
resta il problema, ma in realtà poniamo che io possa guardare l’esperienza. Se l’esperienza è
continua non ci trovo solo un fascio, una riunione disparata di pezzi, ma questa unità ha dei
riferimenti e una connessione interna, ma anche un tempo di cui è fatta. Se ci guardassi dentro ci
troverei dei riferimenti, dei vincoli con il mondo esterno e una coerenza temporale interna.
Quest’esperienza è quindi riferita e coerente temporalmente.

Il primo Husserl chiama questa cosa consapevolmente “fenomenismo intenzionale”. Il


fenomenismo è accusato normalmente di fermarsi alle apparenze, ma se l’apparenza è l’esperienza
la quale è fatta da un riferimento e coerenza temporale non c’è tema di fermarsi alle apparenze.
Ogni volta che parliamo di esperienza parlo di due cose al contempo: l’apparenza è il modo in cui
mi appare qualcosa e il suo apparire, se non ci fosse qualcosa nulla apparirebbe ––> su questo si
basa la teoria husserliana dell’esperienza.

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Non possiamo dire che la cosa che appare ci sfugge sempre, è nascosta e l’apparire delle cose è una
menzogna, uno sviamento perché cosi non si gioca. L’apparire di questa cosa può essere degno di
fede o meno ma non importa. Tutta la storia che va dai paradossi scettici alla nascita dell’ottica
geometrica è un modo per mettere a sistema le illusioni ottiche. Se si da per buona l’apparenza di
quelle cose è sbagliato, ma ha un modo per essere intesa. L’intera ottica è un modo per rigorizzare
l’apparenza.
Non ho bisogno di un portatore di esperienza che mi lanci la freccia dell’intenzionalità, è un di più,
è grazie all’ esperienza che si forma l’idea dell’io. L’io non fa che estrapolare come suoi
caratteri principali la coerenza e il riferimento: uno e diverso da altri. Anche quando Husserl
cambierà idea su questa cosa resta inteso che il ruolo dell’io non è essenziale a rendere
temporalmente coerente l’esperienza ma serve ad altro. Per rendere coerente l’esperienza, basta
l’esperienza.
Parlare di fenomenologia come di un metodo è un anacronismo, perché è letteralmente una
disciplina, che mette insieme:
1) ESPERIENZA
2) CONOSCENZA
3) LOGICA
Il tentativo che Husserl fa e che è espresso anche dal sottotitolo del libro (Geneaologia della logica)
è di procedere ad una ricostruzione razionale dell’esperienza e di ciò che dall’esperienza parte e si
allontana. Questo è il senso di genealogia, in realtà né del titolo né del sottotitolo è responsabile
Husserl. Il libro viene pubblicato in Cecoslovacchia appena prima dell’invasione nazista.
PREMESSA SUL CARATTERE PARTICOLARE DEL NOSTRO LIBRO “ESPERIENZA E
GIUDIZIO” Ci sono allievi di Husserl che negli Stati Uniti provano a mettere
insieme, attorno ad una piattaforma comune, tutti i filosofi rifugiati (tedeschi e austriaci). Tutti i
materiali su cui aveva lavorato erano stati chiamati da Husserl “studi logici”.
Husserl scrive il primo libro famoso “Ricerche logiche” che gli fa conquistare la cattedra e quindi
anche sfuggire alle critiche della moglie (discendeva da una grande famiglia rabbinica dell’est
Europa) pubblicato nel 1901. Continua a lavorare su temi logici fino alla prima guerra mondiale
durante la quale muore uno dei figli al fronte, a questo punto Husserl ammette di non avere più la
testa per lavorare a questi studi, lo farà più tardi.
Questo è l’unico libro dove Husserl mette in analisi l’esperienza e non si tratta assolutamente di un
libro di introduzione su che cos’è la fenomenologia. È un libro molto simile ai suoi corsi
universitari, è zeppo di analisi particolareggiatissime.

Un fenomenologo della “prima ora” diceva che la fenomenologia era la passione per le differenze, il
sentimento delle differenze (la capacità di trovare il pelo nell’uovo). La fenomenologia è
un’economia del lusso, dello sperpero perché per ottenere una definizione valida Husserl attraversa
molte analisi di dettaglio, e questo è ciò che la rende una disciplina.
Quello che faccio io dice Husserl è fenomenologia analitica e di conseguenza ha bisogno di molte
persone che lo aiutino.
Da dove parte questo libro?
Parte da un punto che abbiamo già sottolineato come privilegiato, parte dalla cosa su cui abbiamo
insistito di più: il significato e lo stato di cose. Il significato è attribuito all’espressione e questa si
chiama ASSERZIONE ––> l’equivalente greco è apophansis (giudizio).

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Si parte dal giudizio (facciamo finta che sia così) e un giudizio si riferisce ad uno stato di cose, un
giudizio può essere vero o falso. Aristotele ci dice anche che la verità non è un carattere proprio
dell’essere perché è ente dianoia, appartiene al giudizio non alle cose di cui parla il giudizio. Il
giudizio è ti kata tinos, qualcosa che mi dice qualcos’altro, inoltre è vero se scompone ciò che è
scomposto e falso se scompone ciò che è composto. Un giudizio è una sintesi, che da un punto di
vista logico per Aristotele è una sintesi tra concetti e da un punto di vista grammatica è una sintesi
tra soggetto e predicato.
ES:“La sedia è rossa”
La copula mette insieme soggetto e predicato (è rossa) perché un giudizio per essere tale deve
realizzare una predicazione. Questo modello non resta intatto, subisce molte battute d’arresto. Lo
ritroviamo anche in Kant, per lui un giudizio è un’operazione di sintesi tra un concetto e la materia
di un concetto. La facoltà dei concetti, che fa i giudizi, è l’intelletto.
Il giudizio è mettere insieme un soggetto e un predicato ma è anche mettere a lavoro un concetto su
una materia (concetto rosso su una materia: la sedia).
Kant distingue quattro insiemi di giudizi e di categorie (strutture che non esistono neanche loro in
natura, le posso solo estrapolare solo dai giudizi). Spiegare le categorie, senza giudizi sarebbe come
spiegare un elenco telefonico, più acutamente Kant dice è una faccenda da grammatici o da logici
formali. Le categorie sono per Kant un’astrazione da un lavoro che fa il giudizio con la facoltà
dell’intelletto.
Kant distingue questi quattro insiemi: quantità, qualità, relazione e modalità per giudizi e le
categorie, e troviamo tutti i modi di connessione del giudizio (particolare, universale, generale,
affermazione, negazione, infinità -che riguardano la copula-).
Questa cosa la fa l’intelletto che ogni volta che realizza un giudizio fa una sintesi. La sintesi ha
delle regole: l’intelletto deve avere materia da formare con un concetto, altrimenti senza materiale il
meccanismo girerebbe a vuoto.
Che sia giudizio o asserzione vale sempre per Aristotele, Kant e Husserl che esso ha
grammaticalmente (non logicamente) soggetto e predicato. Questo ci dice due cose: che è una
definizione grammaticale e una descrizione che descrive il giudizio nella sua struttura superficiale.
Kant distingue tre tipologie di giudizi: il giudizio sintetico a priori, il giudizio analitico a priori e il
giudizio sintetico a posteriori.
-Il giudizio analitico può fare due cose: o ripete nel predicato ciò che è incluso nel concetto del
soggetto o esplicita nel predicato ciò che è già incluso nel concetto del soggetto.
-I giudizi sintetici, sono quelli che invece, più propriamente mettono insieme cose o avendo una
validità limitata ad un’esperienza di fatto o possibile (sintetici a posteriori) o no (a priori). Secondo
Kant 7+5=12 è a priori perché non dipende dall’esperienza che ne faccio e perché il concetto di 12
non è incluso né in quello di 7, né in quello di 5, né in quello dell’addizione.
I giudizi di conoscenza sono sempre sintesi e vale quasi l’inversa, vale a dire “ogni sintesi è
giudizio”. Lo schematismo che fa l’immaginazione è un tipo di sintesi, ma non giudicativa, ma per
lo più le sintesi sono appannaggio dei giudizi.
In questa linea possiamo fare una specie di “filotto”: GIUDIZI- SINTESI- SOGGETTO E
PREDICATO.
È importante perché il punto da cui parte Husserl è lo schema più semplice del giudizio e la forma
di giudizio che sembra essere quella meno dipendente da altri giudizi. Se io prendo un’affermazione
come “Cesare passò il Rubicone nel 49 a.C” formulo un giudizio.
Abbiamo alcune tipologie di giudizio. Per capire un giudizio del tipo “Cesare passò il Rubicone
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nel 49” cosa devo avere in mano? La conoscenza di chi è Cesare, cos’è il Rubicone e le
conseguenze di questa azione come la guerra civile.
Per capire “questa sedia è rossa” devo disporre di una base percettiva. Se non ce l’ho e so parlare
in italiano, posso sopperire? Quel giudizio non ha bisogno di grandi premesse di basi. Per questa
ragione, Husserl inizia dai giudizi a base percettiva non perché sono più vicini al mondo, ma
perché sono quelli hanno bisogno di minori conoscenze di base. Questa è la mossa iniziale decisiva
di tutto il libro. Il lavoro che verrà fatto soprattutto nella prima parte è un lavoro su giudizi con base
percettiva, su asserzioni percettive. Su enunciati che si riferiscono a stati di cose, che parlando di
giudizi percettivi sono stati di cose presumibilmente reali ––> “reale” non è uguale a “vero”.
Esistono cose irreali (peppa pig) e cose reali non esistenti.
Se valesse quello che abbiamo detto prima, il giudizio sarebbe una sintesi e sarebbe il sintetizzatore
degli stati di cose. Ma solo il giudizio fa sintesi? Husserl qui cambia le carte e di conseguenza
influenza tutto il resto. Se il giudizio fosse il titolare della sintesi si troverebbe ad agire e mettere
insieme elementi che non stavano insieme prima dell’azione del giudizio. Se solo il giudizio fosse
titolare della sintesi, il giudizio sarebbe quello che mette ordine nel mondo perché unisce e separa.
Il giudizio sarebbe un toccasana per il mondo.
Il giudizio con la sua struttura soggetto e predicato metterebbe insieme ciò che insieme di per sé
non ci potrebbe stare. Husserl pensa che il giudizio sia il prodotto di qualcosa che non è a sua
volta un giudizio, pensa che sia un’operazione che è iniziata prima e che è sempre all’opera
anche quando non si formulano giudizi.
Il monopolio della sintesi non ce l’ha il giudizio. Per Husserl c’è un’attività costante che sorregge
anche il giudizio e in quella struttura grammaticale scontata data per secoli c’è il prodotto di questa
operazione che è sempre in atto. Conviene riguardare al giudizio.
Da dove parte quindi “Esperienza e Giudizio”? Dai giudizi percettivi perché il giudizio nella sua
forma più semplice era considerato l’elemento base della logica. La logica tradizionale aristotelica
parlava di predicazioni, qual è la forma più semplice di una predicazione? SOGGETTO E
PREDICATO.
Dobbiamo scoprire sotto l’antico nome di “apophansis” qualcosa di più ampio che è asserzione,
NON è affermazione ma constatazione. L’affermazione è la risposta positiva ad una domanda, la
domanda già è un genere di enunciato complicato, per fare una domanda devo avere una qualche
idea di ciò che sto domandando.
La sedia è rossa è un’asserzione, cioè è un tipo di espressione in cui io mi riferisco ad uno stato di
cose e mi impegno a dire qualcosa che credo come se fosse reale. Un’asserzione deve avere come
base una percezione, esperienza, deve dire qualcosa e deve per essere capita avere una forma
sintattica corretta, ripetibile, parafrasabile. Un’asserzione non può non avere come base una
credenza (riassume tutto esperienza ecc ecc). Deve avere una forma linguistica: enunciato e poi il
significato (stiamo dicendo la stessa cosa).
Alla logica interessa la proposizione: contenuto del giudizio. Se io parto dal termine “giudizio” e
penso al giudizio come termine del contenuto del giudizio e dico che il giudizio è formato da
soggetto e predicato prima analizzo la proposizione e poi le attribuisco caratteristiche dell’enunciato
(faccio un casino). Si inizia a capire tra fine ‘800 e inizio ‘900 che c’è una sovrapposizione,
confusione: io posso anche pensare che non esiste una struttura profonda, logica nell’enunciato
quindi ammetto che ci siano solo parole di lingue naturali, ma così facendo poi non posso parlare né
del contenuto, né del significato, né dell’enunciato (sennò sto parlando della proposizione).

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Se io ammetto che al termine di una discussione si può dire “stiamo dicendo la stessa cosa”
ammetto che oltre alla forma linguistica c’è altro. Tutto questo per dire che la logica tradizionale
partiva dal giudizio e analizzava il contenuto del giudizio (la proposizione) ma attribuiva ad essa
una struttura che era dell’enunciato. LA LOGICA CONTEMPORANEA È LOGICA
PROPOSIZIONALE.
Se io non accolgo questa possibilità (eliminare la struttura profonda dell’enunciato) come la logica
tradizionale, lo analizzano con strutture che non appartengono al contenuto del giudizio ma
all’enunciato.

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7 LEZIONE

La logica tradizionale è una teoria della verità ma che persegue i suoi obbiettivi in un certo modo ossia
guardando a come si formano i giudizi (quindi la forma dei giudizi). Questa logica della verità è al contempo
una teoria della verità e teoria della forma dei giudizi.

Obbiettivo di Husserl è di riflettere su questa logica tradizionale. La mossa iniziale è quella di dare per buono
partire dal giudizio e di guardare come è fatto un giudizio (guardiamo ai tre modi in cui si può vedere un
giudizio). La logica tradizionale se ne occupa guardando alla forma e partendo dall’assunto che solo il
giudizio si può dire che è vero. In questo modo però non ho ben chiaro quelli che sono i tre livelli su cui si
trova sempre un giudizio. Per Husserl certamente il giudizio è la forma in cui dico qualcosa ma è anche
un’espressione che si basa su un’esperienza (o credenza) e ha un aspetto linguistico, ha una pretesa logica e
ha una base dossica (sulla credenza).

Pertanto, posso classificare i giudizi non solo per il loro aspetto linguistico e la loro pretesa logica ma anche
sulla loro differente base. Ad esempio, un dubbio ha un chiaro aspetto linguistico, ha una chiara pretesa
logica e una chiara base di credenza. Nel dubbio si esprime una credenza, uno stato di dubbio (sono incerto).
Invece di pensare al giudizio come un prodotto di chi studia soltanto l’enunciato linguistico (la forma),
proviamo a guardare il giudizio come una specie di torta a piani (credenza, linguaggio e pretesa logica).
Non si tratta di capire cosa viene prima ma cercare di capire che ogni volta in un giudizio c’è sempre una
tripartizione.

Un enunciato percettivo linguisticamente ha dei dimostrativi, pretende di dire una verità che riguarda uno
scenario percettivo e ha alla base una certezza particolare ossia confermata prima dall’esercizio effettivo
dell’intelletto. Ciò da cui si parte guardando alla credenza è la certezza semplice. Questa è una caratteristica
fondamentale della fenomenologia della conoscenza. Il primo passo della conoscenza è la certezza semplice.
Ad esempio, il primo passo non è il dubbio ma qualcosa su cui si focalizziamo che ci fa venire un dubbio
quindi stiamo parlando della certezza semplice.

La forma elementare del giudizio ci è stata tramandata con un determinato aspetto ossia
SOGGETTO+PREDICATO. In più si parte da un determinato giudizio ovvero giudizio a base percettiva
perché sono quelli più accessibili e sono quelli che sembrano meno dipendenti da altri giudizi. Così facendo
faccio una scelta che non solo riguarda i giudizi ma una scelta che riguarda un certo livello di credenza.
Scegliere un giudizio percettivo significa anche scegliere un tipo di credenza ovvero la credenza semplice
che è un tipo di credenza forte ma che è smontabile nel momento dopo ma rimane comunque forte perché è
la quale ci affidiamo quotidianamente.

Il primo stadio analiticamente (non parliamo di precedenza temporale!!) è ciò che io metto per prima cosa in
agenda perché mi sembra la cosa giusta da cui partire. Husserl qui sta parlando dell’esperienza ricettiva che
Husserl chiama anche ante-predicativa ossia precedente alla predicazione (alla forma esplicita del giudizio).
Che significa ricettività? I tre temi principali sono ricettività, predicazione e universalità. Sono tre livelli
separati in maniera analitica!!!

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Il livello della ricettività è un livello in cui la forma del giudizio non è completamente esplicitata. Non è che
non ci siano giudizi. Husserl guarda il processo che sta dentro ogni giudizio. L’idea è quella di mostrare dai
più semplici a più complicati in cui le attività che si compiono sono sempre le stesse.

Si parte dall’esperienza ricettiva cioè da un’esperienza in cui la cosa più rivelante è che si riceva qualcosa.
In quest’esperienza ciò che noi cerchiamo di analizzare è come si riceva qualcosa e come si forma un
oggetto. L’analisi riguarda il processo esperienziale. In questo processo a mano a mano si vanno delineando
tanto gli oggetti quanto l’unità dell’esperienza in altri termini si vanno delineando quanto l’oggetto quanto il
soggetto.

Questo primo livello caratterizza l’esperienza con un tratto particolare che è quello della passività. Che
significa? È sinonimo di ricettivo ossia ciò che è rilevante è che si riceve qualcosa e si formi un oggetto. La
passività in Husserl non ha significa di patos (patire) ma ha almeno due significati:
4. passività delle leggi corporali ovvero la storia della ritenzione. Per attivare il processo non devo fare
nullo ma accade e basta;
5. quello del livello minimo di attività, di operatività. L’esperienza è operazione, attività in questo
senso.

Questi due piani non sono disparati ma si riuniscono con significato comune ovvero quello di implicito.
Passivo è qualcosa di implicito. È utile pensarla così perché restituisce un senso di relatività del passivo.
Ogni operazione di coscienza ha qualcosa di implicito. Ogni giudizio ha qualcosa di implicito. È qualcosa
di non messo a tema e cosa c’è di meno messo a tema? Cosa c’è di meno messo a tema o meno implicito di
qualcosa che quando torno a casa do per scontato che quel qualcosa ci sia. Questo patrimonio di certezze
indiscusse (per essere certe non hanno bisogno di essere convalidate) è lo sfondo implicito della nostra
esperienza ossia ciò che diamo per scontato.

Ciò che diamo per scontato che è fatto di molte cose diverse è ciò che consideriamo esista senza il nostro
intelletto quindi indipendentemente da noi. Do per scontato che sia la mia casa indipendente dal mio stato
d’animo. Do per scontato qualcosa indipendentemente da me. La cosa che do per scontato vale per me come
qualcosa di indipendente.

Qui Husserl intende che ciò che io do per scontato è ciò che esista indipendente da me. L’insieme delle cose
che do per scontato è l’insieme delle cose che io creda che esistano indipendentemente da me. Insieme di
questa roba è fatto di cose molte diverse (esperienze pregresse) che si radicano ad esempio nell’abitudine.
Attraverso l’abitudine si radicano tutte queste credenze che ho realizzato in procedenza non tanto come
esperienze principali ma come esperienze di sfondo.

C’è il secondo modo ovvero quello del restare impresso. Il restare impresso è il modo in cui si incorporano
le esperienze pregresse quando sono centrali quindi qualcosa che resta impressa. Nel dato per scontato si
incorpora tutto questo.

Questa certezza semplice, che ha come referente oggetto che io considero indipendente da me, gode di un
tipo di certezza forte capace di accompagnare le nostre vite quotidiane ma non è un tipo di certezza certa
o provata!!! Non ha bisogno di essere provata. Questa certezza può saltare infatti ci possono essere smentite

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molto rilevanti. Quando questo accade si determina uno shock dossico della credenza e si innesta un
processo inevitabile di riparazione. Ad esempio, i tuoi genitori sono adottivi in realtà. Credeva che ma
scopre poi che… Cambia il mondo letteralmente. C’è un processo di shock.

Questi rivolgimenti percettivi sono già operazioni attive per l’individuo stesso quindi per definizione.
Queste operazioni presuppongono ci sia qualcosa di già dato a cui possiamo rivolgerci (che vale
indipendentemente da me). Questa fenomenologia parte dalla conoscenza come un fatto e non come un
problema. È il riconoscimento del fatto che il tipo di credenza più semplice che abbiamo è quello della
certezza data per scontata.

La situazione di partenza in Husserl è questa ossia io giro il mio sguardo e nel girarlo devo dare per scontato
che esiste quella parte. Posso sbagliarmi ma tuttavia do sempre per scontato che sia qualcosa. Io non ci sto
pensando ma lo do per scontato indipendente da me ovvero io lo penso come indipendente da me! Non è
indipendente da me (questo dopo) ma primariamente io lo penso come indipendente da me. Se questo
livello di fatto non esiste allora non potremo girare da nessuna parte.

È un mondo intero che io do per scontato anche per fare un singolo giudizio percettivo. Se io dico questa
aula è calda anche se solo dovessi analizzare questo singolo giudizio percettivo dovrei presupporre una
conoscenza di sfondo della certezza semplice che è enorme. Questa certezza semplice è l’insieme di tutti gli
oggetti che do per scontato, per questo la conoscenza è un dato di fatto perché se apro gli occhi tutto è già
iniziato e se tutto non fosse già iniziato io non potrei neanche guardare.

Quando questa persona si gira avendo tutto questo come sottofondo cosa accade? Sulla base di questa
certezza semplice si formano gli oggetti della mia percezione. Quando mi giro in un angolo di questa stanza
mi giro verso qualcosa di noto. Questo scenario Husserl lo chiama campo dell’esperienza in cui si formano
tutti questi oggetti. Se mi giro e invece di trovare uno studente trovo un cane, comunque, lo riconosco come
cane.

Se mi giro di qua non succede niente, nel campo emerge un oggetto e poi dico che il vostro amico è vestito di
nero e solo quando il vostro amico è… ho fatto del vostro amico un oggetto del mio giudizio, del mio
enunciato. L’oggetto è quello che emerge dal campo e che funge da tema centrale che può essere distinto da
altro e può essere identificato solo nel corso dell’esperienza. In questa fase si parte dall’unita dell’oggetto e
non dell’identità dell’oggetto.

Guardo la vostra amica e ne parlo dico che la vostra amica è a terra quindi la vostra amica è un oggetto
unitario. Il primo carattere che ne riconosco è l’unità. In quel momento non sto dicendo che è diversa dal
vostro amico perché se così facessi dovrei prendere il vostro amico come oggetto primario e la vostra amica
come oggetto secondario.

Ciascuno oggetto che emerge dal campo è unitario ed è il terminale della mia esperienza. Solo in un
secondo momento può essere qualcosa di diverso dall’altro e identico a se stesso. Per dire che è una cosa è
unitaria non ho bisogno di saperla distinguere né di saperla identificare. Il carattere elementare dell’oggetto
che prendo a tema in questo insieme di cose date per scontato è che emerge quando ne parlo (lo metto a
tema) e diventa unitario quando ne sto parlando. L’unità non ha bisogno di termini di confronto.

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Abbiamo un campo in cui iniziano ad emergere degli oggetti, quando si inizieranno a formare questi oggetti
saranno innanzitutto unitari su cui parlo e mi pronuncio.

Sto davanti uno sfondo uniformemente colorato, mi accorgo ci sono macchie di colore diverso. Cosa faccio
quando mi accordo di questo? Il caso della macchia è un caso elementare di contrasto percettivo. Ci
rendiamo conto di qualcosa e quindi possiamo formare oggetti a partire da contrasti percettivi. Affinché
ci sia un contrasto sono necessarie almeno due operazioni che si compiono insieme. Le due operazioni sono:
4. sintesi o l’associazione per somiglianza o omogeneità;
5. Sintesi o associazioni per contrasto o eterogeneità.

Vedo lo sfondo di un solo colore e lo vedo come uno sfondo di un solo colore perché realizzo e compio
passivamente una sintesi o associazione di omogeneità. Questo sfondo è simile in ogni sua parte perché è
tutto bianco.

La macchia emerge per contrasto per dissomiglianza. Entrambe le cose Husserl le chiama sintesi,
operazioni che sono un pezzo della nostra esperienza e non solo operazioni perché le sintesi per omogeneità
e contrasto non sono riconducibili a processo psico-fisiologico ma sono in qualche modo il riconoscimento
della somiglianza e del contrasto.

Queste sintesi sono quindi connaturate all’esperienza, infatti, questa nel suo primo livello ha una struttura
sintetica o associativa. La sintesi non avviene non solo quando esplicito enunciativamente ma avviene sin da
prima. Avviene anche se non me ne accorgo.

Queste sintesi non agiscono solo a questo livello molto basso ma agiscono continuamente e perché si formi
un oggetto è sempre necessario che entri in gioco il contrasto (non inteso come differenza ma come
qualcosa che spicca) e una somiglianza. Sin da questi livelli bassi ci sono questi processi sintetici ovvero vi
è una struttura associativa (vi è una genesi degli oggetti). Gli oggetti si formano a partire dalla struttura
associativa dell’esperienza.

Quindi dal campo emergono dei proto-oggetti ossia unità percettive che però a differenza degli oggetti veri e
priori mancano di alcune caratteristiche (features) propri degli oggetti reali che sono soggetti al
cambiamento e re-identificabili. Siamo in un livello più basso dove queste sue caratteristiche (cambiamento e
re- identificazione) non ci sono ma abbiamo solo unità. Per avere oggetti vaghi non posso partire dalle
caratteristiche degli oggetti ma dai proto-oggetti! Husserl parte non dalle caratteristiche ma dai proto-
oggetti.

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Campo d’esperienza: dato per scontato, pensato come già dato
Da questo campo emergono i proto oggetti: unitari, non hanno il carattere della differenza né sono
identici a sé stessi; essi, a questo stadio, sono costruiti per associazione/sintesi di somiglianza
(omogeneità) o differenza (eterogeneità), (differenza con il campo, non con gli altri oggetti).
Omogeneità ed eterogeneità non possono essere disaccoppiate; solo perché c’è un campo già dato si
possono formare degli oggetti. L’elemento soggettivo della formazione degli oggetti è contemperato
dall’elemento oggettivo della nostra certezza profonda dell’esistenza indipendente del mondo.
Entrambe le cose posso raccontarle a partire da un’analisi della soggettività, però una è in potere
della soggettività (potere passivo, non volontario/tematizzato); lo statuto del campo dell’esperienza
è preso dalla soggettività come se non fosse in suo potere, come qualcosa id indipendente: è come
l’esperienza si muove.
Questi cardini, questa certezza semplice la posso raccontare a partire dall’esperienza ma a racconto
come una cosa rispetto a cui l’esperienza l’ha già appresa. Apro gli occhi la mattina e vedo, vedo
quel che non va perché già ho la certezza semplice della mia stanza. La certezza/l’esistenza data per
scontata del mondo + la formazione degli oggetti non possono essere staccate: se non do per
scontato il mondo non posso formare gli oggetti.
Il modo in cui vengono formati gli oggetti è “per sintesi”.
(Hume) Come si compongono le idee? Per ASSOCIAZIONE.

Psicologia tardo-ottocentesca
Scuola psicologica dell’“Associazionismo”: esso pensa che si associno contenuti mentali, ovvero
immagini.
(in Husserl del nostro libro, non primo Husserl) ASSOCIAZIONE = operazione che si svolge a più
livelli e che rappresenta il filo conduttore anche delle nozioni di SEGNO e di MOTIVAZIONE.
Livelli su cui agisce l’associazione:
1. Esempio della macchia nera su sfondo bianco (livello più basso)
2. Richiamo, quando una cosa me ne fa venire in mente un’altra (livello più alto); in questo
caso l’associazione agisce come agiva il SEGNO.
Obiettivo: dimostrare che sin dai livelli più bassi dell’esperienza agiscono dei meccanismi che
producono effetti diversi a seconda del livello della nostra descrizione.
Il campo, man mano che si arricchisce di oggetti, la descrizione cambia; gli oggetti “richiamano
l’attenzione”, in che modo?
L’attenzione di cui qui si parla è il corrispettivo dell’IMPOSIZIONE dell’oggetto; l’oggetto si
impone e l’attenzione gli risponde.
Nozione di attenzione:
- ATTIVITA’ (to pay attention) Attenzione primaria, che io dedico a qualcosa; essa è la prima
vera attività.
- PASSIVITA’ (attention required) Attenzione mia che viene richiamata a qualcosa.
Questa nozione non sarebbe giustificabile se non fossimo partiti dai due presupposti CAMPO +
FORMAZIONE DEGLI OGGETTI: io posso formare gli oggetti, si, ma è il campo che può
richiamare la mia attenzione.
Prima attenzione: riferita al campo.
Seconda attenzione: riferita agli oggetti.
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È dal campo che viene richiamata la mia attenzione, per contrasto.
L’attenzione vera e propria, come attività/azione, sarebbe quella di dedicare attenzione a qualcosa
che mi ha richiamato e che non costituiva prima oggetto della mia attenzione.
All’attenzione si lega un altro fatto che è l’INTERESSE.
Interesse ≠ attenzione
L’interesse SI RIVOLGE all’attenzione; quest’ultima ha due forme ma funziona come un bottone:
sì o no. Io attengo a qualcosa, non ad altro, e poi quest’altro richiama la mia attenzione.
L’attenzione non è propriamente graduale, o meglio l’apparenza della sua gradualità non le
appartiene. L’attenzione è tutto o niente.
Gradualità di cui noi facciamo esperienza = EFFETTO DELL’INTERESSE
L’interesse, proprio perché è graduale, si avverte per differenza; io avverto l’interesse quando esso
aumenta o diminuisce.
Interesse per Husserl = emozione epistemica; insieme ad esso lo sono: mancanza di interesse,
curiosità, mancanza di curiosità. Tutte provate per differenza.
• Una cosa che richiede eccessiva attenzione tende troppo all’interesse e ha come effetto lo
scadimento nell’interesse;
• una cosa che richiede troppa poca attenzione allenta troppo l’interesse e mi fa perdere
l’interesse.
(l’attenzione è sì o no, è come l’intenzione)
Quindi abbiamo, a questo livello:
- Un campo dato per scontato
- Oggetti che si formano
- Attenzione che presto
- Sollecitabilità dell’attenzione, mi viene richiamata a/da tali oggetti
Questi fenomeni strutturali dell’esperienza possono essere descritti bene solo se io nell’attenzione
faccio passare l’interesse: esso funge da motivazione per il passaggio dall’attenzione primaria a
quella secondaria.
Quello che siamo arrivati nelle condizioni di poter descrivere, è un fenomeno complessivo
dell’esperienza: l’OSSERVAZIONE.
Qui abbiamo provato ad estrapolare alcuni caratteri che noi troviamo in natura in un fenomeno
complessivo detto “osservazione”. Siamo ad un livello semplicemente osservativo; abbiamo distinto
tutti gli elementi analitici al fine di poter parlare dell’osservazione.
L’osservazione è quella osservazione empirica in cui ci sono: campo, oggetti che emergono/mi si
impongono, in cui vivo un certo stato di interesse.
L’osservazione può prendere tre strade:
1) ESPLICITAZIONE dell’oggetto: ho bisogno che l’oggetto sia l’oggetto principale della mia
osservazione/della mia esperienza
2) CORRELAZIONE dell’oggetto: ho bisogno di almeno due oggetti, uno principale + uno
secondario
3) L’osservazione incontra un OSTACOLO: ho fatto esperienza di un oggetto in un certo modo
ma si rivela diverso da come l’ho inteso.
Esempi:
o Interlocutore = oggetto primario della mia esperienza: inizio ad esplicitarne le caratteristiche
(ha la maglia viola); faccio due cose: isolo l’interlocutore (così facendo dico che anche se

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avesse una maglia diversa sarebbe comunque lui) + isolo delle caratteristiche/determinazioni
(una maglietta deve essere indossata da qualcuno).
TEMA E DETERMINAZIONE
Ciascuna osservazione, al suo stadio più elementare o a quello più complesso, non può non
avere questi due elementi. Lo schema soggetto + predicato = oggetto + determinazione dice:
conveniamo tutti che quando parliamo di qualcosa, quel qualcosa non è solo un tutto intero
ma è un tema con delle determinazioni.
o Invece di pensare all’interlocutore, penso ai suoi occhi: sono sullo stesso piano, sono uno a
destra e uno a sinistra. Quindi ho bisogno di due oggetti, uno principale e uno secondario:
non li esplicito più, ma li CORRELO.
Queste due operazioni possibili si muovono all’interno di campi definiti, orizzonte interno
dell’oggetto.
Che cos’è un orizzonte? È un insieme di possibilità chiuso, ma che può essere più o meno pieno, più
o meno ricco.
Una cosa che mi è molto nota ha un orizzonte interno pienissimo, già so com’è fatta. So cosa
aspettarmi ad es. da un pezzo di gesso, che è chiuso e pieno.
Quando qualcuno mi chiede com’è fatto un pezzo di gesso io glielo spiego: così facendo gli sto
spiegando cosa c’è nel suo orizzonte interno.
“Tutti gli oggetti possibili sono per noi familiari, un oggetto del tutto sconosciuto è
familiarmente ignoto.”
Io lo riconosco come oggetto, posso riconoscerlo come un tipo di oggetto ma il suo orizzonte
interno è vuoto.
L’oggetto ignoto è di una estraneità familiare; un oggetto completamente ignoto non lo
vediamo/immaginiamo, non sarebbe per noi un oggetto. Un oggetto a noi ignoto ha comunque
almeno 1 caratteristica che conosciamo.
La notorietà, la tipicità e quindi la nostra capacità di standardizzare è essenziale all’uso delle
immagini; es “rosso, mattone”, “verde prato” sono nomi che diamo per “tipizzazione”. Anche la
discriminazione si basa su meccanismi tipizzanti.
In questo caso io prendo 1 elemento che mi sembra il più rilevante e lo uso per rilevare qualcosa di
più ignoto.
o L’errore ha un effetto retro-attivo. Nessun errore, nessun ostacolo agisce solo in avanti;
l’errore corregge tutto ciò che c’è stato in precedenza. Questa azione che va a ritroso e che ci
sembra automatica va spiegata.
Io devo avere un’esperienza capace di fare cose complicatissime; la penna che ho trovato e
credevo fosse rossa, in realtà è blu; cambio e ora che mi rimetto a scrivere so che è blu. Ma
questo non è facile se non ho un’esperienza che
Devo utilizzare il cambiamento di quello che mi aspettavo per il futuro.
Questo orizzonte interno è chiuso, può essere anche indefinito; di ciascun oggetto che io
osservi non potrò mai dire tutto ciò che gli compete. L’oggetto è inesauribile e lo è
semplicemente perché io non posso vederlo contemporaneamente da tutti i lati, non lo potrò
mai esaurire esplicativamente.
Il suo orizzonte è chiuso, perché posso dire che se è una cosa non ne è un’altra.
L’orizzonte interno è quindi un insieme chiuso di possibilità dal numero indefinito.

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Ma ciascun oggetto non ha solo un ORIZZONTE INTERNO, ha anche un ORIZZONTE
ESTERNO; nell’interno ci sono caratteristiche, proprietà ecc. Invece nell’orizzonte esterno ci sono
le correlazioni possibili che quell’oggetto può avere con un altro; anche quello è un insieme chiuso.
Ovviamente l’orizzonte esterno è più difficile da considerare, in esso non ci sono proprietà ma
relazioni. Posso mettere in relazione tutto, la relazione copre due principali spettri semantici:
relazione in senso proprio + comparazione (è molto più estesa della relazione).
Il funzionamento della relazione è tale per cui ad essa servono almeno 2 oggetti che quando
vengono messi in relazione vengono intesi come oggetto primario e oggetto secondario;
innanzitutto c’è il concetto di numero.
- All’esplicitazione dobbiamo la nozione di unità
- alla correlazione dobbiamo il concetto di numero e questa infatti non è un’acquisizione
irrilevante.
La strada dell’esplicitazione si biforca: mi sposto dl soggetto principale a quello secondario e posso
poi renderlo a sua volta oggetto primario in un altro contesto. (esempio del ragazzo con la maglietta
viola)
Può accadere anche (sia su una strada sia sull’altra) che ciò che credevo fosse in un modo in realtà
non è così; ad esempio che la maglietta non è viola.
In questo caso incontro un ostacolo e deve farci i conti; il fatto che l’ostacolo è un elemento che
potrebbe essere comune ad entrambe le strade convince H. ad esaminarlo per primo. Questo non
perché l’ostacolo sia qualcosa di prioritario, né perché sia pi facile da spiegare.
Premessa: è un esempio che ha fatto per 30 anni, nessuna parola è usata a caso.
Esempio di Husserl
Passo davanti a una vetrina e
1. VEDO UN MANICHINO,
(dico “C’è un manichino” è una credenza = certezza semplice, caratteristica dell’osservazione)
2. MI ACCORGO DOPO CHE NON LO È’.
Usa nel primo caso “vedo” e nel secondo “è”
Cosa non cambia? Sto sempre davanti alla stessa vetrina, il mio scenario percettivo è lo stesso.
Si potrebbe dire che l’unica cosa che cambia è la mia convinzione che sia un manichino o un uomo.
1 e 2 sono nello stesso scenario percettivo con due percezioni diverse.
Tra le due, c’è la negazione: l’ostacolo percettivo viene da me esplicitato come una negazione. La
mia certezza semplice si è modificata, non sono più certo: la negazione è la prima modificazione
dell’esperienza.
“Delusione”
Ostacolo →negazione→ delusione
Questo rappresenta un’incoerenza;
si spiega verso una sorta di spinta verso l’autoconservazione dell’esperienza
La negazione motiva qualcosa: dobbiamo risolvere il conflitto.
Elementi di grande rilievo:
- Primo operatore logico = negazione
- Spinta all’autoconservazione dell’esperienza
Prima uscita: dubbio (prima reazione all’ostacolo)
Vedo un manichino, mi accorgo che non lo è: chissà cos’è. Il dubbio mi ripresenta la credenza che
avevo prima e la sua relazione; ora davanti al dubbio ho credenza negata e credenza contraria.
Manichino = credenza negata
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Uomo = credenza contraria
Possibilità che si delineano: compatibili con la negazione della credenza di partenza.
“Sembrava un manichino ma si muove” = credenza negata (e non “sembrava un manichino ma ha
le ruote”; è irrilevante che sia una motoslitta o un cane ecc.)
Ciascuna di queste possibilità davanti a un dubbio ha un peso; ha delle ragioni a favore e delle
ragioni contrarie. Non è uno stato di equilibrio.
Nel dubbio, entra in gioco la POSSIBILITÀ’; ma non di una possibilità libera e pura, bensì
problematica e vincolante per le quali ci sono delle ragioni a favore e delle altre contrarie. Entrambe
sono delle possibilità problematiche/alternative rilevanti ed hanno un peso!
La nozione logica di possibilità si presenta all’esperienza come possibilità rilevante o alternativa in
uno stato di dubbio; legate alle possibilità rilevanti vi sono i vincoli, le ragioni per cui sono rilevanti
e l’esclusione di possibilità irrilevanti.
Teoria R.A.T. (Routine Activity Theory)
Vado allo zoo con mio figlio e vedo le zebre; incontro un mio amico sospettoso che mi chiede “sei
sicuro che non erano dei muli dipinti a strisce bianche e nere?”. Non sembra un’alternativa
rilevante, non ho nessuna ragione all’interno dello scenario percettivo in cui ero per credere
ragionevole ipotizzare anche con un minimo di peso l’eventualità epr cui erano dei muli dipinti.
Queste sono possibilità vincolanti e rilevanti nel contesto; uno può anche sbagliarsi a stabilire cosa
è rilevante ma le alternative rilevanti sono quelle che spiegano in maniera più verosimile il
comportamento degli esseri umani. Consentono di ricostruire in maniera razionale il
comportamento degli esseri umani che di per sé può non essere razionale, ma tanto la ricostruzione
deve essere razionale.

La situazione epistemica di dubbio motiva un comportamento.

Esempio di Sesto Empirico che attribuisce a Carneade:


Un uomo torna a casa e in un angolo semibuio della sua casa trova qualcosa che non sa è una corda
arrotolata o un serpente; innanzitutto la nota perché quell’angolo dovrebbe essere vuoto.
Dopodiché, presumibilmente ha paura dei serpenti quindi dinanzi a una cosa non distinta considera
una alternativa rilevante: che sia un serpente; deve risolvere il dubbio e non può farlo stando fermo
e osservando. Quindi prende un bastone e muove la corda quindi inizia ad escludere delle
possibilità.
Cosa avviene? Negazione (operatore logico, sta nelle parole), delusione, dubbio,
possibilità/alternative.
Le alternative si escludono: o l’una o l’altra.
Sono disgiunte: o è un manichino o è un uomo.
TEORIA DELLE PROBABILITA’: devo fare una gerarchia di alternative più/meno probabili,
soppesare le possibilità in un campo dato. Non posso dare 100 a una possibilità e 100 ad un’altra
siccome sono esclusive.
Alternative
- Rilevanti: pesano
- Disgiunte: diverse
- Esclusive: o l’una o l’altra.
Quando ho risolto il dubbio, inizio a ragionare; queste possibilità che avevo pensato non avevano
più peso.
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Possibile è il non-contraddittorio, non una possibilità che rileva ma una possibilità che non posso
escludere.

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9 LEZIONE

Gli ostacoli che può incontrare sulla sua strada: l’apprensione semplice, l’osservazione, la modalità
di esperienza più elementare che possiamo immaginare. Abbiamo visto quali sono gli effetti di
questi ostacoli, sul piano della credenza e quali sono gli effetti sul piano della formazione degli
oggetti di possibilità validità, ecc. Abbiamo detto che, nonostante questi siano argomenti che
andrebbero affrontati più avanti: dell’esperienza di base (poco o nulla), che c’è un campo di cose
date per scontate, conoscenze di sfondo.
Le cose vanno tenute sempre insieme perché rischiamo di fare della soggettività la creatrice del
mondo o al contrario rischiamo di intendere questa descrizione dell’esperienza in termini
eccessivamente realistici. Abbiamo detto che la formazione di questi proto-oggetti avviene
attraverso delle sintesi di omogeneità e di eterogeneità, ma non abbiamo detto un granché
sull’osservazione e quindi il fatto che abbiamo affrontato già la trama del libro e i temi e gli ostacoli
della modalizzazione della credenza sembra un po’ intempestivo (avremmo dovuto affrontarlo
dopo) e tuttavia li abbiamo affrontati prima perché quest’eventualità di un ostacolo la possiamo
avere sia se prendiamo una strada sia se ne prendiamo un’altra, sia se dall’osservazione usciamo
verso l’esplicitazione, o verso la correlazioni.
Vi è un’altra ragione un po’ di contenuto, un po’ più complessa che ora vi accennerò, ma nella
consapevolezza che avremmo modo di prendere, non la affronteremo per intero. La ragione per cui
Husserl ci parla, alla fine del primo capitolo, degli impedimenti e delle interruzioni che può avere
l’osservazione è anche che, in questo modo, Husserl si ricava oggetti essenziali per la sua analisi.
Innanzitutto, il concetto di possibilità sarà utilizzato in posizione centrale, decisiva nell’analisi
successiva: è come se Husserl volesse giustificarne l’entrata in gioco esponendone la genesi.
Neanche di un oggetto tradizionalmente inteso e accolto come quello di possibilità, Husserl vuole
farne un’introduzione senza spiegare da dove viene.
Il concetto di possibilità io posso tranquillamente usarlo senza sapere da dove viene la possibilità e
il concetto di possibile.
Posso semplicemente parlarne in termini latamente logici. La possibilità è sia la facoltà di fare
qualcosa che il fatto che non ci siano impedimenti, il fatto che è pensabile. E’ un’idea preteorica,
ingenua della possibilità e basterebbe questo per utilizzare il concetto di possibilità. In questo
Husserl non è d’accordo, ma egli vuole spiegare come entra in gioco nell’esperienza il concetto di
possibilità. L’introduzione di concetti nuovi avviene in Husserl sempre attraverso l’analisi
dell’esperienza; lo stesso vale per il concetto di negazione che ha un importo teorico enorme (come
anche altri fenomeni correlati) e che noi abbiamo trovato introdotto semplicemente dal fenomeno
dell’illusione, vedo una cosa in un certo modo, mi rendo conto che non era come l’avevo intesa, ne
sono deluso da come avrebbe dovuto essere. La ragione per cui Husserl anticipa il trattamento di
nozioni così complesse come le probabilità, la ragione è duplice: 1) di ostacoli le possiamo trovare
sempre e su tutte le strade che imbocchiamo quando usciamo dall’osservazione semplice 2) che in
questo modo Husserl ricava dei concetti che opereranno costantemente e non vuole che questi
concetti siano introdotti in maniera ingiustificata.
Il secondo capitolo a cui ci dedicheremo oggi, invece, ci illustra un altro caso, il caso
dell’esplicitazione. Torniamo indietro, torniamo al grado dell’apprensione semplice,
all’osservazione, alla certezza semplice. Prendiamo l’osservazione come operazione vera e propria
della coscienza e intendiamo la certezza semplice solo al livello della credenza. Apro gli occhi,
vedo una cosa ecc. e tutto insieme questo fenomeno è l’osservazione, l’apprensione semplice che
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sono coincidenti. La credenza che io intrattengo come quando ho un’osservazione o un’apprensione
semplice è quella della certezza semplice. A questa credenza veniva interrotta dagli ostacoli, ora la
considero come un sottofondo senza ostacoli, non trovo ostacoli. Quello che ora devo esporre è il
modo in cui dall’osservazione, si passa all’esplicitazione senza incontrare ostacoli, quindi la
credenza non viene toccata, anzi, la credenza è costantemente una certezza semplice. Eppure
qualcosa cambia, ovvero l’operazione stessa della coscienza. Non cambia il livello dossico della
credenza, ma l’operazione nel suo complesso. Perché? Perché non mi limito ad osservare, ma faccio
attenzione agli oggetti e al modo in cui gli oggetti sono o mi appaiono e ciò che faccio
principalmente è di dire che un oggetto, un evento sia così o così, gli attribuisco delle proprietà o
delle determinazioni.
I limiti dell’osservazione, quindi, sono quelli dossici della certezza semplice, non ci muoviamo
dalla certezza semplice. Un altro limite è di avere un oggetto tematico alla volta. Abbiamo un limite
sulla credenza, abbiamo un limite sul versante dell’oggetto (limite oggettivo), e restando ancora
all’oggetto ne consideriamo soltanto l’orizzonte interno.
Quali sono le condizioni dell’esplicitazione?
Che resti un tipo di certezza semplice, che si abbia un solo oggetto tematico, che di quell’oggetto si
consideri solo l’orizzonte interno. Questi sono i tre vincoli su cui si muove, su cui ruota
l’esplicitazione.
E’ un caso ideale ovviamente come tutti i casi che possiamo analizzare e i limiti di questi casi sono
questi tre che abbiamo elencato ora.
Nella vita normale non abbiamo solo un’esplicitazione o una correlazione o un ostacolo, abbiamo
per lo più, tutto insieme e tuttavia per analizzare un aspetto alla volta consideriamo l’esplicitazione
come avevamo fatto prima con l’ostacolo consideriamo l’esplicitazione come un caso ideale, come
qualcosa da esaminare singolarmente; per farlo abbiamo bisogno di quei tre.
Nonostante la povertà della scena, le cose da spiegare sono molte e se volessimo riassumerle sotto
due titoli, le cose da spiegare riguardo all’esplicitazione sono innanzitutto la formazione temporale
di un presente della coscienza e la formazione di un oggetto che sia presente.
Abbiamo tre vincoli e due grandi temi da affrontare. Inoltre vi è un obbiettivo, il primo vero
obbiettivo di “Genealogia della Logica” riguarda l’analisi di quello schema elementare del giudizio,
che secondo la logica tradizionale era composto da soggetto e predicato. Quest’obbiettivo è
perseguito proprio seguendo i passi dell’esplicitazione. Se è vero che un’esplicitazione ha sempre
un oggetto tematico e delle determinazioni che vengono, sul piano del giudizio, attribuite
all’oggetto tematico, allora forse è possibile ricondurre lo schema soggetto-predicato alla
correlazione tra oggetto e determinazione.
Correlazione tra oggetto e determinazione non è più una correlazione che appartiene al vocabolario
del giudizio, ma appartiene al linguaggio della logica tradizionale, una correlazione che appartiene
all’analisi dell’esperienza e nel caso di specie, di un tipo particolare di esplicitazione.
Di quello schema che noi ereditiamo dalla logica tradizionale, composto da soggetto e predicato,
qui trova una spiegazione a partire dall’analisi di un tipo particolare di esperienza, ovvero
l’esplicitazione. Se è vero che l’esplicitazione procede per fissazione di un oggetto e attribuzione di
una proprietà o determinazione, se è vero che quel tipo di esperienza funziona così, allora forse
possiamo spiegare lo schema soggetto-predicato sull’analisi di questo tipo di esperienza. La posta in
gioco è esattamente questa, è di mostrarci come le idee correlative di oggetti o determinazioni
nascano dall’esplicitazione, ovvero da un’operazione specifica della coscienza. Prima
dell’esplicitazione non esistevano, in altri termini, né oggetti né determinazioni; è l’esplicitazione,
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per com’è fatta che ci consegna le nozioni di oggetto e determinazione, ovvero di punto focale
dell’esperienza e dell’esplicitazione, explicandum, ciò che va esplicitato e le cose che noi
utilizziamo per esplicitare. Sul piano del linguaggio della logica tradizionale abbiamo soggetto e
predicato, scendiamo sul piano dell’esperienza e abbiamo oggetto e determinazione.
Ma oggetto e determinazione già sono un risultato dell’operazione dell’esplicitazione che avviene
focalizzando l’explicandum (una cosa da spiegare) e attribuendo a questo un’altra cosa, che è una
determinazione.
Per spiegare la distinzione tra oggetto e determinazione dobbiamo spiegare due cose: il modo in cui
si mantiene fisso l’oggetto e il modo in cui le determinazioni non sviano la nostra attenzione, anzi,
ci servono per rafforzare il nostro riferimento all’oggetto, come per dire che se io parlo di questa
tenda e dico che è lunga, blu e asimmetrica, queste cose che io dico non solo mi fanno deviare dalla
tenda, ma mi aiutano a rendere più fisso e più rigido il riferimento alla tenda. Perché ogni volta che
dico una cosa della tenda è come se la reidentificassimo, perché le determinazioni mi rafforzano la
tenda e per ogni cosa che dico ne confermo e ne rafforzo l’identità.
Questo bisognerà spiegarlo, spiegando come si tiene fisso l’oggetto e come avvenga sul piano
dell’esperienza e dell’esplicitazione, in questo caso, come avvenga la sintesi tra la determinazione e
l’oggetto.
Fino ad ora sappiamo che esistono le sintesi (omogeneità ed eterogeneità), che sono distinte per
funzionamento interno. Quindi dobbiamo vedere un caso particolare di sintesi tra oggetto e
determinazione e dovremmo caratterizzarla in un altro modo ancora; in altri termini, omogeneità ed
eterogeneità possono ancora funzionare nel rapporto tra oggetto e determinazione, posso dire
“questa tenda è blu e non è rossa”.
Tuttavia io dovrò spiegare come funziona la sintesi tra oggetto e determinazione, a differenza, per
esempio, della sintesi che avviene tra oggetti diversi. Se io dico “il vostro amico Giovanni è seduto
alla sinistra del vostro amico Antonio” io sto sintetizzando, sto mettendo insieme due oggetti, ma lo
faccio e lo farò sempre per omogeneità ed eterogeneità, questo appartiene sempre su un piano
contenutistico elementare, ma li sto mettendo insieme in un modo peculiare che non ha nulla a che
fare con il modo in cui sintetizzo oggetti e determinazioni. Questa è una sintesi per correlazione tra
due oggetti e quella, vedremo, che è una sintesi per coincidenza parziale tra un oggetto e la
determinazione che cade parzialmente nell’oggetto, ma non lo ricopre completamente: “questa
tenda è anche blu”, non è solo blu.
Abbiamo tre vincoli e due problemi, presente e presenza, abbiamo un obbiettivo genealogico della
logica, ovvero spiegare lo schema soggetto predicato sulla relazione tra oggetto e determinazione,
ma abbiamo anche altri due obbiettivi in questo secondo capitoli, di ordine ontologico, che
riguardano il modo in cui sono gli oggetti e le loro determinazioni.
Il primo è un obbiettivo più ampio e riguarda le nozioni di sostrato e determinazione. Non bisogna
mai perdere di vista l’esplicitazione che prende l’oggetto tematico focale e lo esplicita, per ogni
cosa esplicata esce fuori una determinazione. Da questo livello operativo nasce una distinzione:
oggetto e determinazione. Questa distinzione serve: che è nata da un’operazione, diventa il modo
per spiegare lo schema soggetto-predicato (sp).
Per fare questo ci sono i due temoni temporali, presente e presenza e poi ci sono due questioni che
sono ontologiche, una più ampia e una più stretta.
Quella più ampia riguarda i diversi significati di sostrato e determinazione: individuo concreto (tode
ti), il mondo.
Siamo abituati ad immaginare, da Aristotele in poi, due nozioni di sostanza, la prima (individuo) e
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la seconda (ciò che appartiene all’individuo).
In Husserl ci troviamo davanti ad una radicalizzazione di questa posizione aristotelica tale che da un
lato abbiamo l’individuo concreto, irripetibile e di fatto incancellabile (ciò di cui non si ha scienza);
dal lato opposto abbiamo il mondo che è il sostrato di tutti i sostrati, ciò che è il più indipendente
dei sostrati, ciò che non ha bisogno di altro per esistere e questa nozione di mondo come sostrato
assoluto, ovviamente non coincide con un mondo, con uno dei mondi, né con il mondo di fatto, ma
con l’insieme di tutti i mondi di fatto possibili, impossibili, passati, presenti e futuri.
Un’altra nozione ontologica che è obbiettivo di questo secondo capitolo, è una nozione che Husserl
aveva già in tema da più di vent’anni prima, ovvero la teoria dell’intero e delle parti, che era stata
oggetto della “Terza Ricerca Logica” e alla fine ha ricevuto nel 1901 la trattazione iperformale e da
quella trattazione sarebbero nate molte ricerche e sarebbe nata una branca della logica matematica
che verrà chiamata “mereologia formale” (teorie delle parti), in cui si potevano distinguere gli
interi, le parti, le parti indipendenti e le parti non indipendenti. Un intero o qualsiasi cosa intesa per
intero, una parte indipendente, il piede della sedia, che di fatto può essere inteso un intero e la sedia
a cui io ho tolto un intero, meno sicuro e meno affidabile, ma resta un intero. Una parte non
indipendente è una parte che non si può intendere senza un intero in cui fa parte come l’estensione,
l’altezza di un suono ecc. In tutti questi casi noi abbiamo la possibilità di un intero come “la vostra
amica ha una maglia bianca; il bianco della maglia della vostra amica è più scuro del bianco della
camicia del vostro amico seduto avanti.” Posso mettere a tema un colore, ma è una parte non
indipendente dall’intero oggetto colorato. Il colore non può essere tolto dalla maglia.
Nella teoria delle parti e dell’intero, Husserl proponeva, quindi, una teoria ontologico-formale, la
teoria degli oggetti da un punto di vista formale, considerati da un punto di vista formale, come
intero o parte, questi due tipi di oggetti che questa teoria esaminava: gli oggetti in quanto interi e gli
oggetti in quanto parti. Non trattava di un tipo di oggetti specifici, ma della forma che questi oggetti
hanno quando sono intesi come oggetti o come parti, ovvero è un lavoro di ontologia formale.
In Husserl per ontologia intendiamo la teoria degli oggetti che può essere: materiale quando
considero una classe di oggetti compreso il loro contenuto, quindi, posso parlare delle sedie,
descrivendo non le caratteristiche non di un oggetto qualsiasi, ma di uno specifico oggetto che ha un
determinato contenuto, quello delle sedie, per esempio. Oppure posso fare un’ontologia formale e
considero solo gli aspetti formali che devono avere gli oggetti, qualsiasi siano.
L’unica restrizione di quest’analisi è che si consideravano due specie di oggetti formalmente, la
specie degli interi e la specie delle parti, solo questo. Tuttavia, questo disegno della “Terza Ricerca
Logica” metteva in questione anche un tema classico della filosofia moderna ed in particolare
dell’empirismo moderno ed in particolare la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie.
Questa distinzione Locke l’aveva tratta da Galileo Galilei, quand’egli illustra come si fa un
esperimento dice “la palla la devi considerare soltanto per il suo peso e per il fatto che abbia forma
sferica, non per il colore o la consistenza”. Quando Locke riprende questo set sperimentale da parte
di Galilei dice che esistono delle qualità primarie, cioè non estraibili dall’oggetto finché l’oggetto
resta quello che è e delle proprietà secondarie che posso toglierle, ma l’oggetto fisico resta lo stesso
di quello che è, in altri termini posso darne una descrizione fisica o meccanica.
Le qualità primarie sono le qualità indispensabili per la descrizione meccanica del moto di un
oggetto, quelle secondarie no.
Questa storia continua e si tinge di caratteristiche che prima non aveva, inizia a diffondersi l’idea
per cui le qualità primarie sono oggettive (inerenti al corpo fisico) e quelle secondarie sono
soggettive (sono il prodotto dell’integrazione tra l’osservatore e l’oggetto fisico); il quale è un
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cambiamento di significato poiché inizialmente non è proprio così.
Questa descrizione continua fino a trovare un ostacolo in Berkeley, il quale pensa che tutte le
qualità sono uguali e sono tutte pertinenza del soggetto. Questa cosa rimane anche a Husserl.
Non avendo la necessità di descrivere il comportamento fisico, meccanico o dinamico di un corpo,
ma si focalizza solo sulla correlazione che sussiste tra le qualità e all’interno della teoria delle parti
e dell’intero ci spiega come colore (q. secondaria) ed estensione (q. primaria), non siano pensabili
l’una senza l’altra.
Non posso pensare nessuna estesa che non sia colorata e non posso pensare a nessun colore che non
sia esteso nell’esperienza.
Certo che posso dare una definizione di rosso, senza pensare al fatto che sia esteso, dicendo che il
rosso è uno dei colori primari ecc., ma questa è una definizione del concetto di rosso, non riguarda
il fatto che io possa pensare il colore nell’esperienza senza un’estensione.
Estensione e colore sono parti non indipendenti di un intero.
“Giovanni è alto 1.70m, Giovanni ha i capelli neri” una volta ho parlato dell’estensione, una volta
del colore (sono entrambi parti non indipendenti di Giovanni).
Casati e Varzi che sono due logici e filosofi della mente italiani che lavorano rispettivamente a New
York e a Parigi hanno, insieme ad altri, allargato questa teoria dell’intero e delle parti all’intero e le
parti anomali, ovvero che presentano dei buchi, per esempio. E hanno provato a formalizzare il
rapporto tra il buco della ciambella e la parte della ciambella ecc.
Quello che voleva fare Husserl non era solo un lavoro di ontologia formale, ma attaccava anche un
aspetto che riguarda più propriamente l’esperienza. A seguito di questa serie di distinzioni, questo
lavoro viene profondamente modificato.
Nella fine del capitolo Husserl torna su questi temi, ma non ci torna più per farne una
formalizzazione dei rapporti tra intero e parti, ma per farci vedere come, anche la nozione di intero
e di parte sorgano dalla operazione dell’esplicitazione. Io posso capire che cos’è un intero, una parte
non indipendente e come si distingua, quest’ultima, da una connessione, un legame tra due parti,
proprio ripercorrendo i passi dell’esplicitazione.
Abbiamo davanti a noi una cattedra, è facile dire che questa è un intero. E che il bianco è una sua
parte non indipendente. Ma è altrettanto evidente che ci sono degli elementi in questa cattedra che
non sono né pezzi, cioè parti indipendenti, né parti non indipendenti. Questi pezzi sono le giunture,
le connessioni che non sono parti indipendenti come lo è il piede della sedia. Il piede lo metto
subito a terra, guardo la cattedra e guardo anche il piede. Per guardare anche la giuntura, la
connessione tra due pezzi, devo aver messo prima a tema i due pezzi e prima ancora il tema.
Per guardare, cioè, questa giuntura e chiamarla “giuntura”, devo aver messo a tema principale la
cattedra, aver messo a tema il piede e il piano superiore e solo dopo potrò parlare di questa come di
una giuntura, quindi, non come una parte tra le altre, ma come una parte specifica.
Se ci si limita nel vedere quello che si vede a prima vista, si vede un pezzo fra gli altri; per intendere
il fatto che questa è una giuntura/connessione bisogna fare quello che abbiamo detto prima:
prendere l’intero, riconoscere che quell’intero è formato da più parti e poi individuare la
connessione tra quelle parti. Quindi è un tipo, questo, di parte indipendente molto particolare perché
è indipendente nel senso che lo posso togliere, tuttavia, non è così indipendente come il piede.
Questi non sono dettagli irrilevanti perché la consapevolezza di una differenza tra intero parte nelle
sue due accezioni, e connessione, è una consapevolezza molto importante che sarà utilissima dopo
al cosiddetto “pensiero superiore”.
Se io penso ad una serie numerica e all’intero, i quali numeri sono le parti, la successione qual è?
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1,3,5,7,9,11. Quando ti impongono di continuare ci metti un numero che fa una differenza di 2, è la
regola della successione, che non è una parte come lo sono i numeri, non è un intero come tutta la
serie, ma è un terzo elemento.
Sono acquisizioni che trovano la spiegazione sul piano dell’esperienza poi vengono applicate a
livelli più alti di pensiero.

Pag. 96: Husserl fa un elenco di tre modalità di esperienza:
- Osservazione o apprensione semplice, il quale è grado minimo dell’esperienza che va superato
poiché se non lo superassimo ci troveremmo nei panni di uno che ha lo sguardo fisso e non
discrimina tra le cose che vede.
La discriminazione, invece, è una cosa a cui non possiamo desistere. Anche il paesaggio
dell’osservazione è percorso da attenzione e interesse e abbiamo visto anche che l’interesse non è
costante, anzi, è molto variabile.
Se noi ci mantenessimo nell’osservazione (apprensione semplice) faremo una violenza
all’incostanza dell’interesse. Perciò Husserl dice che è come se rimanessimo con lo sguardo fisso;
chi ha lo sguardo fisso è uno che ha appiattito il suo interesse, ma questo è impossibile da farsi.
Quindi è inevitabile uscire dall’osservazione, seguendo proprio le montagne russe dell’interesse.
- Esplicitazione: seguendo l’interesse si arriva all’esplicitazione. L’interesse aumenta rispetto ad
una porzione del campo che abbiamo davanti e quella porzione diventa il nostro tema, il tema da
esplicitare (explicandum).
Abbiamo l’aspirazione ad analizzare ciò che l’oggetto singolo “è”. Il che significa “quali
caratteristiche ha”. Non significa “abbiamo l’aspirazione a riconoscere che esso è”, poiché già ce
l’abbiamo (è un prodotto delle cose che diamo per scontate e dell’osservazione). Che un oggetto ci
sia già ce l’abbiamo. Quello che noi vogliamo analizzare è che cosa esso è, dunque, quali
caratteristiche ha.
Un oggetto rappresenta il mio tema: non devo sapere che c’è, ma voglio capire come esso è o quali
caratteristiche ha. Le caratteristiche che ha sono quelle che riempiono il suo orizzonte interno. Sono
gli elementi dell’orizzonte interno (l’insieme delle caratteristiche di un oggetto).
Quando voglio sapere che cos’è dico che voglio esplorare, in altri termini, l’orizzonte interno.
Nel caso che l’interesse si realizzi senza ostacoli, le mie attese circa ciò che potrebbe essere
quell’oggetto o circa gli elementi che costituiscono l’orizzonte interno si riempiono, si suppliscono.
L’oggetto si mostra nelle sue caratteristiche così com’era stato anticipato, conferma come mi ero
aspettato che fosse.
L’esplicitazione è innanzitutto una prosecuzione dell’interesse che era già stato suscitato
nell’apprensione semplice ed è diretta a dire ciò che l’oggetto è, quali caratteristiche ha. Le
caratteristiche dell’oggetto che sono riunite nell’orizzonte interno, quindi, l’esplicitazione
dell’oggetto significa l’esplorazione dell’orizzonte interno dell’oggetto.
Quando non ci sono ostacoli, quando non ci sono delusioni, conferma tutto ciò che m’aspettavo che
ci fosse.
Questa è una bottiglia, ed è verde. Mi aspetto sia verde anche dall’altro lato. Non è una cosa che
vedo, ma che mi anticipo e mi aspetto che ci sia.
Il verde del lato posteriore della bottiglia è parte dell’orizzonte interno della bottiglia. Se giro la
bottiglia e noto che è ancora verde le mie attese sono confermate, non trovo ostacoli. Qualora,
invece, il retro della bottiglia fosse di un altro colore, parte delle mie attese vengono deluse. Solo
parte, perché comunque un colore la bottiglia ce l’ha anche dietro. In parte, il mio interesse è
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deluso. La mia attesa tanto più delusa quanto più è pieno ai miei occhi l’orizzonte interno. Quanto
più cose so, credo di sapere e mi aspetto da un oggetto, tante più cose possono essere diverse.
Se io, invece, non so bene che cos’è un oggetto, non ho grandi attese, quindi, non ne vengo così
tanto spesso deluso.
INTERESSE → OGGETTO → ORIZZONTE INTERNO → DETERMINAZIONI
(PECULIARITA’)
Perché parla di esplicitazione e perché è importante tenere insieme esplicitazione e orizzonte
interno?
1) Parla di esplicitazione perché il quod (che) degli oggetti è qualcosa che appartiene a quello che io
do per scontato. L’oggetto c’è implicitamente. L’esistenza dell’oggetto è implicita. Quello che
faccio è esplicitare quest’implicito.
La mossa che Husserl fa che più tradizionalmente caratterizzano la tradizione metafisica
occidentale: il quod e qui (il che e il che cosa). Questa distinzione la metafisica occidentale la
intende in termini metafisici, la definisce prima di parlare di ogni altra cosa, in partenza. In Husserl
è una distinzione anzitutto tra due tipi di esperienza. Il che è legato al tipo di esperienza di ciò che
io do per scontato, il che non è tale perché qualcosa esista, ma è tale perché io non ne discuta, lo do
per scontato.
Il che cosa è ciò a cui aspiro, quando compio l’esplicitazione, quindi, che è l’implicito, non è
l’esistenza dell’oggetto in termini propri.
E’ lo statuto implicito delle cose che do per scontato, lì ci sono tutti i che.
Quando esplicito questo fondo implicito, posso esplicitarlo solo chiedendomi “che cos’è?”. Per
domandarmi “che cos’è una cosa” devo dare per scontato che la cosa esista, altrimenti non posso
domandarmi che cos’è.
Tuttavia questa distinzione è sul piano di analisi dell’esperienza, non sul piano precedente
all’analisi, di definizione, non è un presupposto da cui partire, è uno dei risultati che troviamo e
questa è la prima ragione per cui Husserl parla di esplicitazione.
2) La seconda ragione è che, come abbiamo visto, l’esplicitazione è l’intenzione di penetrare
nell’orizzonte interno, fuor di metafora, è l’intenzione di elencare gli elementi che sono presenti in
quest’orizzonte e di far venir fuori le caratteristiche che io m’aspetto abbia quell’oggetto ecc.
Classicamente, la definizione d’un oggetto è una spiegazione di quell’oggetto in base alle sue
condizioni o proprietà necessarie e sufficienti, cioè quelle che l’oggetto sempre ha e quelle che
l’oggetto non può non avere.
Husserl vuole suggerirci che forse anche il nostro uso tradizionale di spiegazione derivi da
un’elaborazione più elementare che è quella dell’esplicitazione dell’orizzonte interno: quando
esplicito l’orizzonte interno elenco delle caratteristiche, spiego cosa c’era dentro, sciolgo quello che
c’era dentro, metto in fila quello che c’era dentro. L’esplicitazione è un’operazione che su livello
molto basso, quello quell’esperienza, anticipa un meccanismo che sarà proprio della spiegazione.
Tanto nell’esplicitazione, quanto nella spiegazione, infatti, si tratterà di attribuire ad un oggetto
delle caratteristiche e delle proprietà. A Husserl serve un termine come segnaposto per far
riconoscere al lettore cosa succede a questo livello bassissimo e il meccanismo che si è scatenato.

Il problema maggiore è come si tiene fermo un oggetto a cui attribuire delle caratteristiche o delle
proprietà.
“La tenda è blu, è asimmetrica, è di velluto”: io non cambio il focus della mia attenzione, parlo
sempre della tenda e però questo mio riferimento fisso alla tenda va spiegato. Noi finora sappiamo
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che esiste una regola che appartiene alla coscienza interna, che è quella secondo la quale
l’impressione ha sempre una ritenzione e sappiamo che questa è una regola che vale su un piano
passivo (come tutte le regole, come tutte le leggi; è una concatenazione che ha luogo anche se noi
non lo vogliamo, anche se facciamo di tutto purché non ci sia).
Questa concatenazione serve ad avere il presente esteso e tuttavia questa concatenazione è troppo
poco per spiegare il riferimento fisso all’oggetto a cui attribuiamo le determinazioni.
Noi dobbiamo spiegare cosa accade quando io della tenda dico una serie di cose diverse, quando
alla tenda attribuisco caratteristiche o proprietà differenti. Lo devo spiegare guardando sia a come
faccio a mantenere fisso il riferimento alla tenda e devo farlo anche spiegando come si comportano
le determinazioni rispetto all’oggetto principale.
A) Per tenere un oggetto fisso non basta la ritenzione, bisogna introdurre un’altra operazione che
Husserl chiama “tenere in pugno”, è già un’attività, a differenza quella ritenzione che è una legge
puramente passiva perché funziona per fatti suoi.
Il tenere in pugno, che è questo minimo di attività che garantisce un riferimento costante all’oggetto
di cui parlo. Può essere in due modi:
- impressionale: guardo la tenda, quando ancora ne ho impressione dico che la tenda è alta, blu,
asimmetrica, aperta, sporca. Sto ancora compiendo la mia esperienza sensibile della tenda, poiché la
vedo;
- non impressionale: se invece, mi giro, ho in mente la tenda, ma non ho alla base
nessun’impressione, perché non la sto vedendo più, non ho più esperienza sensibile.
A garantire l’unicità dell’oggetto a cui mi riferisco nell’esplicitazione, non basta la ritenzione, non è
sufficiente (parla dei fatti miei, è solo presente, non è capace di tenere fisso il riferimento
dell’oggetto, ma questo è ciò di cui ho bisogno).
La ritenzione è una legge temporale che funziona sempre, ma non è sufficiente a fissare l’oggetto e
a mantenerlo unitario. Ho bisogno di altro: il tenere in pugno.
Il tenere in pugno è ovviamente un’espressione metaforica: in termini più analitici, il tenere in
pugno è la rigidità semantica dell’esplicitazione, cioè quello che permette all’esplicitazione di avere
un focus e di non muoversi.
Dunque, abbiamo la ritenzione che è questo legame passivo-legale del tempo e della mia coscienza
interna; poi abbiamo un tenere in pugno impressionale, che è quello che mi serve per fissare un
oggetto, mentre lo vedo; e abbiamo il tenere in pugno non impressionale, invece, dove continua il
riferimento di un oggetto anche se non è ho più esperienza sensibile.
Es: quando si aprono le porte di una stalla, le vacche escono tutte.
Quando si parla del tenere in pugno non impressionale, quindi, non ci si limita a pensare alla tenda
che ho appena visto, poiché io posso tenere anche in pugno un oggetto che non ho percepito da un
sacco di tempo, che sta nel mio ricordo o nella mia immaginazione. C’è una rigidità semantica
anche senza l’impressione, e non appena dopo che è finita, ma anche senza.
Questo consente al tenere in pugno di estendersi molto al di là della percezione, che è un campo
vincolato all’impressione. Quindi, c’è un tenere in pugno che riguarda tanto il ricordo, quanto
l’immaginazione, quanto il pensiero, che è quello che stiamo facendo ora: teniamo il filo del
discorso al di là dell’impressione.
Il tenere in pugno, il continuare a tenere in pugno e il restare in pugno sono le tre sfumature che
Husserl da a questo concetto e sono una prima attività e ciò che garantisce all’esperienza rigidità
semantica.
La rigidità semantica rende l’oggetto presente a me, sia che quell’oggetto sia la tenda, sia che
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quell’oggetto sia il teorema di Pitagora, a cui sto pensando. Io penso al teorema di Pitagora, dunque,
mi è presente.
La rigidità semantica realizza l’esperienza, si riferisce sempre ad un oggetto e rende l’oggetto di
riferimento presente.
Io vivo il mio presente, il presente della mia esperienza e l’oggetto mi è presente.
Io vivo il presente della mia esperienza e l’oggetto in quanto riferimento della mia esplicitazione mi
è presente e non mi è presente una sola volta, ma ripetutamente.
L’esplicitazione è rigida semanticamente, si riferisce ad un oggetto e però di quell’oggetto dice un
sacco di cose.
Es: alla descrizione di quest’oggetto possiamo dedicare, 10, 15 secondi. Se il compagno avesse
scritto quello che ci ha appena detto (le determinazioni della borsa) avrebbe accompagnato ad ogni
caratteristica una virgola. Ogni caratteristica è una caratteristica di quella borsa, che non mi hanno
sviato dall’oggetto principale, anzi, hanno rafforzato la mia convinzione che si trattasse sempre
della stessa borsa. La rigidità semantica me la da il tenere in pugno, la rigidità semantica è l’unicità
dell’oggetto. Mano a mano che gli attribuisco delle caratteristiche, identifico parzialmente
quell’oggetto: quella borsa è rettangolare, quella stessa borsa è di cotone, quella stessa borsa ha un
logo ecc.
Ad ogni passaggio, io non è che ho irrigidito il mio riferimento, quest’ultimo è quello dell’oggetto
principale; quello che io ho aumentato è la convinzione dell’identità dell’oggetto perché gli ho
attribuito ogni volta una caratteristica diversa, ma per attribuirgli ogni volta una caratteristica
diversa ho dovuto attribuire la caratteristica diversa allo stesso oggetto (“la stessa borsa”).
L’esplicitazione, dunque, ha bisogno di questo: rigidità semantica e cosa produce? Non solo
informazioni su che cos’è, ma produce informazioni anche sul fatto che è sempre identica a sé
stessa, in qualche modo, è sempre più identica a sé stessa. Per ogni caratteristica che io gli
attribuisco è come se ripetessi che è sempre la stessa.
Queste caratteristiche non mi sviano dall’oggetto principale, la mia attenzione è focalizzata
sull’oggetto principale. Quest’attribuzione non aumenta la rigidità del riferimento, aumenta la
convinzione nell’identità dell’oggetto.
Quell’oggetto, prima di attribuirgli delle caratteristiche, non era stato identificato, è così che lo
identifico. Poi ad un certo punto, se vorrò lo identificherò interamente con sé stesso (ma in quel
caso servirebbe che l’amica porti questa borsa anche domani o dopodomani; a quel punto si dirà
“questa borsa è la stessa che ho visto due giorni fa”, reidentificandola interamente con sé stessa).
Quando attribuisco delle caratteristiche a quell’oggetto lo sto identificando parzialmente con le sue
caratteristiche. “La borsa è rettangolare”, quindi, di questa borsa fa parte un po’ di rettangolarità,
non è però l’unica cosa che posso dire di questa borsa. La rettangolarità non coincide interamente
con la borsa, non esaurisce ciò che è la borsa.
Le determinazioni vengono attribuite all’oggetto per coincidenza, per sovrapposizione, per sintesi di
coincidenza e sovrapposizione. La rettangolarità e la borsa dell’amica, in parte coincidono, in
mezzo c’è la borsa rettangolare.
Es: occhiali scuri. Mano a mano che sovrappongo gli occhiali, quella parte sovrapposta si fa più
scura, netta; è questo quel senso di convinzione della sua identità, sono sempre più convinto che
quella borsa sia identica a sé stessa, e quest’aumento d’identità è dovuto proprio alle coincidenze,
alle attribuzioni che io gli ho fatto (“è sempre più quella borsa”).
Quel pezzo netto è il modo in cui la borsa risalta dopo l’esplicitazione.
Vi si attribuiscono un sacco di identità.
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Poi esistono anche le biforcazioni dall’esplicitazione.
Per descrivere un oggetto, dunque, bisogna tenerlo fermo (tenerlo in pugno).
Per ogni attribuzione, ne rendi più netta la presenza, più vincolante (proprio perché lo reidentifichi
ad ogni determinazione o esplicitazione). Questo avviene proprio perché da un lato hai il tenere il
pugno, dall’altro lato hai il fatto che le determinazioni, per azzeccarsi all’oggetto, devono
sovrapporsi in parte all’esperienza che hai di quell’oggetto. Perché si abbia una determinazione,
perché una determinazione venga attribuita ad un oggetto, quella determinazione deve in parte
sovrapporsi al tema principale della mia attenzione, altrimenti non posso esplicitarla, non posso
attribuirgli una determinazione.
Non succede soltanto che io esplicito più cose dell’oggetto, ma succede che io, in quel modo lo
reidentifico, lo riconosco, in altri termini, come un oggetto che è lo stesso oggetto che ha
determinate caratteristiche.
Anche quest’operazione apparentemente semplice apre a mille strade.
Una borsa può non essere di Yale, rossa, ecc., eppure può essere di cotone. Facendo così ho
disidentificato (ho tolto tutte le lenti) la borsa di cotone da QUELLA borsa di cotone, ma mi tengo
la borsa di cotone, la mia rigidità semantica resta, sto parlando sempre di una borsa di cotone, ma
non quella, come ho fatto ad arrivarci?
Gli ho tolto le caratteristiche, gli ho tolto i livelli di identificazione. L’ho disidentificata.
L’esplicitazione è il processo inverso dell’astrazione.
Se l’esplicitazione è un processo sempre più intenso di identificazione, l’inverso dell’esplicitazione
è l’astrazione che dovrà essere un processo di disidentificazione, dovrò togliere un livello di identità
alla volta, mantenendo la rigidità semantica.
Questo dimostra come, agli occhi di Husserl, la rigidità semantica è un conto e la reidentificazione è
un altro conto.

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10 LEZIONE

Possiamo vedere anche un altro processo contrario all’esplicitazione: L’ERRORE, che ci servirà in
qualche modo per ricavare altre informazioni. Io prendo a tema un oggetto principale—> il quadro
in classe, lo esplicito e ne faccio emergere varie determinazioni, ad un certo punto mi accorgo che
alcune di queste determinazioni non sono corrette, non sono confermate. Queste determinazioni le
posso togliere e resta il mio riferimento al quadro (come esempio fatto).

Una domanda interessante è quante caratteristiche posso togliere affinché rimanga l’oggetto?
Questa domanda ci permette di capire quanto siano differenti la rigidità semantica e il prodotto della
reidentificazione.
Io non riconosco che questo è un quadro solo dopo tutte le cose che dico su di esso ma lo riconosco
in virtù della rigidità semantica; se io riconoscessi il quadro solo grazie all’esplicitazione vorrebbe
dire che senza esplicitazione non lo riconosco e vorrebbe anche dire che se mi sbaglio
nell’esplicitazione, mi sbaglio nel riconoscimento dell’oggetto = individuo gli oggetti ad un livello
molto alto di conoscenza (sapere un sacco di cose).
Quante identificazioni sbagliate tollera il mio riferimento ad un oggetto principale?
Poniamo che stiamo parlando del quadro e dico varie caratteristiche di quest’ultimo, ad un certo
punto qualcuno mi fa notare che molte cose che ho detto sono sbagliate, tuttavia nessuno
metterebbe in dubbio che faccio riferimento proprio a quel quadro (in classe). Quanti errori mi
posso permettere per non essere accusato da qualcuno di star parlando di qualche altra cosa? Se ci
muoviamo solo nel piano dell’identificazione probabilmente possiamo sbagliare tutte le
determinazioni e conservare il riferimento allo stesso oggetto—> dire che il quadro in classe è la
Guernica di Picasso.

Questo è un caso estremo: non si discute l’identificazione ma il riferimento a un oggetto. In


questo caso l’errore non sta sull’identificazione ma sull’oggetto.
Il tenere in pugno l’oggetto/ riferimento e la rigidità semantica sono 2 operazioni diverse.
Cosa distingue concettualmente unita è identità? E perché ad un oggetto non è necessaria
identità ma unità’—> Io posso sbagliare su tutte le identificazioni che realizzo su un oggetto
eppure riferirmi ad uno oggetto.
Abbiamo detto in precedenza che l’esplicitazione dal punto di vista dell’esperienza si realizzava
attraverso sintesi di coincidenza o sovrapposizione.
Le sintesi di cui parlavamo erano di contenuti —> sempre in atto che si muovono per omogeneità e
eterogeneità
Ora vogliamo sottolineare che queste sintesi operano per coincidenza o sovrapposizione: storia della
“lente colorata”—> Se io sovrappongo alla prima lente che ha un colore tenue altre lenti colorate
alla fine di questa operazione troverò una parte delle lenti che è particolarmente più scura, quella è
la parte in cui coincidono tutte le lenti = area di sovrapposizione tra le lenti. —> COINCIDENZA
PARZIALE.

La cosa che interessa ad Husserl è spiegare come questo processo che si può verbalizzare (posso
esprimere il mio giudizio di determinazione) abbia un corrispettivo nell’esperienza, nel processo di
esplicitazione e questo corrispettivo è una sintesi di coincidenza —> è come se avessi sempre in
mente l’oggetto principale e poi gli facessi coincidere delle determinazioni —> Quando io dico quel
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tavolo è bianco, è liscio, è rettangolare, queste coincidono parzialmente con l’oggetto principale e
per ogni determinazione che faccio è come se ripetessi questo oggetto.

Esempio con la borsa di Yale vista a lezione:


1 CASO: “Questa borsa è di tela, è bianca, ha una scritta “Yale” ecc ecc”. Questo è un enunciato
che faccio sula base di un’esplicitazione empirica, è un’identificazione inesauribile perché ogni
oggetto percepibile non si può esaurire quanto alle sue determinazioni. L’orizzonte interno è chiuso,
indefinito perché non posso vedere da diversi lati, simultaneamente il passato, presente e futuro di
quell’oggetto e così via. Quindi nel caso di questo enunciato io fatto UN’ESPLICITAZIONE E
UN’IDENTIFICAZIONE e lo faccio su una base empirica di una sintesi per coincidenza o
sovrapposizioni.
Ricorda che queste determinazioni condividono che sono compatibili tra di loro e con l’oggetto.
2 CASO: “Questa è la stessa borsa di martedì”. Non compio qui un’identificazione parziale ma
ASSERISCO UN’IDENTITÀ —> Non sto pensando alle sue determinazioni, ma sto dicendo che
quell’oggetto è lo stesso, non mi muovo più sul piano delle determinazioni ma su quello
dell’oggetto tematico = NON È UN CASO DI IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI MA UN
CASO DI INDISCERNIBILITÀ DELL’IDENTICO =
quell’oggetto è lo stesso. In questo caso non si tratta di un’esplicitazione e di una sintesi per
coincidenza o sovrapposizione ma di una di una sintesi per identità, dove non è identico la
determinazione con l’oggetto ma l’oggetto con se stesso. Questa sintesi agisce a breve e lunga
distanza.

PER RIASSUMERE NEL PRIMO CASO PARLIAMO DI IDENTIFICAZIONE E NEL


SECONDO DI IDENTITÀ. L’identificazione può continuare, l’identità no. L’identificazione può
sbagliarsi, ha a suo modo gradi (di una cosa può asserire molte caratteristiche o poche) l’identità no:
o è la stessa o non è la stessa —> non c’è una cosa che sia quasi la stessa.
Casi in cui NON ci sono gradi:
1) Riferimento intenzionale
2) Attenzione
3) Identità
Che cosa hanno in comune questi 3? TUTTI HANNO A CHE FARE CON L’OGGETTO.
PER HUSSERL TUTTO QUELLO CHE RIGUARDA IL RIFERIMENTO ALL’OGGETTO
NON AMMETTE GRADI —> NON C’E UNA QUASI VERITA. Questa è una cosa che
ricaviamo dalla differenza tra esplicitazione e identità.

CONCETTO DI PLURALITÀ (pag 107, un sottoparagrafo)


Husserl intende spiegarci la differenza tra l’apprensione di unità e quella di pluralità.
Lo spiega con gli strumenti che ha:
- L’analisi dell’esplicitazione
- Il tenere in pugno

A livello di esplicitazione noi alla vera e propria pluralità non ci arriviamo perché abbiamo
solo un oggetto tematico. Anche se ad esempio il nostro oggetto tematico è una folla di gente,
l’oggetto tematico è sempre uno. Tra appendere una folla di gente (vederla) e rendersi conto che
sono 100.000 mila c’è un abisso —> bersaglio grosso di Husserl. Siccome il bersaglio grosso è
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negativo, Husserl, si trattiene sullo spiegare cosa non abbiamo a disposizione per arrivare alla
pluralità, ma non ci spiega cosa sia.
ESEMPIO: Un viale —> posto con degli alberi, posso dire restando nello stesso posto:
• Sto percorrendo un viale
• Sto percorrendo un viale con due filari di alberi
• Sto percorrendo un viale costeggiato da 20 alberi —> L’ultima è la vera apprensione della
pluralità in cui compare una nuova presenza: il numero.

Altro esempio: Davanti a un cesto di mele io non posso ritenere di avere un’apprensione della
pluralità —> quando parlo di un cesto di mele non penso a cosa tenga insieme le mele, alla
relazione tra le mele. Questa relazione sta sullo sfondo, è per me su questo livello una specie di
relazione di contemporaneità, un collegamento passivo che non arriva ad essere esplicitato—> ciò
che è esplicito è invece un cesto.
Ciò che accumuna le mele è il poter essere contate in quanto mele in un cesto, non di stare nello
stesso cesto. Le mele sono insieme ma per me non formano un insieme.
Le mele non formano un insieme perché me lo sono inventato io ma perché formino un insieme io
devo mettere a tema una cosa che prima non mettevo a tema—> il fatto che quelle mele formano un
insieme (le mele con cui vedo il cesto) diverso dall’insieme delle mele che stanno sul tavolo.
METTERE A TEMA L’INSIEME DI COSE, OGGETTI, PERSONE CHE FORMANO
L’OGGETTO A CUI MI SONO DEDICATO.
Anche nel caso della pluralità entrerà in gioco una sintesi, ma sarà la sintesi che formerà l’insieme.
In questo caso noi stiamo parlando di una sintesi che forma un’unità: guardo un cesto di mele, non
sto componendo l’insieme delle mele che stanno nel cesto, quando faccio questa seconda cosa
faccio una sintesi di pluralità (che però ha molti oggetti principali).

In un caso parto dalla “contemporaneità passiva degli oggetti” e su questo attivo l’attenzione verso
un oggetto —> il cesto di mele.
Nell’altro caso sulla base della stessa contemporaneità passiva faccio un’altra cosa —> non mi
rivolgo all’oggetto e neanche ai singoli oggetti contenuti dal cesto ma mi occupo di cosa hanno in
comune le mele del cesto: il fatto di essere mele di quel cesto. A questo punto HO UNA
PLURALITÀ.
Non si tratta di uno sguardo fisso sul cesto e di uno sguardo mobile sulle mele, Husserl ci dice che
nel caso dell’apprensione di pluralità devo esplicitare una cosa che sta già nella mia apprensione
passiva della contemporaneità che vedo davanti a me: la formazione dell’insieme.

L’ultimo caso che affronta qui è quello dell’acquisizione abitudinaria delle esplicitazioni che
abbiamo compiuto.

Ci sono due modi per conservare le determinazioni:


• Abitudine
• Rimanere impresso.

Quella borsa (di Yale) noi già la conoscevamo per essere un gadget di un’università ma ora è
diventata molto più familiare (anche se non ricordiamo più tutte le determinazioni) = ABITUDINE.

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Nella conoscenza implicita (pregiudizi, errori) ci sono un sacco di cose date per scontato e se
volessimo sapere come si riempie questo magazzino di cose (da cui si parte) è proprio per
acquisizione, attraverso l’abitudine. Queste acquisizioni sono spesse non volute.

Ma c’è un altro modo per costituire le abitualità, molto più vincolante—> Il restare impresso che è
il frutto di una tematizzazione eccessiva.
Può accadere che nell’esplicitazione siamo attratti da un dettaglio che diventa nell’esplicitazione
saliente, non lavoriamo quindi sul tipo di oggetto ma sul tipo del dettaglio. Ad esempio tra una folla
d persone ci può risaltare agli occhi un gobbo, ma quando poi vedremo un altro gobbo non diremmo
più che è la stessa persona ma un altro gobbo —> utilizziamo il dettaglio come TIPIZZANTE
quando ci resta impresso qualcosa. Non stiamo conservando l’oggetto, quello che è familiare è il
dettaglio saliente che ci ha impressionato.

Per Husserl quello che avviene nell’esplicitazione è molto simile anche se più rozzo di quello che
avviene nella spiegazione analitica. La cosa che le accomuna è che c’è sempre un oggetto e delle
determinazioni. La spiegazione è una di quelle cose con cui rispondiamo alla domanda perché, e
quando noi chiediamo spiegazione a qualcuno non ammettiamo la ripetizione dell’oggetto che
vorremo essere spiegati ma solo delle sue determinazioni. Lo schema della spiegazione è simile a
quello dell’esplicitazione, cambia che nel caso dell’esplicitazione l’oggetto è presente alla
percezione, memoria o immaginazione, nel caso della spiegazione analitica l’oggetto può anche
solo essere pensato (oggetto a vuoto). Questo rende anche l’estensione della spiegazione più ampia
di quella dell’esplicitazione.

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11 LEZIONE

Nella lezione precedente abbiamo dedicato la maggior del nostro tempo a parlare del modo in cui i
risultati dell’esplicitazione si depositano e vengono acquisiti sotto forma di abitualità quando ci
sembra che queste esplicitazioni o avvengono ma non sono la cosa più importante che facciamo o
nemmeno avvengono (in maniera latente). Abbiamo visto un altro modo per conservare i risultati
dell’esplicitazione che è quello del restare impresso in seguito a sguardo insistito su un dettaglio che
ci sembra rilevante, significativo e appariscente.

Abbiamo fatto una distinzione sul tipo di risultato che abbiamo in questi due casi. Nel primo caso
abbiamo una maggiore familiarizzazione con quell’oggetto infatti non è importante che
conserviamo in memoria tutte le determinazioni. Quello è che importante è che quell’oggetto ci sia
familiare perché abbiamo riempito il suo orizzonte interno. Di un oggetto riconosciamo il tipo e
quindi la prima forma di conservazione dei risultati dell’esplicitazione è questa maggiore
familiarità con l’oggetto (una familiarità tipica).

La seconda possibilità ha un risultato differente perché noi non tipizziamo l’oggetto bensì l’oggetto
attraverso un dettaglio (esempio spilungone…). Insistiamo sul termine “tipo”, nessun oggetto è
completamente nuovo e nessun oggetto ci è completamente estraneo perché almeno ne abbiamo
una familiarità di tipo va a dare posso trovare una penna completamente diverse da quello che ho
visto che non riconosco ma tuttavia non mi è totalmente estranea perché ha una familiarità di tipo.

Nel primo caso ossia acquisizione abituale noi rendiamo ancora più familiare il tipo dell’oggetto
quindi tipizziamo l’oggetto mentre nel secondo tipizziamo il dettaglio dell’oggetto. Tipo è un
termine centrale nella filosofia husserliana che compare già nelle Ricerche Logiche e compare
quando Husserl parla dei nomi dei colori (rosso mattone, verde prato…) quest’aggiunta di un
sostantivo accanto al nome del colore è una sorta di tabella tipizzante che serve a bloccare un
termine che altrimenti avrebbe un significato troppo vago perché i nomi dei colori sono un grosso
problema. Husserl già nelle Ricerche Logiche dice che in questi casi utilizziamo il tipo come
supplemento per fissare il significato di un termine che altrimenti sarebbe troppo vago. Per ora noi
stiamo utilizzando la nozione di tipo e dobbiamo prendere il tipo non nel suo significato tecnico
come se non stessimo in un’aula universitaria.

Ci siamo poi soffermati sulla differenza e somiglianze tra l’esplicitazione e la spiegazione


analitica (o spiegazione logica). In entrambi i casi abbiamo uno schema simile vale a dire un
oggetto e una determinazione però abbiamo un’enorme differenza vale a dire che l’oggetto in
qualche modo ci è presente nel caso dell’esplicitazione mentre nell’altro caso l’oggetto non ci è
presente. Sul fronte dell’esperienza dell’oggetto nel caso dell’esplicitazione noi intuiamo l’oggetto
nel caso della spiegazione logica lo indichiamo soltanto ad esempio posso spiegare pegaso anche se
Pegaso non lo posso intuire non essendo un oggetto esistente. Anche nel caso in cui l’oggetto
rimane da simbolo lo posso comunque spiegare.

Husserl passa in rassegna quattro tipi di esplicitazione possibili in cui giocano percezione e
memoria. Torniamo un attimo all’esplicitazione e la differenza tra esplicitazione e spiegazione
logica. Nel primo caso l’oggetto lo devo avere affidandomi alla percezione mentre nel secondo io
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posso andare a vuoto. Il lavoro di Husserl è quello di estendere l’ambito in cui si può fare
esplicazione oltre la percezione perché sennò è troppo ristretto. Questa è una procedura che Husserl
utilizza sempre, parte dal caso ideale che è quello della percezione e poi allarga. Husserl è convinto
che il caso ideale sia quello più facile da spiegare. Dato questo movimento di estensione Husserl da
quattro esempi di esplicitazione.

La prima forma di esplicitazione è quella che lui chiama esplicitazione originaria quella che si fa
sulla percezione. È la situazione che noi viviamo quando percepiamo un oggetto, il quale ha un
orizzonte interno, poniamo questo oggetto ci sia ignoto e questo lo riconosciamo di un certo tipo,
sappiamo che dovrebbe avere delle determinazioni che non conosciamo nel dettaglio ma sappiamo
che a quel tipo di oggetto corrisponde un certo tipo di determinazioni. Quello che facciamo
nell’esplicitazione è continuare a percepire quell’oggetto sempre più dettagliatamente quindi non si
tratta di percepirlo meglio ma di percepire più caratteristiche. L’anticipazione che facciamo è solo
sul tipo cioè noi lo riconosciamo come di un tipo noto. L’oggetto è ignoto ma il tipo è noto quindi
anticipo il tipo vale a dire l’orizzonte interno e poi arricchisco l’orizzonte interno.

Seconda tipologia di esplicitazione. Si può esplicitare un oggetto prima che questo si presenti in
quanto tale mediante un’anticipazione che è sull’oggetto. Questa seconda esplicitazione ha alla base
un’anticipazione dell’oggetto. Immagino come potrebbe essere un oggetto. Io l’oggetto non ce l’ho
davanti. Mi voglio comprare uno zaino nuovo, provo prima di entrare nel negozio cosa vorrei
quindi mi sto anticipando lo zaino che vorrei comprarmi. A questo punto l’anticipazione io posso
continuare ad esplicitarlo restando nella fantasia (nel tragitto tra casa e il negozio che continuo ad
immaginare lo zaino).

Quello che è caratteristico di questa anticipazione è che l’oggetto non mi sia dato dalla percezione
ma dall’anticipazione e le caratteristiche dell’oggetto le posso dare sia restando nell’anticipazione
semmai utilizzando la memoria oppure ricorrendo alla percezione. Qui abbiamo una varietà di
prestazioni che servono ad esplicitare e sono o una percezione oppure una immaginazione o un
ricordo. L’anticipazione è un tipo di segno non un tipo di intuizione come nel caso della percezione.
Quando parliamo di segno parliamo anche di motivazione quindi possiamo legittimante dire che
questo lavorio immaginativo che sto facendo fuori dal negozio mi motiva a compare una cosa
rispetto ad un’altra.

C’è un altro tipo di esplicitazione che è quello di tornare su un oggetto già esplicitato e poi di
analizzare l’oggetto che è stato già determinato nelle sue determinazioni. Questo tipo di
esplicitazione è sulla base di un ricordo. È un ritornarci sopra. Questo ritornare su può essere
ottenuto pensando semplicemente alla borsa della vostra amica oppure per rivedere le cose che ho
detto circa quella borsa. Laddove io tornassi a vedere la borsa potrei utilizzare la percezione attuale
per rifare l’esplicitazione.

In questo caso si aprono due possibilità di cui la prima è che io abbia di nuovo la percezione di
quell’oggetto (ci convinciamo di nuovo di come l’oggetto è, e del fatto che resti immutato così da
avere una nuova conoscenza originaria e insieme la rimemorazione e il ricordo di quella vecchia). A
questo ripetiamo l’esplicitazione e identifichiamo esplicazione con l’altra.

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Possiamo anche ricordare la borsa della nostra amica senza averla davanti agli occhi ed esplicitarla
sulla base del ricordo. La borsa non la vedo di nuovo, non uso la percezione sul ricordo ma se
facciamo questo abbiamo due possibilità ancora ovvero o ricordando quell’oggetto ci ricordiamo
anche come l’avevamo esplicitato quindi delle determinazioni che aveva oppure no.

Quindi la terza esplicitazione è sulla base di un’esplicitazione già compiuta che noi abbiamo nel
ricordo o abitudine, la quale o viene confrontata con la percezione attuale oppure resta al ricordo (in
questo caso o penso solo all’oggetto e do per assunte le determinazioni o penso all’oggetto e passo
alle determinazioni).

Quarta possibilità ovvero l’esplicitazione sulla base di un ricordo ma diversa da quella di prima.
Io passo davanti al portone del cancello di un giardino, lo guardo di sfuggita e dopo averlo passato
ci ripenso (c’era qualcosa che mi ha colpito). Sulla base dei ricordi esplicito ciò che ho appena visto
e che non ho più davanti ma l’unica fonte a cui mi posso rivolgere è il ricordo freschissimo e lo
esplicito. Questo è un’esplicitazione del ricordo sulla base di ciò che era prima era stato presente in
originale in una semplice apprensione, questo viene ora originariamente esplicitato benché
l’oggetto non si presenti più.

C’è un altro tipo di esplicitazione che avviene quando sentiamo una canzone, abbiamo sentito la
prima parte di sfuggita e ad un certo punto quando ancora continua quella melodia espliciti quello
che avevi sentito di sfuggita prima. Lo esplicito rendendomi conto del valore di quel pezzo di
melodia precedente quindi lo faccio sulla base del ricordo ma sta durando ancora la percezione.
Chiamiamola esplicitazione di un tema (musicale).

Nella nostra conoscenza si stocca il tipo. Noi abbiamo una memoria in parte rappresentativa di
ciò che ricordiamo (eventi, cose, dolori…) e una memoria tipica quindi un enorme magazzino di
tipi. L’esplicitazione ha questo doppio valore ovvero serve nel momento in cui devi spiegare cosa
accade quando attribuisci ad un oggetto delle determinazioni ma serve anche a spiegare come mai
hai in pancia tutti questi tipi per cui io mondo non ti risulta mai estraneo.

Abbiamo allargato lo spettro dell’esplicitazione ben oltre la percezione perché ora sappiamo che
possiamo affidarci alla percezione e possiamo non affidarci alla percezione e casi in cui non
possiamo affidarci per niente alla percezione (usando di base l’immaginazione quindi per un’attesa
oppure un ricordo).

Adesso siamo richiamati sul temore ovvero la sede in cui nascono i concetti logici più elementari
(soggetto e predicato) e all’interno della quale vi è la differenza tra sostrato e determinazione. Di
sostrato non abbiamo ancora parlato ma questo è l’obiettivo principale di questo cammino. Ora
dobbiamo vedere le strutture che ci portiamo dietro l’esperienza e la prima è la distinzione tra
sostrato e determinazione che sarebbe la prefigurazione dello schema soggetto-predicato.

Per arrivare a questo Husserl, che ha insistito su casi molto semplici in cui esisteva un oggetto e
delle determinazioni, ci fa esempi più complessi. Ci vuole far capire che la distinzione tra sostrato e
determinazione è una differenza relativa ovvero funzionale. Dagli esempi finora abbiano sempre

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utilizzato un oggetto e delle determinazioni. Ora Husserl fa vedere come in molti casi sia possibile
che questa differenza si appaia nell’esperienza relativa.

Abbiamo nel Primo capitolo che l’eccezione dell’osservazione semplice era l’ostacolo ovvero la
delusione, la negazione. L’eccezione in questo capitolo è la biforcazione. Abbiamo detto fino
adesso che c’è un oggetto e delle determinazioni. Ora facciamo l’eccezione a questa unità del
raggio che verteva su una semplificazione schematica del processo di esplicitazione che
considerava esplicitazioni che precedevano su una sola via senza biforcazioni. Ora è il tempo di
salire a livello di forme più complesse ossia quello dell’esplicitazioni che si biforcano in cui i
concetti di sostrato e determinazione verranno ulteriormente chiariti.

L’esplicitazione sorge quando uscendo dal sostrato le determinazioni non percorrono una strada
dritta ma queste stesse fungono a loro volta da sostrati con ulteriori esplicitazioni. Il caso base è
quando il vostro amico che ha cambiato maglietta ha adesso una maglietta bianca e ad un certo
punto il bianco della maglietta è una sua caratteristica (l’oggetto principale è il vostro amico e ad un
certo punto mi dedico alla maglietta o al bianco). Fino al colore bianco della maglietta c’era un
oggetto (il vostro amico) e una determinazione (maglietta) ma ad un certo punto la strada prende
un bivio. Posso continuare ad interessarmi del vostro amico e ad elencare altre sue caratteristiche
oppure l’oggetto principale diventano le caratteristiche quindi una delle caratteristiche (esempio il
bianco o la maglietta). È una cosa che posso sempre fare e da cui posso tornare indietro tornando
all’oggetto principale.

Esempio. Aiuola è ben curata e piena di fiori (parlo dell’aiuola). Può accadere che per motivi vari
qualche fiore attiri la mia attenzione (attenzione secondaria) qualcosa che stava sullo sfondo mi
richiama quindi mi colpisce un fiore magari appassito. L’oggetto principale della mia attenzione è il
fiore appassito. Cambio oggetto primario di interesse, quello che era una determinazione quindi una
parte dell’aiuola diventa il sostrato del mio interesse ed esplicitazione. Non parlo più dell’aiuola ma
parlo dei fiori. L’attenzione si può biforcare per ragioni diverse perché qualcosa richiama la mia
attenzione dallo sfondo perché nel cammino dell’esplicitazione ho trovato una determinazione
particolarmente rilevante che diventa il mio oggetto principale. In questi esempi secondi
l’esplicitazione non è detto che cammini sugli stessi binari quindi mi accorgo che l’esplicitazione
non cammini sullo stesso binario quindi la differenza tra oggetto e determinazione è variabile (una
determinazione può divenire oggetto).

C’è un’altra cosa che ci dice ovvero immaginate un roseto. Il roseto in quanto tale avrà un colore
prevalente che è una caratteristica principale del nostro roseto. Se passassi distrattamente davanti ad
un roseto direi come colore prevalente il rosso. Quando seguo la biforcazione che ho mostrato
prima quindi mi dedico ad un solo fiore potrei dedicarmi solo a quel fiore perché ha un colore più
denso e potrei dire di quel fiore (divenuto oggetto principale) che è viola. Il viola è una
caratteristica diretta di quel fiore e solo indiretta del roseto. Il viola non è il colore del roseto ma
il colore del rosa che fa parte del roseto. Questa biforcazione fa capire da dove nasca la differenza
tra le parti che un oggetto può avere. Il nero, ad esempio, non è il colore di queste sedie, non è una
parte immediata delle sedie ma una parte mediata perché di una sua parte (bracciolo). Mentre la
biforcazione dell’esplicitazione è un fatto soggettivo della mia esperienza lo statuto delle parti è un
affare dell’oggetto.
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Quindi abbiamo due esempi che sono eccezioni rispetto all’univocità e unidirezionalità
dell’esplicitazioni. In questi due casi quello che era prima una determinazione diventa l’oggetto
principale. Questi due casi vengono manifestati a partire dell’esperienza, servono a dirci che la
distinzione oggetto-determinazione è relativa ma ci servono a capire anche come si distinguano le
parti degli interi (quante diverse parti hanno gli interi).

Ogni determinazione può diventare oggetto. Ora dobbiamo capire il passaggio da oggetto a sostrato.
Ad un ogni livello di esplicitazione corrisponde un sostrato e un esplicato (determinazione). Ma
nella serie dei livelli qualora non vi sia una biforcazione il sostrato dominante resta quello
privilegiato e rispetto a esso tutti i sostrati restano subordinati ed ancillari. Significa che sullo
sfondo dell’esplicitazione che ha avuto mille biforcazioni c’è il punto di partenza (il vostro amico)
privilegiato anche se non è stato oggetto a tutti i livelli perché mi sono occupato di altro (resta il
sostrato privilegiato). È il sostrato principale ad essere oggettuale in senso privilegiato perché la
validità propria e per eccellenza compete solo ad esso, il resto (bianco, la maglietta…) può essere
tematico solo in senso relativo, esso può diventare oggetto ma non è tematico per eccellenza,
infatti, non è stato tematico sin dall’inizio. Ad un primo livello di esplicitazione ciò che è una
determinazione può diventare sostrato al livello secondo. Perché una determinazione diventi
sostrato devo fare un passaggio di livello, nello stesso livello non può avvenire.

Sostrato è ciò di cui facciamo esplicitazione (esplicandum). Ad ogni livello ciò che può essere
esplicato può cambiare ma c’è sempre un sostrato di partenza. Ciò da cui a livello 1 è
determinazione e che a livello successivo può essere sostrato la dobbiamo prendere in tutti e due
significati vale a dire nel significato della relatività della distinzione (sostrato-determinazione) ma
anche dal significato per cui devo partire da un sostrato (non posso partire da una determinazione).
Per definizione bisogna partire da un sostrato dato che l’esplicitazione è sempre esplicitazione di
un sostrato. Da un lato Husserl dice che la differenza è relativa e dall’altro che questi due termini
hanno significato assoluto.

Vediamo in altri termini, il principio è uno vale a dire che ogni determinazione a livello uno può
diventare oggetto a livello successivo. È solo un principio. Per definizione questo unico principio ha
due effetti di cui il primo è la relatività della distinzione e il secondo effetto che bisogna partire pur
sempre da un sostrato (non si può partire da una determinazione poiché questa è sempre
determinazione di un sostrato!!)

Ora a partire sempre dalla definizione reciproca di sostrato e determinazione abbiamo capito che la
determinazione è il frutto di un’esplicitazione. Noi abbiamo capito che la determinazione è ciò che
appartiene in qualche modo al sostrato e ciò che è determinazione si riferisce al sostrato, ha
bisogno di un sostrato. Il sostrato è ciò di cui ha bisogno una determinazione e ciò a cui è riferita
alla determinazione e ciò che fa da base alla determinazione. La determinazione dipende dal
sostrato.

La dipendenza e indipendenza sono anch’esse relative. La maglietta del vostro amico è dipendete
dal vostro amico, il vostro amico è indipendente dalla maglietta ma il vostro amico è dipendente
da altro (può rientrare in connessioni di dipendenza da altro). Il sostrato e ciò che indipendente (ma
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può dipendere da altro) mentre la determinazione è ciò che dipendente dal sostrato. Mentre la
determinazione diventa l’oggetto verso l’alto il sostrato può essere scoperto verso il basso. Io dopo
aver parlato del vostro amico parlo del bianco ma scopro che il vostro amico è inserito pure lui in
una rete di dipendenze.

C’è però un limite verso il basso per i sostrati e un limite verso l’alto per le determinazioni. Questi
limiti sono rispettivamente quello di sostrato assoluto e delle determinazioni assolute. La
maglietta del vostro amico la posso vedere in negozio ma non ragionandoci sopra ma posso esperire
un oggetto come un sostrato mentre il bianco non lo posso vedere mai da solo da nessuna parte ma
vedrò quel bianco sempre come caratteristica di quella maglietta.

I colori sono determinazioni assolute perché non solo possono comparire a livello uno come
determinazioni di un sostrato ma non possono mai comparire a livello uno come sostrati. Il bottone,
il colletto, i lacci delle scarpe sono parti (pezzi) e possono fungere anche da sostrati a livello uno
mentre il colore non è un pezzo ma un momento. Il pezzo è qualcosa in cui posso spezzettare
qualcosa (stuck). Non posso dire pezzo di colore. Le determinazioni assolute sono quelle che a
prima botta non posso mai intendere come sostrato. Le determinazioni assolute Husserl le chiama
proprietà. Tra le determinazioni rientrano le parti di cui la gamba del pantalone, suole delle scarpe
che non sono proprietà ma parti.

Esistono anche sostrati in senso assoluto che deve il suo significato alla sua indipendenza che è
massimante indipendente. Cosa è massimamente indipendente? Il mondo e precisamente ciò che
Husserl chiama la totalità della natura. Sostrato assoluto è universo dei corpi in cui si esplicita.
Della totalità fa parte ciò che è, ciò che è stato, ciò che è possibile, ciò è impossibile (anche la
spiritualità fa parte della totalità dall’ natura). Tutto questo è sostrato assoluto che non dipende da
nulla perché tutto dipende da esso. È l’insieme di tutti i mondi possibili che ne fanno parte quindi è
massimamente indipendente.

Piuttosto sostrati assoluti e originali (un po’ meno assoluti del mondo) sono gli oggetti individuali
della percezione sensibile esterna cioè gli individui concreti quindi non solo degli oggetti
individuali ma individuali di fatto quindi non ciò che accumuna tutti gli individui ma ciascun
oggetto individuale di fatto. Tuttavia, è un sostrato assoluto e originario proprio perché è di fatto, è
indipendente dalla mia percezione soprattutto è indipendente dal fatto che posso ricordarlo o
immaginarlo. L’oggetto individuale è così resistente perché è stato già prima di essere davanti ai
nostri occhi. È un elemento necessario e questo ne fa la sua indipendenza quindi l’individuo
concreto è un sostrato assoluto e originario.

Qui i sostrati assoluti sono il mondo come totalità della natura e come totalità di tutti i mondi
possibili, poi gli individui concreti e la forma per cui un individuo concreto è di fatto.

Ci tocca guardare alla differenza tra intero e parti e per parlare di questo riprendiamo i concetti di
sostrato e determinazione. Prendiamo l’individuo concreto da un altro punto di vista ovvero non
chiamiamolo più come sostrato o individuo ma intero. Non è solo più un’unità. Ogni sostrato, ogni
individuo concreto essendo un individuo concreto e di fatto ammette esperienze di parti. Non sta

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dicendo che è un oggetto con delle parti altrimenti sarebbe una tautologia. È un oggetto che io posso
esperire per parti!

Parte dall’esperienza e vuole vedere come si formano le nozioni di intero e parte. Ogni oggetto di
cui si possa avere apprensioni parziali quello è un intero. Poiché l’individuo concreto è di fatto, è
ciò che posso percepire di fatto e poiché la percezione è sempre parziale. Questo è il concetto più
ampio di intero.

Abbiamo anche un concetto più ristretto di intero. Il concetto più ristretto non si distingue
tantissimo da quello più ampio se non per la precisazione che qui parliamo di sostrati assoluti e
originari. Questi individui concreti hanno determinazioni che sono dipendenti dall’intero ma che
alcune sono indipendenti (staccate) che chiamiamo pezzi mentre quelle dipendenti le chiamiamo
momenti. La distinzione è sempre in base all’esperienza. Vedo l’asta del microfono e posso
staccare il pezzo in cui va inserito il microfono (è indipendente e può fungere da sostrato a livello
uno). Il colore non può mai essere indipendente, non può mai servire da parte che insieme ad altre
parti compongono un intero.

Non solo il momento non può mai essere in prima battuta sostrato di una determinazione ma non vi
è un intero composto di colori. Il pezzo invece può essere invece oggetto in prima battuta ma
soprattutto può rappresentare un oggetto che insieme ad altri compongono un intero come una
macchina ciascuno dei quali può essere un sostrato e la macchina è un intero se la vediamo bene
come correlazione dei pezzi. La differenza tra momento e pezzo la posso cogliere nell’esperienza.
Il pezzo inoltre è quel tipo di determinazione che può causare una biforcazione dell’esplicitazione e
quando la causa in quel momento l’intero mi sembra un insieme di pezzi. Le determinazioni
invece possono diventare tematiche ma fino a che sono determinazioni io non perdo mai la presa
sull’oggetto originario. Un colore non rappresenta mai un pezzo dell’intero.
Queste due possibilità di determinazioni non sono le uniche perché a queste due tipologie si
aggiungono le proprietà (coincidono quasi con i momenti) e le connessioni che rappresentano delle
determinazioni a parte.
Le connessioni sono un tipo diverso di determinazioni perché sono una via di mezzo tra proprietà e
pezzi e lo sono perché io ad una connessione posso arrivarci solo dopo aver pensato un intero, il
fatto che l’intero sia composto di pezzi è solo dopo arrivo alle connessioni. Le proprietà si
distinguono tra dirette ed indirette di cui le dirette quando sono parti di un intero ed indirette
quando sono parti di un pezzo dell’intero.

Il colore dominante del roseto visto che io del roseto non ho fatto ancora la scomposizione in pezzi
è una proprietà diretta del roseto e il colore di una rosa (pezzo di un roseto) è una proprietà
indiretta del roseto. La disposizione delle rose è una connessione a cui arrivo dopo aver preso in
carico il roseto, averlo spezzettato. Io faccio cose diverse per isolare un pezzo, isolare un momento
e isolare una connessione. Queste proprietà di pezzo, connessione e momento sono caratteristiche
che abbiamo ricavato dall’esperienza ma che si mettono da parte

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12 LEZIONE

Risposte a domande fatte in aula:


Il qualcosa in generale è la forma che hanno tutti i sostrati possibili;
l’individuo concreto è ciascuno di noi, ciascun oggetto che non solo può esistere ma che
effettivamente esiste: di fatto esiste e può essere oggetto di una percezione.
Se di fatto esiste io posso percepirlo; in quanto esistono possono essere concetti, posso anche non
posso percepirli.
Se la sedia esiste di fatto posso anche non vederlo mai, ma se
La caratteristica dell’oggetto restringe il modo in cui posso apprenderlo; l’individuo concreto è
qualcosa che di fatto esiste.
La questione dell’indipendenza è affrontata in 2 modi: indipendenza dall’oggetto ed indipendenza
dalla mia esperienza.
- Interi oggettivamente autonomi
- Rapporto sostrato-determinazione

DEFINIZIONE DETERMINAZIONE ASSOLUTA


Se e solo se può essere un sostrato a un livello di esplicitazione 1 + n con n>0
(da 2 in poi)
Una determinazione a livello di esplicitazione 1 non può mai essere sostrato
COLORE
Arcobaleno: è un sostrato originario?
“ARCOBALENO” le lingue hanno incorporato “arco” che ha a che fare con qualcosa che
“splende”; quando parliamo dell’arcobaleno come un illusione ottica perché effettivamente non
vediamo l’arco.
Le lingue incorporano il problema e lo risolvono.
Nessuna di queste lingue parla dell’arcobaleno come un fenomeno cromatico che possa svolgere la
funzione di oggetto primario.
Quello che è illusorio è esattamente la forma che ha. Le lingue hanno sviato l’attenzione da un
problema.
I colori dell’arcobaleno sono i colori del cielo?
Ma anche se volessimo metterla così comunque attribuirei i colori al cielo; nemmeno in questo
caso estremo il colore ha statuto di sostrato. Se lo apprendo come insieme di colori non lo
apprendo mai come sostrato in prima battuta. Quando parlo di un colore parlo sempre di cosa quel
colore è portatore.
Anche nel caso di verde prato o rosso mattone io utilizzo un oggetto/un sostrato per fare da
portatore al colore.
Questo è determinante perché in caso di proprietà molto alla nostra portata, quello che vale per i
colori dovrà valere per tutte le proprietà.
Questo avrà un aspetto importante sulla formazione dei concetti di aspetto e proprietà.
Se io riformo il concetto di sedia l’estensione di quel concetto è “tutte le sedie”.
L’estensione di rosso non è l’estensione di tutti i rossi, ma è l’estensione di qualcosa.
Il concetto di rosso non ha un’estensione simile del concetto di sedia. Devo pensare a tutte le cose
rosse.

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La determinazione è ciò che piò essere sostrato solo a livello 2 e non 1.
Si tratta di analizzare un meccanismo che appartiene alla nostra esperienza.
Il sostrato originario può anche essere una sostanza non originale.
A livello 1 è una differenza assoluta; dal livello 2 in poi è sempre relativa.

Passiamo al 3° capitolo che è dedicato alle RELAZIONI, come si formano le relazioni: è l’ultimo
capitolo della prima sezione quindi finisce la parte dedicata all’esperienza anti-predicativa e
recettiva. Il passo successivo sarà la predicazione.
Non si parla più dell’esplicitazione ma della correlazione.
Obiettivi di questo capitolo: mettere a fuoco le diverse modalità di correlazione e la differenza tra
correlazione, comparazione e connessione.
“Correlazione” è il titolo principale, le tre modalità principali sono la vera e propria “correlazione”,
la “comparazione” e la “connessione”: sono tre diversi prodotti di altrettante attività; sono diverse
modalità per mettere in relazione le cose e implicano diverse operazioni. Una cosa che è richiesta a
tutte tre le operazioni è quello che nella tradizione dell’empirismo moderno si chiama fondamentum
relationis.
Qual è il fondamento della relazione? Se io metto in relazione un oggetto con un altro in virtù di
cosa è legittimata questa relazione?
La relazione è nelle cose? Nel mondo?
La relazione se fosse nelle cose e nel mondo, allora sarebbe un altro tipo di proprietà. Se la
relazione del mio orologio con il mio portapenne fosse nelle cose (uno a sinistra dell’altro) e nel
mondo, sarebbe una proprietà delle cose.
Una delle relazioni è la causalità (destra e sinistra), è un tipo di connessione per Husserl.
L’alternativa opposta è di pensare che la relazione delle cose sia in colui che le crea. Quindi
l’orologio stava a sinistra del portapenne e ora sta a destra perchè questa relazione dipende a me.
L’implicazione normale che io dovrei derivare è che tutto può essere in relazione con tutto; la
relazione non sarebbe più informativa sul mondo ma sull’esperienza che faccio.
Husserl trova un modo per risolvere questo problema classico e per farlo ci darà un altro capitolo
molto nutrito della fenomenologia della temporalità: ciò che ha fondamento nelle relazioni è
un’unità temporale, che però è tanto facile da trovare nei casi in cui gli oggetti in relazione siano
entrambi presenti quanto è difficile da trovare quando gli oggetti da trovare sono uno presente e
l’altro assente oppure entrambi assenti. Entrambi possono essere mai esistiti, inesistenti (non
significa assenti).
Se la soluzione del fondamentum relationis risulta banale nel caso della percezione, allora risulta
difficilissima nel caso in cui entrambi oggetti sono o entrambi assenti o entrambi inesistenti.
Se nel 2° capitolo Husserl ha fatto un’analisi della temporalità che è l’analisi del presente vivente,
nell’esplicitazione bastava: avevo 1 oggetto principale o percettivo o memorativo o fantastico poco
cambia; ma io sono ancorato su 1 solo oggetto, le determinazioni saranno lo stesso presenti come un
oggetto. (Se sto immaginando una sedia le determinazioni dell’oggetto saranno immaginarie tanto
quanto la sedia.)
Diverso è dire “ma quell’aereo ci entrerebbe in questa strada?”; mentre io, restando
all’immaginazione posso chiedermi “come sarebbe fatto un aereo” non posso chiedervi “ci
entrerebbe in questa strada” perché se io vi domandassi questo voi non potreste restare
all’esplicitazione semplice. Per forza avviene o il ricordo o la percezione della strada per
rispondere.
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Mai come in questo capitolo sono frequenti i rimandi a ciò che verrà; questo è un tema che sta
stretto nell’esperienza ricettiva. Detto questo andiamo sul testo (pag. 131)
Finora abbiamo parlato di orizzonte interno, ma occorre anche accedere all’orizzonte esterno
ovvero all’insieme delle relazioni che questo oggetto intrattiene con gli altri oggetti. Non che in
natura ci siano un’osservazione solo esplicitante e una solo relazionante, perlopiù sono tutte
insieme.
Ma ora parliamo della correlazione che come l’esplicitazione è un tipo di osservazione; il termine
osservazione può sembrare un po’ controintuitivo. Esso lo utilizziamo per parlare di prestazioni
abbastanza sofisticate, infatti compiere un’osservazione è un guardare qualificato, uno studio.
Nel caso di Husserl il problema era che stando noi su un piano ancora ante-predicativo, ovvero un
piano che fa da base ad ogni predicazione e le cui operazioni non sono riconducibili a quelle della
predicazione, nonostante noi abbiamo una focalizzazione sugli oggetti, rigidità semantica ecc. noi
comunque non abbiamo una presa di posizione.
La presa di posizione, l’impegno è caratteristico del livello predicativo: è nella predicazione che io
prendo posizione, dico qualcosa e voglio dire la verità.
Fino a qui questa predicazione non c’è stata, c’era l’OSSERVAZIONE = TIPO DI ESPERIENZA
IN CUI IL SOGGETTO NON PRENDE POSIZIONE.
Le altre scelte possibili sono ancora peggiori dell’osservazione, ad esempio contemplazione implica
un disinteresse, quindi non è possibile pensare ad una contemplazione senza pensare che sia il
risultato di una pratica su sé stessi.
In quest’osservazione non si tratta di esplicitare un oggetto ma di mettere in relazione più oggetti;
questi altri oggetti con cui viene messo in relazione l’oggetto principale sono oggetti che
costituiscono il contesto dell’oggetto principale oppure lo sfondo dell’oggetto principale o ancora lo
sfondo della osservazione di quell’oggetto.
Sono 3 strumenti per capire perché non possiamo non accedere all’osservazione relazionante che
c’è sin da sempre
- CONTESTO
Siccome non è immaginabile un oggetto che non sia in un contesto di oggetti; la familiarità
tipica dell’oggetto riguarda l’orizzonte interno ma anche il fatto che deve essere posto in un
contesto.
- SFONDO PERCETTIVO
Qualcosa a cui non avevamo prestato attenzione ci richiama; sono quindi oggetti dello
sfondo percettivo rispetto all’oggetto principale.
- SFONDO DELLA MIA ESPERIENZA/SFONDO TEMPORALE
Lo sfondo però può essere anche della mia esperienza quindi costituito da mie esperienze
passate; popolato da oggetti passati o dallo stesso oggetto al passato.
Relazione: la consideriamo isolatamente ma non possiamo immaginare un’esplicitazione che sia
solo relazione; se sto percependo un oggetto do per scontato che esso abbia un contesto, uno sfondo
percettivo e uno sfondo della mia esperienza, allora la relazione è una cosa che l’osservazione fa
dall’inizio, da sempre (la relazione non è uno stadio ulteriore).
Allora esiste qualcosa che distingue l’osservazione relazionante da quello che abbiamo spiegato fin
ora, queste tre cose (contesto, sfondo percettivo e sfondo della mia esperienza) erano già presenti.
Quando abbiamo visto l’esempio del CESTO DI MELE, questo era 1 oggetto. La mela, il cesto di
mele hanno sempre avuto un contesto, uno sfondo percettivo e uno esperienziale; ma ora si tratta di
mettere a tema le relazioni che sussistono tra l’oggetto principale + uno o più oggetti del
67
contesto/uno o più oggetti dello sfondo percettivo/uno o più oggetti dello sfondo temporale
dell’esperienza.
La cosa che ora è diversa è che ora penso alle relazioni che ci sono tra l’oggetto principale e uno o
più oggetti che stanno in contesto/sfondo p./sfondo t.
Prima c’era un unico oggetto e basta, adesso c’è un oggetto principale che viene messo in relazione
con oggetti secondari; io qui metto a tema le relazioni tra 1 oggetto principale e degli oggetti
secondari.
Tutto questo posso farlo secondo la base di un’unità intuitiva; Husserl già ci dice che i modi della
relazione corrispondono ai modi dell’unità intuitiva: tanti modi ci sono per mettere in relazione
quanti modi ci sono per costituire un’unità intuitiva.
- Relazione 1 oggetto principale e 1 oggetto del suo contesto
- Relazione 1 oggetto principale e 1 oggetto sullo sfondo
- Relazione 1 oggetto principale presente e 1 oggetto secondario assente
Esse sono 3 relazioni diverse e implicano 3 unità intuitive differenti.
Allo stesso modo delle esplicitazioni, anche le correlazioni possono diventare delle abitudini.
La relazione non è un livello superiore rispetto all’esplicitazione perché lavora su cose che già
esistevano prima; però nel caso della relazione io metto a tema la relazione tra oggetto principale e
oggetto secondario. Le relazioni non c’erano nell’esplicitazione ma vengono ora messe a tema.
Inoltre a seconda del tipo dell’azione avrò bisogno di un tipo diverso di unità intuitiva.
Come le esplicitazioni, anche le correlazioni aumentano la familiarità he ho rispetto al tipo di un
oggetto: quello che abbiamo detto sull’abitudine vale anche qui.
La cosa che qui non può valere è il restare impresso, esso funziona perché agisce su una proprietà;
una relazione non può essere il carattere distintivo di un oggetto siccome la relazione non è un
carattere/proprietà.
Le relazioni popolano l’orizzonte esterno degli oggetti, quindi anche metaforicamente quando
esplicito vado dentro il suo orizzonte interno e quando correlo vado fuori dall’oggetto principale e
mi vado a trovare un altro oggetto con cui metterlo in relazione. L’orizzonte interno implica un
guardare all’interno dell’oggetto mentre quello esterno implica un passaggio da un oggetto ad un
altro oggetto.
Questo determina una grande differenza: mentre la esplicitazione funzionava come sintesi di
coincidenza continue, ora nella correlazione accade una sintesi non più continua ma DISCRETA.
Caratteristiche che deve avere una correlazione:
1° caso: Distinzione collegamento collettivo/correlazione vera e propria
È la precondizione della correlazione. Sto vedendo delle cose che stanno sulla scrivania; non le sto
vedendo una ad una ma le sto vedendo in sequenza. Vedere collettivamente, avere il collegamento
collettivo non è: telefono + portapenne + lampada + matita.
Ma è:
[telefono] + portapenne;
[telefono, portapenne] + lampada;
[telefono, portapenne, lampada] + matita.
SUCCESSORE: un elemento successivo è tale rispetto a tutti i suo precedenti messi insieme; la
matita è l’oggetto successivo non alla lampada, ma all’insieme telefono, portapenne, lampada.
Numericamente è:
[1] + 2
[1, 2] + 3 (e non 2+3)
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Ciò a cui si addiziona l’oggetto soggettivo non è un solo oggetto (tranne che nel primo passaggio
ovviamente), ma tutto quello che già c’era prima.
Tuttavia, così io non sto correlando secondo Husserl; sto solo facendo dei passi verso l’apprensione
di pluralità. Non so precisamente quanti oggetti sto considerando e nemmeno quali sono, so solo
che solo una pluralità di oggetti.
Questa caratteristica del collegamento collettivo è passivamente presente nello sguardo che scorre.
(non è da confondere con la prestazione COGNITIVA della lettura delle pagine di un libro senza
capire, qui parliamo di prestazione PERCETTIVA; le cose che faccio per vedere l’oggetto sulla
scrivania sono diversissime da quelle che faccio per leggere un libro)
Da tutto ciò deriva la coscienza di una pluralità di oggetti successivi; non ho la vera successione di
oggetti ma una successione/sequenza particolare: ogni nuovo oggetto è il successivo di tutti quelli
prima e non solo quello immediatamente precedente.
Esempio di Husserl del portapenne:
Osserviamo il portapenne; il nostro sguardo vira dal portapenne che resta in pugno come
nostro tema, al piano della scrivania. Il piano della scrivania lo tiriamo dentro la sfera
dell’osservazione senza farne il tema principale, ma considerandolo solo in relazione al
portapenne. Giro gli occhi e il piano della scrivania non diventa un altro oggetto principale;
scrivania = oggetto a parte in relazione rispetto al portapenne.
Senza doverci rivolgere di nuovo ad esso il portapenne, che è ancora tenuto in pugno,
diventa il portapenne che si trova sulla scrivania.
Così sto enunciando il più semplice delle relazioni che esamina Husserl.

69
13 LEZIONE

Comparazioni e Connessioni
Il contesto è: l’insieme degli altri oggetti che io percepisco non tematicamente quando esplicito
l’oggetto principale, lo sfondo è costituito da tutto ciò che non costituisce l’oggetto della mia
attenzione, nello scenario percettivo. Lo sfondo è un insieme di oggetti passati. Ne parlo
informalmente, non di veri e propri insiemi, ma di una pluralità di cose.
Queste sono precondizioni per la correlazione e sono presenti nel set dell’esplicitazione: ciò che
mancano all’esplicitazione è che vengano delineate le relazioni tra l’oggetto principale tematico e
gli oggetti che costituiscono lo sfondo, queste relazioni non compaiono nell’esplicitazione, benché
le relazioni siano già presenti.
Le relazioni possono essere almeno di due tipi:
- comparazioni, studieremo le relazioni di somiglianza e uguaglianza;
- connessioni.
La delineazione delle connessioni è diversa dalla determinazione di un collegamento collettivo. Le
relazioni condividono con l’esplicitazione il risultato di quest’operazione come dell’esplicitazione
viene acquisito all’interno delle nostre abitudini, all’interno della nostra conoscenza implicita
all’interno di ciò che diamo per scontato. Questo accumulo di conoscenze implicite aumenta la
familiarità tipica degli oggetti, e non solo per gli oggetti per le loro determinazioni, ma anche per le
relazioni con altri oggetti.
Questo è un elemento in comune tra esplicitazioni e correlazioni: l’elemento in comune è che
possono essere struccate della conoscenza di sfondo.
La ragione della grande insistenza di Husserl per le operazioni che vengono compiute su livelli di
esperienza molto elementari, in questo caso l’esperienza antepredicativa, ha uno scopo principale:
quello di spiegare da cosa è costituita conoscenza in sé.
Quando io dico, e l’ho detto varie volte, che nell’assetto che noi abbiamo all’interno della
conoscenza dell’esperienza quotidiana per cui c’è sempre qualcosa che do per scontato,
quest’assetto provoca una domanda: da cosa è fatta la conoscenza che do per scontata? Da cosa è
fatto il patrimonio di ciò che do per scontato. In cosa consiste? Consiste in tutte le esplicitazioni e
correlazioni che si sono stoccate nella nostra conoscenza implicita. Di questo è fatto il mondo che
diamo per scontato. Quando inizio a tematizzare qualcosa dico che c’è già una conoscenza di
sfondo.
Tutte le cose che si sedimentano dopo le esplicitazioni e le correlazioni, laddove possono anche non
attirare il massimo del mio interesse, non è detto che siano quelle di una persona che sta davanti a
quell’oggetto e si trattiene davanti all’oggetto.
Qual è la ragione per cui si parte da qua? La ragione per cui si parte da qua è per spiegare di cosa è
fatto ciò che diamo per scontato. Di cosa è fatto il mondo dato per scontato.
E’ fatto di tutte queste cose che noi acquisiamo e stocchiamo in maniera più implicita o meno
implicita dei risultati delle nostre operazioni di esplicitazione e correlazione. E’ inevitabile che
Husserl sottolinei questo carattere comune delle correlazioni e delle esplicitazioni.
Queste sono le tre condizioni che sono presenti anche nello scenario dell’esplicitazione, ma che nel
caso dell’esplicitazione non vengono prese in considerazione. Questa è la differenza specifica nel
caso delle correlazioni, si delineano relazioni.
Questo è un altro elemento comune tra correlazione ed esplicitazione, entrambe si sedimentano, si
conservano, non in una memoria rappresentativa esplicita, ma in uno sfondo, esattamente ciò che do
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per scontato a cui non guardo e a cui non ripenso.
Possiamo immaginare che ciò che più si sedimenta in un’esplicitazione è che un oggetto abbia delle
determinazioni, ciò che più si sedimenta nelle correlazioni sarà sempre il fatto che un oggetto è
sempre vicino o lontano da un altro o che un oggetto è sempre simile o dissimile rispetto ad un altro
ecc.
Di questo è fatto il mondo che noi diamo per scontato, il mondo del “già dato”.
L’opzione husserliana è per un solipsismo metodologico, ma è un’opzione non ha un senso teorico
vincolante, non bisogna per forza partire da qui, ma si parte da qua perché è più facile spiegarlo.
Proprio nel corso dell’analisi delle correlazioni vedremo come entrano in scena gli altri attraverso
uno stratagemma molto sofisticato.
Dunque noi siamo sempre all’opera ed è ovvio che questo stock knowledge sia un patrimonio
personale che sia diverso a seconda delle funzioni che un individuo svolge nella sua vita. Noi è
come se studiassimo da una sola fonte, quella che passa attraverso la nostra esperienza, è questa
mozione metodologica non è un obbligo concettuale, non significa che le conoscenze siano
accumulate all’interno di un recinto privato di ciascuno di noi, le conoscenze possono essere anche
accumulate anche dalla comunità, tuttavia le conoscenze accumulate dalla comunità, la porta
d’ingresso perché valgano per ciascuno di noi è sempre l’esperienza di ciascuno di noi.
Questo stock knowledge, questo patrimonio di conoscenza può anche essere condiviso da una
comunità, ma perché poi sia acquisito da ogni singolo deve passare per la sua esperienza altrimenti
non è un suo patrimonio.
La correlazione andava distinta da un fenomeno che gli assomigliava molto che era il collegamento
collettivo. Al di là dell’interesse husserliano, in questo capitolo, per definire che cosa sono le
correlazioni, spiegare le differenze tra le relazioni diverse, l’interesse husserliano qua dentro è
anche quello di raccontarci la strada verso l’apprensione di pluralità ed è anche quello di farci capire
attraverso un analisi della temporalità oggettiva come allarghiamo lo sguardo dall’individuo
all’insieme.
Il collegamento collettivo serve a farci capire un altro passo dell’apprensione di pluralità. Nel
capitolo precedente c’eravamo fermati all’esempio del cesto di mele, della miriade di stelle o del
mucchio di sassi. In quel caso noi non avevamo un’autentica apprensione di pluralità perché
avevamo l’apprensione di unità: un cesto di mele, una miriade di stelle, un mucchio di sassi.
Ora ne abbiamo un fenomeno leggermente diverso che è il collegamento collettivo, non ancora
abbiamo una vera e propria pluralità, non ancora possiamo dire di aver costituito un insieme, ma
abbiamo qualcosa di diverso dal cesto di mele.
L’esempio che fa Husserl è quello di uno sguardo che trascorre sugli oggetti che sono presenti su
una scrivania: questo sguardo è come se aggiungesse ogni oggetto successivo a quelli precedenti.
Poniamo di avere vari oggetti: si inizia da A, poniamo che abbiamo questo primo punto di partenza;
C si aggiunge all’apprensione che avevo di A e di B.
C è l’elemento successivo addizionato, aggiunto ad A e B, anche se io A e B non li trattengo
vivacissimamente, anche se non sono più il mio tema principale. Poi aggiungo ad A,B,C un
elemento successivo che è D; poi abbiamo A,B,C,D e l’elemento successivo è E.
Perché questa non è una pluralità? Perché io qui ho sempre 2 elementi, non ho 5 elementi, ma allo
stadio finale ho 2 elementi, i precedenti più il successivo (A,B,C,D+E). Non è una pluralità perché
non ho 5 elementi correlati in un certo modo. C’è l’aggiunta dell’ultimo elemento a quello che
veniva prima.

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Dunque, io non ho pluralità e non ho propriamente neanche apprensione di relazione, non sto
delineando una relazione, tuttavia questo è un passo in avanti rispetto al cesto di mele. Non sono più
chiuso nell’unità di un oggetto, il cesto di mele, ma ho qualcosa in più: un gruppo di oggetti
precedenti e l’addizione di uno successivo.
Questa situazione si distingue dal cesto di mele perché c’è un addizione e perché per fare
un’addizione io ho bisogno di una cosa che prima, nel caso dell’esplicitazione non avevo messo a
tema, e cioè ho bisogno di un’unità che comprenda il gruppo degli oggetti precedenti e l’elemento
successivo.
Nel caso dell’esplicitazione io quest’unità non la devo menzionare, perché ho un solo oggetto, è
l’oggetto che mi da unità.
Il mio presente esteso e la presenza dell’oggetto mi bastano, certo quell’oggetto non è isolato e si da
sempre per assurdo che ci sia un contesto e uno sfondo, però io nell’esplicitazione parlo di un
oggetto, quindi, non ho bisogno di parlare di un’unità che contenga oggetto e determinazione; è
l’oggetto che contiene le determinazioni. Non ho bisogno di specificare la presenza di un’unità che
contenga.
In questo caso, invece, inizia a sorgere il bisogno di precisare che c’è un’unità che tiene insieme i
precedenti e il successivo.
Ricapitolando, non è una relazione però facciamo il primo passo di avere la nozione di aggiunta,
addizione, il successivo.
Nel secondo passo abbiamo bisogno, per fare un’addizione, di dire che qui c’è un’unità che
contiene gli elementi precedenti e l’elemento successivo.
Nel caso della scrivania l’unità è banale, è l’unità della mia percezione attuale. La mia percezione è
in atto, gli oggetti mi sono presenti, gli oggetti li percepisco ora, gli oggetti sono presenti ora, gli
oggetti sono contenuti in un’unità temporale che è quella dell’ “ora percettivo”.
Ho la nozione di aggiunta, di successivo e la nozione di unità temporale.
Sulla nozione di unità temporale Husserl insisterà molto, ma già ora possiamo capire che questa
unità è l’unità della mia percezione, cioè è la mia percezione attuale, che è percezione di oggetti, i
quali sono presenti a me ora. Quindi, io sto percependo e gli oggetti sono presenti. L’unità
temporale che ci serve è certo l’unità del tempo interno, la mia percezione attuale, ma è anche e
necessariamente l’unità degli oggetti: gli oggetti sono presenti ora.
Questa storia del collegamento collettivo non è ancora una relazione, ma è un passo avanti e una
precondizione della relazione. Perché?
Perché in questo modo e attraverso la nozione di successivo, io istituisco una specie di ordine, un
ordine tenuto insieme da un’unità temporale e che è quindi, un ordine della mia percezione, ma è
anche un ordine in cui stanno gli oggetti che sto osservando. Grazie a questo, unità e ordine, io a
questo punto posso osservare in che relazione stanno B e D. Dirò che D è più vicino ad E, oppure
che E è vicino a D. C’è un ordine, ma non è un ordine fisso. Avrei potuto iniziare a guardare anche
dall’altro lato della successione, e l’ordine, a quel punto, sarebbe stato capovolto.
Le relazioni più semplici che possiamo trovare tra gli oggetti di una scrivania sono quelle che
potremmo chiamare correlazioni tra i luoghi occupati dagli oggetti. Io ho un’unità temporale, un
ordine temporale che è un ordine, ma è variabile, lo posso invertire e le connessioni più semplice
che posso pensare rispetto agli oggetti della scrivania sono relazioni, ovvero connessioni tra i luoghi
occupati dagli gli oggetti e così posso dire che D è a sinistra di E, se il mio ordine fosse stato

72
quell’altro direi che E è a destra di D. Dunque, dico due cose diverse.
Posso rendermi conto solo dopo, quando avrò padronanza del pensiero predicativo che D è a sinistra
di E e E è a destra di D che sono la stessa cosa, hanno lo stesso significato, ma ci devo riflettere; sul
piano dell’esperienza che stiamo raccontando, D è a sinistra di E e E è a destra di D dicono due cose
diverse perché sono parti di due esperienze diverse, perché queste due esperienze di distinguono in
virtù dell’ordine con cui sono state relativizzate.
Sul piano dell’esperienza che stiamo raccontando in cui stanno per venir fuori le relazioni, A>B è
diverso da B<A. Questo può sembrare un’assurdità perché sono identiche.
Queste due cose sono diverse su questo piano dell’esperienza perché ciascuna è parte
d’un’esperienza diversa. Il contenuto delle due esperienze è differente perché hanno un ordine
temporale differente. Tuttavia, già sul piano della correlazione, ovvero quando il piano della
correlazione è ben avviato, accade questo: che io dico A è più grande di B, poi faccio il percorso al
contrario e dico B è più piccolo di A; quando dico che B è più piccolo di A non m’accorgo che sto
dicendo la stessa cosa, poi ci rifletto.
Sulla base dell’osservazione relazionante posso realizzare una riflessione, quando realizzo una
riflessione non realizzo una riflessione sui singoli elementi, ma su che cosa? Sulla relazione che
lega i singoli elementi. Quando rifletto sul fatto che la relazione nei due casi è la stessa, in realtà
rifletto sul fatto che tra i due elementi vi sia una relazione. La riflessione che faccio non è che ha
due risultati, bensì un solo risultato, che io posso enunciare in due modi:
- R è la stessa;
- Tra A e B c’è R.
Queste due cose sono uguali e di questo mi accorgo quando rifletto sulla relazione che lega A e B.
A è più grande di B e B è più piccolo di A, sul piano che stiamo esplorando sono due enunciati con
significato diverso perché il loro significato dipende dall’esperienza che di fatto viene compiuta.
Una ha un ordine temporale e l’altra ha un altro ordine temporale. Io posso rifletterci, però.
Compiere una terza osservazione, un’osservazione questa volta riflessiva, ci rifletto e mi accorgo
che i due enunciati dicono la stessa cosa, ovvero che al di là dei simboli di grande e piccolo, A è in
relazione con B, ma ci devo riflettere.
Quindi, collegamento collettivo, dico che una cosa è a destra dell’altro, mi rendo conto che la cosa
che ho detto è dipendente dal verso della mia esperienza, dall’ordine temporale della mia
esperienza; vado al contrario e dico che invece è B che è a destra di A, dico un’altra cosa, sto
facendo un’altra esperienza. Poi ci rifletto non più sui singoli oggetti, ma sulla relazione tra i singoli
oggetti e quando ci rifletto emerge e si delinea la relazione.
Il passo di avvicinamento è il collegamento collettivo, dopodiché vado avanti e indietro e ci rifletto.
Rifletto che questi due enunciati hanno lo stesso significato e hanno lo stesso significato perché tra
A e B sussiste una relazione.
Così emerge la relazione ed emerge avendo già una caratteristica importantissima che eredita dal
modo in cui l’abbiamo costruita (andando avanti e indietro), quando glie la devo attribuire dico che
la relazione è reversibile. Il mio sguardo non è reversibile, il mio sguardo è andato avanti e indietro,
il fatto che però sia andato avanti e indietro ha costituito una caratteristica che io attribuisco alla
relazione, la quale è reversibile. Perché è reversibile? Perché è nata da qua.

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Al secondo stadio, dunque, quei due enunciati dicono due cose diverse perché fanno parte di due
esperienze differenti. Quando ci rifletto capisco che la cosa rilevante di tutto questo gioco è che tra
A e B c’è una relazione, in questo caso reversibile.
Dunque, cosa abbiamo acquisito finora? Per avere relazioni c’è bisogno di un’unità temporale
soggettiva interna e oggettiva; abbiamo anche spiegato che non basta lo sguardo panoramico e
l’aggiunta di un elemento successivo a quelli precedenti per avere relazioni perché quello che devo
fare è impegnarmi in un’osservazione che abbia all’interno dell’unità un ordine, impegnarmi a
cambiare quell’ordine e a riflettere su quello che ne viene fuori.
Non tutte le relazioni saranno reversibili, ovviamente. Saranno reversibili quelle relazioni che hanno
questa genesi, ma la condizione iniziale delle relazioni è la loro reversibilità perché le prime
relazioni che apprendo sono delle relazioni spaziali e per come le costituisco nell’esperienza sono
reversibili. Poi ad un livello più alto m’accorgerò di quelle relazioni che non lo sono.
Il tempo è condizione. La precondizione dell’unità temporale, ma io non stabilisco innanzitutto
relazioni all’interno del tempo, realizzo relazioni all’interno dello spazio, nel mio presente esterno.
Quando inizio a pensare al tempo m’accorgo che ci sono molte relazioni che non sono reversibili.
L’unità temporale è il fundamentum relationis, il fondamento delle relazioni; rispetto allo stato delle
opzioni a sua disposizione per rispondere alla domanda “qual è il fondamento delle relazioni?” e le
opzioni principali erano o “il fondamento sono io che collego” o “sono le cose che hanno relazioni
come delle proprietà”: rispetto a questa situazione Husserl trova una terza via.
La terza via è l’unità temporale soggettiva e oggettiva. Questo è il fondamento della relazione.
Dunque, le relazioni non sono proprietà delle cose, ma non sono neanche il prodotto del mio
collegamento. Le relazioni hanno come fondamento un’unità temporale soggettiva e oggettiva.
Quando si parla di tempo oggettivo, si parla semplicemente del tempo degli oggetti, non del tempo
oggettivabile attraverso misure (anche, ma dopo).
Anzitutto si dice che c’è un tempo interno che è enunciabile molto facilmente: “ora sto parlando”.
Invece, se dico “voi siete ora presenti”, questa è un’asserzione sull’ora oggettivo, di voi come
oggetto della mia esperienza.
Ora sto ricordando qualcosa di passato, questo è più facile, emerge di più la differenza tra tempo
interno e tempo degli oggetti.
Sto ricordando degli oggetti che non sono presenti com’è presente il mio ricordo, ma sono oggetti
passati. Ora io ricordo, ma il tempo degli oggetti ricordati non è ora, è passato.
E’ chiara la differenza tra tempo interno e tempo oggettivo, ed è chiaro anche che non c’è bisogno
di non fare nessuna premessa metafisica per distinguerli.
Il tempo interno è il tempo dell’esperienza intenzionale, cioè di un’esperienza che ha un riferimento
all’oggetto. Può capitare che il tempo interno sia un’ora e il tempo degli oggetti sia un’ora, come
nel nostro caso.
Può capitare che il tempo interno sia un’ora, sto ricordando, e il tempo degli oggetti sia un allora, ed
è inevitabile che sia così, perché gli oggetti del ricordo sono, per definizione, passati.
La nozione di passato degli oggetti deriva dalla nozione di oggetto ricordato; se un oggetto è
ricordato, un oggetto è passato e se un oggetto è passato lo puoi solo ricordare.
Altrimenti avrei invertito la mia analisi e sarei partito dal tempo degli oggetti e sarei poi arrivato al
mio tempo interno, quello che è passato lo puoi solo ricordare, ma chi mi assicura che sia passato?
Chi me lo dice? Io, invece, dico “sto ricordando”, un’esperienza che facciamo tutti, che ricordiamo
qualcosa che non è presente e che ha preso posto nel mio passato.
74
Le connessioni spaziali, per come sono ottenute, sono anche reversibili.
Vediamo altre due caratteristiche della relazione: ovvero delle operazioni che devo fare per far
uscire fuori le relazioni. Un’altra caratteristica delle relazioni è che non mi trovo più davanti ad un
singolo oggetto, ma ad almeno due oggetti. Perché questo è lo scenario che conquistiamo con il
collegamento collettivo, quelli precedenti e quelli successivi. Non abbiamo più un solo oggetto, ma
ne abbiamo almeno due. Questi due oggetti per stare insieme hanno bisogno di un’unità temporale.
Di questi due oggetti noi possiamo osservare le relazioni che riguardano entrambi gli oggetti ed il
problema è capire come stanno in piedi queste relazioni con i poveri mezzi che abbiamo ereditato
dall’esplicitazione.
Con l’esplicitazione la cosa era facile, questo è un simbolo oggetto e sopra ci costruiamo: A1, A2,
A3. Queste sono le determinazioni che si basano sul singolo oggetto.
Questo non lo possiamo più fare. In questo caso avevamo delle sintesi di coincidenza, ovvero che le
determinazioni coincidevano parzialmente con l’oggetto, col sostrato. Queste sintesi di coincidenza
le chiamiamo sintesi di coincidenza continue, c’è un solo oggetto e tutte coincidono su
quell’oggetto.
Ora dobbiamo spiegare come si fa a delineare relazioni, sapendo che con le relazioni non mi posso
affidare alle stesse sintesi di coincidenza che valevano per l’esplicitazione.
La strategia husserliana è dire che anche qua abbiamo sintesi di coincidenza, che queste sintesi di
coincidenza sono discrete, non continue. Che significa? Significa che qui non sono le
determinazioni che coincidono sull’oggetto, ma sono gli oggetti che coincidono nell’unità
temporale, che ricadono nell’unità temporale.
Quindi, anche qui abbiamo una sintesi di coincidenza, ma questa è discreta.
1 oggetto, 2 oggetto entrambi cadono qua dentro, coincidono qua dentro.
Facciamo un passo in avanti a vedere i tipi di relazione e poi torniamo al tempo.
Le relazioni che qui Husserl studia:
- comparazione
- connessione
In questo modo Husserl traduce altri due concetti classici dell’empirismo inglese ovvero quello di
relazioni tra idee e relazioni tra fatti. In Hume, le relazioni tra idee erano, per esempio, quelle della
somiglianza, mentre la causalità, l’identità, la continuità nello spazio e nel tempo erano relazioni tra
fatti.
Le relazioni di idee erano relazioni che stavano in piedi soltanto in virtù del contenuto delle idee:
una sedia è simile ad una poltrona; qualsiasi sedia è simile a qualsiasi poltrona, non c’è bisogno di
verificare che esistano sedie e poltrone perché il contenuto dell’idea di sedia e quello dell’idea di
poltrona sono sufficienti a fondare la loro relazione di somiglianza. Questa è una relazione tra idee,
cioè tra contenuti di idee.
Per le relazioni tra fatti, invece, non basta il fondamento prestato dal contenuto delle idee, ma c’è
bisogno di stabilire un loro riferimento per le idee. Quindi, se io dico: la sedia è a sinistra del tavolo,
devo stabilire e far venire in chiaro che l’idea di sedia, in questo caso, ha un riferimento e che ce
l’ha anche l’idea di tavolo; se non ha un riferimento a qualcosa di esistente, di pensato, di
immaginato, di ricordato, quella relazione non sta in piedi. Quella relazione è dipendente dal
riferimento agli oggetti. La relazione della somiglianza non ha bisogno del riferimento ad oggetti,
qualsiasi sedia tu stia pensando e anche se non la pensi, l’idea di sedia è simile all’idea di divano.

75
Hume consegna a Kant un meccanismo che secondo Kant è esplosivo: perché secondo lui, Hume
aveva polarizzato questa differenza da un lato, i giudizi analitici, che avevano come oggetto le
relazioni tra idee, valevano sempre perché non avevano bisogno del riferimento perché non avevano
bisogno della verifica di quel riferimento, bastavano i contenuti delle idee; dall’altro lato vi erano i
giudizi sintetici che implicavano una verifica del riferimento. I primi, secondo Kant, erano analitici
a priori, e i secondi erano sintetici, ma pure a posteriori (perché io quel riferimento lo posso
verificare solo a partire da una esperienza che sia quella percettiva, che sia quella del ricordo, che
sia quella dell’immaginazione, sempre d’esperienza si tratta).
Le cose non stavano proprio così in Hume, ma non è importante.
Fatto sta che questa polarità (relazioni tra idee e relazioni tra fatti) resta dopo Hume e dopo Kant e
arriva ad Husserl.
Husserl ha un rapporto con Kant che è mediato da Hume, sembra un anacronismo, si sente
successore di Hume, dopo Kant, ma nella sua ricostruzione della storia della filosofia vale quasi
sempre. Si sente successore dei sofisti, dopo Platone. Si sente successore di Berkeley, dopo Hume.
Cioè vi è un’affinità con le domande dei distruttori e un’affinità con la necessità di dare risposte da
parte dei costruttori, ma un disaccordo con le risposte dei costruttori.
Questa differenza lui la prende integralmente da Hume.
E si può dire che l’intero percorso husserliano su questo versante, è quello di implementare la teoria
humiana delle relazioni tra idee, allargando la sua estensione: le idee le possiamo ricavare da ogni
tipo di esperienza che abbiamo e forse un minimo di formalità ce l’abbiamo in tutte le esperienze
che abbiamo e che facciamo e in tutte le asserzioni che possiamo formulare.
In queste pagine di “Esperienza e Giudizio” c’è plasticamente una presentazione di queste due
modalità:
- le relazioni tra idee diventano comparazioni, e si fanno solo sul contenuto. Tant’è vero che io
posso comparare tutto con tutto. Il risultato della comparazione non è solo la somiglianza più o
meno alta, ma anche la differenza. Posso comparare una finestra ad uno in aula, dicendo che sono
diversi. Posso comparare anche a vuoto e lo faccio ancor di più a vuoto quando parlo di x e y, non
penso a niente di particolare quando penso ad x e y dicendo che sono diversi. La comparazione mi
da questa possibilità, essa ha presa solo sul contenuto ideale e quindi, non ha bisogno di alcun
riferimento.
paragrafo 43 a pag. 156
Siamo coscienti di più oggetti in un’unità di un’intuizione (in un solo tipo di esperienza) oppure ne
siamo coscienti in più intuizioni non correlate (facciamo più esperienze di più oggetti); in entrambi
casi vi è un’unità, nel primo caso un’unità dell’esperienza singola che sto facendo, nel secondo caso
vi è un’unità temporale più estesa.
Quindi, anche intuizioni diverse, anche esperienze intuitive diverse, poiché sono il prodotto di una
sola coscienza e possono essere evocate, richiamate da una medesima coscienza possono essere
collegate insieme in un’unità temporale. Per esempio, la scrivania ricordata di cui mi ricordo
guardando la scrivania che ho ora, poi mi ricordo della scrivania che avevo due anni fa, la scrivania
ricordata che abbiamo “spostato” nello spazio percettivo e io potessi comparare le due (è stata
richiamata nell’unità della mia coscienza); senza dubbio la scrivania ricordata non ha un’effettiva
posizione spaziale rispetto a quella percepita è solo “quasi, come se” fosse accanto ad essa e allo
stesso modo, la scrivania ricordata non ha una precisa posizione temporale rispetto alla scrivania
percepita eppure io posso comparare le due scrivanie. Non posso dire, ovviamente, che la scrivania

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ricordata è a sinistra di quella percepita; posso dire, però, che era più grande o più rossa di quella
percepita.
Cosa si riesce legittimamente a dire? Si riesce a fare comparazioni, non connessioni, dunque.
In questo caso, quando ci capita di fare comparazioni, ci capita sia all’interno dell’unità della nostra
esperienza, ma queste comparazioni riguardano solo le idee, il contenuto delle idee, riguardano le
essenze. Riguardano i tipi.
Quello che sto facendo è comparare la posizione che aveva la mia scrivania prima e quella attuale,
posso dire che comparo i tipi.
Io posso comparare oggetti che mi sono tutti presenti e per esempio, posso dire che questo verde è
diverso da quest’altro verde, i due oggetti mi sono presenti, non mi devo scervellare su quale sia
l’unità di base di quale sia la mia comparazione perché mi è data dal loro tempo oggettivo.
Posso, però, comparare anche oggetti che non sono entrambi presenti.
Se sono entrambi presenti, sono anche comparabili, l’unità nel loro tempo oggettivo, la
compresenza oggettiva è anche condizione di comparabilità. Se non sono presenti sarà il mio tempo
interno, quello da cui dovrò partire per determinare la loro unità e quindi la possibilità di
compararli.
Quest’unità che è alla base di ogni relazione, in questo caso delle comparazioni, è il fondamento di
tutte le relazioni di uguaglianza e somiglianza, ovvero di tutte le relazioni di comparazione;
relazioni queste, che non sono di realtà.
Esse sono state tradizionalmente, da Hume e altri annoverate tra le relazioni tra idee, perché sono
fondate solo nei contenuti delle rappresentazioni.
La loro forma di unità, la forma di unità che hanno gli oggetti che comparo è fondata
esclusivamente sui contenuti d’essenza, ovvero determinati momenti essenziali degli elementi
combinati.
Contenuti dell’essenza non sappiamo che significano, ci basta usare il “tipo”, perché il tipo ci ha già
dato la possibilità di staccarci dalla singola occorrenza.
Questa è una vostra amica, non so qual è il suo nome, la chiamo “vostra amica”, quindi, per il suo
tipo. Domani senza vedere nessuno posso dire che una delle studentesse è più alta di un’altra.
Lo faccio semplicemente utilizzando il tipo che è questo deposito. Questa sorta di prototipo
concettuale che io mi formo a partire dall’esperienza.
Nel tipo non c’è tutto quello che caratterizza l’occorrenza, ci sono tratti essenziali, minimi, ma
anche nel senso di tratti che non possono non esserci quando c’è quell’occorrenza. Che lei sia figlia,
sorella ecc. non sono tratti essenziali; perché lei sia studentessa basta avere i tratti essenziali
all’essere studentessa.
Queste comparazioni si fanno su contenuti essenziali.
Ragionando sul tipo, un tipo di sedia, un tipo di porta, un tipo di canna fumaria, un tipo di
termosifone, tutti questi tipi non raccolgono tutte le caratteristiche di ogni individuo termosifone,
sedia, porta, canna fumaria ecc.
Cosa mettono insieme? I tratti salienti, i tratti essenziali, nel senso che sono elementari e necessari.
Non sono i tratti, però, anche sufficienti a dire che questo è il tipo di termosifone di cui stavo
parlando, perché per identificare quel termosifone devo aggiungere dei tratti.
Tutte quante siete studentesse, ciascuna di voi è diversa per i suoi tratti sufficienti alla propria
identificazione; i tratti necessari a dire che siete studentesse ce li avete in comune. Quindi, queste
comparazioni si fanno tra contenuti di essenze, ovvero tra cluster di caratteristiche tipiche che
rappresentano le caratteristiche elementari o necessarie. Un tipo di termosifone non ha bisogno del
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riferimento alla realtà e non si impegna con la realtà.
In quest’aula c’è un termosifone: posso voler dire che ce ne sia uno e non due o, nel nostro caso,
che c’è un termosifone imprecisato, un oggetto che appartiene al tipo termosifone. Poi questo può
essere rotto, bianco, nero: questi sono tutti caratteri sufficienti alla sua identificazione, ma io voglio
quelli necessari.
Visto che non c’è la sufficienza dell’individuazione, non c’è impegno con la realtà, queste non sono
relazioni “reali” perché non pesano sulle caratteristiche sufficienti ad individuare oggetti.
Le relazioni tra fatti diventano connessioni.
Per dire che il termosifone è a destra del pilastro io devo individuare il termosifone, devo
individuare il pilastro e mi devo impegnare sulla loro realtà, questa è una connessione.
Le connessioni sono, invece, quelle che la tradizione ci ha fatto arrivare come “relazioni di realtà
(tra fatti/dati di fatto)”.
paragrafo 43 b pag. 157
Esse riguardano la connessione effettiva tra elementi della relazione tra dati di fatto. Se prima, nel
caso della comparazione, avevamo bisogno solo del carattere necessario e non di quelli sufficienti
alla individuazione, nel caso della connessione, abbiamo bisogno dei caratteri sufficienti
all’individuazione degli oggetti connessi.
Cosa avevamo detto prima?
Se gli oggetti mi sono presenti, li posso comparare, se non sono presenti, li metto dentro un’unità e
li comparo, se non sono presenti non mi sono presenti e non è importante la mia posizione spaziale
e temporale. Loro non mi sono presenti e io non è importante dove sia: posso essere in corriera, in
metro, ovunque mi immagino quello che mi pare; ma per vedere questo termosifone devo stare qua.
Ancora una volta c’è una reciprocità tra tempo interno e tempo esterno.
Se gli oggetti che penso non sono presenti, io posso stare dove voglio, la mia posizione è
trascurabile e irrilevante; se parlo di oggetti presenti, la mia posizione non è trascurabile.
Se io voglio trascurare la mia posizione posso fare solo comparazioni, non posso pronunciarmi su
connessioni, devo avere accesso alla realtà.
Proprio perché per parlare di connessioni ho bisogno di tanti altri elementi occorre precisare ancora
meglio la funzione che il tempo gioca nelle connessioni.
Si tratta, nel caso delle connessioni, di relazioni che sono possibili solo tra oggetti individuali; la
loro più bassa unità fondante è l’unità della connessione effettiva in tempo, quando sono tutti
presenti.
Dopo questo, Husserl specifica la funzione che ha il tempo rispetto alle determinazioni delle
connessioni. Sappiamo anche che le connessioni più elementari sono quelle spaziali (a destra, a
sinistra, è grande, è piccolo).
Tutti gli oggetti individuali hanno una durata temporale e non riguardano soprattutto la loro
permanenza, ma riguardano anche e soprattutto il loro divenire: è una permanenza che si modifica.
Grazie alla sua durata, al suo modificarsi, un oggetto riempie la sua posizione temporale. Ogni
oggetto individuale ha, quindi, durata (unità di cambiamento) e posizione temporale (passato,
presente, futuro).
L’oggetto individuale ha
1) un contenuto essenziale: tipo (non è sufficiente ad individuarlo);
2) posizione temporale;
3) durata;
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4) contenuto temporale: tutte le sue modificazioni, unitariamente intese, costituiscono il suo
contenuto temporale (avvenute finora).
Le parti temporali di tali oggetti (del contenuto degli oggetti e porzioni della durata), possono
essere, ad esempio, la sua giovinezza, la sua infanzia, la sua maturità, ponendo siano parti di un
individuo temporale, sono sia durata che contenuto (quello che ha fatto e il modo in cui è cambiato
durante la giovinezza, infanzia e maturità); sono, dunque, porzioni della sua durata.
Queste parti sono unite, unitari; preso nella sua individualità l’oggetto intero è un intero temporale e
quest’unità è un’unità di connessione. L’unità di un individuo, preso temporalmente non è un’unità
di un sostrato con le sue determinazioni, non è un’unità di comparazione, ma è un’unità di
connessione.
Quelle parti non potrebbero stare diversamente insieme (vi è un vincolo di con-possibilità nella
determinazione e nella comparazione, ma nell’individuo concreto temporalmente inteso, le parti
sono connesse).
Se cambi il colore di una sedia, non succede niente; se cambi il giorno di una persona, cambia tutto.
Quindi, non sono né pezzi, né parti, né momenti, ma parti di una connessione unitaria.
L’intero qui è in divenire. L’intero è solo in quanto è ciò che è ora divenuto, dal passato non si
scappa. Il collegamento tra le parti temporali, connessioni, non si fonda nella sua essenza ripetibile
(tipo, dunque, come si crea la comparazione): uno studente, una studentessa sono un tipo.
L’individuo concreto considerato temporalmente è irripetibile e incancellabile perché è 1) concreto
temporalmente in base a ciò che non è condiviso dalle altre esemplificazioni del tipo 2) ed è
incancellabile perché un individuo è un intero temporale solo in quanto è ciò che ora è divenuto, è
stato, è passato.
Perché un oggetto individuale sia inteso come un intero temporale devo tenere a mente questi
quattro elementi. Queste cose ci consentono di dire che un individuo concreto ha delle parti, le quali
sono in connessione temporale, in una connessione completamente diversa.
Un oggetto temporale che viene così ripresentato è lo stesso oggetto individuale preso
temporalmente; l’identità di un oggetto temporale, cioè, la ricaviamo quando ci ripresentiamo il suo
divenire. In questo modo nel ripresentarci il modo in cui è divenuto, lo identifico come “lo stesso”.
L’individuo concreto è necessariamente identico a sé stesso.
Nella ripresa del divenire, riprendiamo il divenire di questo individuo secondo un ordine, e questo
ordine aggiunge qualcosa alla connessione temporale dell’individuo. Dunque, abbiamo una
connessione e un ordine e in base all’ordine, poi, possiamo far reagire di questa struttura temporale
anche le connessioni spaziali.

79
14 LEZIONE

Tutta la prima sezione del libro serve a specificare in cosa consiste la conoscenza di sfondo: la
certezza semplice, quello che noi chiamiamo il mondo dato per scontato. Questo è uno dei grandi
ambiti di studio contemporanei: capire se effettivamente si possa parlare di un ambito di certezze
(non per forza vere o che facilitano la conoscenza) basali e da cosa è composto.
Se ne danno declinazioni molto diverse, è un lavoro che viene fatto principalmente a partire
dall’ultimo Wittgenstein, ma è un lavoro che potrebbe essere fatto usando altri strumenti.
PROBLEMA: Capire cosa fa parte di questa certezza di base —> uno dei meriti di questo libro è
dettagliare questa certezza di base.
La certezza di base è fatta di risultati delle esplicitazioni, correlazioni —> risultati NON
propriamente conoscitivi. Non sono contenuti di conoscenza specificati ma risultati di come
dovrebbe essere strutturato l’orizzonte interno e esterno.
Se io parlo di ciò che diventa abituale di un’esplicitazione ne parlo pensando al fatto che ciò che
diventa abituale è che vi sia una differenza tra sostrato e determinazione —> cosa principale che si
sedimenta nell’abitudine.
Inoltre non discuto sul fatto che possa paragonare cose diverse, che posso dire che una cosa è più
grande, bella, più brutta, più rossa, più profumata di un’altra ecc ecc.

Do per scontato di poterlo fare, non do per scontato quali sono le gradazioni specifiche del rapporto
tra due o più oggetti, do per scontato anche di poter stabilire un grado di pregnanza differente, quali
sono le connessioni reali di un oggetto, do per scontato che si possano connettere oggetti
spazialmente e temporalmente e anche che questo tipo di connessione è diverso dalla correlazione
comparativa che io posso fare tra oggetti (più debole).
Queste sono le cose di cui noi siamo certi a livello elementare che non sono vincolate allo stesso
modo, e non tutte sono diffuse come certezze negli stessi termini. Siamo sicuramente più legati alla
differenza sostrato determinazione di quanto non lo siamo alla possibilità di comparare oggetti per
le loro caratteristiche.

Il lavoro che fa Husserl in questa prima parte è proprio quello di descrivere quello che
rappresenta la base per ogni attività conoscitiva, non ci racconta come inizia l’attività
conoscitiva perché è consapevole che non inizia con un soggetto che sta davanti ad un oggetto e
dice come è fatto perché per mettersi davanti a quell’oggetto, quel soggetto conoscitivo dovrà avere
delle motivazioni.

PAG 169
La conoscenza è possibile definita nei termini di constare ciò che è, per come è e per ciò che è,
questo però solo se c’è uno sfondo, un campo in cui la conoscenza può realizzarsi —> un mondo
dato per scontato.
Non si inizia da queste operazioni semplici che servono a comprendere di cosa è fatta questa base e
serve anche a graduarla.

Parte dedicata alla predicazione


Nell’ambito delle relazioni, vi sono relazioni che riguardano

80
il contenuto ideale —> le caratteristiche essenziali di qualcosa che però non sono sufficienti ad
individuare l’oggetto di cui parlo e poi ci sono quelle che propriamente chiamiamo connessioni
reali —> le quali comprendono elementi che individuano l’oggetto. Le connessioni temporali e
quelle spaziali sono di questo secondo tipo, non parlano di qualcosa in generale ma di una
determinata cosa.

1.Ogni sedia per le sue caratteriste essenziali o tipiche ha una seduta.


2. Questa sedia è stata progettata l’altro ieri e costruita ieri.
Le connessioni reali hanno una presa sull’oggetto che è maggiore.

Quello che a Husserl interessa è come si possa spiegare questa differenza?


Le connessioni si basano sulla struttura temporale innanzitutto e poi spaziale degli oggetti. Il
problema però è spiegare come si formi l’unità temporale (se i momenti che compongono in
maniera volontariamente connessa l’individualità temporale di un oggetto sono informativi su
quell’oggetto e sulla sua individualità è necessario capire come è fatta l’unità temporale che ora
attribuisco ad un oggetto, poi un altro e poi un altro ancora).

L’unità temporale l’abbiamo costruita nelle lezioni precedenti dall’interno verso l’esterno. Ognuno
di noi ha delle esperienze, ognuno di noi può credere a buona ragione che le proprie esperienze
siano tra di loro legate perché accadute o intrattenute sempre dalla medesima persona. Una vita di
esperienze è a suo modo unitaria —> questa unitarietà è unitarietà del tempo soggettivo.
Per fare il passo oltre —> per parlare dell’unita degli oggetti e delle loro connessioni reali non
possiamo fermarci all’unità temporale della nostra esperienza perché nostra esperienza sono
unitariamente collegate tante cose. Il passo oltre è quindi capire come è fatta l’unità temporale degli
oggetti (tempo oggettivo).
Il tempo oggettivo non è ancora il tempo della misurazione cronologia, ma il tempo in cui vi è
posizione temporale fissa degli oggetti. Quando abbiamo acquisito la posizione degli oggetti e il
loro ordine temporale possiamo stabilire il tempo cronometrico.

Come avviene questo passaggio e quali risorse ha?


Si passa a un tempo oggettivo con le risorse che abbiamo nell’analisi del tempo interno, non
possiamo fare un salto. Dobbiamo esaminare quel tipo di prestazioni cognitive che hanno a che fare
con gli oggetti, nel senso che li fissano, dobbiamo cioè isolare quelle prestazioni cognitive che
pongono l’oggetto e che quando noi le facciamo ci impegnano con l’oggetto.
Dobbiamo secondo Husserl isolare le esperienze posizionali o tetiche.

Esperienze che pongono oggetti e pongono rispetto ad essi sono:


• La percezione
- Il ricordo

La caratteristica della posizionalità non va confusa con la caratteristica della veridicità, ne con
quella ricchezza e della vivacità contenutistica.
Ogni prestazione cognitiva può essere veridica o non veridica, può essere più ricca o meno ricca,
più vivace o meno vivace. Tutte queste tre caratteristiche delle prestazioni cognitive sono in qualche
modo graduali —> possiamo attribuirle a tutte e tre le nostre prestazioni cognitive: percezione,
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memoria, immaginazione. L'immaginazione è sicuramente più vivace, più ricca di un ricordo e che
non è detto che una percezione sia così ricca, vivace e veridica di un ricordo.

La differenza che noi possiamo fare di queste tre specie riguarda la posizionalità è fatta di due
pezzi:
• Impegno del soggetto con l’oggetto destinatario di quella prestazione
• Il portato di realtà

IMPEGNO: Se io esprimo un asserto su base percettiva, esprimendolo (al netto della possibilità
della menzogna) esprimo anche il mio impegno rispetto a ciò che dico. Non v’è dubbio che faccio la
stessa cosa anche quando esprimo un assetto su base di un ricordo, benché vi sia nel caso del
ricordo una clausola (dico se ben mi ricordo). Tuttavia questa clausola vale anche (quando è
necessario che valga, veniamo avvertiti) per la percezione, solo che nel caso della percezione, per
dire se ho visto bene, ho bisogno di una contestazione altrimenti non lo dico.
Nel caso del ricordo è una precauzione che incorporo —> so che il ricordo può essere meno
preciso. Percezione e ricordo implicano un impegno con l’oggetto.

ES: Se io dico che il mio collega a lezione ha una maglietta bianca posso anche sbagliare, ma io mi
impegno con ciò che dico, stessa cosa se dico che lo stesso collega durante la scorsa lezione era
seduto in prima fila a destra —> se qualcuno mi fa notare che non è vero allora devo cambiare il
mio enunciato.

Nel caso dell’immaginazione o della fantasia io non contraggo un impegno con ciò che fantastico:
l’immaginato o il fantastico ha un margine di completamento che non contraddice l’enunciato di
partenza.
La fantasia non è impegnata, è impegnata in modo che è traslata.
L’impegno riguarda il soggetto epidemico, l’effetto sulla persona che ha un enunciato memorativo,
percettivo, immaginativo e fantastico.

Il portato di realtà non ha a che fare con nessuna delle tre cose dette in precedenza (veridicità,
vivacità e ricchezza) ma ha a che fare con due piccolissime caratteristiche:
• L’individuazione spaziale
• L’individuazione temporale.
Una cosa posso vederla male, bene, mi posso focalizzare, può passarmi di sfuggita e tuttavia è solo
dalla percezione che io ricavo informazioni sulla posizione spaziale e temporale di un oggetto.
L’informazione temporale di base rispetto ad un oggetto è che quell’oggetto mi sia presente e se un
oggetto è presente lo è perché può essere percepito. L’informazione di base riguardo alla spazialità
di un oggetto è la sua posizione rispetto ad altri oggetti e quindi indirettamente la sua posizione
rispetto a me. Per tutte queste ragioni il portato di realtà della percezione è maggiore di quello
del ricordo, proprio perché solo la percezione mi permette di individuare spazialmente e
temporalmente un oggetto —> sulla base di questa individuazione percettiva io potrò stabile la
posizione temporale dello stesso oggetto nel ricordo o variare quella posizione nella fantasia.

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Tutto ciò che io apprendo in base al ricordo o all’immaginazione ha un portato di realtà minore. Il
portato di realtà della data di morte di Giulio Cesare è derivante dalla certezza che io ho nella
correttezza dell’informazione che io ho appreso e tuttavia ciascuno di noi oggi riconosce che la
posizione temporale della mia colazione fatta oggi ha un portato di realtà differente da quello della
morte di Giulio Cesare.
Spaccando a metà la posizionalità di alcune esperienze abbiamo:
• Demarcato un ambito di esperienza posizionale, quella della percezione e quella del ricordo
• Abbiamo attribuito a questo ambito due caratteristiche: una che riguarda il soggetto cioè
l’impegno e una l’oggetto e cioè il portato di realtà.

Gli oggetti posti percettivamente e memorativamente hanno una posizione temporale; percezione e
ricordo sono per così dire l’interfaccia tra il tempo interno dell’esperienza di ciascuno di noi e il
tempo oggettivo (degli oggetti).
Gli oggetti del ricordo e percezione condividono lo stesso tempo oggettivo. Hanno inoltre una
posizione fissa in questo tempo oggettivo —> Posso dire che ieri pomeriggio ho fatto un giro in
bicicletta, quello che ho fatto lo so io e tuttavia noi condividiamo il tempo in cui esisteva ieri
pomeriggio, nonostante non sappiamo se è vero o meno quello che ho detto (tempo condiviso da
percezione e ricordo).
Essendo questi oggetti in un tempo oggettivo significa che io posso stabilire l’ordine temporale tra
quello che accade ora e quello che è accaduto prima e posso stabilirlo per ciò che è accaduto a me.
Visto che si tratta di un tempo oggettivo io posso condividere ciò che è accaduto a me con chiunque
altro.Il tempo oggettivo è anche intersoggettivo.
Il tempo condiviso dalla comunità degli individui che si comprendono reciprocamente è il tempo
unitariamente oggettivo per tutti —> la comunità degli individui che si comprendono
reciprocamente NON è una comunità pacifica, è la comunità di coloro che si prendono per parlanti
reciprocamente ed è la comunità di coloro che condividono anche ciascuno per sé un tempo
oggettivo.
Questo è il significato elementare di entropatia (tradotta anche con empatia) per Husserl: dare per
scontato che l’altro che mi sta davanti con il suo corpo dica qualcosa, si riferisca a qualcosa, cosa
dice e a cosa si riferisce a me può sfuggire o non interessare, tuttavia ciò che caratterizza questa
esperienza è che io prendo l’altro per come è, in quanto altro —> lo chiamo estraneo letteralmente
perché è uno che può dire e riferirsi a qualcosa.

La fantasia NON è posizionale, io non mi impegno con l’oggetto fantasticato. Una durata di oggetti
fantastici a differenza della durata di oggetti percettivi e memorativi può essere sempre integrata.

Il predicato reale vale per gli oggetti percettivi e per traslato memorativi, quello irreale per gli
oggetti fantastici.
REALE NON COINCIDE CON ESISTENTE. Esistente (è molto più ampio come predicato) o è
qualcosa che è pensato in qualsiasi modo o qualcosa che è stato confermato.
Esempi:
- Pegaso: è un esistente irreale.
- La sedia è bianca. Si la sedia è bianca: esistente reale
- Omero aveva un figlio: inesistente irreali.

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Abbiamo 3 coppie che vanno separate
REALE, NON REALE,
IRREALE, NON IRREALE
ESISTENTE, NON ESISTE —> tutte le combinazioni che abbiamo visto in precedenza possono
essere VERE O FALSE.
Da questo escludiamo il veridico o il non veridico che riguarda le esperienze e il verace e il
menzognero che riguarda le intenzioni.

Una fantasia produce oggetti irreali, ed è possibile che ci sia:


- Una fantasia senza freni —> produce molti oggetti che non si legano gli uni agli atri,
oggetti senza legame.
- Una fantasia regolata, segue regole. Husserl parla di Gretel: nella storia di Hansel e Gretel
entrambi i fratellini vivono una serie di avversità, io posso dire che i due alla fine della
storia, dopo essere stati cacciati di casa uccidono la strega —> sto stabilendo un legame
temporale. Poniamo però che entrando in libreria trovo un libro intitolato “La vecchiaia di
Gretel”, si tratta di un sequel della storia dei fratelli Grimm. Gretel è una donna che racconta
la sua vita e inizia dicendo: “Avendo avuto nel bosco quell’esperienza con mio fratello non
ho mai voluto avere figli” e da qui inizia la sua storia. Non posso dire che questa Gretel sia
la stessa della favola dei fratelli Grimm ma nemmeno più vecchia di quella della favola dei
fratelli Grimm, potrei dirlo se trovassi un terzo libro che include come prima parte la storia
raccontata dai fratelli Grimm e come seconda parte quella intitolata “La vecchiaia di
Gretel”.
Ciascuna fantasia regolata può stabilire una connessione unitaria, quasi temporale di un tempo della
fantasia, però non posso connettere questo tempo della fantasia con gli oggetti di tempo reali o con
il tempo di altre fantasia —> posso farlo se il mio atto di fantasia si propone di mettere insieme tanti
mondi fantastici.

È possibile che io immagini unitariamente il tempo di tutti i personaggi delle favole dei fratelli
Grimm, che li immagini interagire insieme —> il tempo unitario sarà quello che li comprende tutti.
Il tempo della fantasia può comprendere altre cose ma c’è sempre la possibilità di considerare
ciascuno prodotto fantastico come un’unita a sé stante. C’è un principio di chiusura che vale per la
fantasia dice Husserl. CI PUÒ ESSERE UNA STORIA PIÙ GRANDE CHE COMPRENDE
QUELLE PIÙ PICCOLE CHE SARANNO UNITE IN UN UNICO TEMPO DI FANTASIA,
TUTTAVIA NON HA BISOGNO LA SINGOLA STORIA FANTASTICAT DI ESSERE
INTEGRATA IN UN TEMPO PIÙ AMPIO.

Chiuso è anche il tempo della percezione (non ha bisogno di essere ricordato) e anche quello del
ricordo (non ha bisogno di essere confermato da una percezione).
Mentre la percezione e il ricordo condividono un tempo che è quello oggettivo, la fantasia produce
un tempo tutto suo.

Gli oggetti della fantasia si chiamano ficta (finzioni). Immaginazione infatti abbiamo detto che
come termine non andava bene:
• L’immaginazione è quell’atto che ci fa apprendere qualcosa come un’immagine

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• La fantasia è la prestazione più o meno cognitiva che produce ficta —> che possono far parte di
un tempo unitario (solo per la fantasia regolata), di uno pseudo spazio unitario (il bosco di
Hansel e Gretel è presumibilmente nelle vicinanze della casa da cui sono stati cacciati). Possono
quindi godere di un “quasi tempo” e un “quasi spazio”.
Il mondo fantastico però non può MAI condividere il tempo e lo spazio con il mondo della
percezione e del ricordo.
Ci sono dei casi in cui si realizzano delle situazioni ibride—> ficta percettivi, come ad esempio la
marionetta e l’attore —> c’è un contrasto silenziato di fantasia e percezione (la trama dello
spettacolo è il fictum percettivo, una trama non reale che però puoi seguire solo realizzando delle
operazioni percettive).
Ciò su cui ti impegni è il personaggio non quello che vedi.
Questi due casi non sono associabili a quello della lettura del libro in cui si è impegnati a capire il
significato, e in questo caso la percezione delle lettere non va in contrasto con quella del significato
—> a teatro e nello spettacolo dei burattini percezione e fantasia NON si compenetrano.
L’interesse husserliano è per la fantasia come strumento di qualcos’altro.
Abbiamo visto infatti come dal tempo unitario di Hansel e Gretel passiamo al tempo unitario di cui
potrebbero far parte Pollinico, Biancaneve ecc ecc.
Cosa pretendo da quest’unità temporale? Regolarità, un certo legame, una certa linearità
temporale, una certa coerenza = RICHIEDO LE CARATTERISTICHE ESSENZIALI, MINIME
DEL MONDO REALE —> in questo modo abbiamo ricavato secondo Husserl l’idea di mondo o
mondi possibili, l’idea di oggetto o oggetti possibili = l’idea di un’intera ontologia ridotta al
minimo.
Il mondo di fantasia che produco non è fatto di tantissimi oggetti ma di oggetti che hanno
caratteristiche minime —> è il mondo con tutte le caratteristiche per essere
un “quasi mondo“.
Husserl resta dell’idea che sia più boscoso il mondo reale, più ricco di oggetti, più inesauribile, il
mondo fantastico invece è minimo.

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15 LEZIONE

Concetto di “Mondo” e “Immagine”


Ci siamo dilungati sull’eccezione che rappresenta l’insieme dei prodotti di una specifica prestazione
cognitiva che è la fantasia, ovvero ci siamo occupati del mondo della fantasia.
In questo libro ci sono due usi eccezionali rispetto al vocabolario husserliano che sono quelli di:
immagine e mondo. In molti luoghi della prima sezione vi è immagine tra virgolette, come anche di
mondo e mondi.
Sin da quand’era nelle fasce della sua formazione ha espresso un profondo disaccordo nell’utilizzo
al plurale di “mondi” e universi; lo faceva soprattutto quando si occupava di logica… perché un
autore molto rilevante e pressappoco suo contemporaneo George Pull che è l’autore de “Algebra e
la logica” introdusse l’espressione, poi ampiamente utilizzata di “universi” nel discorso, intendendo
così l’insieme delle estensioni e dei concetti che di volta in volta venivano utilizzati. Questo per
Husserl era equivoco. Sostanzialmente gioca sul fatto che c’è una nozione di mondo molto ampia,
che è quella che noi abbiamo individuato come una delle accezioni del sostrato assoluto, il quale è
insieme di tutti i mondi possibili e non possibili, reali ecc.
In quel senso la il mondo è solo al singolare (altrimenti non sarebbe sostrato assoluto) e poi si
ammette il plurale per i mondi che sono compresi nel mondo in senso lato (“mondo della fantasia”
si può dire, ma in senso stretto). Mondo ha solo singolare, il mondo percettivo è il mondo degli
oggetti individuali concreti.
C’è un senso ampio del mondo (alnatua), natua è tutto: natura e cultura. C’è un orizzonte, ha
un’idea di natura che è molto più ampia (naturalizzazione), nell’introduzione c’è un passaggio
significativo che riguarda la naturalizzazione “Nulla ostacola la naturalizzazione se per
naturalizzazione intendiamo la riconduzione delle prestazioni cognitive dei loro prodotti in un’idea
ampia di natura. Se intendiamo per naturalizzazione la riduzione a ciò che una scienza, la fisica, può
studiare non siamo d’accordo.”
C’è una naturalizzazione che sia nella sua versione epistemologica che nella sua versione
ontologica consiste nella riconduzione della spiegazione di ogni oggetto ad evento agli oggetti di
descrizione e spiegazione di una scienza, che viene chiamata “fisicalismo”. Questo progetto insieme
a quello di naturalizzazione psicologica, antropologica ecc. non convince Husserl perché sostiene
una riduzione di oggetti ad altri oggetti o di spiegazioni ad altre spiegazioni.
Questo si chiama riduzionismo ontologico ovvero “il mio pensiero è neurofisiologico, proviene
dalle mie sinapsi” oppure riduzionismo epistemologico ovvero “non sarà lo stesso il mio pensiero e
le mie sinapsi, per spiegare il mio pensiero devo prendere il modo in cui spiego le mie sinapsi; il
mio pensiero non è un oggetto vero e proprio, ma un oggetto apparente e va ridotto agli oggetti che
veramente esistono, ovvero le sinapsi”. Da questo punto di visto la naturalizzazione della logica, del
pensiero trova un ostacolo invalicabile; se però si prende natura e naturalizzazione in senso ampio
allora questo non costituisce un ostacolo per il progetto fenomenologico e non lo costituisce perché
in quest’idea ampia di natura, essa è anche cultura ecc.
Due usi eccezionali che possono distrarre sono quello del “mondo” al plurale e quello di
“immagine”.
“Immagine”, in questo testo, più o meno significa “l’apparenza di un oggetto da una certa
prospettiva”, perciò egli lo mette tra virgolette, ma non è un’immagine vera e propria perché
l’immagine implica non tanto una costituzione dell’oggetto, ma un’apprensione di tipo particolare,
io devo apprendere un oggetto distinguendo il soggetto e l’oggetto dell’immagine stabilendo tra
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questi due un legame di analogia, dal punto di vista husserliano. L’immagine è un oggetto da un
certo “scorcio”, che ha il significato classico della prospettiva centrale rinascimentale.
Una prospettiva è l’oggetto visto da un certo punto nello spazio e come accade nella prospettiva
rinascimentale, ha delle leggi, non è nulla di aleatorio, il termine che usa Husserl è “anschafting”.
Nella pittura antica non c’è prospettiva, ma un gioco con le ombre e per rendere l’idea della
profondità si utilizzano le ombre e questo in greco si chiama “schiagraphia”. Il tedesco eredita
questa cosa dal greco: “schaften”, infatti significa scorcio attraverso le ombre. In italiano per lungo
tempo è stato tradotto con “adombramento”, perché si trovava su questa presenza del termine
tedesco, ma non rende.
Ripasso
Il mondo della fantasia è un’eccezione perché non è posizionale. Questo si deve prendere sempre da
due lati:
1) lato soggettivo = il mio impegno;
2) lato oggettivo = portato di realtà.
Ricordo e percezione ci danno un’informazione che non possiamo avere da altro che è
l’individuazione spaziale e temporale.
es: dov’è una cosa? (Utilizzo la percezione).
La fantasia non ci dà informazione sull’individuazione spazio-temporale.
- mi posso ricordare di una fantasia
- mi posso ricordare di una percezione
- quello che non posso fare è utilizzare la fantasia sulla percezione, c’è una chiusura della fantasia
sulla percezione e sul ricordo. Quando si dice che nel ricordo si costruisce, ma non sto fantasticando
su un ricordo, ma metto in azione un’altra attività.
La funzione della fantasia nella fenomenologia è centrale perché il procedimento che caratterizza la
conoscenza delle generalità (le cose generali) è un procedimento basato sulla fantasia quindi ad
Husserl interessa fare un paio di cose: da un lato spiegare come di fatto la fantasia ponga un
problema alla costituzione di un’unità intuitiva che faccia da base alle correlazioni (si fanno a
partire di un “fundamentum relationis”, a partire da un’unità intuitiva, che può essere stretta o
ampia che riguarda i posizionali, ma allargare la fantasia non si può). Il tempo coerente, unitario di
Hänsel e Gretel può, al secondo giro, comprendere anche il tempo di Cappuccetto Rosso. La
fantasia si allarga comprendendo comunque altri ambiti sempre fantastici, ma non si può allargare
sulla percezione o sul ricordo. Questo non significa non avere allucinazioni, che possono essere
scambiate per prodotti fantastici, non significa che quando guardo qualcosa mi ricordo di
qualcos’altro, non è questo il punto. Il punto è che se si è sperimentato un “lampo di un ricordo / di
una fantasia” si sa che o si vive nel tempo di quella fantasia o del tempo di quello che si sta facendo.
Mentre io posso ricordarmi di una cosa continuando a vedere quello che mi sta attorno, anzi, io non
posso servire se i due padroni sono i posizionali e i non-posizionali. Si può fare tutto. Quello che
non è di fatto sperimentabile è che il tempo della fantasia si mangi il tempo della percezione, si può
sostituire, ma non includere.
La fantasia viene studiata anche perché è una fonte importante per Husserl quanto all’ottenimento
delle conoscenze di generalità.

Identificazione, Identità, Somiglianza e Uguaglianza


La comparazione è sempre una comparazione che determina un certo grado di somiglianza. Qui

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ancora c’è una distinzione, non terminologica, ma concettuale forte. Identità, Identificazione,
Uguaglianza e Somiglianza sono cose diverse.
Identificazione =
Quando io esplicito una determinazione di un sostrato (è parziale e completabile, procede per
gradi); che contribuisce a farci rendere conto che l’oggetto principale con cui noi stiamo
identificando delle determinazioni è sempre lo stesso, ma non è questo il suo obbiettivo; non
servono a garantirci che l’oggetto è sempre lo stesso (fanno anche questo, ma non producono come
primo risultato quello dell’identità dell’oggetto)
Es: La sedia è nera, senza braccioli e bucherellata.
Mi sto riferendo sempre alla stessa sedia, ma voglio dire che quella sedia che ho individuato
all’inizio della mia esplicitazione ha determinate caratteristiche.
Implica una sua identità, ma non sappiamo com’è fatto per bene.
Identità =
E’ una cosa che come l’intenzione e come l’attenzione è o tutto o niente (0,1 è binaria). Queste sono
tutte relazioni rilevantissime, ma hanno a che fare con l’oggetto o sono 1 o 0, o c’è o non c’è.
Somiglianza e Uguaglianza =
Non si può dire che il massimo grado della somiglianza sia l’uguaglianza e il minimo grado della
somiglianza sia la distinzione, perché sono due cose diverse. Es: I due pullover sono uguali.
Lo dico quanto al loro colore, il colore dei pullover è ciò su cui i due pullover coincidono senza
scarto.
Es: Due pullover sono simili perché condividono solo il colore.
Sto parlando di una relazione di somiglianza tra i due oggetti che ammette lo scarto, sono non-simili
riguardo a tutta una serie di caratteristiche.
Questi due oggetti non si sovrappongono su uno stesso scenario (i pullover sono uguali se
considerati dello stesso colore e simili se considerati dello stesso colore), ma ovviamente possiamo
fare esempi dove la differenza esalta perché si tratta di oggetti completamente differenti e in
contesti completamente differenti. Io ho un uso di “uguale” che è completamente diverso dall’uso di
“simile”. Il non-uguale è il diverso e il non-simile è il dissimile.
Quando parlo di uguaglianza parlo di una coincidenza senza scarto, quando parlo di somiglianza
parlo di una relazione che ammette scarti.
Uguaglianza e Somiglianza fanno parte entrambe della comparazione, dei risultati comparativi.
L’identificazione parziale è un risultato dell’esplicitazione. L’identità è un risultato delle
connessioni.
Sono tutte relazioni, quindi, in tutti questi casi si presume che gli elementi della relazione siano
diversi.
L’identità più densa è l’identità reale, mentre l’identità logica-diacona non rientra in questo tipo di
analisi.
L’identità reale è quella di un individuale concreto o sé stesso. Come faccio a mettere a tema
l’identità di un oggetto individuale concreto? Dico che è lo stesso di quello che è stato. Quello che è
stato non è la stessa cosa di quello che è ora, i due elementi non sono scambiabili, non posso
mettere l’uno al posto dell’altro. Non posso dire “eri lo stesso di quello che sei ora”, dico “sei lo
stesso di quello che eri”, le due cose sono diverse, ma costituiscono, per Husserl i due elementi
dell’identità reale. Dunque, l’identità entra tra le connessioni, e se queste connessioni sono reali
l’identità ha a che fare con il tempo e con lo spazio.

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La passività ha tre significati: uno generalissimo e due significati specifici.
Il sinonimo di passivo per Husserl è l’implicito. Sapere che il passivo è l’implicito non mi costringe
ad un determinato ordine di analisi. Non devo partire dal bambino che impara a dire “giallo”, o dal
soggetto che sta davanti ad una vetrina a capire se quello è un manichino, ma posso partire da
ovunque. Anzi, solo se parto da una vita di coscienza e di conoscenza normale posso dire che è
implicito. In questo senso il passivo, essendo implicito è anche quello dato per scontato e non
implica una mia attività e in buona parte coincide col ricettivo, con il non-spontaneo.
I due sotto-significati sono:
- passivo come una legge, ovvero il nesso tra impressione-ritenzione;
- passivo come minima attività, come prestazione e operazione minima.
Nonostante le tante pagine sull’esplicitazione, ovvero come noi determiniamo gli oggetti, il lavoro
di Husserl è un lavoro di implicitazione, si fanno cose e si danno per scontate delle altre.
Di questo patrimonio passivo, Husserl tratteggia i lineamenti fondamentali, ossia in una vita
normale di coscienza e di conoscenza ciò che diamo per scontato sono:
- in ogni caso c’è sempre qualcosa di centrale e periferico;
- in ogni caso un oggetto ha delle determinazioni;
- questo costituisce la nostra più elementare familiarità col mondo (è impossibile senza il passivo:
non mi ripresento ogni volta alle persone, perché se mi sono familiari non devo farlo). Poi ci sono
tutte le sorprese del mondo, ma essendo sorprese, vengono riconosciute come tali.
Le cose che stanno dentro il bagaglio implicito e nella “roba” che costituisce la nostra conoscenza
semi-implicita (dove cataloghiamo i nostri pregiudizi peggiori):
- per ogni sostrato c’è una determinazione
- per ogni determinazione c’è un sostrato
- che gli oggetti possono essere messi in relazioni, comparazioni, hanno e non possono non avere
delle connessioni interne (altrimenti non potrei distinguere gli oggetti reali con quelli irreali).
- l’errore è il problema principale, ma viene riconosciuto come errore e se non c’è nulla rispetto al
quale rettificare un errore, allora l’errore non c’è e non è possibile neanche usare la parola errore.
Si può sbagliare in modi diversi e la distinzione delle varie prestazioni cognitive ci fa capire i modi
diversi in cui si può sbagliare: la percezione fa commettere più errori, fa sbagliare di più, è ovvio
che se io descrivo in maniera strettissima la percezione e dico che ha portato di realtà, che pretende
di presentare le cose in carne ed ossa, io la sto costringendo in uno spazio piccolissimo, dunque può
produrre più errori perché ha un ambito stretto; quella che sbaglia di meno è la fantasia; quella che
sta a mezz’aria è il ricordo.
Il rettificare l’errore è possibile solo attraverso un’altra percezione, non si può correggere un errore
con un ricordo o con una fantasia. Se enuncio un’asserzione su base percettiva, si può confermare o
misconfermare sulla base di un’altra prestazione che in qualche modo si avvicina comunque dalla
percezione (quanto più ci si allontana dalla percezione tanto più la conferma o misconferma è meno
solida). Per ogni tipologia di asserto, c’è una tipologia di conferma.
es: Ho mal di denti. E’ un fatto mio. Poi lo dico ad un mio amico. Questa cosa che dico è
incontestabile dal mio amico.
Se, invece, dico che ho mal di denti al secondo molare, quello può essere erroneo. La localizzazione
del dolore al secondo molare può essere erronea, perché chiama in causa una connessione reale
(dove sta il dolore che sento?).
“Io sento dolore”, non pretendo che il mio dolore sia vero. Se, invece, vado da un dentista, li
pretendo il vero, ed è l’unica cosa che si può rivelare falsa.
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Se non pretendessi verità, non potrei mai sbagliare.
La situazione dei dubbi è la situazione in cui ci sono almeno due alternative e sono disgiunte. Non è
detto che per tutti i dubbi queste alternative disgiunte siano anche esclusive, ovvero se vale l’una
non può valere l’altra.
Carneade è un neoaccademico (scetticismo). Di Carneade abbiamo frammenti raccolti da Sesto
Empirico (fa il primo elenco di fallacia del discorso). Egli affronta Carneade e gli esempi che fa
sono la corda-serpente (tradizione di provenienza orientale) e l’esempio di Elena di Troia.
La filosofia greca usa la letteratura come fonti di conoscenza comune, non li cita per la bellezza del
verso, ma perché sa che tutti li conoscono, come un proverbio.
Da questo si può ricavare un meccanismo in cui si può produrre altrettante tipologie di credenza
(usato dagli avvocati).
- Elena viene uccisa. Alla fine nella storia si viene a sapere che non viene uccisa, ma messa a riparo
in una grotta e ad un certo punto riappare. Menelao la vede, ma non ci crede. Menelao fa una prima
ricognizione, la guarda con più attenzione. Poi inizia a soppesare le ragioni a favore, ovvero la vede
o le ragioni contro, ovvero che sa che sta chiusa in una caverna. Contro le ragioni a favore è che
potrebbe essere un fantasma, contro le ragioni contro è che potrebbe essere reale.
E’ con questa doppia disgiunzione che si producono due disgiunti esclusivi:
1) disgiunzione semplice: potrebbe essere Elena e potrebbe non essere Elena (queste possibilità non
si escludono a vicenda, la pretesa di verità è scarsa, vi è il dubbio);
Sottopongo questa disgiunzione ad un esame, il suo prodotto è una doppia possibilità esaminata.
2) disgiunzione esclusiva: o è Elena o non è Elena (Menelao non è partito da questo, è già un
prodotto).
3) alternative comprovate: arriva uno della flotta che aveva condotto Elena nella grotta e va a dire a
Menelao che è scappata, ho un’ulteriore informazione. Si passa dalla prova all’irremovibilità del
risultato.
4) alternative comprovate ed irremovibili.
Per rompere questo bisogna avere una testimonianza in contrario, ma non basta. Deve sparire Elena.
questi livelli producono livelli di credibilità differente e cambiamenti nel discorso che si usa.
Quando arrivo al penultimo o all’ultimo livello, il portato della pretesa di verità è più alto. Come
ogni pretesa di verità, è discutibile. Il dubbioso non ha pretesa di verità. Lo scopo del
neoaccademico non è dimostrare di stare come si stava prima. L’operazione che ci racconta
Carneade è che all’inizio non sai che dire, alla fine sai che dire, ma può essere messo in discussione,
perché si pretende di dire la verità. La percezione da sola non basta, qui, non basta vedere.

Il prof risponde alle domande:
- Tra identità e identificazione, quella che produce conoscenza è l’identificazione. Posso segnalare
l’identità di qualcosa che non conosco bene. L’intenzione, l’attenzione, l’identità non sono vere e
proprie forme di conoscenza, ma regole, norme. La fonte di conoscenza è l’identificazione, da che
lo vedo? “Io dico che lui ha una maglia rossa”, commetto un errore e un altro mi direbbe “la maglia
che ha è rossa”, e io risponderei “siamo sicuri che stiamo parlando della stessa cosa?”. La sua
maglia l’abbiamo identificata entrambi, ma la sua informazione che abbiamo è diversa. Quindi
l’identità è una relazione logica, ma non produce conoscenza.
Quando arrivo alla fine del meccanismo di Carneade, sono molto convinto, il grado della mia
credenza è alto, io credo in quello che affermo, questo fa la differenza dallo stadio iniziale. E posso
utilizzare gli stessi passaggi per convincere altri. Un’altra cosa che si trascura di questo bistrattato
90
concetto che sono l’appello alla verità consente la comunicazione e il convincimento e quindi il
passaggio intergenerazionale. Se non ci fosse, se non facessimo appello alla verità come se fosse un
articolato elementare dei nostri discorsi noi non riusciremmo a comunicare, a passare informazioni
e testimonianze: molte delle quali servono a sopravvivere.
Qui, di solito, si fa l’esempio di Hume del fuoco: il bambino non capisce che può scottarsi toccando
il fuoco perché non impara la sostituzione (agli altri uomini, che si fanno male allo stesso modo se
toccano il fuoco), pensa di esser diverso dagli altri. Il linguaggio (non il lessico) non si impara,
perché prevederebbe una capacità di mettersi nei panni altrui.
Anche insegnare a non bruciarsi è possibile solo a partire da una certa stabilità del contesto; ci
rendiamo conto di alcune “invarianze”. Se dessimo per scontato questo, non insegneremo ad un
bambino a non bruciarsi le dita.
- Per essere in disaccordo bisogna parlare della stessa cosa che è tanto un’ovvietà tanto una cosa che
forse non si prende in considerazione.
Proprio perché è il presupposto del disaccordo è ciò a cui nel litigio arriva per ultimo. Per esempio,
due persone discutono perché dicono cose diverse, se questa discussione è una discussione d’ordine
conoscitivo e se uno dei momenti della discussione è quello di riconoscere di aver ragione o di
convincere l’altro, queste due persone cozzeranno sulle attribuzioni che fanno e lasceranno in
ombra sempre ciò di cui stanno parlando, fino a che uno dei due non capisce che l’altro dice “ma tu
stai dicendo questo di questo?” facendo far uscire fuori il presupposto. Quella era la condizione di
partenza per il litigio (è l’ultima cosa che si dice durante il litigio, ma se non si prende in
considerazione il “dislvello dossico”, dunque la comunicazione tra i due soggetti e si spiega, allora
si dice come prima cosa).
Se si è d’accordo, l’altro ne esce malconcio, oppure inizia a scartare sull’oggetto dicendo di non
aver mai detto determinate cose.
Non tutto il linguaggio è comunicazione. Quando si fa una spiegazione prima si parla dell’identità e
poi di tutto il resto, quando invece si è coinvolti in un litigio si fa il contrario e si arriva
all’esplicitazione dell’identità dell’oggetto alla fine perché è l’ultima risorsa.
E’ così anche per la verità, infatti, l’appello al vero funziona come ragione del mio asserto di
conoscenza (“è vero perché le cose stanno così”).
- Due oggetti coincidono inclusi nella stessa unità intuitiva, in questo senso è una sintesi di
coincidenza discreta. ………………………..
Vi sono due livelli di interesse: quello guidato dall’apprensione semplice alla esplicitazione e la
correlazione è quello conoscitivo; e poi c’è il livello dell’osservazione.
Noi distinguiamo questi due livelli di interessa per il bene dell’analisi, per fini analitici, ma
all’interno di quest’analisi abbiamo distinto due genesi differenti, ma questi due livelli regolarmente
e di fatto sono fusi insieme. Non si parte dal “bambino fenomenologico”, ma dall’”uomo di
mezz’età fenomenologico”, cioè da una vita di coscienza e di conoscenza normale e diffusa (quello
che non può mancare in una vita di coscienza e di conoscenza).
Quando ci troviamo cose fuse insieme, per mettere ordine bisogna separarle. Il colore, ad esempio,
è fuso con l’oggetto stesso, è indistinguibile. Tuttavia, cosa accade in questa vita ordinaria di
coscienza e di conoscenza? E’ il dominio della conoscenza indiretta, cioè in cui c’è la possibilità
dell’errore, ma non c’è la possibilità di rettifica ultima. Nel caso di 2+2, c’è la possibilità di errore,
ma c’è anche la possibilità di una rettifica ultima. Ma la maggior parte della nostra conoscenza non
è fatta di casi così semplici e stabili, perché non solo si può sbagliare, ma non c’è possibilità di
rettifica, questo atto si chiama “pensiero indiretto” (improprio).
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Visto che la nostra conoscenza è fatta di pensieri misti, fusi, impropri in cui non c’è possibilità di
determinare una teoria normativa dell’errore, non possiamo che lavorare sulla spiegazione di queste
conoscenze. Il lavoro di scomporre ciò che è fuso insieme è motivato da questo, posso analizzare
com’è fatta la conoscenza, o come sono fatte quelle parti di conoscenza che sembrano avere più
inerzia e sembrano essere più difficili da spostare. Proprio queste parti che fanno resistenza
appartengono all’implicito.
Se devo descrivere ciò che compio, devo fare uno sforzo di analisi è “scioglimento”. Perciò Martin
Heidegger parla di “analitica esistenziale” perché il punto è sciogliere per la ricostruzione razionale
della conoscenza di un agente epistemico. La verità non è un criterio, ma un determinato tipo di
relazione lo stato di cose dell’asserto e lo stato di cose comprovate, ovvero l’identità. Se le cose non
posso comprovarle definitivamente è un fatto mio, ma non riguarda la relazione.
Se una cosa è vera, è vera sempre, anche se non lo si sa. Se consideravamo che il Sole girasse e ora
no, non è che prima girava e ora non gira più, semplicemente abbiamo scoperto la verità. Quello che
una comunità stabilisce qualcosa che non è oggetto di credenza o di verità, è semplicemente ciò di
cui non si può sapere se è vera o meno, ma non sappiamo se è vero o falso (es: ultimo teorema di
Fermat= un matematico francese del ‘600 appunta a margine di una copia di un libro di Teofrasto,
un grande matematico greco, che ha dimostrato quel problema, ma non ha spazio per dimostrarlo;
dopo tantissimi anni è stato dimostrato, ma prima di dimostrarlo non sapevamo se era vero o no,
non è che non era né vero né falso quello che diceva Fermat).

92
16 LEZIONE

Passiamo alla seconda sezione del libro quella dedicata all’attività predicativa.
Quella predicativa non è una fase evolutivamente superiore e distaccata dalla precedente fase
dell’osservazione, esperienza anti predicativa, di norma e di fatto è tutto fuso insieme. Tuttavia per
fini analitici queste due “attività” vanno tenute distinte, Husserl in particolare li chiama “interessi”.

A cosa è propriamente dedicata questa seconda parte? Alle forme e alle strutture dei giudizi
predicativi —> che si esprimono su qualcosa e ne dicono qualcos’altro.
L’attività predicativa non è neanche isolabile dalla formazione di generalità (tema della 3 sezione)
quelli che la tradizione filosofica ci consegna come gli universali da quelli più bassi a quelli più alti.
Abbiamo quindi una mescolanza tra l’attività predicativa e quella empirica e tra quella predicativa
su oggetti individuali e l’utilizzo di “oggetti generali”.

La prima parte, del primo capitolo, della seconda sezione è dedicata a chiarire in che cosa consiste
la differenza specifica dell’attività predicativa. Poi si passerà all’analisi della forma più elementare
del giudizio predicativo e delle sue prime variazioni.
L’attività predicativa è caratterizzata molto più di quanto non lo fosse l’esperienza anti predicativa
presa in isolamento analitico dalle forme linguistiche —> sorge attorno al giudizio predicativo che
ha un aspetto linguistico.

Husserl deve spiegare in che termini l’attività predicativa è un’attività e in particolare in che termini
si può dire che sia una spontaneità. È spontanea proprio perché è legata ad operazioni di
esplicitazione o di espressione. L’espressione che si prenderà in considerazione è quella assertoria
—> l’asserzione, quella che si pronuncia in particolar modo su qualcosa e ne dice qualcos’altro: LA
PREDICAZIONE.

A tutte queste cose qui si lega una forma linguistica perché per Husserl ogni espressione così fatta
è espressione di un pensiero (non si risolvono nella loro forme linguistiche). Le forme che ha
l’espressione dipendono soprattuto da come è fatto il pensiero.

Centrale in questo capitolo è il concetto di INTERESSE, che ha due significati:


6. Un significato ampio: sinonimo di attenzione
7. Un significato stretto: emozione epistemica —> sentiamo il tendersi o il rilassarsi dell’interesse
(non ci fa piacere avere interesse)
Nel suo significato ampio l’interesse è 0/1 = tutto o niente, nel suo significato stretto invece è
graduale. Rispetto al suo senso ampio l’interesse può essere distinto in primario e secondario:
l’attenzione che io dò e quella che viene richiamata da qualcosa che sta succedendo.

In questa parte verrà preso in considerazione il carattere emozionale dell’interesse, che rende
l’interesse molto vicino (ma non coincidente) al desiderio o alla volontà.
Mentre l’espressione conoscitiva richiede una conferma o una disconferma, l’interesse o la volontà
vogliono essere soddisfatti, vogliono che accada qualcosa. Inoltre proprio perché l’interesse come
emozione ha a che fare con il desiderio e la volontà lo rende paragonabile ad un’altra forma della
coscienza: l’attesa (quella consapevole).
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L’interesse come emozione e se fosse vero come desiderio e attesa implicano che si faccia qualcosa,
affinché accada qualcos’altro —> ricorso ad una prassi (un’attività vera e propria).

Poi si passerà ad un terzo livello a studiare la forma elementare dell’asserzione, della predicazione
(per come la vede Husserl).
La forma più elementare sappiamo essere S+P ed è una formula che lui riprende volontariamente
dal linguaggio (non si tratta di una forma propriamente logica) perché dopo aver studiato
l’esperienza adesso ci tocca studiare il linguaggio per capire qual è la vera forma dell’espressione.

RIPRENDIAMO DA PAG 169


Husserl da una definizione di conoscenza nel senso ampio: “Il senso di ogni operazione conoscitiva
è quello di constatare ciò che è, per com è e per ciò che esso è”.
La conoscenza innanzitutto è un’operazione che consiste nella constatazione (più o meno
sinonimo di asserire come le cose stanno) —> Ne deriva quindi l’asserzione di uno stato di cose:
l’oggetto a cui si riferisce una preposizione.
È una constatazione, è un’asserzione di uno stato di cose che mira a 3 obiettivi:
6. A ciò che è —> corrisponde al sostrato
7. Per come è —> elemento più rilevante = il mondo in cui mi appare, significa l’in quanto cosa è
8. Per ciò che è —> alle determinazioni in senso lato

ES: Dico della scrivania che è di legno:


- Di questo oggetto —> ciò che è
- In quanto scrivania —> per come è
- Che è di legno —> per ciò che è
Conoscenza consiste in una constatazione che si riferisce ad un oggetto, in quanto qualcosa, con
determinate caratteristiche. Ogni stato di cose deve avere almeno questi 3 poli.
Definizione fenomenologia di oggetto: è sempre un oggetto in quanto qualcosa, perché nell’in
quanto qualcosa c’è il modo in cui appare, il modo in cui lo prendo ecc ecc.
Un oggetto è sempre un oggetto con un modo d’essere.
Lo stato di cose invece implica che oltre a questo si dica anche qualcos’altro, si attribuisca a
quell’oggetto una o una serie di caratteristiche.
Quello che abbiamo raccontato è il senso di ogni conoscenza che vuol dire il pensiero espresso in
ogni conoscenza è questo; linguisticamente può apparire diversa, nella tattica in cui la conoscenza è
coinvolta (ogni conoscenza che proviamo a conseguire ha uno scopo pratico) è probabile che non
abbia questo aspetto così distintamente tripartito.
“Senso” vale prevalentemente come pensiero oppure quando è utilizzato nel suo significato più
corrente è un sinonimo di significato, per Husserl le due cose sono legatissime, non ci è differenza.
L’utilità di metterci senso qua dentro deriva dal fatto che ciò di cui sta parlando propriamente
Husserl sono le operazioni di conoscenza —> che esprimono qualcosa.
Naturalmente se la conoscenza è operazione e se l’operazione distintiva è la constatazione e se la
constatazione deve riguardare tutta questa roba qui, io non raggiungo conoscenza sul piano
dell’esperienza anti predicativa.
Così come l’evidenza non è un vissuto isolato anche la conoscenza non è un pezzetto isolabile
dall’attività conoscitiva di un soggetto, dall’attività conoscitiva di una comunità.

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“La conoscenza è un sistema di parti interconnesse, ogni passaggio della conoscenza è guidato da
un impulso attivo della volontà a conservare nel futuro corso della vita il conosciuto in quanto
sostrato dei suoi caratteri determinativi”.
Un impulso a metterlo in relazione, a compararlo, connetterlo ma innanzitutto bisogna conservarlo
il risultato della conoscenza sennò non puoi metterlo in relazione con null’altro. Qui il punto è la
conservazione al fine di passarla quella conoscenza o al fine di tenersela come punto di partenza per
un altro fatto.
L’obiettivo della conoscenza è che l’oggetto si presenti per come è (vera e propria conoscenza per
Husserl), ciò che io voglio è che la mia conoscenza aumenti.

Questa operazione della conoscenza è un’attività sugli oggetti già dati. Ora parliamo di oggetto sul
serio, prima parlavamo di un “quasi oggetto”, di un “proto oggetto”.
Concetto pregnante di oggetto in quanto oggetto di conoscenza —> implica che esso sia
qualcosa di identico e identificabile aldilà del tempo della sua presenza intuitiva, una volta per
sempre e per tutti (anche se quell’oggetto è quantomai evanescente).
IDENTICO —> come identità 1-0
IDENTIFICABILE—> Identificazione parziale
UNA VOLTA PER SEMPRE E PER TUTTI —> non significa che accade per sempre, significa
che se accaduto è incancellabile che sia accaduto.
Questo non vuol dire che è certo che io la volta successiva riesca a riconoscere l’oggetto, ma non
significa che sia impossibile riconoscerlo.

Quello che dobbiamo fare è passare dal campo degli oggetti già dati agli oggetti veri e propri della
conoscenza = oggetti categoriali, predicativi, che occorrono in una predicazione. Quello che c’era
prima era l’esperienza ante predicativa quindi era un’esperienza precategoriale. Questi oggetti di
nuovo tipo sono stabili, identici e identificabili ma è anche un oggetto categoriale per cosi dire
“autonomo” perché mi capisce anche chi in quel momento non vede l’oggetto di cui sto parlando,
anche chi non se la immagina neanche (ad esempio la scrivania), ma chi semplicemente capisce il
significato della parola scrivania. Husserl li definisce anche come oggetti dell’intelletto perché un
espressione esprime un pensiero e quindi sono oggetti dell’intelletto.
Intelletto in Husserl identifica il pensiero e in specie identifica il riferimento, l’intenzione del
pensiero, non il pensiero confermato —> non parliamo di facoltà ma di funzioni di conoscenza.

Husserl successivamente ci dice che questi oggetti hanno forma logica ovvero categoriale ovvero
sintattica (sinonimia tra i 3 termini). Sono categoriali perché sono oggetti della predicazione, sono
dell’intelletto perché sono ciò a cui ci riferiamo e hanno una formazione logica nel senso che hanno
una forma logica, categoria o sintattica.
Non ci ha ancora spiegato di cosa si tratta ma possiamo andare per intuito e ricordarci cosa aveva
detto alla fine del capitolo sull’esplicitazione: dopo aver capito la differenza tra sostrato e
determinazione, siamo nella sede in cui hanno origine le principali formazioni logiche —> ci
sembra che queste formazioni logiche siano quelle del soggetto e del predicato = formazione
sintattica = soggetto e predicato (il linguaggio della logica tradizionale ha chiamata così).
Quando Husserl dice la logica tradizionale ha preso queste formazioni elementari considerandole a
se stanti senza capire che qua dentro si è depositata conoscenza intende dire senza capire che

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all’origine della distinzione tra soggetto e predicato vi è l’esplicitazione e la differenza tra sostrato e
determinazione.

Noi dovremmo essere in grado di capire che esiste questa coppia nel linguaggio tradizionale della
logica perché nel nostro fondo di conoscenze date per scontate esiste la distinzione tra sostrato e
determinazione.

PARENTESI: Nella scuola di Brentano c’è oltre Husserl un grandissimo linguista Anton Marti (il
quale fa parte della storia della linguistica contemporanea) e le discussioni sulle strutture del
linguaggio erano all’ordine del giorno e in particolare la scuola di Brentano era molto legata alla
critica del linguaggio. Il lavoro che fa Husserl sul linguaggio gli ha portato molti lettori e tra i
principali Karl Buhler (psicolinguista di inizio ‘900) e Roman Jakobson (fondatore del circolo
di Praga e dello strutturalismo linguistico) quindi l’interesse di Husserl per il linguaggio è un
interesse che è stato molto letto sia da coloro che hanno studiato il linguaggio naturale ma anche
formale.

Questo per dire che Husserl affronta il problema pensiero e linguaggio a partire dall’assunto che
ogni espressione linguistica è espressione di pensiero e stando così le cose io non posso separare
linguaggio e pensiero, non posso stabile ciò che viene prima, ciò che è importante capire e chi si
deve occupare del linguaggio e chi del pensiero.
È chiaro che del linguaggio se ne deve occupare la linguistica invece del pensiero se ne occupa la
logica, la filosofia della logica ecc ecc.

FINE PAG 170


È un dato di fatto che l’attività predicativa si esprima attraverso il linguaggio ed è fuorviante dal suo
punto di vista stabilire un primato dell’uno sull’altro, ciò che è rilevante è distinguerli e utilizzare
l’analisi del linguaggio come una via di accesso al pensiero.
In Husserl il problema non è quello dell’isomorfismo tra linguaggio e pensiero —> io non studio il
linguaggio perché è simile al pensiero, ma lo faccio perché è il modo in cui il pensiero di esprime,
non c’è un’altra via devo partire dal linguaggio (questo però non implica un primato del linguaggio
sul pensiero).
Inoltre le giustificazione di ultima istanza delle strutture linguistiche sono le strutture di pensiero, le
strutture dell’esperienza secondo Husserl.

Quando questi oggetti categoriali, dell’intelletto sono distaccati dal sottofondo da cui nascono
diventano il tema della logica formale, la logica formale tradizionale studia le forme sintattiche che
questi oggetti hanno isolatamente, senza dover guardare alla loro origine nell’esperienza —> NON
è un errore perché sua questo piano si originano degli oggetti che hanno un sottofondo ma hanno
vita propria, sono destinati al possesso.

Al termine di questo primo paragrafo fa un riassunto di quello che si dovrà fare nei tre capitoli che
costituiscono questa seconda sezione. È innanzitutto necessario indagare la struttura delle
attività predicative, poi la struttura del modo d’essere degli oggetti che ne derivano (come
sono fatti gli oggetti categoriali) e infine potremo capire anche la differenza fondamentale tra i
giudizi a vuoto e a pieno:
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-Questa cattedra è di legno
-La cattedra e le sedie fanno parte dell’arredamento di una aula universitaria—> a vuoto, NON
PRETENDO DI DIRE CHE STO PERCEPENDO GLI OGGETTI DI CUI PARLO.
Parlo di oggetti e mi ci riferisco senza pretendere che quegli oggetti vegano intuiti o confermati.
Questo esempio è un “poco poco” a vuoto (gli oggetti sono concreti) pensiamo a giudizi più
formalizzati: scrivo uno schema logico e quello schema produce una conoscenza a vuoto —> non si
riferisce a un oggetto di intuizione particolare, ma non per questo non è un tipo di conoscenza.
Abbiamo insistito molto sul carattere di attività, interesse, volontà, desiderio, ma come si distingue
questa attività da quella pratica, da quel tipo di attività che noi chiamiamo comunemente
azione? Anche nel caso dell’azione c’è volontà, desiderio, attesa e c’è appunto un rapporto con il
possesso, con l’acquisizione, con la conservazione del risultato e il risultato è un soddisfacimento.
Quindi dobbiamo da un lato distinguere attività conoscitiva e attività pratica e dall’altro dobbiamo
far capire che benché distinte possano convivere —> l’idea di una conoscenza a fine pratico o di
una conoscenza risolta praticamente sono due idee che Husserl condivide = risvolto tecnologico e
pratico della conoscenza.

Secondo caso: gli oggetti fisici non sono mai interamente recepiti generalmente questo problema è
superato con uno strumento pratico.
Esempio—> Vado dal falegname e gli dico come voglio una sedia, gliela descrivo con tutta una
serie di particolari, non tutti quelli che esistono ma bastano a produrre la sedia oppure il falegname
mi guarda e mi fa uno schizzo —> in tutti e due i casi la indeterminatezza della conoscenza in se
stessa è risolta con mezzi pratici.
PAG 171 La conoscenza è un’attività ma non si distingue dall’azione perché la seconda produce
oggetti e la prima no (lo fanno entrambe), ma per il fatto che la produzione di oggetti è il fine
proprio dell’azione mentre il fine proprio dell’interesse per la conoscenza è l’aumento di
conoscenza.
Quando Husserl dice che il fine proprio della conoscenza è produrre la conoscenza di un oggetto
che si presenta a se stesso —> perifrasi per dire che il fine della conoscenza è l’aumento del grado
di evidenza, il fine della conoscenza come interesse, volontà è l’aumento dell’evidenza.
In Husserl l’evidenza ha due significati:
- Evidenza della distinzione
- Evidenza della chiarezza

L’evidenza è un’operazione sperimentabile e come tutte le operazioni realizzabili fa un effetto,


questo effetto è graduale e principalmente ha a che fare con la credenza (convinzione).
Quest’operazione può essere di due tipi diversi:
- Operazione che si limita alla distinzione e di per sé è già un’evidenza = evidenza della distinzione
(ottenuta anche in isolamento dall’evidenza della chiarezza)
4. Evidenza della chiarezza —> o voluta o raggiunta
ES. EVIDENZA DELLA DISTINZIONE: Stiamo per strada a Spaccanapoli e ci immergiamo in
un fiume di gente, tutti parlano e non distinguiamo le parole dei loro discorsi, possiamo però con un
pò di attenzione distinguere i discorsi che vengono fatti. Poniamo che questi discorsi siano in
italiano e quindi siamo anche capaci di capire cosa dicano, ma non ci interessa = distinguiamo solo
le parole di questi discorsi. Rispetto però alla condizione pretendete la differenza si vede.

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ES. EVIDENZA DELLA CHIAREZZA: Tornando sulla questione di Spaccanapoli, ipotizziamo
che ci viene voglia di capire cosa vogliono dire queste persone (ci stiamo facendo i fatti degli altri,
lol) questa è l’aspirazione all’evidenza della chiarezza —> non è detto che riusciamo a capire cosa
vogliano dire quelle persone.
Può essere però che essendo tenaci ci siamo riusciti, possiamo addirittura tornare a casa e
raccontarlo —> abbiamo raggiunto l’evidenza della chiarezza.
Quando l’evidenza della chiarezza è raggiunta abbiamo condotto l’operazione di portare l’oggetto a
presentarsi in se stesso.
GENERALIZZANDO… L’evidenza della distinzione è anche quella che io acquisto quando
assegno i giusti ruoli sintattici a dei termini, quando riconosco le funzioni sintattiche dei termini in
un enunciato e questo vale per strada ma soprattutto in quell’ambito che Husserl chiama il
linguaggio tradizionale della logica formale.
Quando Aristotele ci presenta la sua teoria del sillogismo ci dice quali sono i modi giusti e fallaci e i
modi fallaci sono quelli in qui dei termini svolgono funzioni che non potrebbero svolgere.
Quindi quando noi diciamo che le prime formazioni logiche sono soggetto e predicato, stiamo
parlando non di quello che vogliono dire questo soggetto e questo predicato, stiamo parlando di
raggiungere l’evidenza della distinzione, che ci fa un effetto al di là che vogliono significare delle
frasi, degli enunciati.
Quello che fa il linguaggio tradizionale della logica formale è secondo Husserl un’attività di
conoscenza, perché anche quando distingui i ruoli funzionali dei termini in un enunciato produci
conoscenza e un effetto perché stai facendo un’operazione —> un effetto di convincimento.
Questo chiarimento sull’evidenza della distinzione è fatta nel libro “Logica formale e
trascendentale” (nato come prefazione di questo libro) qui alcune cose sono date per acquisite.
L’identificazione produce conoscenza e su quello dobbiamo avere chiarezza —> basta la
distinzione per un giudizio di identità.

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17 LEZIONE

Dalla nozione tradizionale di evidenza Husserl si porta un’altra cosa e cioè che ci sono determinate
conoscenze che hanno evidenza altissima e incontestabile e altre conoscenze che hanno un’evidenza
più scarsa. L’evidenza più stabile è chiamata da Cartesio conoscenza apodittica cioè l’evidenza che
è garante di dimostrazione.

L’evidenza apodittica è un’evidenza che garantisce le dimostrazioni o che può essere frutto di
dimostrazioni laddove per dimostrazione nel lessico moderno si intenda un processo complesso
conosciuto che non disperde la verità delle premesse (quella per eccellenza è quella matematica). In
Cartesio si aveva l’evidenza delle conoscenze matematiche che faceva da modello per tutto e poi a
scendere avevamo grado inferiori di evidenza. All’evidenza matematica era collegata anche una
funzione intuitiva ed immediata.

Il lavoro di Husserl prova a scardinare questa nozione di evidenza e, nonostante Husserl nel suo
lessico conservi il termine intuizione, l’intuizione è non questa visione intellettuale con l’oggetto.
Di evidenze ce ne sono due ovvero la prima è l’evidenza della distinzione e la seconda quella della
chiarezza. In questo caso si prende due elementi della definizione classica cartesiana di evidenza e
ci fa un lavoro sopra. In Cartesio l’evidenza era ottenibile solo sulla base di idee chiare e distinte. La
distinzione era un passaggio obbligato alla chiarezza, si tratta di un’evidenza soltanto con idee
chiare e distinte assieme.

Husserl dice invece che possiamo avere due tipi di evidenza di cui l’evidenza della distinzione che è
un’evidenza sintattica (apro un libro e vedo delle parole confuse una dietro l’altra senza capirne il
significato) e posso passare dalla confusione alla distinzione (quando riconosco le parole che si
susseguono alle pagine del libro) faccio un’operazione ottenendo un’evidenza che è quella della
distinzione. Poi potrebbe bastare infatti basta pensare al correttore di bozze che non legge il libro
(altrimenti uscirebbe fuori dalla sua funzione) e legge al contrario dall’ultima alla prima senza
interessarsi di ciò che vuole dire il libro ma vuole scovare gli errori (è interessato solo all’evidenza
della distinzione e non della chiarezza). Nel nostro caso vorremo avere anche la chiarezza della
chiarezza, sulla base della distinzione non ci basta la distinzione ma vogliamo pure la chiarezza.

L’evidenza della chiarezza può essere anche una posizione del soggetto, un tipo di relazione che il
soggetto ha (negli occhi del soggetto) oppure un’evidenza della chiarezza raggiunta. Quando ci
basta l’evidenza della chiarezza raggiunta abbiamo il risultato dell’operazione che consiste nel
presentare l’oggetto in sé stesso. Questa evidenza della chiarezza raggiunta è quello che Husserl
chiama il vissuto della verità cioè è un vissuto che ha come controparte e riferimento oggettivo uno
stato di cose vero (è vero perché è stato confermato).

Se noi ci manteniamo su questo duplice piano quindi la conoscenza come tipo di esperienza che
vuole sapere come stanno le cose e al contempo descriviamo tutte le esperienze che stanno dentro
questo tipo di conoscenza possiamo capire come la conoscenza ha un catetere desiderativo (di
volontà). La volontà non è la volontà dell’oggetto ma la volontà di acquisire conoscenze maggiori
sull’oggetto. La volontà ha come obbiettivo ultimo il possesso stabile di quelle conoscenze.

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Ora la cosa interessante è che se nella conoscenza c’è questa volontà di conoscere evidentemente
questa conoscenza attuale che inseguo è in qualche modo coerente con la conoscenza passata.
Anche quando dovessi scoprire che quello fosse non più un manichino ma una persona, questa
delusione dovesse cambiare il mio indirizzo anche in questo la conoscenza successiva sarebbe
coerente, infatti, la conoscenza attuale può essere completamente diversa da quella precedente.
Anche questo cambio è coerente perché è diverso, perché ho cambiato aspirazione. Quando si dice
coerente si intende la coerenza con il desiderio della conoscenza precedente. Anche due cose
contrastanti sono coerenti, quella precedente funge da motivazione per la successiva (esempio
cambio facoltà). Sono coerente con la mia volontà passata.

Per la negazione vale la stessa cosa. Ad esempio, una cosa è dire una balena non è un pesce e
un’altra dire che la balena non è un minerale. Nel primo caso io sto negando qualcosa che pensavo
fosse vero prima (perché vedo la balena nel mare con delle pinne e quindi posso pensare che sia un
pesce). La negazione rimane coerente con prima. Mentre nel secondo caso non nego ciò che stavo
pensando prima perché non ho mai pensato che la balena fosse un minerale.

Questo carattere di desiderio riguarda la volontà di conoscenza, la conoscenza è la pretesa di verità


quindi di presentare l’oggetto in sé stesso. La volontà di conoscenza è la volontà di avere una
conoscenza maggiore su un oggetto ed è la volontà di conoscenza stabile. La conoscenza è
alimentata da una volontà ma noi distinguiamo tra conoscenza e la volontà di conoscenza. La
conoscenza ha che fare con un offerto mentre la volontà di conoscenza ha a che fare con la
conoscenza (vuole aumentare la conoscenza di quell’oggetto). La conoscenza vera e propria è la
conoscenza di ciò che è veramente qualcosa mentre la conoscenza di ciò che è qualcosa è il fine
della volontà di conoscere. La conoscenza riguarda gli oggetti mentre la conoscenza degli oggetti è
il fine della volontà di conoscere. Il fine della volontà di conoscere è la conoscenza.

La conoscenza a mano a mano si riempie e si conferma (o non si conferma). Poniamo che si riempia
sempre di più guadagnando sempre di più conoscenza dell’oggetto, la conoscenza progredisce per
conferme e ogni conferma produce un soddisfacimento della volontà di conoscere. La conferma
della conoscenza ha che fare con l’oggetto mentre il soddisfacimento con la conoscenza. La
conoscenza si soddisfa quando è sempre più grande ma è sempre più grande quando sa sempre di
più dell’oggetto.

Husserl dice anche come per ogni interesse, per ogni volontà quello della conoscenza può essere un
interesse principale o ausiliario che professionalmente si interessa alla conoscenza. La comunità
scientifica è la comunità di coloro che hanno un interesse professionale per la verità. Fanno per
mestiere gli interessati alla verità. Se l’interesse per la conoscenza è un interesse principale ci
troviamo davanti a uno che in quel momento fa per mestiere l’interessato alla verità. L’interesse
ultimo di voler sapere come si costruisce la sedia è l’interesse di costruire una sedia non di saper
costruire una sedia. In questo caso l’interesse per la conoscenza è ausiliario. Invece nel caso del
lettore che legge un libro giallo con lo scopo soltanto di conoscere il finale, in questo caso
l’interesse per la conoscenza è principale.

Husserl ora inizia a spiegarci come si mettono in forma di giudizi le cose che erano state attestate
nell’esperienza ante predicativa (avevano distinto un’esplicitazione in cui c’era uno sostrato e
100
determinazione, una relazione e queste cose non hanno forma di giudizio). A tutte queste cose
corrispondono dei giudizi che hanno forme diverse. Sono tutti giudizi predicativi che si esprimono
su un oggetto ma a seconda di cosa dicono hanno una forma differente. In questo senso Husserl
prima ci da l’idea di una struttura elementare di un giudizio poi ci spiega come è fatto un giudizio
predicativo che attribuisce delle proprietà ad un soggetto poi ci spiega come è fatto un giudizio
predicativo che mette in relazione un soggetto con le sue parti. Queste tre cose corrispondo a tre
forme sintattiche del giudizio.

La forma generale di un giudizio predicativo sarebbe quella di soggetto-predicato. Quando diciamo


questo sappiamo di usare soggetto e predicato come due forme sintattiche che corrispondono al
sostrato e alla determinazione. Ora la prima cosa deve spiegare Husserl cosa significa che soggetto
e predicato come forme sintattiche corrispondano al sostrato e determinazione. Infatti, soggetto e
predicato sono due forme sintattiche le quali non hanno niente a che fare con l’esperienza.

Nell’esperienza avevamo di base un sostrato e determinazione mentre nel linguaggio del giudizio
soggetto e predicato ma ci vuole un’altra coppia che in mezzo consenta di trasferire la più bassa su
quella più alta. Questa coppia in mezzo è quella costituita da sostantivo e aggettivo (o
caratteristica). Le due forme elementari che stanno in mezzo sono sostantivo e aggettivo. Queste
sono forme nucleari (del nucleo) sono la prima messa in forma del risultato della conoscenza
empirica.

Che significa che al sostrato corrisponde la forma del sostantivo e alla determinazione la forma
dell’aggettivo? Significa che, come la distinzione sostrato-determinazione, è relativa lo è anche
questa. Quello che è aggettivo può essa utilizzato come sostantivo ma il contrario non vale. Il
sostrato prende forme di sostantivo, il sostrato era quell’oggetto abbastanza indipendente che
costituiva l’oggetto tematico della determinazione. Questo oggetto tematico prende la forma del
sostantivo, funziona come ciò di cui si parla.

La determinazione prende la forma dell’aggettivo ovvero la forma di ciò che si aggiunge al


sostantivo come ciò che si dice riguardo al sostantivo. Io posso dire mille cose del sostantivo,
quindi, non va inteso solo come aggettività come rosso bello o basso ma tutto ciò che si aggiunge al
sostantivo. Ogni aggettivo e ogni determinazione può essere reso sostantivo così come potevamo
prendere come sostrato una determinazione. Nel caso in cui mi trovo in un sostantivo di secondo
livello come bianco posso tornare indietro e scoprirlo come aggettivo. Se ho un sostantivo di
secondo livello non posso trasformarlo come aggettivo.

Esempio. Bianco è un colore. Ho un sostantivo come forma nucleare che è il bianco. Proviamo a
trasformarlo in aggettivo. Posso dire che qualcosa è bianco? Certo quindi scopro che quel sostantivo
era un aggettivo. Scopro sul piano delle forme nucleari che quel sostantivo è di secondo livello
quindi di base non è sostantivo. Prendiamo invece la sedia è di legno. Sedia=sostantivo e di
legno=aggettivo. Posso formare sedia in un aggettivo? No. Un sostantivo di primo livello non può
essere trasformato in un aggettivo. Questo dimostra sul piano dei nuclei che quel termine che si
riferisce ad un sostrato assoluto. Non posso renderlo un aggettivo però posso ricondurlo a qualcosa
di più grande ovvero la sedia è parte di un arredamento di un’aula. Così ho relativizzato la sua

101
indipendenza. Cioè io parto dalla sedia di legno, relativizzo il suo carattere sostantivale di
indipendenza e posso dire un’aula ha molte sedie.

Proviamo a guardare cosa accade con il primo enunciato ovvero un’aula ha molte sedie e con il
secondo enunciato la sedia è lignea. Ho utilizzato un verbo ausiliare avere e ho come parte del
predicato un sostantivo (la sedia). Quindi ho due forme del giudizio una con è e una con ha (là sedia
è lignea). L’aula ha molte sedie e la sedia è di legno includono nel predicato due cose
completamente diverse. È di legno è parte del predicato da un punto di vista sintattico, dal punto di
vista nucleare ha forma aggettivale.

A cosa corrisponde sul piano dell’esperienza predicativa? Ad una determinazione immediata. Il


caso un’aula ha molte sedie ha sempre la stessa forma sintattica e anche la stessa forma nucleare ma
sul piano dell’esperienza non mette delle determinazioni ma delle parti. Il giudizio ha viene fatto
per esprimere delle attribuzioni di parti ad un intero. Il giudizio è viene fatto per attribuire delle
determinazioni ad un sostrato.

Abbiamo una struttura sintattica che è SP (soggetto-predicato) che rimane sempre la stessa in ogni
asserzione predicativa. Questa per Husserl è una struttura sintattica che è un modo per unire le
forme linguistiche che assumono i nuclei. Ogni volta che c’è una predicazione tra le due parti vi è
una cesura. Questa struttura sintattica prevede due inclinazioni possibili ovvero una predicazione
con ha quindi il verbo avere o verbo essere. Queste due forme non solo due forme convenzionali,
ma queste due inclinazioni o sono l’attribuzione di una determinazione ad uno sostrato oppure
l’attribuzione di una parte ad un intero. Sono due cose diverse.

Quando attribuisco una determinazione ad un sostrato utilizzo la è quando invece attribuisco una
parte ad un intero utilizzo ha. Io potrei utilizzare anche la forma la sedia ha il colore bianco. Lo
posso fare e se lo posso fare cosa faccio? Ha il colore bianco è una struttura sintattica in cui
evidentemente nel ruolo dell’aggettivare c’è un sostantivo (il colore bianco). So che bianco è una
determinazione quindi non posso sostrattizzare le determinazioni. Lo posso fare dal secondo livello
in poi parlando delle determinazioni. Nel secondo caso (la sedia ha il colore bianco) sto parlando
del colore bianco attribuendogli maggiore indipendenza.

Tra la sedia è bianca e la sedia ha il colore bianco c’è una differenza perché nel secondo caso ho
nobilitato il bianco. Il secondo caso è più informativo del primo. Come l’aggettivo poteva essere
sostantivato ma il sostantivo non poteva essere aggettivato così la determinazione può passare dalla
forma è alla forma ha ma la parte non può passare dalla forma ha alla forma è. Un giudizio che in
primo livello ascrive una parte in quanto pezzo ad un intero non può trasformarsi in è.

Aula ha molte sedie non si trasforma in aula è sediosa o aula è piena di sedie. Non sto trasformando
sedia ma sto predicando un’altra cosa vale a dire che l’aula è piena di sedie. Non è una regola
dettata dalle regole sintattiche di una lingua ma è un impossibillità legata alla forma nucleare che
sta in mezzo tra l’esperienza e la lingua. Non posso dire sedioso non solo perché me lo impedisce la
mia lingua ma perché lo impedisce la forma nucleare che corrisponde al sostantivo sedia.

102
Il tentativo di Husserl è di spiegare la sintassi di una lingua e la sintassi delle lingue su questo
livello di forme nucleari. Le lingue impediscono di fare queste cose perché rispettano le forme
nucleari. Questa idea si estende, non si limita a fornirci una spiegazione della differenza tra il
giudizio ha e il giudizio è ma aspira ad arrivare ad un livello più elevato ovvero arriva a valore
motivare che cos’è quella che chiamiamo grammaticalità apparente.

I grammatici chiamiamo la nostra creazione un giudizio di grammaticalità cioè se a noi chiedono se


quella frase è corretta noi rispondiamo di si, ci appare grammaticale. Perché? Ad esempio, le poesie
di Fosco Maraini compongono sostantivi inventati, termini inventati e particelle (connettivi) che
sono possesso di una lingua. Traveste termini inventati da sostantivi e lo fa perché fa terminare quei
termini in maschile o femminile o plurale o in singolare. Si tiene in considerazione il numero del
sostantivo. Lo stesso fa con gli aggettivi e verbi.

Queste frasi grammaticali mettono insieme termini inventati che rispettano le forme sintattiche che
deve avere ciascuna parte del discorso e in più utilizza le particelle che vanno dagli articoli alle
congiunzioni e lo fa sempre. La struttura lineare cambia da lingua (ho mangiato il pollo ieri è
sbagliato grammaticalmente perché ieri va all’inizio). Per Husserl quelle funzioni sintattiche si
giustificano sul piano delle forme nucleari che stanno a metà tra le strutture dell’esperienza e le
articolazioni del discorso. Questa struttura a tre livelli permette di non bloccare il discorso
all’esperienza piuttosto Husserl dice che i modi in cui stanno insieme i termini nel linguaggio
rappresentano delle funzioni che sono più elementari.

Torniamo al giudizio attributivo è. Ho detto tante volte questa sedia è nera, è comoda… Qui
utilizzo la conoscenza di sfondo per cui c’è un sostrato e delle determinazioni. Le determinazioni
sono legate l’una alla altra con congiunzioni o una virgola dal punto di vista del discorso. Le
congiunzioni sono legate tra di loro attribuite tutte ad oggetto principale. Le determinazioni non
potrebbero mai essere tutte elencate in maniera esaustiva infatti se dico che S è P, Q infatti ci può
essere qualcun altro che mi dice che P, Q è anche Z, R,C. Quindi non è mai esaurito nelle sue
determinazioni.

Posso anche dire che S è P,Q e così via in quanto non mi interessano le altre determinazioni ma so
che ci sono altre determinazioni e che queste altre determinazioni procedono in maniera coerente. E
così via compare in questa specifica accezione vale a dire come un segnaposto per tutte le
determinazioni che non sto menzionando. La stessa cosa si può fare con le parti ovvero la sedia è
composta da bracciolo, schienale e così via. In questo non sto dicendo la stessa cosa di prima,
infatti, proprio perché parlo di parti indipendenti sto dicendo che quello che non menziono le
potrebbe avere e non avere (ci sono sedie che le hanno e che non le hanno).

Potrebbe avere ad esempio un bracciolo, un poggiapiedi ma anche no quindi notiamo come sia
diverso dall’eccetera delle determinazioni. Dico che ci potrebbero essere nel caso delle parti
mentre nel primo caso con eccetera dico che ci sono. Una sedia senza piedi rimane una sedia ma
una sedia senza colore non è più una sedia, non è oggetto fisico.

Quando considero un intero con delle parti o un sostrato con determinazioni, quando uso un altro
modo di eccetera voglio mettere a tema le leggi di coerenza tra le proprietà e le parti, voglio
103
mettere a tema le regola che seguono le proprietà o le parti. Se dico la serie dei numeri naturali
(1,2,3 e così via) sto dicendo un’altra cosa dalla sedia ha i piedi, lo schienale e così via. Nel primo
caso sto mettendo a tema la cosa più complicata che è la regola della successione dei numeri
naturali. Lessicalmente sono uguali ma hanno significato diverso.

Dunque, oggi abbiamo messo insieme la struttura sintattica dei giudizi con la struttura
dell’esperienza. Non si tratta di conoscenze più alte o basse ma di strutture da un lato del discorso e
dall’altro dell’esperienza.

104
18 LEZIONE

1 SOGGETTO è PREDICATO Posizioni

Linguaggio della Logica Predicativa

2 Nuclei/Forme Funzioni

(nuclei materiali o nuclei formali)

3 Sostrato + Determinazione Sintesi di coincidenza

Esplicitazione

Analisi sull’affinità strutture dell’esperienza/strutture della sintassi: esistono 3 livelli.

1. Livello della sintassi vera e propria: S è P (Soggetto è Predicato)


Linguaggio della logica predicativa, tradizionale
2. Come si distinguono i nuclei
Esistono nuclei materiali e nuclei formali
3. Soggetto e determinazione
Struttura dell’esplicitazione

1- Differenza tra le POSIZIONI di soggetto e predicato


2- Differenza di funzioni tra i nuclei
3- Rapporto di esplicitazione

Possibile SOSTANTIVARE UN AGGETTIVO: morbido -> morbidezza

Impossibile AGGETTIVARE UN SOSTANTIVO: sedia -> sedioso

(il sostantivo è un nucleo materiale e non può essere trasformato in aggettivo)

Abbiamo visto questo schema perché il 1° capitolo della II sezione ci inizia a parlare dei giudizi
predicativi guardando alle diverse forme che essi possono avere anche se la struttura del giudizio
predicativo è sempre la stessa, ossia Sp.

Esistono quindi due pezzi, ovvero SOGGETTO e PREDICATO che sono “termini” (infatti
“termine” non coincide con “nome”)

Giovanni è un bravo ragazzo che mi accompagna a fare la spesa

Giovanni: SOGGETTO

È un bravo ragazzo che mi accompagna a fare la spesa: PREDICATO

105
Se il predicato è questo si capisce bene come la sua funzione aggettivale non si riesce a spiegare
solo sul piano del linguaggio, siccome linguisticamente questo non è un solo termine/un solo
aggettivo. Ai nostri occhi invece lo è perché è UNA attribuzione ad UN soggetto.

Qual è la differenza tra soggetto è predicato: la POSIZIONE rispetto alla copula.

SOGGETTO (sinistra della copula) è (destra della copula) PREDICATO

La copula per Husserl è una cesura, un taglio.

Quando Husserl analizza le forme del giudizio predicativo guarda innanzitutto a delle informazioni
strutturali e dice: lascia perdere qual è il contenuto specifico di soggetto, copula e predicato.

1° TERMINE -CESURA- 2° TERMINE

Questa è una struttura che si ripete sempre: S è P

Stiamo quindi parlando della funzione strutturale e non del contenuto semantico.

È la struttura che riprende l’organizzazione dell’esperienza (e non viceversa): l’affinità tra livello 1
e livello 3 è un’affinità di struttura; così come il livello 3 si fonda sulla differenza tra sostrato e
determinazione, così anche il livello 1 si fonda sulla differenza tra soggetto e predicato.

Non dobbiamo andare a veder ese il sostrato si ripete nel soggetto e la determinazione si ripete nel
predicato, ma l’importante è che in entrambi i livelli ci sia una differenza che deve valere come
informazione principale.

La struttura rimane la stessa nei giudizi predicativi e poi a seconda di quello che si dice all’interno
di questi giudizi si notano delle differenze interne.

Posso dire

SèP P = determinazione

oppure

S ha P P = parte (dipendente o indipendente)

La struttura è sempre la stessa; cambia solo il verbo, ma in realtà quello che cambia è il tipo di P.

P come parte si riferisce ad un oggetto secondario, ma pur sempre un sostantivo: es “il mio
maglione ha il colore blu”; “il cavallo ha la coda”. In questo caso io ASCRIVO una parte ad un
intero.

(Ascrizione di una parte ad un intero, attribuzione di una determinazione a un soggetto)

106
Quando cambia il verbo non cambia la struttura ma cambiano le funzioni che hanno i predicati; in
un caso si tratta di predicati che parlano di proprietà e nell’altro di parti dipendenti/indipendenti.

TEMI che affronteremo:


1. GIUDIZIO DI IDENTITÀ
2. IDENTIFICAZIONE (differenza con identità)
3. OGGETTO + CONCETTO
4. SENSO LOGICO

È funzionale la definizione di oggetto siccome il capitolo successivo si apre con “stato di cose”
ossia il modo in cui STANNO, si comportano più oggetti reciprocamente. è anche un primo parto
autentico dell’attività predicativa perché allo stato di cose con quello che ho fino ad ora non ci
arrivo.

Situazione da cui partiamo, posizioni di partenza

a) S è p, S è q, S è r
b) S è p, q, r
c) S (pq) è r

a) Giovanni è biondo, Giovanni è atletico, Giovanni è il mio vicino di casa …


b) Giovanni è biondo, atletico, il mio vicino di casa …
c) Giovanni, che è biondo e atletico, è il mio vicino di casa

In tutti questi casi la mia attenzione è sulle determinazioni; quello che voglio dire a chi mi ascolta è
che qualcuno ha una serie di caratteristiche. Anche se chi mi ascolta anche se non conosce
Giovanni, ha delle informazioni.

La differenza di questo caso è che non siamo sprovvisti di tutte le informazioni, non abbiamo solo
un nome come segnaposto ma abbiamo un nome che corrisponde anche nella nostra esperienza
personale una qualche informazione su quella persone.

 Lunedi: il prof X non è bravo


 Martedì: il prof X di cui ti ho parlato ieri oggi è stato più simpatico
 Mercoledì: il prof X ha una macchina sportiva

L’esempio a) è aperto a questa possibilità; quindi queste predicazioni del soggetto avvengono in
momenti diversi.

In ogni caso l’interesse di colui che formula questi enunciati è sulla determinazione;

“S” in tutte queste formazioni di significato ora è il sostrato identico di tutte queste formazioni
semantiche ed in quanto soggetto esso è il soggetto di predicati sempre nuovi.

Vi è un’altra forma in cui si esprime la possibilità di predicati sempre nuovi: diamo per scontato che
S p, q, r = S z, w perchè un sostrato ha sempre un sacco di determinazioni che non

107
sappiamo; l’orizzonte interno del soggetto è pieno e non lo scaviamo mai a fondo perché ci sarà
sempre una prospettiva che non possiamo esaudire.

Io però non mi sto interessando di quanto sia identico questo sostrato, né lo sto dicendo.

UN GIUDIZIO PREDICATIVO DI BASE È PREDICAZIONE DETERMINATIVA O


RELAZIONALE E IL GIUDIZIO DI IDENTITÀ È UN LIVELLO SUPERIORE.

La filosofia procede per problemi, il nostro problema è: la “è” ha funzione predicativa o


identificativa? Husserl dice che la “è” funziona come predicativa; se la “è” fosse identificativa, se io
parto dall’identità (es di Hegel) non posso avere una serie di conseguenze dialettiche. Se la “è”
esprime un’identità sin dall’origine io ho due oggetti e sin dall’origine l’identità implica la
differenza tra questi due oggetti, dunque identità e disidentità coesistono.

Caso a): sto attribuendo una serie di caratteristiche allo stesso soggetto, ma non sto mettendo a tema
che sia lo stesso soggetto. l’informazione che vuole passare chi parla sono le determinazioni e non
l’identità del soggetto.

Il contenuto del giudizio che vien proferito non è il fatto che sia sempre lo stesso S.

(Pag. 195) Lo stesso S è inteso in un senso sempre nuovo ossia con determinazioni nuove (le
determinazioni hanno il carattere della differenza), questo senso nuovo è il senso logico.

SENSO LOGICO = ciascuna delle attribuzioni e tutte le attribuzioni insieme.

L’insieme di tutti gli attributi che veramente si possono attribuire a S sono anche l’insieme di tutte
le proposizioni vere che si possono dire di S.

Il senso logico di S costituisce un concetto di concetto, ovvero un significato del termine


“concetto”; è da distinguere dal concetto nel senso di materia nucleare e dal concetto nel senso di
genere.

SEDIA: sostrato

Concetto di sedia: genere sedia da un lato i tratti caratteristici che non possono mancare a una
sedia, dall’altro l’insieme di tutte le sedie possibili

Sedia è concetto anche se penso alla sua funzione di nucleo, ovvero il fatto che io l’ho incontrata
sempre come un oggetto.

Sedia è un concetto se guardo al suo senso logico; il suo senso logico è l’insieme di tutte le
caratteristiche che può avere, non è un genere, non è la sua funzione di nucleo.

108
Ciascun sostrato (oggetto individuale) ha un senso logico: Giovanni è alto, Giovanni è biondo;
“alto” e “biondo” sono contribuenti del senso logico di Giovanni. Giovanni è un individuo in carne
e ossa. Ma se Giovanni e la sedia in quanto sostrati del giudizio hanno un senso logico, a Giovanni
e alla sedia corrisponde un concetto; nel senso logico è un’accezione di concetto, ma il concetto di
Giovanni è un concetto individuale siccome corrisponde appunto ad un individuo. Il concetto
individuale di Giovanni, ovvero il senso logico di Giovanni è tutte le caratteristiche che può avere
Giovanni: è il suo orizzonte interno trasformato in termini logici.

Risulta più chiaro perché questa nozione di concetto sia diversa dalla nozione di concetto che
contiene il genere: il genere di Giovanni è l’essere umano mentre il concetto attribuibile a Giovanni
in quanto individuo è tute le attribuzioni che potrebbe avere.

Il senso logico di un sostrato cambia in ciascuna predicazione che facciamo, le attribuzioni che
facciamo al nostro sostrato possono essere attribuzioni che riguardano la nostra esperienza ma
possono anche essere a caso. Allo stesso modo il nostro sostrato può essere riguardante la nostra
esperienza ma anche no.

Il punto è come se in tutte queste forme predicative io fossi attento al senso logico, il quale deve
essere attribuito ad un quarto (?) sostrato ma quando parlo del senso logico non mi interessa
specificare quale sia il sostrato.

Le informazioni stanno nel senso logico, non nel sostrato. “S” per noi è indeterminato, ciò che è
determinato è il senso logico.

Come avviene il passaggio verso un giudizio di identità? Le identificazioni sono di un numero


indefinito, siccome non posso esaurire mai il senso logico/l’orizzonte interno; le identificazioni
servono a sapere cose su qualcosa, ma nelle identificazioni che faccio non parlo dell’identità del
sostrato, bensì delle identificazioni che io attribuisco a S.

Potrei sbagliarmi all’interno del senso logico, ad esempio dicendo “questa sedia è di plastica” che
non è vero. Dunque in questo caso “p” non è “p” ma è “non p”, “p non è p ma r”.

Ora viene uno dei punti più interessanti; nella situazione in cui abbiamo un carico di identificazioni
enorme e una completa indeterminatezza sul sostrato, Husserl si inventa un sostituto linguistico per
questo sostrato. Con Giovanni la cosa si capisce così e così perché Giovanni sarà sempre qualcuno;
mettiamo “QUESTO” al posto di “Giovanni”.

Grammaticalmente “questo” è un pronome dimostrativo/deittico; è il segnaposto migliore per un


sostrato indeterminato. “Questo” ha due funzioni: indica qualcosa nei pressi di chi parla oppure
indica qualcosa che è stato appena detto; dunque serve a menzionare in breve un discorso più
ampio.

È il “QUESTO” che fa gli Stati di cose.

Questa. Questa casa rossa. Questa casa rossa che è la casa di mia nonna ecc.

109
Prendiamo “QUESTO” come punto 0 della serie di attribuzioni; è il segnaposto minimo più vuoto
per un sostrato. Proprio perché è vuoto con “questo” non si può sbagliare mai; l’errore è tutto a
carico di ciò che sta nella vignetta. Con “questo” io non dico niente sul sostrato, è un punto 0.

Perciò, “questo” è incapace di errori per mis-identificazione ovvero identificazione sbagliata perché
non la fa l’identificazione!

Questo ha una funzione di dimostrazione minima o massima; quando è in atto la dimostrazione il


QUESTO vale come deittico in presenza, ma esiste anche il deittico in assenza (uno psicolinguista
lettore di Husserl serve anche alla deissi, operazione dell’indicazione, fantasmatica).

Si tengono insieme così la parte più concreta del linguaggio (attento a questo!) e alla funzione
sofisticata dell’anafora (riferimento a un termine o una frase precedenti; es: questa è la mia lezione).
In entrambi i casi il questo si riferisce a qualcosa di assente.

QUESTO è il gancio di tutte le attribuzioni ed è il posto vuoto dell’oggetto; è quello che su questo
livello dobbiamo riconoscere come oggetto dlela conoscenza quindi in quanto tale bisogna
dedicarcisi, bisogna dire qualcosa su questo polo rispetto a sé stesso. È a questo che serve il
giudizio di identità.

Invece di scrivere Sp = Sq = Sr

Scrivo Spq = Sr

Inoltre se parlo sempre di Giovanni e metto a tema che è sempre la stessa persona:

S = S’ = S’’ Giovanni di ieri = Giovanni di oggi = Giovanni di domani

Questo è il giudizio di identità; abbiamo due oggetti che prima non avevamo. Avevamo un oggetto
sullo sfondo che faceva da raccoglitore di una serie id determinazioni. Abbiamo due oggetti ma
stiamo riconoscendo che è lo stesso oggetto, questo fa sì che Husserl mi dica che il giudizio di
identità è uguale a un giudizio di relazione.

La sedia è più grande del posacenere” è un giudizio che ascrive alla sedia una relazione e ci
troviamo con due oggetti (sedia + posacenere). Da un punto di vista formale il giudizio di identità è
simile a un giudizio di relazione, però da un punto di vista di contenuto (l’oggetto è sempre lo
stesso) sembra un giudizio uguale a un giudizio di determinazione ma questa seconda cosa è
sviante.

È sviante perché un giudizio S = S’ ossia un giudizio di identità, formalmente è come un giudizio di


relazione siccome ho due oggetti ma contenutisticamente ho un giudizio di determinazione perché è
lo stesso oggetto; però uno stesso oggetto lo abbiamo quando ho S (pqrst) ossia uno stesso
oggetto con una serie di determinazioni, ma io non sto dicendo questo. Anche se dicessi S pq
= S rst non starei facendo un giudizio di determinazione perché starei dicendo che l’oggetto che è
pq è lo stesso oggetto che è rst.

Un giudizio di identità è formalmente uguale a quello di relazione; altro elemento essenziale:


l’identità di un oggetto di giudizio è una sua relazione, non è una sua caratteristica!
110
L’identità è una relazione tra un oggetto e un altro oggetto riconosciuti come identici, da questo si
riesce a capire come l’identità sia diversa dall’identificazione perché:

- perché non è un giudizio di determinazione (l’identità si),


- perché riguarda S,
- perché non può sbagliare nell’identificazione,
- perché è un giudizio di relazione.

Se l’identità è una proprietà, allora gli indiscernibili sono identici. Se l’identità è una proprietà,
allora due oggetti che hanno le stesse caratteristiche sono identici perché l’identità è un derivato
delle caratteristiche degli oggetti. Se l’identità è una proprietà allora gli indiscernibili (gli oggetti
che hanno le stesse caratteristiche) sono identici, hanno tutto.

Se l’identità è una relazione, sono gli identici ad essere indiscernibili; ciò che io ho identificato non
si può discernere, non lo posso considerare distinto. Non ha a che fare con le caratteristiche che
quell’oggetto ha.

Se io penso che l’identità sia una proprietà o l’insieme delle proprietà di un oggetto, dirò che 2
oggetti che hanno le stesse proprietà sono identici: non posso dirlo; non posso perché non sto
dicendo che sono identici degli oggetti in quanto hanno le stesse le proprietà, ma sto dicendo che
sono identici in quanto oggetti.

S pq = S rst
Questi due non hanno le stesse proprietà; l’identità è una cosa che riguarda non le proprietà ma
l’oggetto.
Se l’identità è una proprietà, generalmente si ritiene che sia un insieme di proprietà essenziali che
appartiene ad un individuo. Esisterà qualcosa che tra le proprietà costituisce la sua identità e
qualcuna che invece non costituisce la sua identità: qualcosa che è essenziale e qualcosa che è
accidentale.
Se l’identità è un carattere proprietario dell’individuo io dovrò fare una classificazione di partenza
tra proprietà essenziali e non essenziali; questa classificazione o è arbitraria o è metafisica (se
pretende di essere vero).
1. “la tua identità è di essere un bravo figlio”: identità che passa per una proprietà
2. “qualsiasi cosa tu faccia sei sempre mio figlio”: non è un’identità che passa per una
proprietà

2. IDENTICI e quindi INDISCERNIBILI


Quel minimo a cui si attribuiscono proprietà diverse è sempre lo stesso. L’identità non è un
carattere proprietario ma alla relazione che c’è tra un oggetto occorso in un tempo ed uno in
un altro tempo; i due oggetti sono identici e qui sono indiscernibili.
1. INDISCERNIBILI e quindi IDENTICI
Gli oggetti erano indiscernibili e quindi identici; l’indiscernibilità riguarda l’insieme di
proprietà.
Concetto individuale di ciascuno di noi: non è riassunto in un insieme di proprietà essenziali che
dobbiamo avere (se non le avessimo più non saremmo gli stessi).

111
Poniamo che ciascuno di noi, per essere quello che è, deve essere un buono studente; se smetto di
fare l’università allora non sono più lo stesso.
Se invece, qualsiasi cosa faccio sono sempre lo stesso, io parto da un’attestazione più bassa: io sono
quello a cui posso attribuire alcune proprietà ed altre anche, laddove queste proprietà siano
contrastanti.
Questa faccenda che ha una serie di implicazioni.
Per questa ragione, dice Husserl, ad ottenere un giudizio di identità non serve la evidenza della
chiarezza ma basta l’evidenza della distinzione.
L’evidenza della chiarezza è un’evidenza informativa/conoscitiva che riguarda TUTTE le
determinazioni; devo sapere bene come stanno le cose per avere evidenza della chiarezza. Per avere
giudizio di identità non mi serve avere chiarezza sul soggetto (quel soggetto non fa nessuna
identificazione) ma posso avere evidenza della sua distinzione ovvero “per il fatto che quello è il
soggetto” (sta come un gancio per tutte le determinazioni).
S pq = S rst
Di S ci basta sapere che è un soggetto (non importa se è Giovanni, o una sedia o una ciambella alla
crema), basta che sappiamo distinguere che con la lettera maiuscola e con S è identificato il
soggetto: abbiamo fatto il giudizio di identità. Esso è povero di contenuto (come il “questo”).
Questa povertà finisce nel momento in cui io dico che S è lo stesso, poiché l’ho identificato.
Da S pq = S rst io derivo che S è lo stesso ed è S pqrst
S è diventato l’oggetto della conoscenza, ora. Da questo momento in poi posso scriverlo anche solo
come S.
Giovanni è biondo, è il mio vicino di casa, ha sempre il volume della radio molto alto ecc.
Da questo momento in poi basta dire Giovanni: è diventato oggetto di conoscenza; ogni volta che
parlerò di Giovanni mi porterò questo carico appresso perché da questo momento in poi lo possiedo.
Ora posso iniziare a costruire oggetti logici di ordine superiore, cosa mi serve per farlo?
Giovanni che è pqr è anche rst, ho Giovanni come primo oggetto logico della conoscenza. Ora dico
un’altra cosa: IL FATTO CHE il mio vicino Giovanni sia alto e biondo e abbia la musica alta MI
INFASTIDISCE.
Il fatto che Giovanni sia rst, mi infastidisce.
“il fatto che”
Introduco questa espressione, ma che ci metto a destra? Non ci posso mettere questa catena di
attribuzioni, ma l’insieme delle cose che ho detto su S; quest’ultimo è un insieme di
enunciati/affermazioni che riguardano S.
Quindi ci metto “P” che sta per tutto quello che ho detto
Il fatto che P mi infastidisce/è fastidioso. P= Giovanni è alto, ecc.
“IL FATTO CHE” diventa il soggetto di un nuovo giudizio.
Fino ad ora potevo parlare di un soggetto oppure trasformare una determinazione o una relazione in
un soggetto. Ora invece sto trattando come soggetto un insieme di enunciati e la situazione che essi
descrivono; grazie a questa forma espressiva io produco la seconda tipologia di oggetti logici.
Questa seconda tipologia di oggetti logici è lo STATO DI COSE; è un oggetto complesso, è il
modo in cui si comportano gli oggetti reciprocamente. Lo stato di cose è un oggetto di ordine
superiore proprio perché se io non introduco l’espressione “il fatto che”, non riesco ad avere lo stato
di cose; l’espressione “il fatto che” produce la sostantivazione di un giudizio/una serie di giudizi
precedente/precedenti.

112
Sostantivare un giudizio LINGUISTICAMENTE = produrre l’oggetto di nuovo tipo, più complesso
detto “stato di cose”
Così come il sostantivo designa l’oggetto (concreto), così il giudizio sostantivato designa lo stato di
cose.

Lo stato di cose è almeno un oggetto in relazione ad almeno un secondo oggetto.


Uno stato di cose è uno stato del mondo che è stato raccontato in un certo modo.
LO STATO DI COSE (siccome le cose in natura non sono in relazione tra loro) non è nella
percezione, ma nemmeno nel livello immediatamente prima ovvero quello del giudizio (in quanto il
giudizio, appunto, deve prima essere sostantivato), piuttosto lo stato di cose È UNA NOVITÀ’ DEL
LIVELLO PREDICATIVO.
RECAP
- GIUDIZIO DI IDENTITA’: distinzione, relazione riguarda S (anche se non so cos’è)
- IDENTIFICAZIONE
- SENSO LOGICO: determinazioni, proprietà (tutto quello che posso dire di qualcosa)
- CONCETTO DI UN OGGETTO: tutto ciò che posso dire di vero di qualcosa, si aggancia
all’identificazione
- GENERE e FORMA NUCLEARE sono diversi dal CONCETTO DI UN OGGETTO
- Sostantivazione di un giudizio -> produzione di uno stato di cose

113
19 LEZIONE

Oggi parliamo degli oggetti dell’intelletto però oggetti diversi rispetto a quelli esaminati fino ad ora.
Fino ad adesso abbiamo esaminato oggetti singoli, nella scorsa lezione vedemmo che c’era un’altra
tipologia di oggetti categoriali-sintattici ovvero gli stati di cose. Con gli stati di cose si apre il vero
e proprio capitolo degli oggetti del pensiero e dell’intelletto e di fatto questo secondo capitolo
cominciando dagli stati di cose si allarga poi ad un gamma di oggetti rilevanti per Husserl. Oltre a
considerare diverse tipologie degli oggetti dell’intelletto considera anche alcune caratteristiche che
l’esperienza di questi oggetti deve avere.

Innanzitutto, il secondo capitolo ha come titolo le oggettualità dell’intelletto e la loro origine nelle
operazioni predicative. In questo titolo già abbiamo una parte di cose che conosciamo cioè il fatto
che stiamo considerando le operazioni predicative e da una parte abbiamo un titolo parzialmente
vuoto ovvero quelle delle oggettualità dell’intelletto (quanti oggetti dell’intelletto ci sono).

Nelle scorse lezioni abbiamo detto che non solo gli oggetti dell’intelletto rientrano come tema in
giudizi di identificazione (io attribuisco una serie di caratteristiche ad un oggetto così faccio un
giudizio di identificazione oppure correlo l’oggetto principale a degli oggetti secondari) ma questi
oggetti dell’intelletto possono essere anche tema di giudizi di identità laddove la pienezza
dell’oggetto può essere minima (questo) o più elevata. Sono veri e propri oggetti di conoscenza
perché rientrando in queste due tipologie di giudizio sono oggetti che resistono al cambiamento e
sono passibili di identificazione.

Questi sono veri e propri oggetti di conoscenza e al contempo i primi oggetti dell’intelletto perché
ciò di cui sono fatti non deriva solo dalla ricettività, infatti, il carattere di permanenza e resistenza
non potrebbe solo derivare dalla ricettività. Ciò che li caratterizzava era che questi oggetti fossero
unitari e singoli ma che figuravano come un pezzo della predicazione. Quando parliamo di stati di
cose non parliamo più di oggetto singolo che funge da tema della predicazione ma consideriamo
l’intero contenuto del giudizio.

Esempio. La neve è bianca nel primo capitolo mi basta ciò che ho visto. Se voglio capire tutto il
contenuto della neve è bianca devo fare un passo ulteriore. La neve è l’oggetto vero e proprio della
conoscenza, è oggetto dell’intelletto. Il fatto che la neve è bianca (tutto ciò che viene a destra del
che) è uno stato di cose. Lo stato di cose è il modo in cui un oggetto si relaziona ad un altro, il
modo in cui stanno le cose quindi non si tratta di un oggetto singolo e isolato ma almeno un
complesso di oggetti (un modo in cui gli oggetti di cui si parla stanno reciprocamente insieme).
Questo è il primo nuovo oggetto dell’intelletto e la cosa rilevante che questa nuova tipologia di
oggetto non ce l’abbiamo in nessun modo sul livello dell’esperienza ante-predicativa. Gli stati di
cose non ci sono nell‘esperienza ma si formano soltanto sul piano dell’attività spontanea delle
operazioni dell’intelletto della predicazione.

Husserl fa una distinzione tra stato di cose e stato di fatto e fa una differenza tra stato di cose e
giudizio nella sua complessità. Quindi primo tema sarà chiarire lo stato di cose, secondo tema farà
una distinzione tra stato di cose e stato di fatto e fa una differenza tra stato di cose e giudizio nella

114
sua complessità, terzo tema sarà un’altra tipologia di oggetti dell’intelletto che sarà quello
dell’insieme ed infine la temporalità che corrisponde a questi oggetti.

Linguisticamente uno stato di cose si ha quando io sostantivo un giudizio per intero. Dico la neve è
bianca e riferendomi a quanto detto affermo il fatto che la neve è bianca è una cosa che tutti
sappiamo. Il fatto che è la formazione linguistica che costituisce la premessa obbligata per la
formazione di uno stato di cose. Nel momento in cui sostantivo un giudizio per intero ottengo uno
stato di cose.

Adesso vediamo che è possibile sostantivare un intero giudizio. Quando sostantiviamo un intero
giudizio posso parlare dell’intero giudizio e posso attribuire all’intero contenuto dell’intero giudizio
alcune caratteristiche. Il fatto che la neve è bianca è una banalità, sto attribuendo il carattere della
banalità al contenuto del giudizio precedentemente. Devo mettere il fatto che prima dello stato di
cose così riconosco lo stato di cose da un punto di vista linguistico, da un punto di vista del nuovo
giudizio attribuisco delle caratteristiche a un nuovo soggetto (nuova forma sostantivale). Accade
che il giudizio precedente diventa soggetto di un nuovo giudizio.

Quindi abbiamo tre effetti:


8. la formazione linguistica (il fatto che);
9. la sostantivazione che compio nel secondo giudizio;
10. il contenuto del vecchio giudizio diventa un oggetto.

Il maglione è bianco, il bianco è il colore del maglione. In questo modo prendo la determinazione di
un giudizio precedente e ne faccio il soggetto di giudizio successivo. Se ne faccio il soggetto di un
giudizio successivo quel soggetto funge da oggetto ciò di cui sto parlando. Con la formazione dello
stato di cose il contenuto del giudizio precedente diventa un oggetto che spiega il fatto che lo stato
di cose è un oggetto che non avremo mai potuto trovare sul piano dell’esperienza ante-predicativa.
Io rendo il contenuto del giudizio un nuovo oggetto che sarà come tutti gli oggetti unitario ma
all’interno dell’unitarietà di questo oggetto vi saranno delle cose e articolazioni che io non sono
abituato a trovare negli oggetti perché gli oggetti analizzati fino ad ora non lo avevano queste
articolazioni. Uno stato di cose è un oggetto unitario all’interno del quale vi sono più oggetti in una
determinata relazione.

Husserl parla di oggetti dell’intelletto, oggetti categoriali e oggetti sintattici come se queste tre
espressioni fossero sinonime. Sono oggetti dell’intelletto in quanto sono oggetti prodotti
dall‘attività predicativa, perciò, stesso sono oggetti categoriali (categorein significa predicare nel
greco antico). È sinonima anche l’espressione oggetto sintattico perché per sintassi Husserl intende
l’articolazione interna, ordine interno ad un oggetto complesso che ha delle ripercussioni
linguistiche ma l’ordine interno dell’oggetto non è effetto dell’ordinamento linguistico. Sintattico
sta per ordine interno ad un oggetto. Tutti gli oggetti articolati hanno un ordine interno quindi per
questa motivazione sono oggetti sintattici.

Ciascun giudizio è qualcosa di completo e ciascun giudizio può essere richiamato dalla nostra
memoria. Quando richiamiamo in un giudizio appena compiuto nella nostra memoria lo
richiamiamo con l’espressione questo fatto che ho appena detto… Con l’espressione questo fatto
115
che o semplicemente quello che ho appena detto io sto richiamano la posizione che aveva un
giudizio nel contesto nel discorso in cui ancora sono (quindi dico semplicemente quello che ho
appena detto e non altro semplicemente che mi riferisco ad una cosa appena detta) oppure richiamo
un giudizio all’interno del discorso (esempio il fatto che sta piovendo a dirotto è una cosa grave).
Questo è quello che noi vediamo nel linguaggio vale a dire l’utilizzo di una espressione come il
fatto che per produrre uno stato di cose.

Cosa accade dal punto di vista predicativo-giudicativo? La proposizione che io menziono che era un
vero e proprio giudizio ora diventa il sostantivo di un altro giudizio, diventa oggetto di un’altra
asserzione. Quella proposizione che prima era poliradiale ovvero un contenuto di giudizio (un
oggetto principale e una serie di relazioni) ora viene appreso come un oggetto unitario e
monoradiale e diventa il sostantivo di un nuovo giudizio. La differenza tra monoradiale e
poliradiale è la differenza tra il nuovo oggetto (stato di cose) che è monoradiale benché all’interno
abbia un’articolazione il giudizio che ho compiuto precedentemente che era poliradiale (oggetto
unitario e dei raggi che andavano verso le determinazioni o correlazioni).

Con quest’operazione io rendo oggetto ciò che prima non era oggetto e visto che lo rendo oggetto
lo tratto come oggetto. Dal punto di vista linguistico ho bisogno di una formuletta come il fatto che
oppure della messa tra parantesi per isolare come un blocco unitario ciò che era prima il contenuto
del giudizio. Dal punto di vista predicativo io prendo un giudizio e ne faccio il soggetto di un nuovo
giudizio. Da un punto di vista oggettivo ciò che prima era il contenuto del giudizio ora diventa un
oggetto e si comporta come un oggetto.
È un nuovo oggetto dell’intelletto di cui non possiamo trovare precedenti nella esperienza ante-
predicativa. Si costruisce una nuova forma di oggettualità che è lo stato di cose. Se io chiedo come
caratterizzo uno stato di cose? Linguisticamente attraverso una formuletta come il fatto che (le
virgolette o le parentesi), predicativamente come un soggetto di un nuovo giudizio mentre da un
punto di vita oggettivo come un nuovo tipo di oggetto.

Ora bisogna chiarire come uno stato di cose da un lato sia diverso da uno stato di fatto e dall’atro
diverso dal giudizio nel suo complesso. Questo passaggio è molto rilevante ma anche molto
delicato. Ricorriamo ad esempi semplici in cui ci siano più oggetti come una matita e un libro e
diciamo che la matita è a destra del libro. Quando abbiamo parlato delle relazioni abbiamo detto
che ogni relazione esprime l’ordine in cui abbiamo condotto la nostra esperienza. Se dico che la
matita è a destra del libro dico che la mia esperienza è partita dalla matita ed è arrivata al libro.
Posso dire anche che il libro è a sinistra della matita e tuttavia quello che dico è diverso da quanto
ho detto nella prima espressione. Mi rendo conto di dire due cose diverse ma se ragiono mi rendo
conto che la relazione in cui stanno matita e libro è una ed è stata espressa in due modi diversi in
dipendenza dall’ordine della mia esperienza.

Immaginiamo di non stare più sul piano dell’osservazione ma su quello del giudizio. Sono due
giudizi diversi che vogliono dire due cose diverse. Se io dico la matita è a destra del libro e poi
affermo il fatto che la matita è a destra del libro mi da la possibilità di prendere la matita quando
dico questo rendo oggetto il contenuto del giudizio precedente. Se io avessi sostantivato il giudizio
il libro è a sinistra della matita sarebbe uscito un altro stato di cose. Sostantivando questi due
giudizi ottengo due stati di cose differenti che tuttavia radicano nel medesimo stato di fatto in cui
116
sono in relazione spaziale la matita e il libro. Lo stato di fatto è più ampio della nozione di stato di
cose e uno stesso stato di fatto è esprimibile attraverso più stati di cose (non significa però che lo
stato di fatto stia nell’esperienza!!!).

Consideriamo invece la terra è più grande della luna e la luna è più piccola della terra. L’insieme
delle relazioni che posso tirare fuori tra la luna e la terra è la nozione di stato di fatto. Lo stato di
fatto è la circostanza da cui possono derivare molte relazioni diverse, da cui posso nucleare molte
relazioni diverse e ciascuna relazione che nucleo c’è uno stato di cose differente. Quindi abbiamo
gli oggetti, i sostrati assoluti poi gli stati di fatto (che sono l’insieme di tutte le relazioni che può
avere un oggetto con altri oggetti) e poi gli stati di cose. Quindi abbiamo oggetti che sono fonte
degli stati di fatto e stati di fatto che sono fonte degli stati di cose. Gli stati di cose sono
l’espressione di alcune delle relazioni che stanno negli stati di fatto.

Mi affaccio al balcone e mi rendo conto che la luna è più piccola della terra ma anche la terra è
più grande della luna. Le due cose sono entrambe vere? Si. Queste due cose che ho detto sono vere
in entrambe le circostanze non in due circostanze diverse. Se si da il caso che la luna è più piccola
della terra si da anche il caso che la terra è più grande della luna. Questo si da che (il fatto che) è
lo stato di fatto. Il fatto che rende vera una relazione è lo stesso fatto che rende vera anche l’altra
relazione. La funzione dello stato di fatto è una relazione più elementare ma questo non significa
che io posso arrivare allo stato di fatto prima dello stato di cose perché io allo stato di fatto ci arrivo
solo se ho più stati di cose con valori di verità.

Quindi se per avere uno stato di cose devo usare la formuletta il fatto che, per arrivare allo stato di
fatto devo utilizzare la formuletta si da il caso che. Lo stato di fatto è il fatto che rende veri più stati
di cose e quindi ciò che hanno in comune più stati di cose.

Ritornando all’esempio della luna e della terrà a questo stato di cose corrispondono degli stati di
fatto e delle relazioni (essere più grande o più piccolo). Queste relazioni (stati di fatto) sono
qualcosa di identico che può essere esplicitato in maniera diversa. Ad esempio, Roma è a nord di
Napoli e a sud di Milano oppure Napoli è a sud di Roma e a sud di Milano e così via. Le relazioni
sono molte. Questi stati di cose sono veri come era vero il primo stato di cose, quest’ultimo stato di
cose è vero in virtù dello stesso stato di fatto che rendeva vero il primo stato di cose. Ogni stato di
fatto contiene più stati di cose. Il più semplice stato di fatto è fondato da una coppia e contiene due
stati di cose almeno.

Esempio. A più grande di B e B più piccolo di A. Stato di fatto quantitativo contiene due stati di
cose. Se lo stato di fatto di partenza avesse avuto più oggetti avrebbe contenuto più stati di cose.
L’ordine tra oggetti, stati di fatto e stato di cose è un ordine esplicativo. Da un punto di vista
genealogico visto che sto nel giudizio ho prima lo stato di cose, poi lo stato di fatto e poi gli oggetti
in realtà. E tuttavia l’ordine inverso di Husserl ha senso. Più in basso di tutti abbiamo gli oggetti,
poi ci sono gli stati di fatto e poi questi stati di cose perché in base a quanti oggetti ho posso
capire quanti stati di cose e grazie al numero di oggetti posso capire come è fatto lo stato di fatto
che comprende gli oggetti.

117
Consideriamo A, B e C. Se è vero questo (qualsiasi relazione tra questi) è vero anche che B, C e A e
anche vero B, A e C (e tutte le commutazioni che possono creare). Perché sono vere tot
commutazioni? Perché lo stato di partenza era composto da tre oggetti (tot oggetti= tot
commutazioni) e tutte queste commutazioni sono vere perché appartengono ad un medesimo stato
di fatto. L’ordine di Husserl (oggetti, stato di fatto e stato di cose) è un ordine esplicativo e non
generativo!! Se ci saranno certe tipologie di stato di cose ci saranno altrettante tipologie di stati di
fatto. Se lo stato di cose è attributivo vi sarà uno stato di fatto attributivo oppure se ci sarà uno stato
di cose relativo ci sarà uno stato di fatto relativo e poi quantitativo….

Ad ogni stato di cose corrispondono dei giudizi e non uno soltanto. Ritorniamo all’esempio la
terra è più grande della luna. Questo è uno stato di cose (ossia una relazione tra terra e luna) e poi
vi sono gli stati di fatto (tutte le relazioni possibili tra terra e luna o tra luna e terra). Diciamo adesso
la terra è un pianeta più grande del suo unico satellite (ho espresso un altro giudizio rispetto alla
terra è più grande della luna) quindi un giudizio diverso ma esprime il medesimo stato di cose
dato che la terra e più grande della luna. Il giudizio la terra è un pianeta più grande del suo unico
satellite è vero in base allo stato di fatto che rende vero lo stato di cose la luna è più piccola della
terra. Uno stato di fatto=più stati di cose, stato di cose= più giudizi.

Questi più giudizi si riferiscono ad uno stato di cose, il quale è vero in virtù di uno stato di fatto.
Posso anche dire non è vero che la luna sia più grande della terra e questo è vero in virtù dello
stesso stato di fatto di prima quindi ci sono molti giudizi che posso formulare a partire da un
medesimo stato di cose.

Un giudizio nella sua completezza non contiene solo il riferimento ad uno stato di cose ma contiene
tanti elementi che fanno parte dell’impegno di colui che li esprime e delle competenze di chi le
esprime, della prospettiva… I giudizi, che Husserl chiama proposizione giudicativa completa,
contengono tantissima roba e tutto ciò che contengono in più al riferimento allo stato di cose non è
roba da buttare ma roba molto rilevante.

Uno stato di fatto è composto da almeno due oggetti che sono le fonti degli stati di fatto. Visto che
lo stato di fatto è composto almeno da due oggetti per ogni stato di fatto ci sono almeno due stati di
cose e per ogni stato di cose ci sono almeno molti giudizi (non posso dire quanti).

La conoscenza di sfondo, l’ambito più ampio in cui si pone la singola proposizione quindi tutto
questo che non rientra in primo piano del giudizio ciò non è propriamente tematico può essere
considerato e se viene considerata tutto questo costituisce l’intero giudizio. Potrei distinguere tra
un contenuto stretto che è lo stato di cose e un contenuto largo che è l’intero giudizio nella sua
completezza. Io e il mio amico della Grecia Antica ci riferiamo allo stato di cose, diciamo una cosa
che ha lo stesso contenuto stretto ma se guardiamo al contenuto largo (al contesto dove si esprime,
alle conoscenze di sfondo che ha lui, alle sue intenzioni) noi due stiamo dicendo due cose diverse!

Da un punto di vista di contenuto stretto (stato di cose) io e lui diciamo la stessa cosa ma se
consideriamo il contenuto largo cioè il modo in cui quel singolo stato di cose si inserisce nelle
conoscenze di sfondo allora i due giudizi dicono due cose diverse.

118
Due giudizi che hanno due stati di cose differenti possono essere accumunati da uno stesso stato di
fatto oppure giudizi differenti possono esserlo perché convogliano conoscenze di sfondo differenti.
C’è una strategia per accumunare giudizi differenti che può essere quella che passa dallo stato di
cose e allo stato di fatto oppure una strategia per capire in cosa consiste la differenza tra giudizi nel
fatto che si riferiscono a stati di cose differenti che però hanno una radice comune (stato di fatto)
oppure che mirano allo stesso stato di cose ma con conoscenze di sfondo e contenuti larghi
differenti.

119
20 LEZIONE

Per ogni stato di fatto c’è almeno uno stato di cose; esiste una differenza sostanziale tra stato di fatto
e stato di cose.
STATO DI COSE: primo oggetto della predicazione.
In natura le relazioni non ci sono, per questo noi non troviamo lo stato di cose nell’esperienza. Lo
stato di cose è un risultato dell’esperienza predicativa che è un livello superiore. L’ontologia di base
ammette solo individui e determinazioni o proprietà, ma non le relazioni.
Si potrebbe derivare molto da questo e l’esito più ampiamente filosofico è la costituzione base del
mondo.

Stato di cose: complesso; quante volte ci capita di sostantivare un giudizio? Quando ci riferiamo a
qualcosa che abbiamo appena detto, non presente nel momento in cui si parla.
Riconosciamo la dipendenza di ogni enunciato al suo contesto.
Quando il deittico non funziona anaforicamente, il contesto non è linguistico.
La parola CONTESTO è vastissima; il contesto può essere un contesto linguistico o non linguistico,
ad esempio percettivo oppure pratico. In quel caso è un avviso che esce fuori dal linguaggio e ti
dice di fare qualcosa.

Il primo caso ordinario in cui sostantivo un giudizio è quando mi riferisco ad un enunciato


precedente in maniera anaforica.
Esistono molte regole implicite che noi seguiamo mentre apriamo bocca tra queste “implicatura”
c’è anche il fatto di riconoscere la dipendenza dal contesto di un enunciato: infatti, oltre a fare
anafore, non diciamo cose a caso come QUANTI ANNI HAI? HO I CAPELLI NERI.

Questa disposizione a riconoscere la dipendenza di un enunciato dal contesto deriva dalla struttura
temporale della nostra esperienza; noi possiamo usare l’anafora proprio perché abbiamo una
temporalità fatta in un certo modo, ovvero abbiamo una coscienza interna del tempo che conserva le
cose o implicitamente (ritenzione) o esplicitamente (tenere in pungo): nel caso dell’anafora lo
faccio esplicitamente.
La dipendenza dell’enunciato dal contesto che è un dato linguistico-pragmatico corrisponde ad un
dato temporale, ovvero l’esser legato di ogni presente esteso con ciò che viene prima; quindi il
nostro continuo temporale di tenere insieme il succedersi della nostra esperienza.

Non è questo l’unico modo in cui si sostantiva un giudizio e non è nemmeno il più rilevante. Il
giudizio si sostantiva anche quando voglio dire che è vero o falso.

“la cattedra è bianca” “il fatto che la cattedra è bianca è vero”

Da un lato ripete la stessa prassi anaforica con “il fatto che la cattedra è bianca”, che è l’occorrenza
principale, però si aggiunge il giudizio.
Lo stato di cose è essenziale per determinare se un giudizio è vero o falso.

(anafora: passato, qualcosa che ho già detto / catafora: futuro, qualcosa che dirò)

120
Teoria proenunciativa della verità
Una delle strategie di eliminazione delle strategie di identità è quella che si chiama NOZIONE
ANAFORICA DELLA VERITA’ oppure NOZIONE PRO-ENUNCIATIVA DELLA VERITA’.
Vogliono dire che con un giudizio di identità io voglio etichettare un giudizio compiuto; questa
etichettatura è dipendente integralmente dalla prassi linguistica, ovvero se non ci fosse un giudizio
espresso prima non potremmo dire il vero (la verità è dipendente dal linguaggio) dunque è
un’etichettatura che serve a seconda dei casi o a ripetere soltanto il giudizio precedente o a
raccontare che colui che sta mettendo quell’etichetta è d’accordo con quello che si è detto prima.
La verità è un concetto che ha a che fare con il mondo, con i fatti, ma ha a che fare interamente con
la prassi linguistica; infatti non potremmo pronunciare l’espressione “è vero/a” se non avessimo già
pronunciato un giudizio di cui riconosciamo la verità ed inoltre, quando dico “è vero” non dico altro
che lo stesso giudizio senza aggiungervi nulla o al massimo esprimo che io sono d’accordo. Dico un
fatto mio, che per me è vero (il perché sono o non sono d’accordo è secondario).

Si aggiunge alla nozione proenunciativa la nozione “ridondantista”: ripete lo stesso giudizio, non
aggiunge nulla.
Nel secondo caso si dice che in quel modo si vuole dire che io sono d’accordo.
Questo accade quando questo riconoscimento elementare del fatto che quando si dice “questo è
vero” si dice un’anafora, non ci consente di fare quella pratica linguistica.
Per Husserl, non è un problema affermare che la sostantivazione del giudizio avviene per via
anforica, perché questa non è soltanto una prassi linguistica ma è una cosa che deriva da come è
fatta temporalmente l’esperienza (non è un modo per sminuire il concetto di verità). In più, la
prospettiva husserliana aggiunge il fatto che quando sostantivi un giudizio ne fai un oggetto, non è
che ti liberi dal vincolo sull’oggetto che è tipico della prestazione intenzionale. Può anche essere un
oggetto linguistico.
Il collasso sul versante soggettivo, pragmatico, discorsivo non avverrà mai.

Stante il riconoscimento dell’anafora (quando sostantivo un giudizio lo faccio per via anafora, non
c’è dubbio), tuttavia questo riconoscimento è accompagnato dal fatto che quando lo faccio ho un
altro oggetto.

Lo stato di cose non è un pezzo di mondo che è così e non può essere diversamente, esso è un
prodotto della predicazione; si chiama così perché isola come se fosse un oggetto, rendendolo un
oggetto, il modo in cui stanno le cose.

Lo stato di cose si distingue dallo stato di fatto.


Secondo Husserl noi possiamo dire che la luna è più piccola della Terra; io posso sostantivare
questo giudizio e quando lo sostantivo ottengo uno stato di cose. Posso però dire nello stesso
scenario percettivo che la Terra è più grande della luna. Se sostantivo questo giudizio ottengo un
altro stato di cose che non coincide con il primo.
Sono due stati di cose diversi perché voglio dire 2 cose diverse.
È in dubbio sia che io voglio dire due cose diverse, sia che le due cose sono vere nelle stesse
circostanze: ciò che rende vero il primo stato di cose è ciò che rende vero anche il secondo stato di
cose.
121
Ciò che rende veri i due stati di cose è la stessa circostanza, essa però non è un elemento basilare
del mondo dell’esperienza; questo perchè le relazioni nel mondo dell’esperienza non ci sono come
costituenti elementari.
L’unica tipologia di relazioni che ha un contenuto di realtà sono le connessioni reali, ovvero quelle
che riguardano le strutture spaziali/temporali degli individui.
Lo stato di fatto non è un pezzo di esperienza, ma si presenta come qualcosa di più basilare rispetto
allo stato di cose siccome è ciò che rende veri entrambi gli stati di cose: in questo senso è fondante,
in quanto è fondante il valore di verità dello stato di cose.

Il fatto unico che se si dà il caso che è quel fatto, rende veri entrambi gli stati di cose, qualsiasi cosa
ne pensi chi li ha pronunciati.
Questo di Husserl è un caso fatto apposta per far notare che la relazione di tipo quantitativo può
essere detta in due modi diversi; ha preso uno di quei prodotti dell’intelletto molto alti.

Altro esempio: io conosco Giovanni e anche tu conosci Giovanni; per me Giovanni è un conoscente
mentre per te è il salumiere Esposito. Ci incontriamo e ti dico che ho visto Giovanni cadere dalla
moto, tu mi dici che hai visto il salumiere Esposito cadere dalla moto: non sappiamo che stiamo
parlando della stessa persona.

Per ogni stato di fatto sussistono degli stati di cose.


Noi dobbiamo avere un criterio che ci consenta di disciplinare il rapporto tra stato di fatto e stato di
cose; perché ci possono essere solo due stati di cose corrispondenti allo stato di fatto?
Guardiamo a quanti oggetti ci sono: il numero degli oggetti decide quanti stati di cose avremo.
Esempio luna e terra: ci sono 2 oggetti. Dunque posso avere 2 stati di cose; se fossero stati 3 gli
oggetti, avrei avuto 6 stati di cose.

Fondante dello stato di cose è lo stato di fatto, fondante dello stato di fatto è l’oggetto.
Più stato di cose e uno stato di fatto; perché?
Quanti stati di cose sono ammissibili con lo stesso significato.
Lo stato di fatto è funzionale, ma quello che mi interessa di più è lo stato di cose.
Il problema ulteriore è che io di solito non ho forme di giudizio così semplici, ma posso avere forme
di giudizio che incorporano molte informazioni. Esse semmai non incidono sulla determinazione
dello stato di cose, ma sono rilevantissime per capire quello che dico.
Se dico: il pianeta azzurro ha un solo satellite e quel satellite è più piccolo al satellite attorno a cui
gira; mi sto riferendo al medesimo stato di cose e sto dicendo informazioni in più. Queste
informazioni in più determinano il modo in cui io mi riferisco a quello stato di cose.
- La luna è più piccola della terra
- Il pianeta azzurro ha un solo satellite e quel satellite è più piccolo al satellite attorno a cui
gira
Tra queste due frasi c’è una differenza che si riguarda il modo in cui si presenta il medesimo stato
di cose ed è la MATERIA DEL GIUDIZIO.
“Ciò di cui sto parlando è diverso.” È quello di cui parlo: non parlo della luna ma del satellite.
“Quel piccolo pianeta che ruota attorno alla terra è più piccolo della luna”: falso.
Pur potendo avere lo stesso stato di cose, è falso che la luna sia un pianeta; non è falso in virtù a uno
stato di cose ma in virtù di ciò che contenuto in un giudizio.
122
Ci accorgiamo di avere a che fare con un linguaggio formalizzato quando la rilevanza della
proposizione giudicativa completa è minore.
Ci sono 2 pere e 2 mele e fanno 4 frutti; non erano né mele e né pere.
Lo stato quantitativo di cose era quello, ma comunque ho detto una sciocchezza.
Un linguaggio formalizzato dice che 2+2=4

Sulla base dello stesso stato di fatto io posso avere più stati di cose e quindi molti giudizi che ne
derivano; mentre nel rapporto per il rapporto stati di fatto/stato di cose io posso stabilire in criterio,
per il rapporto stato di cose/giudizio io non posso farlo siccome nel giudizio ci può entrare qualsiasi
cosa.
Pag. 204
PARADISO DEL LOGICO: esistono dei casi limite in cui non si può distinguere tra stati di cose e
giudizi, ossia ogni proposizione ha il suo stato di cose; 2+2=4 è un caso zero perché posso dire che
2 mele + 2 arance = 4 frutti oppure 2 auto + 2 pullman = 4 mezzi di trasporto. C’è un caso zero
(facilissimo) che può condividere il medesimo stato di cose quantitativo con un’infinità di
istanziazioni
Il concetto di stato di cose designa l’identico scheletro tematico.
Quando noi parliamo di stato di cose e di giudizio, parliamo di quello che chiunque può dire a
partire dallo stesso oggetto e dalle stesse relazioni (stato di cose) e di quello che chiunque può dire
con le stesse parole/competenze (giudizio); le differenze che ci possono essere nel dire la stessa
cosa più persone sono infinite.

- Questi casi limite in cui il giudizio coincide con lo stato di cose, che tipo di giudizi sono?
Proprio perché sono giudizi che si risolvono nel loro stato di cose, allora sono giudizi di cose vere; è
un giudizio che vede il suo stato di cose pienamente confermato. Ha uno stato di cose inteso e uno
stato di cose intuito.
2+2=4

DIFFERENZA CHIARA in Husserl che riguarda la comunicazione


Esser vero ed esser falso: si parla di GIUDIZI
Verità e falsità: si parla di STATO DI COSE

Un giudizio che è vero o falso, vero e falso sono predicati che si esprimono sui giudizi; la verità del
giudizio invece riguarda lo stato di cose. quando dico che un giudizio è vero lo dico perché lo stato
di cose (inteso dopo il giudizio) sussiste.
Visto che STATO DI COSE e GIUDIZIO non coincidono, non coincidono nemmeno ESSER
VERO/ESSER FALSO e VERITA’/FALSITA’.

Mio coetaneo dell’Amazzonia: me = “il dio stamattina si è svegliato bene” : “il fiume è calmo”

Posso anche non capire che significa qua la divinità che stamattina non si è svegliata bene, posso
non essere capace di dire se quello è vero o falso; ma se lo capisco e poi dico che è vero, lo dico
perché sussiste il fatto che il fiume è calmo.
Valutare la veridicità di un giudizio non significa stabilire la sussistenza di uno stato di cose.

123
Ora Husserl parla di INSIEME, che stavolta viene usata in modo tecnico.
Il collegamento collettivo produce una pluralità o un insieme, ma la nozione di successore; sulla
base della unità di molteplicità (cesto di mele) e di collegamento collettivo si inizia a parlare di
insieme.
Ora, abbiamo un oggetto dell’intelletto che è uno stato di cose (formato per sostantivazione di un
giudizio grazie alla copula); qui parliamo di un collegamento collettivo che fa da base per ottenere il
concetto di insieme.
La collezione non ha ancora un oggetto suo, non mi fa arrivare alla coppia o all’insieme ma solo
alla successione.
Il collegamento dei primi due non viene perso se ne colleghiamo un terzo, allora abbiamo
un’apprensione di una nuova forma.
([A, B], C) per dire che avevo A e B e gli ho aggiunto C, PERO’ NON BASTA: essendoci le
parentesi tonde che chiudono sto capendo l’unità che tiene insieme il successore e i precedenti.

Cosa distingue il collegamento collettivo dall’insieme?


Nel collegamento collettivo dispongo della nozione di successore, mentre nell’insieme io dispongo
della nozione di contenente/contenuto.

Cesto di mele = unità divisibile in pezzi


Collegamento collettivo = perdo unità e ho il successore
Ora a partire dall’unità e dal successore ottengo il rapporto tra contenente e contenuto.

Questi non sono solo contenuti in quanto elementi ma sono anche dei sottoinsiemi dell’insieme più
grande; basta avere la nozione di contenente e contenuto ed applicarla alla nozione di successore
ed unità divisibile per avere i concetti fondamentale della teoria degli insiemi/teoria ingenua degli
insiemi.

Guardiamo agli oggetti, essi se sono 2 e quando quei 2 formano un sottoinsieme essi si chiamano
“coppie”. Queste coppie di oggetti facenti parte di un collegamento collettivo sono COPPIE
ORDINATE.
Giovanni ama Maria è un predicato con due oggetti
Il predicato ama nel caso di Giovanni e Maria è vero per una coppia ordinata di individui, in cui
viene prima Giovanni e poi Maria, perché non è detto che Maria ami Giovanni; l’ordine delle
coppie è fondamentale.

Sulla base dell’insieme, dell’ordine degli elementi posso arrivare all’AGGREGATO che è
l’addizione.
L’insieme è quindi un oggetto unitario (è un oggetto di II ordine in quanto sono di I ordine i suoi
oggetti); l’insieme è l’apprensione unitaria di un insieme di oggetti. La coppia ordinata è un oggetto
di nuovo tipo; l’aggregato (A+B) è anch’esso di nuovo tipo.

124
Nella passività non ci sono insiemi, così come non ci sono gli stati di cose; ho bisogno di mettere a
fuoco l’operazione (attività). Il numero è lo standard di un’operazione: questo rappresenta il
risultato più alto della sua riflessione sulla matematica.

125
21 LEZIONE

Quali sono gli oggetti dell’intelletto? Stati di cose e insiemi.


Gli stati di cose possono essere di vario tipo a seconda delle cose che c’è dentro (determinativi,
relazionali, comparativi) a seconda del giudizio sostantivato. Lo stato di cose si distingue dallo stato
di fatto e lo stato di fatto al giudizio. Tranne che nel caso ideale, nel caso 0 in cui il giudizio si
azzecca allo stato di cose, rendendolo indistinguibile. Questo funge da caso limite, da norma. È un
giudizio in cui non c’è altro se non lo stato di cose.
E’ quello che rappresenta, non solo un’ideale di giudizio, ma anche un’ideale di verità, perché in
Husserl (soprattutto in quello maturo), si mette a punto una distinzione che è molto netta e
abbastanza chiarificatrice tra i predicati vero e falso e le nozioni di verità e falsità.
I primi due sono applicabili ai giudizi, tuttavia il predicato che applichiamo al giudizio, lo
applichiamo ad una connessione di cose che tiene dentro un sacco di fatti (credenza, parole che si
utilizzano, la posizionalità).
Quando dico che un giudizio è vero dico che un giudizio e tutti i fatti che tiene dentro sono veri.
Se dico che “La divinità si è svegliata bene”, detto riferendoci ad un fiume, è vero, direi che è vero
anche che il fiume è una divinità. Dunque, il predicato che c’è nel giudizio riguarda tutte queste
cose.
La verità di questo giudizio, quindi, non corrisponde alla verità dello stato di cose.
Rispetto ad un unico stato di cose ci sono più giudizi, potenzialmente c’è un numero infinito di
giudizi dello stesso stato di cose. Se tutti i giudizi espressi in riferimento ad uno stesso stato di cose
fossero egualmente veri perché lo stato di cose corrisponde alla verità, ci troveremmo in un
appiattimento dei predicati vero e falso. Appiattire il predicato vero del giudizio sulla verità dello
stato di cose, stante che lo stato di cose può essere uno e i giudizi tantissimi, stante che io posso dire
che lo stato cose a cui si riferiscono tutti i giudizi è il mondo (insieme di tutto), perché potrei dire
che tutti i giudizi espressi da chiunque in ogni tempo si riferiscono al medesimo stato di cose.
Se lo stato di cose fosse unico e se lo stato di cose fosse corrispondente alla verità, tutti i giudizi
espressi da chiunque sarebbero veri (argomento della fionda = vittoria di Davide contro Golia).
Ma questo non è vero.
Come si evita l’argomento della fionda?
Non è così perché il giudizio è predicato come vero per quello che dice il giudizio, poi può avere
uno stato di cose che corrisponde a verità, ma io devo valutare se è vero. Il caso ideale in cui il
giudizio corrisponde allo stato di cose, è il caso ideale per eccellenza in cui io posso dirlo con
estrema sicurezza che il giudizio è vero, perché lo stato di cose corrisponde a verità, non v’è altro da
valutare (2+2=4).
C’è l’esempio dell’acqua che ci fa comprendere a fondo la questione: nel 1725 c’era una
concezione diversa degli stati di aggregazione fisica e quindi se si chiedeva ad un uomo di quel
tempo cosa fosse il ghiaccio, non diceva che fosse acqua. In virtù di questa prima rivoluzione
scientifica si identifica lo sdoppiamento tra lo stato fisico e composizione chimica e quindi si
guarda alla composizione chimica.
Tuttavia io e quest’uomo del 1725, sappiamo cos’è l’acqua per dissetarci, il riferimento è sempre lo
stesso.
Eppure il ghiaccio non sarebbe stato acqua, sarebbe stato falso il contrario, non in base allo stato di
cose. Quello è falso per il giudizio che esprime.

126
Questa differenza è fondamentale perché quando Husserl dice: nel caso in cui il giudizio è identico
allo stato di cose è un caso limite ed è il caso di intuitività completa (un tutto riempito) e questo
corrisponde all’ideale di evidenza massima.
Se non ho altro, ma solo lo stato di cose che in quanto tale, per com’è fatto, ammette
l’identificabilità, la confermabilità ecc. quello è un caso limite, l’ideale della conferma assoluta.
Nella differenza tra predicato vero e verità ci passa un sacco di roba.
La differenza si potrebbe dire di giustificazione, che riguarda il predicato vero e verità, tra
conoscenza e verità.
Piccola introduzione della lezione:
- Temporalità degli oggetti dell’intelletto
- Estensione della gamma oggetti dell’intelletto in oggetti spirituali → Faust, Pitagora e la
costituzione tedesca → Gli oggetti reali/ricettivi sono oggetto di una percezione possibile (oggetti
individuali concreti che hanno proprietà), di converso tutto ciò che non è oggetto di percezione
viene costituito dagli oggetti irreali/dell’intelletto (es. stato di cose), non sono empirici, i quali sono
prodotti dall’attività giudicativa, dalla predicazione. Poi ci sono oggetti, come quelli culturali, che
hanno una base reale e che però hanno i componenti decisivi sul lato dell’irreale, sono oggetti di
significato (es. Faust: i milioni di copie vendute sono su una base reale, i libri; es. il triangolo è
reale. E tuttavia il valore del significato di questi oggetti non è reale, non è percepibile).

Temporalità degli oggetti dell’intelletto


La differenza tra gli oggetti ricettivi e gli oggetti dell’intelletto sono entrambi oggetti perché ciascun
oggetto è un’unità e in quanto tale può essere pensato come un’unità e può essere confermato come
un’unità.
Ma sono per molti altri versi diversissimi: l’oggetto della ricettività è un’oggetto percepibile,
individuale concreto e fisico e quando lo percepiamo possiamo percepirlo anche molto parzialmente
e abbiamo comunque percepito un’unità completa (se vedo una bella ragazza di sfuggita, l’ho vista
e ne ho avuto percezione di un unico oggetto; il teorema di Pitagora deve essere pensato
integralmente, invece, per essere un mio oggetto dell’intelletto). L’oggetto fisico, inoltre, ha un
tempo e uno spazio, sono quindi parte della sua materia. L’oggetto fisico appartiene ad un tempo e
ad uno spazio naturali suoi, inoltre, come tutti gli oggetti che sono esperibili, capita che in un tempo
non nostro; la percezione che abbiamo di quell’oggetto ha un tempo, occupa un certo tempo della
nostra vita. Il tempo e lo spazio fanno parte della sua materia.
Che un oggetto fisico debba poter avere un tempo e uno spazio è una condizione formale. Il tempo e
lo spazio che effettivamente ha appartiene alla sua materia e come tutto ciò che riguarda la materia,
per Husserl è una cosa imprevedibile.
Questo ha a che fare con il fatto e la contingenza, il quale ha un significato peculiare: assume il
rango pienamente filosofico con Leibniz. E’ la traduzione latina di symbebekòs, quello che noi
chiamiamo “accidente”. Contingente non è un qualsiasi tipo di possibilità, è qualcosa che si è
realizzato, ma che poteva non essersi realizzato, è un fatto. Contingente, quindi, è il fatto.
La definizione di “contingente” da un punto di vista formale, è stata data da un allievo di Husserl,
Oskar Becker, “è ciò che è vero, ma sarebbe potuto non essere, non accadere”: è qualcosa che se
dici che è accaduta, dici una verità, ma poteva non accadere, e se non fosse accaduta e avessi detto
che è accaduta avresti detto una falsità. “E’ vero” significa “è accaduto e lo so, io ho accesso a
quello che è successo”. Il contingente non è accidentale nel senso becero che possiamo dare al suo
termine. Una volta accaduto, non può non essere successo, è un fatto.
127
La materia è il titolo più complessivo da dare a questo contingente, questo senso di contingenza.
Quindi, quando si dice che la materia è imprevedibile, quando si dice il tempo e lo spazio specifico
in un corpo è imprevedibile, mentre è prevedibile che un tempo e uno spazio ce l’abbia, un qualche
tempo che occupi un qualche spazio. Questo è ciò che lo individua materialmente e concretamente
come spazio, questo è accidentale, è contingente. Non è contingente, ossia che in assoluto accada,
ma che il fatto che sia accaduto lo è.
Reale è il percepibile e il percepibile (ce lo auguriamo tutti), è anche individuale e concreto, poi ci
si sbaglia, ma questo non significa che quella demarcazione di reale sia sbagliata.
Gli oggetti reali quindi come si caratterizzano? Per parte loro si caratterizzano per il fatto che hanno
come parte integrante della loro materia un tempo e uno spazio loro, naturali; inoltre, quando e se
vengono percepiti, capitano nel nostro tempo, “la mia percezione è accaduta alle 9:50”, inoltre, e
proprio per questo la percezione di un oggetto reale può anche interrompersi, ma è completa fin
dall’inizio, è sempre percezione di un’unita completa. Quindi io posso averne anche una percezione
parziale, ma sarà sempre unitaria e infine, posso non averne percezione e l’oggetto non perde nulla.
Gli oggetti irreali (intelletto), invece, si comportano in modo molto diverso. Della loro materia non
fa parte il tempo. Io posso apprenderli e solo se li apprendo diventano oggetti per me, e per
apprenderli io devo apprenderli per intero perché altrimenti non mi è presente quell’oggetto irreale.
Costruiamo un triangolo rettangolo, poi facciamo i quadrati sui due cateti l’ipotenusa, se mi fermo
qua non ho il teorema di Pitagora, non ho l’oggetto per intero. Devo arrivare fino alla fine e dire
qual è la relazione dei quadrati costruiti sui cateti e quello costruito sull’ipotenusa. “Guerra e pace”
ce l’abbiamo come oggetto reale solo una volta finito di leggerlo, ma senza averlo finito, non
avremmo l’oggetto.
Questa è una cosa che produce un effetto stranissimo rispetto alla temporalità degli oggetti irreali.
Gli oggetti irreali, non hanno nella propria materia un tempo, ma hanno bisogno che noi ce li
presentiamo completamente. La nostra presentazione completa degli oggetti irreali, la nostra
conoscenza completa dell’oggetto irreale consuma tempo, ci metto tempo. E questo è il problema di
stabilire quale sia il carattere temporale proprio degli oggetti irreali; per capirlo bene bisogna
aggiungere un elemento. L’oggetto fisico, individuale, della percezione ha nella sua materia un
tempo e uno spazio, capita nel mio tempo la sua percezione, occupa un pezzo della mia giornata. Il
tempo della mia percezione coincide con l’effetto che mi fa percependo quell’oggetto, non è il
tempo dell’oggetto. Il tempo fenomenico della mia percezione è il tempo dell’effetto che mi fa,
finché mi fa un effetto quell’oggetto e questo vale per l’esperienza percettiva, memorativa,
immaginativa. Ogni volta che ho un ricordo quello mi fa effetto, il tempo del ricordo è il tempo
durante il quale mi fa un effetto quel ricordo. Mi fa effetto ricordarlo. Mi accorgo di ricordarmelo.
Il tempo fenomenico è il tempo dell’effetto che mi fa avere una determinata esperienza. Ma a fare
effetto non è solo l’esperienza percettiva, immaginativa e del ricordo, ma a fare effetto è anche il
pensiero. Quando si pensa a qualcosa fa un effetto pensarlo, ci si accorge di stare a pensarlo. Può
coinvolgere emozioni epistemiche e altro, può essere causa di esperienze di livello più basso.
Pensare una cosa mi da gioia, la gioia che mi dà, mi fa ricordare qualcosa di gioioso e così via.
Di fatto, anche pensare fa un effetto.
Nel caso dell’esperienza di base, dell’esperienza percettiva ecc., quell’effetto dell’esperienza è
tutt’uno con il contenuto intenzionale di quell’esperienza.
Quello che tiene dentro la mia esperienza è l’effetto che fa averla, sostanzialmente.
Il problema è esattamente questo. L’effetto del pensare non fa tutt’uno con il contenuto intenzionale
del pensare.
128
Mi fa un effetto pensare al teorema di Pitagora e costruirlo, mi accorgo di pensarlo, ma quest’effetto
che fa non ha niente a che fare con il teorema di Pitagora.
Mi fa un effetto sentire un discorso ben articolato e mi un altro effetto sentire un discorso
sgrammaticato. L’esempio che fa Husserl è il pensare qualcuno che dica che 2+2 faccia 5, questo fa
rabbia ed è l’effetto che fa l’errore, l’assurdo, il falso. Ma come fa effetto il falso, fa effetto anche la
verità.
Anche il pensiero ha un tempo fenomenico. Per spiegare il carattere fenomenico di esperienza e
pensiero per la fenomenologia si dovrebbe chiamare in causa il tempo.
E’ il tempo nell’accezione molto ampia in cui lo stiamo studiando fin dall’inizio (tempo
nell’esplicitazione, tempo nella correlazione, tempo negli oggetti irreali); ogni volta che Husserl
parla di tempo, parla della coscienza interna e dell’effetto che ci fa. Se vogliamo spiegare gli effetti
fenomenici dell’esperienza, dobbiamo chiamare in causa il tempo. Il problema è esattamente
questo: nel caso degli oggetti irreali, che non solo non hanno un tempo naturale che faccia parte
della loro materia, ma l’effetto che pure ci fanno, e quindi, il consumo di tempo fenomenico che
producono, non ha niente a che fare con il contenuto intenzionale che abbiamo quando li pensiamo.
Questa è la base per arrivare ad un altro risultato: per esempio, questa tenda ciascuno di noi la vede
da prospettive differenti. Le prospettive sono differenti, perché siamo disposti in modo differente,
ma la sua posizione è sempre la stessa, e non dipende da noi; nemmeno il modo con cui la vediamo,
perché dipende da lei e da noi. La vediamo in tutti i modi diversi, alla lettera, ci fa un effetto diverso
per ciascuno di noi, epperò la tenda è una e tutti siamo d’accordo che sia una e non dipende
dall’effetto che ci fa la posizione in cui stiamo ecc.
Se invece si inizia a pensare al teorema di Pitagora, si pensa alla stessa cosa, è lo stesso per tutti,
sempre. Il teorema di Pitagora in quanto oggetto è lo stesso per tutti, però l’effetto che ci fa e il
tempo che si consuma pensando ai banchi di scuola, non c’entra niente col teorema di Pitagora, in
realtà neanche Pitagora c’entra niente col teorema di Pitagora.
All’unico teorema di Pitagora, la cui materia non appartiene né il tempo né lo spazio. Tutte le opere
scientifiche dell’antichità sono la messa appunto in un manuale di cose che hanno pensato centinaia
di persone, quindi, chiamare il teorema e dirlo di Pitagora è irrilevante.
Della sua materia non fa parte il tempo e lo spazio, eppure può capitare nel tempo fenomenico di
persone diverse ed ogni volta è sempre lo stesso.
Pertanto, il teorema di Pitagora, pur non avendo il tempo come sua materia, ha una caratteristica
temporale che gli deriva dal fatto che è sempre lo stesso quante volte lo si pensi.
Da quest’accoppiata deriva il fatto che il teorema di Pitagora, come tutti gli oggetti irreali è
onnitemporale, non eterno (come ciò che non ha tempo, non ha limiti iniziali o finali di tempo),
ossia è sempre lo stesso in ogni tempo.
Queste due nozioni (onnitemporale e eterno) sono antichissime: l’onnitemporale è la “yon”, ciò che
è sempre vivo, non è il senza-tempo. Il senza-tempo è la fine di tutte le cose e per pensare le cose
senza inizio e senza fine dobbiamo cancellare le cose. L’onnitemporale è ciò che è sempre lo stesso
in ogni tempo, in quanto oggetto. Se il teorema di Pitagora è onnitemporale e ci viene facile
riconoscerlo, perché ci viene facile da pensare, almeno in 2400 anni, in una qualche forma gli esseri
umani pensano al medesimo oggetto quando pensano al teorema di Pitagora.
Se è onnitemporale la sua identità di oggetto non dipende dal tempo in cui lo si pensa e nemmeno
dal tempo in cui è scoperto. E’ un oggetto irreale, essendo onnitemporale, può essere al massimo
scoperto, ma se non fosse stato scoperto non sarebbe stato oggetto di pensiero di qualcuno, ma non
per questo sarebbe stato vincolato ad un tempo.
129
Se questo vale per l’oggetto, vale ancor di più per la sua validità, per il suo valore di verità. A
questo punto l’indifferenza ad un tempo fenomenico aumenta e si allarga. Quando allargo l’analisi e
penso alla validità degli oggetti dell’intelletto, devo parlare della validità di tutti gli oggetti
dell’intelletto; visto che gli oggetti dell’intelletto sono un qualsiasi stato di cose, anche la
sostantivazione del giudizio appena compiuto, che non riguarda oggetti irreali, come invece accade
per oggetti reali, ma il mio giudizio che ho appena sostantivato semmai riguarda oggetti realissimi.
“Il vostro amico in prima fila si tocca la barba” e questo fatto è segno di interesse, che riguarda uno
stato di cose che riguarda una persona che poteva non venire stamattina, riguarda fatti reali. Però
quello stato di cose giacché lo penso, ha una validità e la validità dello stato di cose e di un oggetto
dell’intelletto non dipende dal fatto che io la pensi (non perché si poteva anche toccare la barba e io
potevo anche non vederlo, ma perché se io dico “il fatto che si è toccato la barba..”, ho pronunciato
un giudizio, gli ho attribuito un valore di verità e ora mi sto riferendo a quel giudizio e al suo valore
di verità).
Quindi anche le asserzioni più elementari, più empiriche hanno validità universale e assoluta.
Husserl fa un esempio, che è abbastanza rivelativo, e dice “questo non vuol dire che alcune
asserzioni non possano perdere il loro valore di verità, per esempio, se io oggi dicessi che
l’automobile è il mezzo di locomozione più veloce, direi una cosa che oggi non è vera e che 50 anni
fa era vera”. Se dico, invece, “nel 1880, il mezzo di locomozione più veloce era l’automobile”,
questa cosa continua ad essere vera, basta metterci il tempo che ci fa localizzare l’ambito in cui
questa cosa è vera. Quindi il proferimento di un’asserzione e l’asserzione che è legata ad un tempo
senza che si espliciti qual è il tempo a cui si riferisce, quell’asserzione la perde valore di verità: “il
vostro amico circa 5 minuti fa si toccava la barba”, questo è ancora vero, “il vostro amico si tocca la
barba”, questo non è vero, se riferito ad ora. Gli oggetti dell’intelletto sono così, non solo in quanto
oggetti sono onnitemporali, ma la loro validità non dipende dal tempo in cui viene intesa, dal tempo
in cui viene pensata o entrambe. Ovviamente, però dire che un oggetto dell’intelletto è valido al di
là del fatto che noi lo pensiamo, può sembrare una contraddizione interna, può essere valido anche
se non c’è l’intelletto?
Il modo in cui Husserl risolve questa cosa è molto articolato ed è quello che si chiama
tradizionalmente “Principio dell’Idealismo Fenomenologico Trascendentale”. A pagina 210,
troviamo una nota, che è una delle pochissime occorrenze di un aggettivo in questo libro:
“Che anche l’oggetto stesso sia, da un punto di vista trascendentale, un prodotto della costituzione,
può essere omesso nella cornice di questo confronto, che riguarda una differenza ontica.”
In questo libro non si parla di trascendentale, sostanzialmente, questa è una delle poche occorrenze
dell’aggettivo trascendentale. Lui sta dicendo che l’oggetto dell’intelletto lo devo pesare tutto
quanto, lo devo costituire tutto quanto se no, non ce l’ho. Se io guardassi anche all’oggetto della
percezione, da un punto di vista trascendentale dovrei dire che neanche l’oggetto della percezione si
percepisce tutto intero se non lo percepisco tutto intero, ma il punto di vista trascendentale possiamo
anche evitarlo.
Siamo giunti ad un punto in cui l’oggetto dell’intelletto vale anche se non lo penso; a giustificare
l’esclusione del trascendentale da “Esperienza e Giudizio”, ci pensa anche il libro che fu pensato
come introduzione di questo libro, che è “Logica formale e trascendentale”, ma ebbe un estensione
tale da meritare una pubblicazione a parte. “Logica formale e trascendentale” esce nel 1929, mentre
“Esperienza e Giudizio” resta allo stato di manoscritto per molto altro tempo ancora (allora si
chiamava “Studi Logici”), il tempo passa e succedono tante cose e Husserl è preso da altro. Va a
Parigi, fa i “Discorsi Parigini”; escono in francese le “Meditazioni Cartesiane”.
130
Poi viene chiamato, a metà degli anni ‘30, a Praga, a tenere due conferenze su “La crisi delle
scienze europee”: la guerra si sta approssimando, sta ascendendo il nazismo e vi è la perdita
d’amore per la razionalità da parte del popolo europeo.
Se non riprendiamo la razionalità (che va a braccetto con la logica e la scienza) andiamo a “mare”.
Detto questo, anche in “Logica formale e trascendentale” c’è scritto che sarebbe uscito un altro libro
dal tema diverso rispetto a questo, infatti, le questioni che riguardano l’idealismo fenomenologico
trascendentale non compaiono però il problema c’è.
Dinanzi ad una questione come quella che abbiamo posto: gli oggetti dell’intelletto sono validi
anche se non li pensi; v’è contraddizione.
Il problema da qui dovrebbe estendersi ancora.
Sono scritte biblioteche intere su che tipo di idealismo fenomenologico, su quando abbia iniziato a
pensare a questa cosa, su di cosa è fatto l’idealismo fenomenologico, su che cos’è il trascendentale
ecc.
Innanzitutto, il principio di idealismo fenomenologico e l’idealismo fenomenologico trascendentale
è un fenomeno di lunga durata: non viene in mente ad Husserl un giorno. La riflessione su questi
temi ha un momento di inizio certificato, sappiamo quando inizia a pensarci (nel semestre invernale
1905-1906). Egli pensa all’asse intorno a cui ruota la maggior parte di questi pensieri. Il problema
qual era? Era il problema della giustificazione, soprattutto quando si trattava di conoscenze di cui
non è possibile stabilire con esattezza l’ideale di conferma assoluta (empiriche; non ne fanno parte
le conoscenze formali e matematiche, questo all’inizio). Ci sono tantissime conoscenze empiriche in
cui non posso sapere il limite di conferma di conoscenze acquisita assoluta, quindi, come si
giustifica che quella conoscenza è vera?
Questo è il problema iniziale.
Il punto, in termini tecnici, sarebbe quello di trovare una giustificazione di ultima istanza, finitistica,
con un numero finito di passi; perché se fosse un compito infinito si avrebbe un’impossibilità di
determinare quando una cosa è corretta la dovremmo spostare sulla possibilità di procedere
all’infinito per affinare il giudizio di correttezza (ripetizione del principio).
Husserl si inventa diversi stratagemmi, prima l’epochè (intesa semplicemente come “sospensione
della posizione” che tutte le conoscenze già espresse hanno). Porre quindi che una conoscenza sia
corretta e poi toglierne la posizione (che non significa trasformarla in dubbio). “Vedo la vostra
amica”, questo esprime una posizione; “la vostra amica è seduta” senza dire che ne dubito, senza
dire di no, questo è ciò che resta quando tolgo posizione al giudizio. Non v’è dubbio, poiché esso è
una modalità di credenza, ma bisogna completamente togliere la credenza.
Ad ogni credenza è coordinato un tipo di oggetto, alla credenza certa è coordinato un oggetto che
esiste, alla credenza dubbiosa è coordinato un oggetto che forse non esiste. Qui bisogna togliere
tanto una posizione quanto il correlato “ontico” che corrisponde alla posizione, ovvero, il carattere
d’essere che tu attribuisci all’oggetto che credi esistere o meno.
Perché si fa questo? Per renderti conto che tutte le caratteristiche ontiche le attribuisci in base ad
una tua credenza. Si toglie la credenza, si toglie il carattere di certezza, e il carattere di esistenza
dell’oggetto per dire che l’oggetto, si è detto che è esistente perché ne si è certi. La posizione si
toglie per rendere possibile la giustificazione del giudizio di esistenza o non esistenza su un oggetto.
Se non capisci che il carattere di esistenza dell’oggetto è il correlato della tua credenza, tu non sei in
condizione di giustificare la posizione dell’oggetto.
Se dico “la vostra amica è seduta qui”, e non mi rendo conto che in questo modo io sono molto
certo di quello che dico perché la base del mio giudizio è la certezza semplice caratteristica della
131
percezione non so come giustificarmi agli occhi di uno che mi dice “ma come fai a dire che la
studentessa è qui?”; se io so, invece, che sono così certo perché lo sto percependo e la percezione
mi conferisce un carattere di certezza semplice a chi mi dice che non è vero, io rispondo non con
banalità (e non con il “Solvitur ambulando” di Diogene), ma come parte della prassi giustificativa
gli dico che lo sto percependo.
La storia di Diogene il Cane, davanti a Zenone che discuteva della pensabilità (non della realtà) del
movimento, egli si mise a camminare e questo diventa per antonomasia una forma illecita di
contestazione. Una cosa simile accadde a Berkeley, che sosteneva una teoria alla storia come
“immaterialismo” e pare che un tipo dopo aver sentito la conferenza del filosofo, abbia preso una
pietra e l’abbia buttata a terra e questo è un “argumentum ad lapidem”, che pure non c’entra niente.
In questo caso io dico “la sto percependo” non banalmente, ma perché in questo modo sto esibendo
i miei titoli per esserne così certo (non è colpa mia, mi accompagna la certezza semplice).
Sto facendo una cosa che è legittima e lo è a partire dal fatto che io sono consapevole che in ogni
posizione di esistenza è il correlato della credenza. Per arrivare a questo risultato occorre quella
famosa epochè, che toglie il carattere di esistenza come se fosse un fatto degli oggetti e invece,
riconosce una correlazione tra carattere ontico e credenza.
Questo accade intorno al 1907. Poi succede di tutto e quest’idea inizia ad avere una prima
formulazione nel 1913 nelle “Idee”, di cui però, di idealismo trascendentale non si parla
propriamente. Ma si fa più che altro una differenza tra fenomenologia pura che è quella descrittiva
dei vissuti e filosofia fenomenologica. Sostanzialmente si assume la filosofia fenomenologica a una
fenomenologia della ragione (del giustificare).
Poi la cosa va ancora avanti e sarà dalla fine degli anni ’20 in poi che Husserl dichiarerà una vera e
propria posizione idealistico-trascendentale.
Cosa accade? Nonostante i testi in cui si parla di idealismo sono “Meditazioni Cartesiane”, “Logica
formale e trascendentale” e “La crisi delle scienze europee”; dai manoscritti però sappiamo un fatto,
ovvero che attorno al 1913 Husserl pensa ad un fatto, a quello che appunto lui stesso definisce la
dimostrazione del principio dell’idealismo trascendentale, che è la seguente: qualsiasi soggetto
possibile ha un’esperienza, se ha un’esperienza, ha anche un’esperienza percettiva e se ha
un’esperienza percettiva, ha anche un’esperienza prospettica parziale, temporale, ecc.; il minotauro
se esistesse avrebbe un’esperienza così, anche il minotauro avrebbe un punto di vista, avrebbe un
tempo e uno spazio (a lui piaceva quest’immagine del minotauro perché gli piaceva un’artista
tardoromantico b…). L’esemplificazione del minotauro è il soggetto possibile, ha dunque,
un’esperienza possibile. Di quell’esperienza possibile, lui, insieme a tutti quegli altri soggetti che
insieme vivono possibilmente vivono nello stesso scenario percettivo saranno i giudici. Se il
minotauro vede una cosa e dice “il labirinto è chiuso”, sarà qualcun altro che sta insieme al
minotauro possibilmente a dire che quello che ha detto il minotauro è vero o falso. Per stabilirlo ci
vuole un altro soggetto possibile.
Un soggetto possibile fatto così non può essere giudice delle conoscenze empiriche perché le
conoscenze su cui si stava applicando Husserl, sono conoscenze su fatti e allora ci vuole qualcuno
che di fatto abbia accesso a quei fatti.
Il mondo è un grande fatto, che come tutti i fatti, sono veri, ma potevano non esserci, ma per poter
controllare se i fatti sono veri ci deve poter essere un soggetto che di fatto abbia accesso al mondo;
non un soggetto possibile, ma che un qualche soggetto di fatto abbia accesso al mondo. Questo
soggetto, il quale accesso al mondo è contingente, è il soggetto trascendentale che è necessario che
ci sia, ma è necessario che sia un fatto perché se no non può vedere che succede. Di converso, il
132
mondo è contingente, ma non perché potrebbe non esserci, ma perché come è sarebbe potuto essere
in un altro modo: il soggetto è necessario, ma è necessario come un fatto, non come lo spirito che
vola sulle acque, è necessario che ci sia qualcuno che in carne ed ossa, occupando una posizione in
un tempo di fatto abbia accesso, questo che Husserl chiama con un termine apparentemente
paradossale, e che nella storia successiva è passato in secondo ordine e che potrebbe essere ben
ripensata, “necessità di fatto”. Il soggetto trascendentale è un fatto necessario, come a dire che deve
esserci per forza un qualche soggetto di fatto che abbia accesso ad una situazione per poter dire
qualcosa di vero su quella situazione. Un fatto necessario ha il tempo dell’onnitemporalità.
E’ una costruzione molto complessa, tuttavia la cosa che bisogna tenere a mente è questa: quando
Husserl parla di “costituzione”, parla di questo, di una ricostruzione della giustificazione delle mie
credenze. Costituisco un oggetto significa che in relazione alla mia credenza attribuisco un certo
carattere di esistenza all’oggetto.
Questa è un’asse dell’idealismo fenomenologico trascendentale ed è l’asse epistemologico (quello
che riguarda la conoscenza), è anche la cellula iniziale dell’idealismo fenomenologico per quello
che è stato detto, ma quando Husserl arriverà a pensare in termini che lui stesso definisce
idealistico-trascendentali convoglierà su questo soggetto trascendentale anche molto altro come
caratteri etici, anche caratteri non solo più temporali, ma anche storici o che riguardano la
costituzione delle comunità (intersoggettività).
Il soggetto fenomenologico trascendentale non è capace solo di conoscere, ma è capace anche di
agire eticamente e di stare con gli altri, di costruire cose con gli altri, però la caratterizzazione di
base va ricordata: è un fatto necessario.
A differenza dell’io puro kantiano che è il principio di unità formale, la soggettività trascendentale
husserliana non è fatta così. Certo non è un uomo, un qualche uomo specifico, ma è quello che fa
qualsiasi uomo. E’ un soggetto di fatto esistente (che non può non esistere). Quello di cui vuole
accertarsi Husserl è il principio di accessibilità, io posso dire che una cosa è vera o falsa se ho
accesso a quello stato di fatto.
Nel famoso paragrafo 49 di “Idee” in cui si parla dell’annichilimento del mondo segue quello che
abbiamo detto, se il soggetto è il fatto necessario e il mondo è il grande fatto ed è contingente, il
mondo sarebbe potuto essere diversamente da com’è. Quello che c’è nel mondo poteva di fatto
anche non esserci.
Il soggetto trascendentale è un fatto necessario, una necessità contingente.
Visto che è un fatto, è una soluzione finita, raggiungibile in un numero finito di passi (l’accesso).
Questa cosa qui non c’è nel libro, perché stiamo raccontando la storia del soggetto trascendentale a
partire dalle cose che da per scontate fino alle elaborazioni più alte.

Gli oggetti culturali


Qui parla di oggetti che hanno una base reale, ma il cui significato non si risolve nella base reale.
Husserl fa degli esempi come la costituzione di uno Stato (negli anni ’30 c’era ancora la
Costituzione di Weimar, ma in Germania produce un Codice Civile molto tardi, i quali sono scritti
dopo le campagne napoleoniche e vedono la luce dopo il XIX secolo, questo spiega l’enorme
coinvolgimento dei filosofi nella scrittura di questi codici). Qui Husserl fa una dichiarazione molto
importante dicendo che lo stato o il patriottismo non è un concetto naturale, ma categoriale e ideale.
L’unica cosa naturale, qui dentro, per così dire è il territorio.
Lo studio dello stato (proprio come il teorema di Pitagora) è una riattivabilità impropria. Non lo
inserisci nel tuo dovere. Si analizza un oggetto irreale, si ripete, ma non si riattiva; coloro che
133
possono ripetere un oggetto come la costituzione sono i cittadini.
La costituzione di uno stato può essere ripetuta in due modi:
- quello più simile ai modi precedenti che riguardavano il teorema di Pitagora, il Faust e la
Madonna Sistina, lo si pensa come ad un oggetto irreale (improprio);
- l’altro modo è la riattivazione propria che fanno solo i cittadini quando includono il proprio dovere
nel dovere per lo stato, quando diventano funzionari dello stato (idea di patriottismo da
funzionario).

134
22 LEZIONE

Questo capitolo che affronteremo torna sul tema delle modalità, che avevamo visto
precedentemente alla fine del primo capitolo della prima sezione.
Il punto è, come per ogni modifica dell’atto della conoscenza, l’asserzione acquisisca un modo
diverso e quali sono i motivi che conducono a modificare l’atto di conoscenza e quindi a giustificare
i modi che il giudizio assume. Tra le modificazioni non troveremo più solo l’ostacolo, la smentita,
la disillusione ma anche le modificazioni che riguardano il passare del tempo.
Proprio perché il tempo è parte integrante di questa distinzione, allora, l’effetto che ha il passare del
tempo nell’acquisizione di una conoscenza, determinerà un’operazione di enorme valore che è
quella della revisione della nostra conoscenza.
Noi sappiamo che ogni conoscenza che abbiamo potrebbe essere rivista, anche se non c’è un fatto
che smentisce la conoscenza precedente, siamo esposti alla rivedibilità delle nostre conoscenze —>
questo determina un atteggiamento critico a cui corrisponde una nozione critica di verità, che sono
proprio le operazione che si fanno per sottoporre a controllo le conoscenze quotidiane (agiamo di
conseguenza).
Se nel novero delle modalità, modificazioni c’è la negazione, il dubbio, la possibilità ecc ecc (quello
che avevamo visto prima) ma anche il tempo che passa, il ricordo di una conoscenza acquisita e tutti
i modi in cui io posso riprendere una conoscenza acquisita e infine l’attitudine alla revisione, se
mettiamo tutto questo insieme abbiamo un catalogo di modalità molto ampio di cui fa parte anche la
verità.
A partire da questo momento la nozione di modalità si allarga. Interessante è il ruolo della
mediazione che in Kant fa parte delle qualità, in Husserl fa parte invece delle modalità.
Si parla di modalità e se ne parla come modificazione del giudizio, modi del giudizio e motivi per
cui avvengono le modificazioni da cui risultano i modi.
Se non sempre i motivi, le modificazioni sono risultati di decisioni, di prese di posizione attive.
Pensiamo ad esempio alla risoluzione del dubbio nel primo capitolo della prima sezione, che
abbiamo visto come una cosa che andava avanti naturalmente per equilibrio delle parti, qui invece si
decide di superare il dubbio. La decisione di uscire dal dubbio, che è una delle forme principali di
presa di posizione —> la decisione di rispondere alla negazione è per Husserl motivata da una
aspirazione all’autoconservazione (aspirazione a restare coerente). Questa aspirazione a restare
coerente è al contempo per Husserl la testimonianza e controprova del nostro orientamento alla
verità (quando facciamo conoscenza). La conoscenza dimostra di essere orientata alla verità
attraverso la coerenza.
PAG. 225
Riprendere il tema della modalità non solo serve a dare una presentazione più completa e credibile
di che cos’è la conoscenza ma parlare di modalità ci serve anche perché rende conto di una
definizione che noi abbiamo dato di conoscenza. All’inizio della seconda sezione abbiamo detto che
conoscenza è la constatazione di ciò che è, per come è e per ciò che esso è.

135
Un atto di constatazione senza modalità alle spalle non è concepibile—> un atto di
constatazione è l’atto finale di una catena di atti in cui ci sta anche la delusione, l’ostacolo e la
contestazione. Queste modificazione del giudizio possono avvenire per tante ragioni perché di fatto
sono ostacolato o perché sono consapevole che tutte le conoscenza vadano riviste, ma anche per
scopi comunicativi o perché qualcosa mi resti impresso.
PAG.226/227
Di fatto ora parleremo di modalità nel suo significato predicativo, riferendo le modalità sempre ad
un atto di decisione. La decisione agisce su una convinzione e produce una convinzione.
Sono davanti ad una situazione, la quale mi presenta ragioni a favore e contro e decido per una delle
due opzioni e dico perché ho deciso per una delle due opzioni. Perché questa situazione ammetta
una presa di posizione come la stiamo descrivendo noi (una vera e propria modificazione del
giudizio) devo avere le seguenti cose:
1. Possibilità
2. Possibilità problematiche —> a favore di ciascuna vi deve essere un motivo
3. Queste possibilità devono essere disgiunte —> o l’una o l’altra
4. Se mi trovo in una condizione di indecisione queste possibilità devono essere anche
esclusive —> o l’una o l’altra, non tutte e due.
È una situazione alta del giudizio ed è molto difficile da ottenere.
Inoltre devo avere una presa di posizione (decisione del giudizio) con i suoi motivi.
La prima cosa da indagare è come si arrivi a quei giudizi che non hanno l’originaria forma della
semplice certezza. La certezza è una modalità 0 (punto di partenza), è un modo ma non è stato
modificato —> da lì in po si fanno le modificazioni e per ogni modificazione ci deve essere un
motivo.
Tali modificazioni avranno sempre luogo quando la certezza dossica è divenuta dubbia, solo da quel
momento in poi.
Questo non è una catalogazione tra oggetti indubitabili e oggetti dubbi, è una classificazione di
situazioni, ci sono situazioni in cui il dubbio non occorre, non interviene.
Il dubbio non può venire ad esempio mentre siamo in macchina e ci chiediamo dove siamo
posizionato il pedale dell’acceleratore.
Si sta dicendo che quando io ho una presentazione intuitiva piena o semplicemente sto facendo una
cosa, sono guidato da interessi pratici in quel caso la mia credenza è una credenza semplicemente
certa. Le modalizzazioni intervengono quando questo terreno di partenza viene discusso o perché ci
sono delle ragioni contro o anche quando non ci sono.
ES: a scopo comunicativo io posso immaginare una cosa che si chiama un “contrafattuale” —> “Se
tu non fossi venuto oggi a lezione, saresti stato a casa”, questo non è avvenuto, però a scopo
comunicativo ne posso parlare.
Continuando… Quando c’è la percezione piena tutto scorre, ma questo è un caso limite che non si
realizza mai, che io devo supporre, sennò da dove modifico. Esiste una modificazione che parte da
una modificazione precedente e a ritroso sempre da un’altra modificazione? In questo modo sarebbe

136
impossibile capire che c’è una modificazione, si deve stabile una cosa non modificata per iniziare a
parlare di modificazione.
Questa cosa non modificata è la certezza semplice, che è anche l’atteggiamento naturale: quando io
non discuto, non rompo il mio ambiente e il mio ambiente non rompe me = atteggiamento
quotidiano.
Sia l’esplicitazione che l’osservazione relativa (le cose che abbiamo raccontato sul piano della
ricettività) non si compiono mai in maniera del tutto originaria, dritta, senza ostacoli, vi concorrono
sempre anticipazioni, aspettative e ricordi (che possono essere sbagliati).
ES: Io riesplicito una cosa per quello che mi aspetto che sia, sulla base di quello che ricordo, di
cose simili.
Ci sono almeno due modi per motivare una modificazione —> che avviene sulla credenza mentre
la modalizzazione avviene sull’asserzione.
La forma del giudizio dubitativa, negativa, assertiva ecc ecc sono modalità del giudizio, la mia
credenza che parte certa poi viene modificata per una delusione, la modificazione della mia certezza
è l’annullamento della certezza precedente = modificazione.
QUELLO CHE SI MODIFICA È IL MIO ATTO DI CONOSCENZA, LA MIA CREDENZA,
I MOTIVI RIGUARDANO LA CREDENZA —> SONO MOTIVI PER CAMBIARE
OPINIONE. IL GIUDIZIO, CHE IO ARTICOLO SULLA BASE DELLA MIA OPINIONE E
DELLA MIA CREDENZA, È UN GIUDIZIO CHE VIENE MODALIZZATO —> HA UN
MODO.
- Quando la mia credenza è al modo 0, il mio giudizio è al modo 0
• Quando io sono certo, il mio giudizio è un’asserzione
• Quando la mia credenza è stata ostacolata, il mio giudizio assume il primo modo che è la
negazione
• Quando la mia credenza cercando di reagire all’ostacolo ha provato a considerare due
possibilità per uscire dall’impasse il mio giudizio ha assunto il modo del dubbio
• Quando la mia credenza si è ricostruita, è ritornata certa, ma a prova di dubbio (prima era
una certezza semplice) ed ha anche una modalità corrispondente —> la decisione, la
risposta. A questo punto non è più l’asserzione ma l’affermazione.
La conoscenze è fatta di un arrangiamento continuo delle acquisizione successive con quelle
precedenti—> le conoscenze successive vengono aggiustate su quelle precedenti e quelle precedenti
su quelle successive (idea dell’autoconservazione).
La conoscenza è autocorrezione.
La situazione peggiore che ci possa capitare è la delusione—> le cose che pensavo stessero in un
modo non stanno in quel modo, è una cosa che può capitare con una cosa che stiamo conoscendo è
diversa da come te l’aspettavi, oppure la conoscenza che stai conquistando ora mette in dubbio una
cosa che sapevi prima.
Se la conoscenza attuale ti contesta quella precedente, ma quella precedente l’hai assorbita, qual è il
prodotto della modifica?

137
PAG. 229 “Se si arriva a correggere o a cancellare le “immagini” (scorcio, presentazione) molto
più di una determinazione è stata delusa, perché sono entrata in contrasto con altre immagini molto
più precise e distinte, allora ciò che è stato cancellato può diventare esso stesso oggetto di una
riflessione e sulla base del ricordo o della ritenzione può essere affermato, ma di regola nel normale
decorso dell’esperienza ricettiva, non se ne da l’occasione.”
ES: Il professore dice che il nostro compagno di classe ha la maglia rossa, ma guardandolo mi
accorgo che non ce l’ha rossa —> la mia immagine viene corretta.
È possibile che il professore stia dicendo che la settimana scorsa aveva la maglia rossa, ma
qualcuno in aula lo contraddice —> ciò che viene corretto non è un immagine presente, ma è
un’immagine che io ho nel ricordo o nella ritenzione.
Husserl usa questi due termini perché vuol dire che quella roba là te la puoi ricordare meglio peggio
e fa un effetto diverso in base a come te la ricordi.
La correzione avviene su due “oggetti differenti”:
1. uno che ricordo bene
2. uno che tengo ma non ricordo bene.
La roba cancellata non è perduta, è conservata in quanto negata —> è un controfatto, non è un
fatto. In questa caso la modifica che realizzo è irrilevante per la mia coscienza, sia perché il colore
della maglia non è rilevante per nessuno (nemmeno per lui) sia perché è una cosa che appartiene al
mio ricordo—> serve per capire cosa significa conservarsi una cosa negata —> la conservo in
quanto non si è dato il caso che il nostro amico avesse la maglia rossa.
Un caso ancora più semplice è quello che riguarda le possibilità aperte.
ES: Sono in classe e non avendo nulla da fare dico: “Potrebbe cadere il tetto”, questa è una
possibilità aperta, non ho nessuna ragione per dirlo. Lo stato di cose che il tetto cade è caratterizzato
da un modo la possibilità, ma io rispetto a questo stato di cose di possibilità non devo prendere
nessuna decisione, perché è una possibilità aperta, MA HO UNA MODIFICAZIONE.
3 POSSIBILITÀ: Io non mi trovo davanti una vera e propria decisione, sto raccontando quello che
percepisco e racconto anche delle variazioni della mia certezza.
ES: Immaginiamo di stare caminando per strada e dire a qualcuno potrebbe essere quella strada
dove dobbiamo andare, no non è questa, è quella successiva —> stiamo utilizzando delle
espressioni modificate, ma queste espressioni non seguono un atto di decisione.
PAG. 230 La vera decisione arriva soltanto quando interviene la negazione, è la negazione
il punto di partenza per le modificazioni (modificazione vera e propria).
Più ampio è il dominio del giudizio segnico—> io posso pensare quello che voglio, non devo
limitarmi a pensare ciò che è il caso che sia.
Il dominio di quello che io voglio pensare se rientra nella dinamica della conferma si merita una
negazione. ES: Mi sembra di aver visto Shakira, no non l’ho vista —> penso una cosa che merita
negazione.
L’ambito del giudizio vuoto è più ampio dell’ambito di ciò che è il caso che sia, ma se io
quell’oggetto di giudizio vuoto lo richiamo nella conoscenza lo devo etichettare con una negazione.

138
PAG. 231 Così come ogni percezione attuale poi diventa passata così anche ogni atto di
giudizio attuale diventa passato. Vediamo quindi come i giudizi subiscono delle modificazioni per
proprio conto, anche se non vengono negati.
Il giudizio e lo stato di cose rispettivo come ogni altro atto e oggetto in atto che appartenga alla mia
conoscenza subisce la legge del tempo —> viene modificato per conto suo.
Vediamo come si allarga l’ambito delle modalità, il punto di partenza è credenza e giudizio, queste
due si modificano con la negazione ecc ecc… ma si modificano anche per il tempo. L’ambito delle
modalità che viene fuori è un ambito di modalità epistemiche (riguardano la conoscenza)
temporali (riguardano il tempo) e dossiche (riguardano la credenza).
Una certezza è più certa di un’altra perché è stata confermata più di una vota, incamera più tempo, è
più duratura —> perciò per Husserl le due cose stanno insieme.
Nella modificazione della ritenzione il giudizio passato si mantiene nella ritenzione o lo tengo in
pugno oppure ci può balenare passivamente e colpirci come un lampo (lasciarlo andare). Il giudizio
si trasforma nello sfondo passivo ma la sua passività è una passività secondaria (la passività di ciò
che è stato dimenticato) e proprio perché è secondaria può tornare alla mente, fa parte del nostro
inconscio.
L’inconscio fenomenologico è ciò che fa parte della coscienza ma è uno sfondo = è quello che fa
effetto ma non è riferito ad un oggetto.

139
23 LEZIONE

Le prime modificazioni che troviamo sull’atto del giudizio sono le modificazioni temporali nel
senso che ho detto che delle cose stavano in un certo modo ed è passato del tempo per cui se ripenso
a ciò che ho detto ci ripenso nei termini di ho affermato che le cose stavano in un certo modo.
Questa cosa può avvenire in molti modi, ad esempio, attraverso la conservazione esplicita ovvero
io ricordo proprio bene quello che ho detto e mi interessa riprenderlo per intero quasi come se stessi
rifacendo lo stesso giudizio oppure me ne interesso di meno non riprendo il giudizio per intero ma
metto a tema le determinazioni che ho utilizzato oppure non mi interessa proprio riprendere il
giudizio né per intero né per parte ma so di averlo formulato.

Queste tre modalità ci garantiscono di avere a nostra disposizione una cosa del tipo ho detto che le
cose stavano così. Ci mette a disposizione un nuovo oggetto che possiamo chiamare in questi
termini ovvero credevo qualcosa di questo fatto, avevo una determinata opinione. Questo è
fondamentale per esercitare una valutazione su ciò che credevo. Se io non ho a disposizione questo
oggetto del giudizio passato non posso riferirmi a quello che credevo in maniera critica (non posso
tornarci sopra).

Visto che la modificazione di un giudizio consiste in un lavoro su un giudizio già fatto perché le
modificazioni presuppongono che ci sia qualcosa da modificare io devo avere a disposizione un
giudizio passato (oppure la consapevolezza di un giudizio passato, il ricordo di un giudizio
passato). Questo passato può essere più o meno lontano questo è irrilevante. Se le modificazioni che
faccio sono su qualcosa che non è frutto di modificazione ciò che non è frutto di modificazione mi
deve essere disponibile. Questa cosa per essere disponibile mi deve essere somministrata dal
ricordo in senso ampio. Quindi le modificazioni del tempo non se le avessi non potrei avere
qualcosa su cui esprimermi per confermarlo, non confermarlo…

Se io dico le cose non stanno così io mi riferisco implicitamente ad un qualche giudizio compiuto
in precedenza secondo il quale le cose stavano invece così. Se io dico la sedia non è di legno le
cose non stanno così io presuppongo che io o qualcun altro abbia detto in precedenza che la sedia
era di legno, se non ho a disposizione il ricordo di aver detto o che qualcun altro che ha detto che la
sedia è di legno non posso contestare che quel giudizio è corretto. Io devo avere a disposizione
questo giudizio passato. È un giudizio modificato temporalmente perché è passato. Su questo
giudizio passato io posso esercitare una modificazione.

Il primo scenario che Husserl disegna è quello della conferma che io realizzo su un giudizio che è
stato formulato in un certo passato. Ogni volta che procedo a confermare un giudizio lo faccio in
maniera critica sottoponendo quel giudizio ad una critica, il risultato della critica può essere la
conferma positiva o negativa.

Ogni giudizio è dotato di una posizionalità ovvero dice che le cose stanno in un certo modo o in un
altro modo. Il giudizio di base è sempre un’asserzione quindi abbiamo due possibilità di fatto a
livello zero. O dico Giovanni è simpatico o Giovanni è antipatico. A livello zero io non dico
Giovanni non è simpatico oppure Giovanni non è antipatico. O dico che Giovanni è una cosa o che
è non cosa quindi o dico che è simpatico o antipatico (che significa non simpatico) ma io lo sto
140
affermando (nel senso di asserzione), asserisco qualcosa. Posso dire che S è P oppure che S è non
P. In tutti i due casi faccio un’asserzione di livello zero, faccio un giudizio semplice. La vera
propria negazione interviene nei secondi casi quando dico S non è P oppure S non è non P.

In questo livello zero ho queste asserzioni con forma S è P anche quando il P in questione è un non
P. Quando esercito una critica e vado alla ricerca di una conferma prendo il giudizio di questo tipo e
lo sottopongo ad esame. Poiché ogni giudizio ha una propria posizionalità ovvero io credevo che le
cose stessero in quel modo e posso valutare se quella pretesa era giusta e se quella pretesa
corrisponde allo stato di cose. Abbiamo due piani sulla valutazione ovvero uno sul giudizio (sulla
pretesa) e uno sullo stato di cose.

La molla di questo secondo ordine di modalità è la conferma mentre la prima molla è il tempo. Il
tempo produce modificazioni reali cioè il giudizio che ho compiuto un’ora fa è passato (dato reale)
ed è la prima molla. La seconda molla è questa critica. C’è bisogno di rendere conto della seconda
molla. Perché ci viene in mente di confermare questi giudizi? Ci spiega i motivi per cui noi per
default procediamo per conferma.

Ci viene infatti naturale tornare sui giudizi, sulle asserzioni per confermarle o disconfermarle ma
qual è il motivo? Questi motivi sono di complessità crescente. Il primo motivo è di base ovvero per
come è fatta la struttura del giudizio noi sappiamo che c’è una parte che è quella intenzionale e
un’altra parte chiamata conferma. Ogni asserzione per essere tale deve avere un’intenzione
(riferimento a qualcosa) ma non è necessario che un’asserzione abbia conferma. Per questa ragione
ammetto che esistano asserzioni che non hanno conferma. Se essenziale all’asserzione è il
riferimento e non la conferma è possibile che vi siano asserzioni senza conferma. Se è possibile che
ci siano asserzioni senza conferma e se il riferimento non ci garantisce della conferma avere un
riferimento non è sinonimo di avere conferma e avere una conferma di quel riferimento potrebbe
essere contestabile (visto che riferimento e conferma non sono la stessa cosa).

Noi abbiamo la libertà di riferirci a ciò che vogliamo e la libertà un po’ più vincolata di figurarci nei
patti di non vedere gli oggetti ma anche di figurarci le porzioni che non abbiamo esperito degli
eventi. La nostra percezione di un oggetto implica anche l’anticipazione della parte che non
vediamo di quell’oggetto, il nostro ascolto di una melodia implica anche l’attesa che quella melodia
si evolva in un certo modo. La nostra percezione è fatta di attese a vuoto che non hanno la
conferma in loro stesse che può essere confermata oppure no. L’ambito di ciò che va a vuoto è
ampio se guardiamo alla struttura dell’asserzione e se guardiamo alla struttura della percezione.
Tutta questa roba ci convince che cercare conferma è essenziale perché la cosa che ci sembra più
certa è la percezione ma che implica delle attese che però non sono immediatamente confermate
ergo neanche la percezione ci può dare un’assoluta conferma.

Devo avere a disposizione il ricordo di quello che vedevo, pensavo, credevo prima altrimenti la
conoscenza attuale non si integra e non contrasta. Sul piano di stretta attualità se fossimo animali
iper-attuali noi non potremo aver negazione perché cosa negheresti? Assunto che di partenza un
giudizio semplice non ha la forma negativa, l’unico modo per negare è la che la negazione nasca da
un confronto andato male tra ciò che pensi ora e ciò che pensavi prima ma se non ricordi niente
cosa neghi? Nulla. Da questo cozzare deriva una modalizzazione dell’esperienza passata o presente.
141
Per modalizzare esperienza presente devo prendere esperienza passata, riattualizzarla e dire che la
passata è confermata e quella presente no. È più facile che il presente neghi il passato perché il
passato neghi il presente ci vuole un’operazione diversa ovvero mi rendo conto che le due cose non
stanno insieme, riprendere il passato e riattualizzarlo per intero e negare il presente. Può accadere
che queste cose non si integrino e che la precedente asserzione venga modalizzata in negazione
oppure in altro modo, quindi, subisce una modalizzazione sulla base di una modificazione già
avvenuta.

Per tutto questo fatto (asserzione ammette un vuoto, la percezione ammette un vuoto, il dubbio è
insito nella percezione e le credenze passate sono a nostra disposizione per integrarsi o non
integrarsi) nascerebbe la tendenza alla decisione e al contempo la necessità della critica dei giudizi
già compiuti. Non sono la stessa cosa. Sembrerebbe però che la tendenza giustifica la necessità
ovvero visto che noi siamo tendenti a decidere e quindi che questa tendenza può essere esercitata su
una decisione già presa e in virtù di questo non possiamo fare a meno di sottoporre a critica le
nostre conoscenze. Questo è il primo argomento per dimostrare l’inevitabilità della critica dei
giudizi già compiuti e la tendenza alla decisione.

Il secondo argomento che si innesta sulla tendenza alla decisione e la rende cronica è la storia del
bottegaio che abbiamo citato nella lezione precedente. Possiamo riflettere su quante volte abbiamo
cambiato idea e questo ci fa sentire il bisogno di mettere al sicuro ciò che abbiamo saputo o
sappiamo da una possibile smentita. In generale il giudizio subisce frequenti svalutazioni
successive, è un meccanismo che appartiene alle mie conoscenze di sfondo, infatti, io so che le cose
vanno così ed agisco in maniera protettiva e difensiva. In questo contesto tutto parla a favore
della nostra certezza; eppure, abbiamo questa roba acquisita. Husserl parla di protezione delle
conoscenze. Io sto difendendo ogni tratto di quella vita di conoscenza e la mia vita di conoscenza
che difesa diventa autodifesa. Quando parla di tendenza parla di una cosa bassa, elementare quindi
questa tendenza alla decisone sta diventando una tendenza conoscitiva dell’orientamento della
verità.

A testimonianza c’è il termine erkennen che tradotto significa riconoscere. La differenza fra
kennen e erkennen è stata molto dibattuto nella storia del pensiero filosofico ottocentesco. Si tratta
di una differenza capitale. Erkennen tiene dentro chiaramente che una conoscenza è una
conoscenza su cui si ritorna per confermarla quindi già quel termine è un termine orientato
all’autoconservazione, alla verità, alla protezione del corpus di conoscenze che ho. È conoscenza
solo se quell’intuizione è servita per tornare sopra ad una cosa precedente ed è servita ad attuare la
tendenza alla decisione.

Una conoscenza è tale solo se c’è una dinamica conoscitiva, non c’è conoscenza che non implichi
una dinamica (il tornarci sopra) se infatti non vuoi tornarci sopra quella non è conoscenza.
L’esposizione alla conferma è parte integrante della conoscenza. La tendenza alla verità implica che
quella tendenza si realizzi a cose fatte, devi prima fare qualcosa e poi dopo puoi attestare che quella
sia una verità. La verità non sta all’inizio ma neanche alla fine ma sta in tutto il processo.

Questa tendenza si può realizzare in tre modi:


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1. abbiamo conferma. Io ho detto una cosa e ora ne ho conferma. Confermo quello che ho
detto e quello che ho detto corrobora la sua posizione nella mia vita di conoscenza (è
ancora più saldo). La conferma riguarda un singolo asserto mentre la corroborazione
riguarda il rapporto tra questo singolo asserto e il corpus di conoscenze che ho.

2. può accadere che la conoscenza attuale o stimolata dall’abitudine può essere sradicata.
Abbiamo anche qui una corroborazione e siamo consapevoli che quella corroborazione
potrebbe essere a sua volta smentita (anche quando hai deciso sei sempre disposto a tornarci
su).

3. può accadere che tu venga proprio smentito. Se tu vieni smentito neghi ciò che hai detto
prima ma ti viene alla mente un fatto che non sapevi prima. Quando ricevo una smentita mi
rendo conto che devo negare la cosa smentita e quindi che ogni cosa affermata può essere a
sua volta negata. Ad esempio, la neve è bianca poniamo che sia affermato e che sia
contestato (la neve non era bianca) e mi rendo conto che la neve è bianca è vero o falso.
L’ambito delle possibilità che si danno riguardo un asserto si esauriscono con queste due
possibilità (o è vero o non è vero). Mi rendo conto che la disgiunzione di verità e falsità è
l’unità di verità che non stanno l’una senza l’altra. Mi rendo conto che questa disgiunzione
è esclusiva e riempié tutte le possibilità di conferma su un asserto e mi rendo conto che in
entrambi i casi (che venga confermata e disconfermata) ad essere oggetto della mia
attenzione è sempre la stessa asserzione (la neve è bianca). C’è qualcosa che permane (la
neve è bianca) e ci sono due modi per valutarla e che un modo ammette quell’atro e non c’è
un terzo modo. Questo vale solo per quelle asserzioni che sono coinvolte a questa tendenza
alla conferma e alla decisione.

Mi rendo conto a questo punto che lo stato di cose reale si distingue dallo stato di cose in quanto
tale. Che vuol dire? La neve è bianca è lo stato di cose in quanto tale. Poi posso confermarlo (la
neve è bianca) oppure disconfermarlo (la neve non è bianca). Facciamo caso di confermare, è ovvio
che la neve è bianca (lo vedo) questo stato di cose è quello che realmente sussiste. Lo stato di cose
inteso è lo stato di cose senza che si precisi che quello stato di cose realmente sussista ed è quello
che accomuna tanto la neve è bianco è vero tanto la neve è bianca è falso. Inoltre, è l’unico stato di
cose accessibile a tutte le asserzioni. Non solo vi è una differenza tra giudizio e stato di cose ma
anche tra stato di cose inteso e stato di cose reale (di cui si è confermata la sussistenza).

La neve è bianca mi riferisco allo stato di cose inteso la neve è bianca. Poi confermo che la neve è
bianca. È vero ciò che ho detto. Ciò di cui si dice che è vero è l’asserzione in quanto quello che
(stato di cose inteso) è comune a tutti coloro che pronunciano la stessa frase su un piano
epistemico. Quando dico che la neve è bianca mi riferisco ad uno stato di cose inteso, quando dico
che è vero dico qualcosa che riguarda la mia asserzione ma sto anche confermando che sussiste
quello stato di cose, lo stato di cose che ho confermato sussistere è quello stato di cose reale.

Vi è una terza specie di stato di cose ovvero lo stato di cose stesso. Mentre lo stato di fatto serve a
riunire diversi stati di cose, lo stato di cose stesso serve a riunire lo stato di cose inteso e quello
confermato. Hanno due funzioni diverse e stanno su due piani diversi (stato di fatto sta nel livello
143
più basso mentre lo stato di cose stesso sta ad un livello più alto). Lo stato di cose stesso non è altro
che l’idea del senso completamente riempito di stato di cose, dell’intenzione completamente
riempita dello stato di cose e del senso di secondo livello.

Tra lo stato di cose inteso e quello intuito c’è in comune l’idea che quello stato di cose possa
essere confermato. Hanno in comune la possibilità di essere confermato e questa possibilità è lo
stato di cose stesso. Lo stato di cose stesso non unifica stati di cose diversi e non serve neanche a
stabilire le condizioni di verità ma serve a garantirci che ogni giudizio vero e proprio abbia uno
stato di cose confermabile (un giudizio vero e proprio è un giudizio che vuole essere confermato).
I giudizi veri e propri hanno almeno uno stato di cose inteso che però hanno la possibilità di essere
confermati. Come lo facciamo questo passaggio? Non dallo stato di cose inteso ma dallo stato di
cose stesso!!

Quando Husserl utilizza il termine stesso intende che questo è sempre frutto di un ritorno quindi il
prodotto di una verifica sarà proprio lo stato di cose stesso perché lo stato di cose inteso si
dimostrerà essere lo stesso di quello intuito. Stesso è il risultato di un’operazione conoscitiva.

Tutte le asserzioni che hanno una vaga idea di qualcosa hanno lo stato di cose ideale, se hanno stato
di cose ideale avranno degli oggetti ideali che stanno in un certo rapporto. Poiché gli esseri umani
per natura possono sbagliare, se dicessi che ogni cosa che esce dalla bocca abbia uno stato di cose
ideale ammetterei una giungla di oggetti. Bisogna porre rimedio. Per Husserl gli oggetti fisici più
banali sono infinitamente determinabili (questo non significa che la conoscenza abbia un compito
infinito). Un oggetto concreto è un sistema di percezioni possibili. I processi che vanno all’infinito
sono quelli dell’identificazione cioè le determinazioni ma per andare all’infinto devono riferirsi
allo stesso gancio ovvero la cosa a cui attribuisci le determinazioni. Si tratta di un’identità che si
può predelineare come realtà solo se sussiste una motivazione razionale e in quanto vero in sé è
possibile questa realtà solo a condizione categoriale-trascendentale ovvero significa solo se hai
accessibilità a questi nooggetti.

Quando la critica raggiunge un certo risultato ottiene che quel giudizio confermato sia valido
dall’ora in poi. Il prodotto di una critica è che quel prodotto sia valido dal momento della
conferma in poi e per tutti che non significa che non possa essere di nuovo messo sottocritica ma
vuol dire che la pretesa che si ha in quel momento è che quella cosa sia valida dal momento della
critica in poi e vale non solo per me ma per tutti perché non ho validato una cosa che era solo per
me.

Ci sono delle modalità del giudizio e modalità che rigirando le cose. Le modalizzazioni sugli oggetti
le possiamo ottenere nella ricettività mentre le modalizzazioni sui giudizi le otteniamo solo qua. Le
modalità del giudizio non vanno confuse con le modalità dell’essere. La doppia negazione di
Husserl è geniale. Io dico che una cosa è in un certo modo, tu lo neghi e io nego la tua negazione e
ti dico non di meno è così. La negazione normale e non è vero che non piove quindi piove
(negazione standard). Nasce una nuova formula geniale di Husserl per la doppia negazione vale a
dire non di meno è così. Ad esempio, io dico qualcosa, un vostro interlocutore dice no e io per dirgli
no dico non di meno è così (ciò nonostante è così). Se utilizziamo non di meno è così significa che
questa doppia negazione riguarda già una conversazione, uno scambio. A livello zero non esiste un
144
giudizio negativo ma si deve partire da un giudizio positivo perché ciò a cui arrivi è un giudizio
positivo ed è un’uscita molto interessante (restringe di molto il campo della doppia negazione!!!).

145
(24 LEZIONE non si deve fare)

25 LEZIONE

Non dico “il fatto che il poster, che è quello di un vecchio convegno, sussiste”, ma dico “esiste”;
dunque, io sto principalmente guardando all’oggetto di cui ho parlato prima, non dell’intero stato di
cose (lo stato di cose è tutto quanto insieme), qui si parla dello stato di cose, con particolare
attenzione all’oggetto principale dello stato di cose.
Se fosse stato un giudizio di relazione in cui gli oggetti sono più d’uno vale lo stesso, parlerei
comunque di quel certo numero di oggetti che esistono in relazione con l’altro o che hanno una
certa relazione comparativa.
Dunque, lo sguardo che ho nel giudizio di esistenza è sul senso oggettuale, altrimenti saltano delle
differenziazioni non solo terminologiche, ma anche concettuali, che andavano ben distinte. Uno
stato di cose sussiste, non esiste. Un oggetto fatto in un certo modo esiste.
L’esistenza che predico di un senso oggettuale non va confusa alla realtà. Il predicato “realtà” sta
per Husserl come inclusione di un certo oggetto in un certo modo all’interno degli oggetti
percepibili. Dire che una cosa è reale significa dire che quella cosa è percepibile, dire che quella
cosa è percepibile significa che quella cosa è un oggetto individuale, che è stato percepito, che è
stato ricordato, che è stato immaginato (vincolata). Su questo si restringe il campo del reale.
Il reale coincide col campo degli oggetti individuali concreti. Non solo gli oggetti individuali in
quanto tali, ma anche se non sono reali hanno un’individualità. Gli oggetti individuali concreti sono
differenti dagli oggetti individuali possibili; questi oggetti individuali concreti di fatto esistono nella
realtà.
Io posso immaginare Pegaso e lo posso immaginare con un po’ di fantasia come un qualcosa di
individuale.
L’esempio husserliano che ci siamo detti è quello del minotauro, come caratterizzato da una forma
individuale. Qualsiasi cosa tu pensi, da qualsiasi fonte provenga, ha una forma individuale, se è un
oggetto che io assumo come individuale.
Questa forma individuale Husserl la chiama tode ti, che in Aristotele caratterizza la sostanza prima,
l’individuale concreto. L’ousìa è tanto la sostanza prima, l’individuale concreto, tanto la cosa meno
concreto possibile, più generale possibile.
Per Husserl qualsiasi oggetto individuale, concreto o meno ha una forma di individualità. Che serve
per avere una forma d’individualità? Serve che per quell’oggetto si possa dire che sta in un certo
tempo, sta in un certo luogo.
Se immagino una sedia, quella sedia la immaginerò sempre in un certo tempo e in un certo luogo
non specificati. Anche la sedia immaginata ha una forma d’individualità, ma non è concreta, non ha
una forma individuale concreta. L’oggetto individuale concreto è quello che ha un determinato
tempo e un determinato luogo. Di questo qua dico non solo che esiste, ma che esiste realmente,
quindi posso dire non esiste realmente. Reale sta per relazione di inclusione nell’insieme degli
oggetti percepibili, degli oggetti individuali concreti.
Per fare entrare questi oggetti nell’insieme io devo percepirli, se posso percepirli e ammesso che
siano percepibili io posso farli entrare nel novero del reale.
Questo che significa? Significa che posso combinare questi tre predicati che ho trovato in vari modi.
Vero lo dico sempre per le preposizioni che possono asserire sul vostro amico seduto qui oppure sul
ricordo. E se asseriscono a qualcosa sul vostro amico seduto qui, asseriscono qualcosa che può
146
essere vera o falsa, ma in senso oggettuale che deve poter essere esistente realmente.
Se dico qualcosa dell’unicorno, anche quello può essere vero e non vero, mi esprimo sull’unicorno
attribuendogli determinate caratteristiche, le quali possono “esistere” o no, e laddove esisterebbero
o meno, non esisterebbero mai realmente perché l’unicorno non è un oggetto individuale concreto.
Invece, ci sono oggetti che possono essere reali e oggetti che non possono essere reali, oggetti che
semmai non sono reali, ma potrebbero esserlo.
Il professore in tutu non è reale, ma potrebbe esserlo. Il professore aereo non potrebbe esserlo.
Questa è una distinzione che si scarica sull’ontologia fenomenologica in maniera molto forte.
Io non sono costretto ad ammettere tantissimi oggetti individuali.
Gli oggetti individuali concreti sono limitati, sono quelli accessibili alla percezione, sono però,
disposto ad ammettere, molti oggetti esistenti non concreti, alcuni dei quali potrebbero essere
concreti e altri non potrebbero essere concreti.
Questa distinzione tra esistenza e realtà nella famosa letteratura, tra ciò che posso ammettere come
esistente e ciò che è concreto effettivamente reale, viene inteso con la differenza tra popolare ed
esistere concretamente.
L’esistenza concreta è limitata appunto agli oggetti che di fatto esistono, ma il nostro mondo è
popolato anche di oggetti a cui possiamo pensare e che non sono realmente e concretamente
esistenti.
Di tutte queste cose posso parlare, e se ne posso parlare queste cose possono essere giudicate come
vere o false. Quindi, posso dire una cosa falsa su qualcosa che esiste realmente o qualcosa falsa su
qualcosa che non esiste realmente ecc.
Ogni volta che io pronuncio un giudizio di esistenza o di verità, io pronuncio un giudizio di
conferma e come dicevamo, questa conferma origina da una decisione; questa decisione può, a sua
volta, essere motivata da una situazione che realmente si realizza o che non si realizza. Posso avere
condizioni contrarie oppure posso non averle. In un caso o nell’altro posso decidere.
Quando non ci sono ragioni effettive per tornare su un mio giudizio già formulato, posso tornarci lo
stesso perché so che la struttura dell’esperienza e dell’espressione sono fatte in un certo modo e mi
sono sbagliato un sacco di volte.
Tutti gli ambiti di vuoto, di conoscenza simbolica, che sono tantissimi, strutturalmente per quanto
riguarda l’espressione, la percezione e la formazione stessa del giudizio, ci inducono a pensare che
essendoci questi buchi, in questi buchi covino delle inesattezze.
Ogni volta che, spinto dal bisogno di decidere, arrivo a confermare, in maniera positiva o negativa,
un giudizio precedente articolato, che conservo perché la mia esperienza interna è fatta in un certo
modo, ogni volta che lo faccio, formulo ogni volta un giudizio o di verità o di esistenza.
Una volta che ho formulato un giudizio di esistenza, e cioè ho messo a tema “l’oggetto”, posso dire
che quest’oggetto, per com’è stato presentato è esistente e reale, è esistente e irreale ecc.
Ora si presume che al termine di questo percorso decisionale, io abbia raggiunto una nuova
certezza; non è la certezza di partenza, non è una certezza indiscussa, impregiudicata la certezza
semplice, con un nuovo tipo di certezza.
Questo tipo di certezza che raggiungo, a sua volta, può essere di tipo differente. Il tipo differente di
certezza che io raggiungo attraverso un giudizio di conferma ingenera altre modalità.
Il giudizio di conferma risponde al bisogno di decidere rispettivamente sulla verità di quello che ho
detto e sull’esistenza di ciò di cui ho parlato. Questo giudizio di conferma non implica
espressamente una giustificazione. Io dico che in base a qualche ragione che quello che ho detto è
147
vero e solo a quel punto che qualcun altro ancora può chiedermi di giustificare quello che ho detto.
Si giustifica, pertanto, l’attribuzione di verità ad una proposizione, ovvero l’attribuzione di esistenza
ad un oggetto. Non si giustifica l’esistenza dell’oggetto, ma l’attribuzione di esistenza all’oggetto.
Questo zaino è blu. Qualcuno mi dice che non è vero. Io rispondo dicendo che, invece, è vero che lo
sia. A questo punto qualcun altro potrebbe dirmi: perché dici che è blu? (senso oggettuale) Perché
quello dici che è vero?
In prima battuta non mi si chiede “perché dici che è blu?”, ma “Non è vero” o “Sono d’accordo”.
In prima battuta, non c’è giustificazione, c’è formulazione di un giudizio di verità o di esistenza.
C’è una giustificazione della condizione di verità o di esistenza.
Questo è un punto molto delicato che fa il taglio con una scuola da cui non si può partire dal
dubbio, ma dal fatto della conoscenza. La conoscenza è un atteggiamento di fatto. Si parte da questa
certezza semplice e non dal dubbio, qui Husserl rincara la dose e dice che il dubbio sorge quando
c’è una ragione contraria. Quando c’è una ragione contraria io posso formulare di verità e di
esistenza; il dubbio non ingenera una domanda di giustificazione. Al primo livello, la contestazione
che io ricevo non mi chiede di giustificare quello che ho detto, mi chiede di mettere in dubbio
quello che ho detto e a quello io rispondo confermando o non confermando. Dopo la conferma c’è
la giustificazione.
Di base c’è una credenza semplice, sulla credenza semplice si può costruire una conoscenza e la
conoscenza ce l’ho solo nella conferma e solo nella conferma ho fatto tutto quello che mi si
chiedeva di fare per ottenere un oggetto: ho messo a tema, ho costruito uno stato di cose; quando
ascrivo verità produco conoscenza, quella conoscenza che ha di base una credenza, può ingenerare
una domanda di giustificazione, la giustificazione non precede la conoscenza.
Questa cosa non è così dogmatica perché in letteratura non proprio contemporanea nel Saggio di
Guettier, dove mette a tema questa cosa che sarebbe una convinzione tipica del pensiero occidentale
da Bacone in poi.
La conoscenza è credenza vera giustificata.
Si fanno una serie di giochetti su quest’assunto; l’ultima proposta che viene fatta è questa, ma non
va bene. Ciononostante, quest’articolo assume questa definizione e mostra che in molti casi
potrebbe essere una pretesa di conoscenza anche quando questa conoscenza non fosse giustificata.
Vi è una pretesa di conoscenza anche quando vi è una credenza che è vera, perché confermata dai
fatti, ma non giustificata e l’esempio che fa Guettier è molto particolare, ed è stato riformulato in
frammenti.
Due omini, John e Jack, vanno ad un colloquio di lavoro. John è un po’ pessimista e dice “non mi
prenderanno mai perché sono convinto che prenderanno colui il quale ha $5 in tasca” e alla fine dei
conti effettivamente prendono l’altro ed effettivamente aveva $5 in tasca e tuttavia colui che l’ha
detto non aveva nessuna giustificazione per poterlo affermare.
Le riformulazioni sono più intuitive: Una persona è a casa e vede una partita di calcio che viene
trasmessa esattamente quando viene trasmessa in quel giorno quella determinata partita di calcio.
Era Brasile-Corea, che quella partita doveva iniziare esattamente martedì 6 dicembre alle ore 20:00.
L’omino vede la partita e al termine di questa partita l’omino chiama il suo amico e gli dice che è
finita 4 a 1, l’altro omino risponde che è vero e si è giocato molto bene.

148
Tuttavia, l’omino di partenza non ha visto la stessa partita dell’altro omino.
Le cose che diceva l’omino erano vere, ma non giustificate perché vedeva un’altra cosa.
Da questi esempi si capisce che la nostra pretesa di conoscenza non è sempre accompagnata da
giustificazioni. Su questo si sono scaricate batterie di argomenti che abbracciano molte strategie.
Nel caso di Husserl noi non abbiamo una conoscenza vera giustificata, ma abbiamo una definizione
di conoscenza come credenza vera di cui si può chiedere giustificazione.
Una conoscenza a cui ascriviamo il predicato di verità, non è giustificata perché nessuno me l’ha
chiesto. Se non entra nel mercato delle ragioni quella roba è fatto mio, non conta, non è rilevante.
Diventa rilevante quando qualcuno me lo chiede o io gli rispondo ma io gli posso rispondere solo
dopo che ho attribuito a quell’asserto il carattere di conoscenza.
La conoscenza, dal punto di vista husserliano è una credenza che si può … e che può essere e di cui
si può chiedere che sia giustificata.
Quando si chiede la giustificazione si chiede un’altra cosa. Questo è un passaggio che include al
termine di questa sezione un passaggio importantissimo. La domanda di giustificazione non è una
domanda tra le altre. La domanda corrisponde alla forma logico linguistica del dubbio, quindi, in
qualche modo ad una domanda di decisione che io ho risposto fin dall’inizio.
Quando dicevo che quella proposizione era vera rispondevo ad una domanda, ma non è una
domanda di giustificazione.
La conferma che io produco su un asserto mi da il diritto di formulare un giudizio di verità o di
esistenza, ma non mi da il diritto di formulare giustificazioni.
Come esco dal giudizio di verità? Con una ricostruita certezza.
Questa certezza può essere di vari gradi (la certezza è graduale). Quindi, posso uscire con una
certezza bassa (supposizione), certezza di grado più alto (presunzione) ed è ammesso che si esca
con una certezza di grado altissimo (apodittica). Tuttavia, quest’ultima ci è inibita in ambito
empirico.
Queste sono tre tipologie di certezza che sono collaterali al giudizio di verità e di esistenza e che
ovviamente hanno il loro contrario (supposizione che non; presunzione che non; assoluta che non).
Qual è la ragione di questa classificazione e in che termini posso parlare di supposizione o di
presunzione (non sono la stessa cosa).
Il grado di certezza che è più esteso, in cui ricadono più atti di conoscenza è la supposizione, pochi
sono gli atti di presunzione e pochi gli atti della certezza assoluta.
Poniamo di essere in una situazione in cui si è effettivamente realizzato un contrasto e una smentita
e a questa smentita, io abbia effettivamente risposto in maniera confermativa.
Poniamo che io dica “questo è blu oltremare” e un altro mi dica “questo è blu cobalto”. Poniamo
che io da questa situazione sia uscito dicendo “non è vero che è blu oltremare”; tuttavia, non nego
completamente le ragioni delle obbiezioni che mi sono state fatte. Credo che la mia posizione abbia
più ragioni a favore, ma non nego che l’altra posizione abbia le sue ragioni. In questa situazione
devo poter avere, su un piano d’esperienza, quelle che chiamammo possibilità problematiche.
La cosa che dico io e quella che mi viene contestata, devono avere, ciascuna delle ragioni che
parlano a loro favore.
Non è detto che ci sia una situazione di equilibrio, anzi, la situazione di equilibrio non c’è mai,
tuttavia, hanno ciascuna il loro peso.
Presunzione
149
In questo caso, il mio giudizio confermativo arriva ad un livello di certezza presuntiva: c’è
un’opzione che io non abbraccio, che però ha le sue ragioni.
Tutti gli asserti empirici, per come sono fatti, per l’oggetto a cui si riferiscono, possono ambire al
massimo ad un livello di certezza presuntiva. La certezza presuntiva riguarda proprio le attribuzioni
che faccio ad oggetti empirici. Non è detto, però, possibile, che la certezza presuntiva si trasformi in
un enunciato di probabilità.
Alcuni asserti che godono di certezza presuntiva possono trasformarsi in probabilità e tutti gli
enunciati di probabilità sono possibili solo all’interno della certezza presuntiva, perché le diverse
opzioni di cui stimo il peso, devono avere un peso, devono avere ragioni favore e contro.
La presunzione che è l’ambito della conoscenza empirica, ma può fare da base ad enunciati
probabilistici. Tutta la nostra conoscenza empirica, quando è sottomessa ad una valutazione di
verità (non quando è espressa a livello 0 di certezza sensibile); quando è esposta ad un giudizio di
verità, tutta la nostra conoscenza empirica aspira, può arrivare al massimo ad una certezza
presuntiva. Perché gli oggetti empirici possono essere sempre in un certo modo che io non colgo e
questo certo modo non è una possibilità pura, svincolata, ma una possibilità per la quale qualcosa
parla a favore.
Quando sorge una possibilità problematica, la conoscenza può attingere ad una prassi, vado a
vedere se la ragazza dall’altro lato ha il codino, ma se io non potessi muovermi e la ragazza non si
muovesse, quella sarebbe una possibilità problematica che tiene, che non è pura, ha un peso.
Questo è un caso estremo, ma è estremizzazione di qualcosa che noi viviamo abitualmente; non
possiamo fare tutto ciò che ci permette di conoscere gli oggetti empirici da tutti i lati, né gli oggetti
empirici sono così pazienti di mostrarci tutti i loro lati. Visto che questo accade c’è la possibilità
problematica che effettivamente le cose stiano diversamente da come io pensi che stiano.
Per questa ragione, la nostra conoscenza empirica aspira ad un livello di certezza presuntiva, la
presunzione di verità: presumo che sia vero, pretendo che sia vero.
Non è un modo per screditare la conoscenza empirica, ma un modo per dire di cosa è fatta questa
certezza, la certezza che noi abbiamo quando formuliamo asserti su oggetti individuali.
Supposizione
Diversa dalla presunzione, è la supposizione. E’ quella che io faccio su possibilità pure. Non ho
nulla che parli a favore di queste possibilità, eppure provo a supporne una.
Un caso tipico di supposizione sono i controfattori. Se io non fossi venuto oggi a lezione, me ne
sarei stato a casa. Questa possibilità non può essere problematica, perché io a lezione ci sto. Non ho
nessuna ragione per credere che io non stia a lezione. Sarebbe possibile, non ho nessuna ragione per
affermarlo, lo sto solo supponendo. Non gli attribuisco nessun peso di realtà. Non voglio dire che è
così, né che sarebbe potuto essere così. Certo quello che devo fare è non esagerare.
Devo immaginare una situazione non così lontana che di fatto si è realizzata, devo immaginare un
mondo simile.
Come arrivo alla possibilità pura di questo tipo? Mediante fantasia.
Quello che devo fare è immaginare in maniera slegata dalla situazione che di fatto è, che è
possibile, ma non realmente possibile, né fisicamente, né logicamente; dunque, non vi sono ragioni
a favore di questa possibilità.
Ma nel caso in cui la immagini, la immagino supponendola. Quindi, non gli attribuisco nessun
valore di verità. Serve solo ad immaginare uno scenario che derivi in maniera infallibile della
supposizione. Ma quello che sto immaginando, non è tanto la supposizione, ma quello che deriva e

150
non poteva non derivare se quello che sto supponendo fosse accaduto.
Non ha a che fare con la contingenza (la contingenza è di fatto), poiché la supposizione non ha
pretesa di verità e suppone oggetti fittizi.
Teoria delle Probabilità
Appendice propria di questo capitolo è quella sulle probabilità (è la parte più vecchia).
La conoscenza probabilistica è un tipo particolare di conoscenza presuntiva, ed è il tipo più
formalizzato. La probabilità rigorizza su porzioni di mondo possibile, a partire da una serie di
strumenti formali, una cosa che la certezza presuntiva dice in maniera molto vaga.
Se una persona mi dice: il pullman dovrebbe passare tra 5 minuti al 99% è l’esempio di un …
Se, invece, dicesse: dovrebbe passare tra poco, è un caso di certezza presuntiva.
L’aggiunta della probabilità non rende quella certezza più forte, scarrella, va proprio da un’altra
parte. Perché per costruire una probabilità devi dividere il mondo in pezzi, e assumere che questi
pezzi siano ciascuno esclusivo rispetto all’altro. Devi quantificare le previsioni su ciascuno di questi
pezzi e devi assumere la consapevolezza che le quantità che tu hai attribuito a ciascuno di questi
pezzi si scaricano su casi singoli.
Se un dottore mi dice che quest’operazione ha la probabilità di riuscita del 97% io non sono
rassicurato, io potrei essere in mezzo a quel 3% e per me potrebbe essere il 100%. Il caso singolo
non è contemplato dalla previsione probabilistica.
Esempio del goal fallito del calciatore: il pallone esce dalla traiettoria della rete per 2 mm, sul suo
piede il calciatore ha fatto un errore molto più piccolo di due millimetri.
Tra il 1905 e il 1913, Husserl si mette in testa di fare una teoria della probabilità perché, secondo
lui, in questo modo si sarebbe attribuito quell’elemento formale, di rigore alla conoscenza empirica.
Nella scuola di Brentano si lavorava molto sulla probabilità.
Quest’appendice è la testimonianza della prima strategia di rigorizzazione della conoscenza
imprecisa. Il secondo tentativo fu la filosofia trascendentale. Quando si rese conto che quel tentativo
non era risolutivo, passò alla rigorizzazione giustificativa, in un’ultima istanza, della conoscenza.
1) La prima strategia fu di rigorizzare la conoscenza imprecisa: che faceva?
Visto che era impossibile giustificare, in ultima istanza, ogni conoscenza imprecisa, gli da una legge
e poi era la legge della teoria della probabilità a dover essere giustificata, ma giustificare la legge
era più facile del caso singolo.
La conoscenza empirica non si può giustificare in ultima istanza, quindi, dici che è vera e qualcuno
verrà e ti chiederà di giustificarla, ma non lo potrai fare, e invece di giustificare quello che hai detto,
la metti in una gabbia (teoria della probabilità) e dici “guarda, io non ti posso giustificare una
singola cosa che ho detto, ma il peso di probabilità che gli ho attribuito, glie l’ho attribuito in base a
questa legge. Di questa ti posso dare giustificazione”.
Richiama Hume, dunque, in quest’appendice facendo l’esempio del dado regolare e il dado
truccato. Questa roba della probabilità è tutt’altro che semplice conoscenza presuntiva. E’
conoscenza presuntiva, ma con il suo rigore formale.
Perché io per ogni lancio di dado posso dire che ciascuna faccia esce con la probabilità di 1/6 e
questa cosa che abbia la probabilità di 1/6 è sempre vera. Posso sbagliarmi, se ti dico che esce il 3 e
se lo dico e tu mi chiedi giustificazione perché esca, io non ce la faccio; ma se io dico che il 3 ha 1/6
di probabilità di uscire, questa cosa è vera e giustificata, in ultima istanza. Questa è una relazione tra
idee, non tra parti (cosa che, invece, pensava Hume).
Poi c’è la fallacia dello scommettitore.
151
La fenomenologia si autodefinisce come scienza vaga, quindi, sta nel novero delle conoscenze
presuntive di cui stiamo parlando. La fenomenologia fa molto uso di supposizioni. Ma è impossibile
rigorizzarla probabilisticamente, perché si pone come ogni altra teoria della conoscenza sul piano
metateorico.
Non si può rigorizzare la teoria della conoscenza, ma la conoscenza stessa.
L’unico modo di rigorizzazione che avrebbe la fenomenologia è di dotarsi di una struttura formale
inattaccabile. La conoscenza empirica è una conoscenza presuntiva ma non probabilistica.
PAG. 251 Siamo nell’ambito delle possibilità molto molto confermate, non riusciamo ad
arrivare qua dentro al non è possibile che non —> non riesco ad arrivare alla necessità. Non ci
arrivo per le ragioni che vedremo successivamente.
Stiamo facendo un’analisi delle modalità del giudizio e tradizionalmente tra queste c’è la necessità
anzi tradizionalmente la necessità è proprio la modalità di base della certezza apodittica. Il punto di
vista di Husserl è ribaltato: io nell’ambito dell’esperienza alla necessità non ci arrivo perché non
posso escludere tutte le possibilità contrarie, escludere le possibilità contrarie significa dire che non
è vera la possibilità contraria —> impossibile che non.
La necessità dal punto di vista fenomenologico sta sul piano della struttura temporale degli
oggetti o degli stati di cose o degli eventi ed è raggiungibile sulla costituzione temporale degli
oggetti —> si costruisce un doppio livello di modalità uno sui giudizi e uno sugli oggetti.
Una cosa è rispondere a una domanda sulla verità di quello che ho detto, una cosa è giustifica la
conferma del fatto.
Un giudizio di verità arriva alla certezza presuntiva e non ci manca nulla in questo caso, adesso cosa
vuole la giustificazione?
La giustificazione si riferisce ad un giudizio che abbiamo definito vero e ad un oggetto che
abbiamo definito esistente, reale.
PAG. 255/ 256 Quando provo a giustificare una selezione di verità o di esistenze queste si
rivelano come mie posizioni, mie attribuzioni di verità.
Dovrebbe essere chiaro che quando Husserl parla di giustificazione parla esattamente del suo
significato di trascendentale —> la filosofia trascendentale è quella che vorrebbe arrivare a una
giustificazione di ultima istanze, proprio per questo vorrebbe giustificare tutti gli asserti di cui
qualcuno o essa stessa dice che sono veri e tutti gli oggetti esterni che essa o altri dice che sono
esistenti. Per farlo prende l’idea di esistenza come posizione di validità. Da qua dentro emerge
chiaramente che se questo è l’obiettivo: giustificare le cose che noi diciamo degli oggetti, non si
può non passare per l’epoché.
La giustificazione fa proprio questo prende una cosa che tu hai detto e che tu pretendi che sia vera,
isola la pretesa di verità ed è quella pretesa di verità che va giustificata, per giustificarla però e è
come se io la dovessi togliere da quello che ho detto: la prendo, la isolo, la metto a tema e la
giustifico.
ES (in classe): Il vostro amico ha un maglione nero—> giudizio di partenza che è vero.
Qualcuno poi domanda al professore come fate a dire che è vero questo giudizio, e il professore
risponde: “Dico che è vero perché” —> sta giustificando la sua pretesa di verità, non lo stato di cose
che formo.
Il professore ha preso il giudizio, ha staccato la posizione, la sua pretesa e poi l’ha giustifica. Qual è
l’effetto sul giudizio? Il giudizio si trova senza posizione, ho sospeso la posizione di validità del
giudizio, L’HO SOSPESA PER GIUSTIFICARLA.
152
La giustificazione alla trascendenza è la giustificazione del fatto che sia vero quello che io detto su
un oggetto.
Quella di cui abbiamo parlato prima era la giustificazione di un giudizio di verità, ma c’è anche la
giustificazione di un giudizio di esistenza —> che è sullo stato di cose. Giustifica il mio diritto a
dire che quell’oggetto è esistente, questa seconda parte è quella che in gergo si chiama
“costituzione dell’oggetto” chiamando in causa tutte le operazioni fatte, empiriche, concettuali.
In questo caso stacco l’esistenza dallo stato di cose.
ES: Sono in macchina e ad un certo punto mi ferma un poliziotto per controllare i documenti —>
mi chiede di giustificare il mio diritto a guidare la macchina, controlla la patente. Poi mi chiede di
fargli vedere il certificato di possesso dell’auto, prendo il foglio di circolazione e glielo do—> in
quel momento io non ho mano il certificato del possesso dell’auto (questo significa staccare verità
ed esistenza).
Il poliziotto non sta mettendo in dubbio che io abbia la patente, la sta controllando.
La giustificazione in ultima istanza non può essere falsa—> impossibilità negativa (necessità, alla
giustifica aspira alla necessità).
In queste pagine Husserl usa ripetutamene l’espressione “cattiva coscienza logica”.

153
26 LEZIONE

Formazione della generalità empirica, formazione della generalità pura e quantità delle formazioni;
affronteremo il modo in cui Husserl intende il carattere di universalità di un giudizio.

PASSAGGIO IMPORTANTE: Qualsiasi espressione che abbia pretesa di verità è un enunciato di


conoscenza; per avere una conoscenza basta una credenza id base ed un’espressione con pretesa di verità,
non è una richiesta così minima. Quindi colui che esprime un enunciato è disposto ad essere confermato in
modo positivo o negativo, solo gli enunciati che possono essere messi in dubbio sono enunciati di
conoscenza (che possono essere smentiti). Se l’enunciato non ha pretesa di verità non può essere smentito =
quell’enunciato, se può essere smentito e ha pretesa di verità, è un enunciato di conoscenza.
Di tutto questo non fa parte la giustificazione: si può formare solo dopo che una pretesa di verità sia stata
confermata o disconfermata.
I. C’è un enunciato
II. Viene confermato o disconfermato
III. Di quella attribuzione del predicato di verità o falsità SI DA’ GIUSTIFICAZIONE
La definizione di conoscenza esclude al giustificazione.

Fatto questo, ci resta l’ultima sezione. Il tema è SIGNIFICATI DI GENERALITA’ con la distinzione in:
generalità empiriche ossia concetti (cap 1 e 2) e l’”in generale” /giudizio generale in quanto vale in generale
(cap 3).
Un giudizio in generale può avere anche un oggetto in particolare ma sarà pur sempre un giudizio IN
GENERALE.

Troviamo il tipo e la formazione di generalità tipiche (tipi) + formazione delle generalità pure (quelle che si
chiamano essenze); nel 2 cap di quest’ultima sezione c’è un’ampia trattazione della variazione eidetica e
dell’intuizione eidetica, ed è l’unico testi in cui Husserl affronta questo argomento (dato da non trascurare).
Convinzione TARDA di Husserl: per arrivare alle idee c’è bisogno di una specifica strategia.

La terminologia qui è inconsueta per com’è il libro, ci sono espressioni platoniche che Husserl utilizza nei
confronti del classico tema delle generalità/concetti/universali. Sta parlando indirettamente delle idee; le
espressioni che usa Husserl sono o platoniche o platonizzanti.

- Platoniche: polinomità e nexis (no so se ho scritto bene). Sono le espressioni che Platone usa nel
Sofista per rendere conto della nascente teoria delle idee; qual è il rapporto tra l’idea e la sua
esemplificazione nella realtà? Comunanza, partecipazione e copia.
- Platonizzanti: (proveniente dalla critica aristotelica) ipostatizzo qualcosa che appartiene ai molti e lo
metto sopra ai molti.

Husserl vuole chiarire la legittimità di una concezione delle generalità come degli oggetti che sono comuni a
più oggetti; l’attacco simultaneo è da un lato al discredito rispetto alla teoria delle idee e alla nozione
moderna di astrazione. La critica aristotelica a Platone riesce se utilizziamo l’idea di astrazione che abbiamo
guadagnato nella modernità; in caso contrario abbiamo un’altra concezione dei concetti e delle generalità.

Il primo attacco (pag 265) è un ricollegamento a una delle sintesi passive, ossia la sintesi della somiglianza;
lavorando su essa potevamo raggiungere i giudizi di comparazione realizzabili tra qualsiasi oggetto. Quando
si realizza una sintesi di somiglianza si realizza una comparazione, ciò che è comune ai sostrati comparati
viene in primo piano e diventa la base per dire che due sostrati sono simili.

154
Esempio: io sono più vecchio di te / io ho più anni di te; è una comparazione alla cui base c’è l’ETA’ ossia
una cosa che possiedono entrambe le persone di cui sto facendo la comparazione. Il fatto che l’età di uno sia
maggiore dell’età dell’altro viene successivamente; avere degli anni è una caratteristica che si ripete in
entrambi come LA STESSA COSA. Il numero degli anni è diverso, ma il fatto di avere degli anni è una
caratteristica che abbiano identica.
In ogni giudizio di comparazione posso fare questo lavoro, infatti il vero tema del giudizio è solo in seconda
istanza la DIFFERENZA (in prima istanza è ciò che abbiamo in comune).
Io sono più vecchio di te se e solo se io e te abbiamo degli anni.
Abbiamo una caratteristica identica: l’identità della caratteristica è alla base della somiglianza e del giudizio
di comunanza (io e te siamo accomunati dal fatto di avere la stessa caratteristica).

Se dico “io sono più vecchio di te” metto in relazione due oggetti, uno primario e uno secondario, la
differenza tra esse è quella che riguarda il numero di anni. Per poter dire che questa è la differenza di cui sto
parlando devo presupporre che entrambi abbiano degli anni e conseguentemente devono avere LA STESSA
CARATTERISTICA.

Percorso: SOMIGLIANZA – COMUNANZA - IDENTITA’

PAG.267 Quale passaggio devo fare quando arrivo ad un giudizio di comparazione.


Tre persone hanno in comune l’età, ciascuno per sé; hanno quella caratteristica identicamente ciascuno per
sé.
S1, S2, S3 hanno tutti quanti P: Sto dicendo che lui, lei e l’altro hanno in comune l’età, hanno la stessa
caratteristica ciascuno per sé, ciascuno ha un’esemplificazione diversa di quella caratteristica e tuttavia
hanno quella caratteristica identicamente, ciascuno per sé = CIASCUNO HA L’IDENTICA
CARATTERISTICA DI AVERE L’ETÀ.

Io dico ad esempio che Giovanni è più giovane di Francesca, per poterlo dire devo dare per assurdo che
abbiano una caratteristica identica, ma non lo metto a tema nel primo giudizio (quando dico lui è più giovane
di lei) ma ci posso arrivare, lo posso mettere a tema retrospettivamente.

ES: Giovanni ha 30 anni, Francesca ne ha 31 —> 2 giudizi di determinazione con due oggetti principali
Giovanni è più giovane di Francesca —> giudizio di comparazione.
Adesso non parlo più di Giovanni e Francesca, ma dell’età, l’eta di Giovanni è minore di quella di
Francesca—> non parlo più di S, S1, ma di P E P1 = l’età.

Non ho più un oggetto principale e uno secondario ma un predicato principale e uno secondario (la quantità
di anni). Poi posso fare un’ultima cosa, P e P1 (le quantità degli anni che rispettivamente hanno)
appartengono ad un genere comune: gli anni, quindi il terzo livello quello dell’identità non ha più a tema ne
il soggetto, ne lo specifico predicato ma il genere a cui appartengono predicati.

Questa cosa in comune è tra i due predicati (tra 20 e 21 anni) ma poi a cascata diventa una cosa in comune
tra Giovanni e Francesca (avere degli anni).
L’effetto di comunanza è secondario da questo punto di vista, la cosa principale è l’identità della
caratteristica, in base a questa identità loro hanno qualcosa in comune.
In base all’identità e alla comunanza loro sono diversi, in base all’identità, alla comunanza e alla differenza
loro sono paragonabili.

155
Questo percorso è l’inverso di quello iniziale. All’inizio partivo dalla sintesi di somiglianza (una cosa
passiva), poi dalla determinazione, poi la comparazione e poi avevo capito che questi due hanno qualcosa in
comune.

Non si fa una gerarchia di generi d’essere, non si attribuisce un livello ontologico, stiamo facendo un
ragionamento sulle caratteristiche.
Dobbiamo, distinguere quindi, una prima serie di giudizi, quelli che ho fatto a partire da una sintesi di
somiglianza, in cui di ogni sostrato si predica un momento individuale (gli anni suoi —> S1 e P1) e una
seconda serie di giudizi in cui il momento sempre uguale P (anni) viene predicato come il generale —>
cattura i predicati, che sono ripetuti in maniera leggermente diversa e poi a cascata va suoi soggetti.

A questo punto non dico più Giovanni ha 30 anni, ma Giovanni ha degli anni, come Francesca, Pasquale ecc
ecc —> è una triangolazione.
Ho più predicati, accomuno i predicati, questi predicati hanno una estensione sui soggetti. Stiamo ricavando
delle generalità empiriche (basse) sul lato dei predicati e le stiamo scaricando sui soggetti.

Nel caso in cui io parlo di Giovanni ho un giudizio individuale, se invece dico chiunque sia nato e non è
ancora morto ha degli anni formulo un altro tipo di giudizio, cioè un giudizio generale.
Quando il soggetto si rende consapevole del fatto di star parlando di un chiunque sia nato e non ancora morto
e gli sta attribuendo un predicato generale (una certa età)—> l’io si rende consapevole di unità sui molti. Ce
ne rendiamo conto perché questi giudizi qui si formulano sempre al singolare (entrambi soggetto e
predicato).
Quando formulo giudizi di questo tipo sto parlando di un’unita che si ripete identica in tutti coloro che sono
nati e non ancora morti ecc ecc.

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Un altro elemento interessante da sottolineare è che ad esempio Giovanni non è la specificazione di uno che
ha gli anni, perché lui è molte oltre cose oltre ad avere gli anni, l’identità di Giovanni si guadagna in un altro
modo e non è detto che la sua identità non possa raggiungere un livello concettuale.
In Husserl c’è una locuzione che è quella di concetto individuale, a Giovanni corrisponde un concetto
individuale che non è la specificazione del concetto generale uomo o uomo vivente —> Giovanni non lo
ottengo per genere prossimo e differenza specifica.

Questo concetto di individuale appare solo in un altro grande filosofo contemporaneo cioè Carnap.

Gli umani viventi sono la controparte di Giovanni —> una sorta di casella in cui Giovanni rientra nel
genere degli umani viventi. Immaginate una casella in cui Giovanni ci sta dentro e lo prendo e lo conosco e
la casella resta vuota, questa è la controparte ovvero il posto vuoto che si lascia nel genere degli umani
viventi è la controparte di Giovanni.
L’universale vi partecipa in Giovanni come se fosse la sua controparte come se fosse la sua ombra, il suo
alter ego. L’universale non è Giovanni ma la controparte. Questo identico (essere un umano vivente) vale per
tutti coloro che sono esseri viventi. In realtà Giovanni in quanto tale nella sua interezza non rientra nel
genere degli esseri umani ma la sua controparte rientra nel genere degli esseri umani. È la funzione di
Giovanni che rientra quindi la sua controparte e l’alter ego di Giovanni che fa parte del genere essere umano.
L’individuo non rientra nel genere.

Esempio. Questa è una sedia. Appartiene al genere delle sedie. Nel genere delle sedie c’è la sua controparte.
L’individuo non collassa come parte del generale perché altrimenti sarebbe specificazione del generale.

156
Questo identico (avere l’età) si può estendere a più soggetti come Francesca, Giovanni, Gabriele sono esseri
umani. L’identico ha un’estensione e ad un certo punto arriverò al limite di questa estensione e mi renderò
conto qual è la regola di chi fa parte e chi non fa parte dell’estensione di avere una certa età. Stiamo
lavorando sul predicato, lo scarico sul soggetto e questo elenco di soggetti che hanno una certa età. Posso
fare quest’operazione all’infinito fino ad arrivare ad un punto in cui arrivo a capire qual è là caratteristica che
impedisce a qualcuno di avere una certa età (una persona morta). Questo mi permette non di acquisire
informazioni sul predicato bensì sull’estensione dei predicati cioè sulla quantità dei soggetti di cui si può dire
che hanno un’età. Questa cosa è la variazione eidetica.

L’idea di Husserl è quella di far capire come questi diversi livelli di generalità hanno anche diversi tipi di
vincolo con l’esempio da cui si parte. Per arrivare ad avere una certa età devo partire da Giovanni,
Francesca o qualcuno vivente. Per arrivare a uomo posso partire da Giovanni, Francesca o qualsiasi altro sia
stato, sia o sarà vivente. La scelta degli esempi è più libera. Uomo è più esteso come genere e la scelta degli
esempi è molto più libera e a mano a mano che io ho più libertà di scelta avrò concetti più ampi, se ho meno
libertà di scelta ho concetti più stretti e meno estesi. Se la scelta è più ampia, degli oggetti da cui parto mi
tengo meno caratteristiche e meno contenuto.

I concetti che ottengo sono più ampi o meno ampi (più generali o meno generali) ma gli esempi da cui parto
sono più vincolanti o meno vincolanti. Avere una certa età, avere i capelli ricci non solo sono concetti più
stretti di essere umano, corpo solido ma sono esempi anche con un vincolo maggiore sugli esempi da cui
parto. Il concetto ampio è caratterizzato da un minore vincolo mentre quello stretto da un maggiore vincolo.
Questo significa che una delle cose più complicate da affrontare, quando si parla di una teoria dei concetti
fatta così (che guarda all’estensione e agli esempi da cui parto), è la scelta dell’esempio iniziale.

Abbiamo detto un concetto largo è caratterizzato da esempio largo, concetto stretto invece da un esempio
stretto. Il concetto largo è formato da pochi vincoli mentre il concetto stretto è caratterizzato da molti vincoli.
Nel caso di ha una certa età così come nel caso di rosso la comparazione che porta ad una generalità
riguarda determinati oggetti individuali che appaiono in un’esperienza finita e chiusa quanto alla loro
determinatezza individuale. Io parto con la mia esperienza di Giovanni che è un individuo concreto e arrivo
ad avere una certa età. Il modo di essere di Giovanni mi condiziona perché Giovanni è un individuo che può
essere in tanti modi ma non può essere quello che non è. L’esperienza di Giovanni è chiusa.

Husserl sta parlando di quei concetti che chiama concetti empirici o generalità empiriche e che 30 anni prima
nelle Ricerche aveva definito concetti impuri dandone 3 esempi che non spiegò mai. I 3 esempi sono:
1. essere rosso;
2. assioma delle parallele;
3. la virtù.

Sono 3 concetti che per Husserl sono impuri o empirci perché tutti quanti implicano il coinvolgimento di un
genere contenutistico quindi di un tipo di contenuto. Tutti e tre implicano una restrizione, infatti, il rosso si
può dire solo delle cose colorate e può parlare di essere rosso solo un soggetto che vede. Essere rosso è una
generalità ma molto vincolata. Assioma delle parallele anch’esso è vincolato perché vale solo in un tipo di
geometria. La virtù è esempio per eccellenza di concetto quasi impossibile da definire perché è vincolato ad
una cosa molto ristretta ossia il comportamento.

Riprendiamo dal concetto di rosso. Comparazione porta generalità a partire dagli oggetti individuali. Non di
meno partendo da oggetti individuali posso andare avanti e posso proseguire indefinitamente. Tutte le cose
rosse stanno dentro un orizzonte, l’orizzonte lo ottengo a partire dalla concettualizzazione del predicato e
quest’ultima sta dentro un’estensione. Le cose che stanno dentro l’orizzonte sono infinite nel senso di

157
indefinite singolarizzazioni della stessa generalità. Quanto più il vincolo di partenza è lasco tanto più sarà
ampio l’orizzonte del concetto di cui parlo.

L’estensione di questi concetti è un orizzonte aperto di individui possibili, me li raffiguro come degli esseri
umani viventi che possono avere altrettante caratteristiche che non conosco. Quelli lo conosco perché stanno
nell’orizzonte (ad esempio perché sono esseri viventi) ma possono avere altre caratteristiche diverse. Sono
delle possibilità più o meno pure ovvero più o meno svincolate dall’esperienza che di fatto compio. Saranno
più svincolate se la generalità è più ampia e saranno più vincolate se la generalità è più stretta. Se parlo delle
persone con capelli ricci avrò una generalità più stretta e quindi avrò una regola per stabilire gli individui
possibili che rientrano (possibilità più stretta) mentre gli esseri umani possibilità più ampia e una regola più
ampia. Comunque, gli oggetti che rientrano dentro quest’estensione sono oggetti possibili (non li conosco) e
non ho nemmeno ragioni empiriche per descriverli, sono possibili in quanto possibilità pure.

Ad ogni concetto corrisponde un’estensione infinita nel senso di indefinita di singolarità puramente possibili
(non problematicamente). Ottengo la possibilità pura per fantasia, infatti, gli 8 miliari di essere umani non lo
sto immaginando perché se lo facessi li dovrei immaginare con una certa altezza, certo peso, certa età…
Invece io li sto fantasticando infatti non so come sono fatti.

Essere del generale è correlativo all’essere delle possibilità pure che sono gli oggetti. L’essere del generale è
l’essere del generale identico mentre l’essere delle possibilità pure è l’essere di possibilità di individui
possibili che hanno qualcosa in comune. Il generale è uno e identico, ha un’estensione e in questa ci sono
tutti i soggetti che sono delle possibilità pure che sono uguali. L’una all’altra sotto quel aspetto in quanto
rosso, ognuno di queste possibilità pure può fungere da esempio di partenza per arrivare al concetto (rosso).
Ogni oggetto che sia o possa essere rosso e soprattutto che posso fantasticare possa essere rosso è la base per
arrivare al rosso. Per arrivare ad un concetto generale come il rosso sia se parto da un oggetto reale sia da un
oggetto fantasticato ipotizzato come rosso.

Stiamo guardando ad una teoria dei concetti che è al contempo una teoria degli esempi. Abbiamo concetti di
diversa estensione e abbiamo correlativamente una prescrizione sul tipo di esempio da cui partire. Più ampio
il concetto meno vincolato l’esempio e più stretto il concetto più vincolato l’esempio. Il vincolo può essere
contenutistico ossia non posso far rientrare nell’orizzonte rosso gli oggetti verdi e questo è un vincolo
contenutistico. Però posso far rientrare nell’orizzonte rosso gli oggetti che potrebbero essere rossi (le
possibilità pure degli oggetti rossi) quindi ho un vincolo sul contenuto ma non sul genere di esperienza da cui
parto (posso partire da un oggetto esperito o da un oggetto fantasticato purché sia rosso).

Questi vincoli di contenuto talvolta hanno degli effetti inaspettati ovvero se io restringo sul contenuto rosso
restringo anche su coloro che possono vederlo. Questa ulteriore restrizione non è solo contenutistica ma una
restrizione di un altro tipo ovvero tipi di esperienza. L’esperienza del soggetto normo-possibile va bene
mentre l’esperienza di un cieco o daltonico non va bene. Faccio la restrizione sul contenuto ma faccio anche
la restrizione sugli oggetti che possono arrivarci. Questo è un primo risultato.

Il secondo risultato io potrei però voler ottenere il concetto in una generalità più bassa che accumuna tutti noi
attualmente presenti. La restrizione che io dovrei osservare circa il contenuto deve riguardare non solo gli
studenti ma anche ora. Non restringo sul genere di esperienza bensì su coloro che possono effettivamente
vedervi (studenti in aula presenti) quindi restringo sull‘attualità. Che voi siate o non siate presenti è
contingente e il concetto che posso utilizzare per accumunare gli studenti in aula presenti il 13/12/2022 è
vincolato sul fatto contingente che voi siate presenti. La restrizione più forte che posso fare all’estensione di
un concetto non è tanto sul contenuto ma è sul carattere posizionale degli oggetti che ci stanno dentro. Se gli

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oggetti che ci stanno dentro sono oggetti di fatto esistenti quel concetto si applica solo a loro (il più stretto
che c’è).

Questo tipo di concetto è un concetto, ha una generalità ma una berlina che oltre ad essere empirica e
contenutistica è anche contingente ed è il caso più stretto di generalità. È stretto come estensione, mi vincola
molto all’esempio di partenza e non posso usare fantasia. Inoltre, quello che dico sugli studenti presenti
attualmente in aula vale solo per loro, quindi, non ha una validità pura per tutti ma solo per loro. Il caso più
largo invece è quando io uso un’estensione grandissima di cui fanno parte oggetti possibili in maniera pura
ovvero oggetti di fantasia. La sua validità è ampissima e purissima. Solo dalla fantasia nasce la necessità.

Dopo aver riformulato le nozioni di necessità e contingenza, possiamo riformulare quelle di a priori e a
posteriori che nella fenomenologia non sono distinzioni rigide ma il confine tra le due è mobile. A priori non
significa valido aldilà dell’esperienza ma qualcosa che vale per un certo numero di esperienze che non devo
per forza elencare ad una ad una. Avere una certa età vale per tutti gli umani viventi, non mi serve andare a
conoscerli tutti quanti 8 miliardi ma per tutti coloro ancora in vita. In questo senso è a priori.

La distinzione tra a priori e a posteriori in Husserl è mobile quindi ha varie gradazioni che separano l’a
priori formale dall’a posteriori fattuale e contingente. Il fatto che Giovanni stia qui è il più a posteriori
possibile ovvero è il più contingente possibile. Il fatto invece che è vero che Giovanni sta qui oggi è un po’
più a priori perché varrà anche domani. Noi abbiamo questa ampia gamma di cose intermedie e l’a posteriori
contingente. In mezzo ci sono delle gradazioni ordinandosi per grado di sostituibilità. Voglio dire che A=A
è un’espressione che può essere sostituita i cui elementi possono essere sostituiti con tutti gli oggetti possibili
a cui posso pensare. Giovanni sta qua invece è un’espressione che invece ha un soggetto che non può essere
sostituto da nessun altro. Il massimo di a posteriori è rappresentato dal non sostituibile.

Il massimo grado di sostituibilità è rappresentato dalla generalità, dalla forma a priori di A=A. In mezzo ci
sono molti stati intermedi. Questa melodia ha un certo tono e una certa intensità. Ma non solo la melodia di
questa canzone ma anche la melodia di ogni canzone ha un certo tono ed intensità, ogni nota di ogni melodia
di ogni canzone ha una certa intensità e tono e quindi ho possibilità di sostituire gli oggetti di cui parlavo
all’inizio con tantissimi altri. Posso sostituire ma sempre in determinati limiti.

Non abbiamo alcuna connessione con la realtà attuale quando forniamo concetti che non sono ristretti né
contenutisticamente né sulla posizionalità dell’oggetto. Se sto facendo il concetto di rosso non ho alcun
legame con la realtà attuale. Se sto parlando degli studenti attualmente presenti ce l’ho invece.

Io non posso avere dal punto di vista fenomenologico una teoria degli esempi, gli esempi sono quelli che io
uso nella costituzione dei concetti. I concetti sono quelli che valgono per gli esempi. Io quando parlo della
teoria logica dei concetti e degli esempi parlo prima della teoria della formazione dei concetti e quindi parlo
delle operazioni che ciascuno di noi deve fare per raggiungere i concetti. Quindi è una teoria operativa dei
concetti.

159
27 LEZIONE

Nella lezione precedente abbiamo provato a chiarire l’interdipendenza tra concetto ed esempio. La
teoria Husserliana dei concetti è una teoria operativa perché ci racconta sempre come si fanno a
produrre questi concetti. I concetti sono delle lavorazioni che vengono compiute sui predicati. Le
generalità a cui si arriva lavorando sui predicati hanno come risultato l’identità di un predicato
generale che viene applicato a molti soggetti. Questo primo risultato che è l’identità di un predicato
generale si scarica sui soggetti. Ha una certa età è un predicato generale identifico per una serie di
soggetti, i quali assumono a caduta anche loro un’identità generale in virtù della generalità del
predicato. Il modo in cui questi soggetti assumono questa identità generale non risolve la
individualità dei soggetti ossia l’individuo non si ottiene per specificazione del generale.

La teoria dei concetti appena esposti è una teoria operativa ovvero ci spiega come si fa ad ottenerli,
proprio perché è operativa implica una teoria specifica degli esempi. Dice Husserl che non nega la
difficoltà del metodo per la corretta scelta degli esempi di partenza. Questa difficoltà è tanto più
rilevante quanto più i concetti a cui vogliamo arrivare sono vincolati sugli elementi di partenza. Se
io voglio arrivare a rosso l’esempio di partenza è irrilevante perché il rosso come concetto può
essere il risultato di un procedimento che parte da qualsiasi cosa rossa non solo qualcosa di
intuitivamente rosso ma anche qualcosa di fantasticamente rosso. Non vi è nessuna difficoltà nella
selezione dell’esempio. Questo è un concetto semplice.

Se pensiamo a concetti che implicano una relazione come il concetto della differenza tra verde e
rosso questo concetto è più difficile da raggiungere ed implica un maggiore vincolo sull’esempio di
partenza ergo implica una maggiore difficoltà sulla selezione dell’esempio. Se prendo un concetto
semplice come rosso è ovvio che possa partire da dove mi pare invece se voglio arrivare ad un
concetto appena più complicato come quello della relazione tra rosso e verde la selezione
dell’esempio di partenza è determinante.

Uno dei temi che ha accompagnato la prima ricezione della fenomenologia fu molto segnata da una
cosa che Husserl ripeteva molte volte ossia l’asserzione “un corpo non può essere verde e rosso
nello stesso tempo” fosse un’asserzione non semplicemente analitico-formale ma un’asserzione
contenutistica. Io non sto dicendo che una cosa non può avere due predicati che si contraddicono al
medesimo tempo (principio di non contraddizione). Non può essere esemplificato al solo principio
di non contraddizione. Perché darci prova di che cos’è quella roba che passa alla storia come a
priori materiale?

Husserl dice che ci sono leggi che riguardano le forme e delle leggi che hanno a che fare con i
contenuti. Quelle logiche riguardano i principi della logica formale tradizionale aristotelica. Però
che un corpo non possa essere al contempo rosso e verde non è una legge formale ma contenutistica
cioè qualcosa che vale sempre per una certa gamma di contenuti e vale solo per quella gamma di
contenuti e non per altro. Perché è importante l’esempio del verde e rosso? Ci fa capire in che senso
l’esempio da cui partiamo è importante e in che senso quella è una legge sempre valida ma per un
certo gruppo di contenuti.

160
Un certo Hering, al quale dobbiamo una certa raffigurazione del cerchio dei colori, scopri una legge
di opposizione tra i colori non fondata su meccanismi psicologici ma fondata su meccanismi ottici
quindi fenomenici. L’opposizione cromatica non dice che questi due colori sono distinti ma dice
che sono distinti in maniera tale che nessuno di noi potrebbe vedere e immaginare un rosso
verdastro oppure un verde rossastro. Mentre si può immaginare ad esempio un verde giallognolo,
non si può immaginare né un verde rossastro né un rosso verdastro. È un’opposizione ottica,
fenomenica ed empirica. Un corpo non può essere ne vede né rosso nello stesso tempo. Non si era
scelto un esempio a cavolo ma che venisse fuori da un’attestazione di ottica fenomenica.

Se devo arrivare a concepire la differenza tra verde e rosso non posso partire da dove voglio ma
devo partire da un determinato esempio. Se devo arrivare a concepire l’idea di una legge per i
contenuti e non le forme devo sapere da dove devo partire. È una cosa complicatissima. Se devo
arrivare ad un concetto come il rosso poco conta dove parto. Se devo concepire una cosa come
l’opposizione cromatica devo sapere dove devo partire. Quindi abbiamo concetto-operazione-
esempio.

Adesso questa concatenazione non significa che non vi sia una validità propria del concetto, non
significa che questo punto di arrivo non abbia una propria validità. La sua validità ce l’ha dal
momento in cui funziona come aggregatore dei predicati che ne discendono e dell’estensione degli
oggetti a cui si può attribuire. La funzione di rosso è quella di mettere in ordine tutti i sotto concetti
di rosso che abbiamo e di mettere in ordine l’estensione a cui si può attribuire. La sua validità non è
compromessa dal processo che ci ha fatto arrivare al concetto. La sua validità non ammette
eccezioni. Non posso attribuire il rosso a qualcosa che non sia un corpo cromatico quindi lo posso
attribuire sbagliando ad un corpo che non è rosso ma faccio bene ad attribuirlo al corpo ma non
posso attribuire ad esempio il rosso ad un suono ma posso dire che un suono mi fa venire il colore
rosso ma non posso dire che un suono è rosso. Altro è dire che mi sovviene l’idea del rosso quando
sento un suono. La validità del concetto è senza eccezioni, è validità a priori nell’ambito per cui il
concetto varia.

Noi del tipo abbiamo parlato sin dall’inizio perché abbiamo detto che anche la cosa più estranea del
mondo ci era familiare tipicamente. Abbiamo inteso il tipo come il fatto che qualsiasi oggetto
avesse un orizzonte esterno e uno interno. Ci bastava questo per poter utilizzare la mansione di tipo.
La familiarità tipica di una penna sta nel fatto che mi aspetto da quella penna che si comporti come
una penna che quindi abbia un orizzonte interno. L’orizzonte interno è un ambito di caratteristiche
attese che può essere più o meno pieno a seconda di quello che noi sappiamo di quell’oggetto. Se
abbastanza pieno gli elementi vaghi che noi ci aspettiamo che quell’oggetto abbia sono
caratteristiche possibili ma non puramente possibili bensì problematicamente possibili. Una penna
so per certo che scriva mi aspetto che abbia un tappo. Queste due caratteristiche non sono possibili
in maniera pura ma problematicamente possibili.

Sappiamo anche il tipo aveva qualche impatto sul linguaggio ossia che il tipo costituiva come e più
degli altri prodotti dell’esperienza predicativa un tappeto per il linguaggio vale a dire per la nostra
capacità di lessicalizzare i riferimenti della nostra esperienza (dare i nomi alle cose). La nostra
esperienza ha un riferimento che non è immediato neanche il tipo. Il tipo c’è se c’è qualcosa a cui
mi riferisco. Ciò che è immediato dal tipo è piuttosto la possibilità di riconoscere qualcosa dandogli
161
il medesimo nome delle altre cose simili. Il vero nesso tra esperienza e pensiero sta nella sintassi
(distinzione soggetto e predicato). La semantica è qualcosa di più elevato che riguarda il portato
effettivo, dimostrabile, conformabile e giustificabile tra sintassi e semantica ossia il lessico. Il modo
in cui le parole si organizzano oltre che sintatticamente anche fraseologicamente. Questo porta ad
un grandissimo peso al tipo.

Vedremo la funzione lessicale di tipo e la funzione di concetto che il tipo svolge. Husserl da una
chiara esemplificazione di questo. Il tedesco a deferenza dell’italiano utilizza un termine diverso per
l’attività di mangiare degli animali. In tedesco c’è essen per il mangiare degli uomini e fressen per
il mangiare degli animali. Utilizzo che fa un parlante tedesco del verbo fressen dopo aver utilizzato
il sostantivo Hund che è cane in tedesco. Dunque, un tedesco per riferissi ad animale utilizza il
verbo fressen come verbo. Costruisce il lessico su una frase tipica. Noi vediamo chiaramente come
funziona sul piano del lessico il tipo perché funziona sul piano dell’esperienza, infatti, utilizzo
fressen e mi aspetto che il cane mangi perché mi aspetto che abbia una dentatura. Non l’ho mai
visto questo cane ma mi aspetto che mangi. La funzione del tipo è essenziale per la costruzione
del lessico.

Per Husserl l’uso del tipo è fondamentale per stabilizzare i nomi dei colori come rosso mattone,
verde prato… In tutti questi casi tipizziamo un colore perché il lessico dei colori è molto variabile:
• non possono essere esistere nomi per tutti i colori;
• è anche l’esperienza che facciamo che è fluida.

Già vi era chiaro come il tipo avesse un’enorme funzione sul lessico, sulla competenza lessicale che
non è la competenza sintattica o semantica ma la competenza di scegliere la parola giusta. Non è
tanto costruire bene la frase o dire la cosa giusta ma scegliere la cosa giusta e questa competenza ha
una base nel tipo perché il tipo è quella prima concettualizzazione che ha una solida base
nell’esperienza ante-predicativa.

La concettualizzazione tipica è il risultato di questa operazione io vivo in questo mondo dato per
scontato, chiamo le cose con un nome che può essere giusto o sbagliato, è una questione semantica
e non lessicale (posso prendere un gatto per un cane e parlarne come se fosse un cane, quindi, è
sbagliato semanticamente). Lessicalmente sarebbe stato scorretto attribuire ad un cane dei termini
da gatto come il cane miagola che è lessicalmente scorretto prima che semanticamente scorretto.

Questo tipo che forma la base della competenza lessicale è la prima concettualizzazione a cui noi
abbiamo accesso. Come avviene tale concettualizzazione? La costruzione di un concetto di tipo
consiste nella riflessione sull’orizzonte interno che io attribuisco ad un qualche oggetto. Ci ritorno
su, rifletto sul fatto che io ho attribuito un certo orizzonte ad un certo oggetto e la riflessione su
quell’orizzonte da come risultato una concettualizzazione tipica. Questo concetto di tipo è molto
solido perché viaggia nell’esperienza ante-predicativa e ha un’immediata rispondenza sul piano del
lessico. Funziona da collante tra la competenza lessicale e l’esperienza. Abbiamo numerosi studi
che mettono insieme competenza lessicale e tipo.

Il fatto che il tipo abbia un’eminente funzione lessicale lo dimostra un altro esempio che Husserl fa
è la storia della somiglianza di famiglia. Wittgenstein si domanda che cos’è un gioco? Gli scacchi
162
sono un gioco, la briscola è un gioco e il baseball è un gioco. Cosa hanno in comune? Quasi niente.
Se dovessi dare una definizione di gioco e dovessi dare questa definizione partendo dai tre esempi
fatti sarebbe una definizione impropria. Non c’è nessun carattere necessario e sufficiente che
condividono tutti e quattro. Piuttosto questi tre che non hanno un concetto che li accomuni o detto
meglio quando qualcuno dice che gli scacchi sono un gioco né da una definizione concettuale non
possedendo del concetto gioco una definizione. Gioco per Wittgenstein è piuttosto il nome che
raggruppa una famiglia di prassi che, come in tutte le famiglie, ha dei tratti di somiglianza.
Wittgenstein affianca al concetto classico definitorio un’altra idea di concetto che non ha bisogno
della definizione per essere usato ma che piuttosto sta per dei caratteri di somiglianza che vi sono
tra le sue esemplificazioni.

Quello che fa il concetto tipico di Husserl è una cosa simile a quello che fa la somiglianza di
famiglia in Wittgenstein. Si basa anch’esso sulla sintesi per somiglianza, è il frutto di una
concettualizzazione e ad esso non corrisponde una definizione e ha una corrispondenza immediata
sul lessico. La definizione deve possedere i carrettieri necessari e sufficienti ossia quelli che hanno
solo gli elementi di quel concetto e che non possono non avere gli elementi di quel concetto. Il
concetto tipico non ha questa roba qua anzi può contenere anche caratteri extra essenziali. Ad
esempio, nella definizione vi è l’appartenenza dell’animale balena alla classe dei mammiferi.
Questo è l’esempio dell’effetto che il tipo ha sul lessico che ha assorbito una tipizzazione extra
essenziale derivante dal fatto che è lampante più di ogni altra cosa che essa viva nel mare. È del
tutto irrilevante che essa sia un mammifero. La definizione che gli abitanti di un ?? danno di balena
è pesce con la coda dritta che spruzza perché questa definizione basta. Per chi va a caccia di balene
è del tutto irrilevante che siano mammiferi.

Il lessico ha base sui tipi e viene facile capire la correlazione tra esperienza, lingua e concetti
laddove i concetti di cui parliamo sono concetti tipici mentre il vero concetto di balena (definizione)
è gigantesco mammifero cetaceo… dove quello che ho messo nella definizione se non vale per una
sola balena quella definizione non funziona. Stiamo parlando di tipi extra essenziali, infatti, il
termine balena è un termine che si basa su tipi extra essenziali.

L’andamento della storia naturale empirica è quello di provare ad arrivare ad una tipizzazione
essenziale e quindi di quei caratteri che non possono non esserci ma alla base di questa tipizzazione
essenziale vi sono i tipi extra essenziali. I concetti scientifici possono contenere solo un numero
finito di caratteristiche determinate.

Sono i predicati che ci aprono strada ai concetti. I predicati sono espressi o da aggettivi o da
sostantivi. Il maglione è rosso o il maglione ha le maniche. Dobbiamo passare a quel meccanismo
che è la variazione eidetica. Quel che sappiamo è che a partire dall’esperienza possiamo formare i
concetti, possiamo formare le generalità che sono tipiche o empiriche. A partire dall’esperienza
abbiamo delle modalizzazioni che alla fine sono due ovvero il fatto e la possibilità e non arriviamo
alla necessità. I concetti tipici ci dicono come potrebbero essere le cose ma non ci dicono come
necessariamente è qualcosa. Husserl dice che le generalità empiriche ossia i concetti tipici sono
contingenti e che sono assolutamente distinti dai concetti che pretendono di avere necessità a
priori. I concetti tipici sono contingenti perché sono contenutici e i concetti tipici sono contingenti
perché in alcuni casi si riferiscono a delle posizioni di realtà (tutti quelli presenti a lezione
163
prenderanno 30 e lode e questo concetto è vincolato ad una posizione di realtà ossia bisogna esserci
per stabilire cosa significa). Un concetto empirico è contingente quindi legato ad un fatto (gli alunni
sono presenti).

Il concetto opposto a questa contingenza è quello di necessità a priori. Bisogna capire come ci si
arriva. Evidentemente la necessità a priori è prerogativa di un altro tipo di concetto perché il
concetto formato fino ad ora non può essere necessario a priori. I concetti tipici si aprono dopo e
partono da dati di fatto passando per possibilità problematiche e non arrivano alle possibilità
aperte. I concetti puri sarebbero quelli che hanno una estensione aperta sin dall’inizio cioè valgono
in tutti casi (non come il mammifero che vale per una cerchia ristretta). Nel concetto puro il sempre
di nuovo è un elemento fondamentale, il così via è un elemento fondamentale. Se dico che la balena
è un mammifero ed esiste una balena e poi un’altra e poi un’altra e sempre di nuovo una balena non
ho detto niente di importante sulla balena. Se dico invece del numero, che esistono sempre di nuovo
dei numeri e così via ho detto una cosa fondamentale. I numeri naturali sono regolati dal principio
del successore e così via. Qui il lavoro si fa sulle possibilità aperte, ma come è possibile che
lavorando sulla possibilità aperte questo caccia la necessità?

Si arriva alla necessità perché la necessità a cui ha mente Husserl è una necessità per assoluta
sostituzione. Cioè quello che mi dicono questi concetti, che contengono un’estensione formata di
possibilità pure e che al posto delle possibilità pure, è che ci può stare quello che voglio. Quello
che vale tra le possibilità pure che stai immaginando ora varrà sempre per tutto ciò che tu possa
pensare. È una generazione della possibilità per sostituzione completa. Le possibilità pure che
stanno in questi ambiti concettuali sono i segnaposto per tutto ciò che potreste immaginare. Per
questo i concetti puri godono di una possibilità a priori.

Il modo in cui Husserl rende il sempre di nuovo un ingrediente fondamentale nella produzione dei
concetti puri è la libera variazione della base della visione delle essenze. La libera variazione
significa che puoi variare per far sì che attraverso fantasia puoi immaginarti ciò che ti pare. Tutto
ciò che puoi pensare può essere sostituito a queste possibilità pure. La base di partenza c’è anche
qui ma deve essere irrilevante. Mentre prima si sceglieva un esempio il cui contenuto era rivelante
qui invece esempio di partenza deve essere concreto ma il cui contenuto è irrilevante.

“Si può partire da un qualsivoglia esempio ma che assuma al contempo il ruolo di modello guida
del punto di partenza della produzione di varietà aperta all’infinito di varianti”.

Husserl è matematico di formazione. Le lezioni di geometria ai tempi di Husserl venivano fatte su


modellini che nella maggior parte dei casi non restituivano per intero la forma del solido che andava
studiato ma soltanto forniva una base di partenza. Quei docenti di geometria non volevano farti
vedere ciò che era quella figura ma volevano farti vedere dove dovevi partire per immaginarla. Qui
Husserl dice questo, prendi una cosa e utilizzala come modello di guida. L‘uso di modello non è
causale. È il punto di partenza per la produzione di una varietà aperta all’infinto di varianti.

Essa si basa sulla variazione. Ci facciamo guidare dal fatto come modello per la sua trasformazione
in pura fantasia. Bisogna ottenere nuove immagini di fantasia che sono tutti simili all’archetipo.
Produce varianti libere quanto si vuole. Così che ognuna di esse alla stregua del medesimo processo
164
di variazione appaia nel modo dell’esperienza vissuta soggettiva. Ogni immagine che mi faccio è
caratterizzata come una cosa che va avanti quanto ti pare.

Abbiamo visto che dobbiamo partire da una cosa e poi ci dobbiamo immaginare tutte le varianti che
possiamo nella consapevolezza che non esauriscono le variazioni possibili. Parti da una base fai
questa variazione ad libitum ma ciò non basta. Devi fare un’altra cosa ovvero avere uno sguardo
fisso su un punto ovvero su ciò che in queste variazioni non cambia quindi non sull’essenza
nascosta di tutte le cose ma su ciò che non cambia in tutte le varianti che devi immaginare. Ogni
figura e l’intero processo è ad libitum ma la cosa che devi capire è ciò che non cambia nelle figure e
soprattutto nel processo che stai facendo. Questo è l’invariante che è l’essenza di cui parla
Husserl. Si mostra come questa pluralità di figure ripetute iterate sia attraversata da un’unità quindi
che in tali libere variazioni di un archetipo si conservi necessariamente come un invariante.
Effettivamente ogni volta che quella cosa l’hai immaginata diversa ti sei trovato qualcosa di uguale.
In tutte le variazioni che hai fatto ti accorgerai che quella cosa non cambia mai e se quella cosa non
cambia mai è un invariante necessaria.

Per ottenere un’idea di una cosa devi spingerla fino quasi a farla esplodere. Essenza come invariante
di questo processo di variazione tu la cogli quando stai per passare da una cosa all’altra e quindi
vuoi pensare all’invariante. Quando stai facendo variare la cosa così tanto da far diventare ad
esempio la sedia un cavallo, un divano. Questo significa portare la variazione all’estremo. È
indifferente cosa diversifichi le varie varianti ma ciò che conta è quello che hanno in comune
ovvero l’invariante. L’essenza generale risulta ciò senza il quale non può essere pensato
quell’oggetto e quindi senza il quale non potrebbe essere fantasticato intuitivamente come tale.
Questa essenza generale è l’eidos in senso platonico presa nella sua purezza e libera da qualsiasi
interpretazione metafisica. Non si attribuisce all’eidos un genere d’essere diverso ma una funzione
diversa che è l’invariante.

Husserl finisce questa parte ritornando alla critica dell’astrazione moderna e gli rimprovera di non
aver capito esattamente questa pluralità di fattori ovvero questo insieme di operazioni che si fanno
per arrivare ad un concetto. Non basta spellare una cipolla per arrivare al nocciolo dell’idea. Tu non
arriverai mai al nocciolo se mentre vari non pensi a ciò che non varia. Puoi anche variare ad
libitum ma se non guardi a ciò che non varia tu non giungi al concetto. Bisogna guardare a ciò che
non varia delle variazioni e non ciò che non varia dell’oggetto da cui siamo partiti! È ciò che non
varia nelle variazioni ad essere necessario ed a priori.

Le operazioni che facciamo quando facciamo la variazione non si riducono solo alla variazione in
sé stessa ma facciamo 3 cose ovvero scegliamo la base, facciamo la variazione e guardiamo a ciò
che non cambia. Questa terza cosa è quella che merita il nome di visione di essenza, è il riferimento
a ciò che non cambia ma si può sbagliare. La visione di essenza pretende di essere la messa a tema
di ciò che è necessariamente e sempre ma non è infallibile. Non si tratta di un vedere sensibile. Si
tratta di un vedere nel senso di un riferimento a ciò che non cambia.

C’è un elemento interessante ovvero se l’invariante è qualcosa a cui posso riferirmi quest’invariante
è qualcosa di individuale che è distinta dall’invariante di altre variazioni. Ne deriva che le idee
sono individuali e distinte. Se l’idea è l’invariante di un processo di variazione, un altro processo
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di variazione avrà un’altra invariante e queste due invarianti sono distinte. Che siano individuali
non toglie nulla alla loro generalità. Individualità non ha a che fare con una quantità estensiva ma
sono generali perché valgono per tutto il loro campo che è aperto però il loro campo è diverso dal
campo di un’altra variante.

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28 LEZIONE

CONCETTI ESSENZIALI: idea di tipo/generalità tipico empirica e generalità eidetica


Soprattutto la seconda, è un’acquisizione molto tarda e fa parte di un certo periodo della
fenomenologia. Gli strumenti che aveva prima Husserl non riuscivano ad arrivare a quell'esito;
c’era bisogno di stabilire il nesso che c’è tra operazione, concetto ed esempio, successivamente
c'era bisogno di definire il primo frutto di questo nesso che è il tipo, per poi garantirsi il passaggio
oltre.
C'era bisogno di mettere in connessione questi due tipi di concetti con il loro valore modale. Il tipo
non garantisce nessuna necessità perché ha a che fare con punti di partenza contingenti e lavora su
possibilità problematiche, le quali hanno a favore e contro dei motivi empirici; se si fa così, io dal
tipo non posso arrivare ad un enunciato che abbia carattere di necessità.
Questo non ha a che fare con la vaghezza o poca esattezza del tipo. Il tipo non è meno affidabile
dell'idea perché è vago, il tipo è molto più preciso dell'idea (il tipo è il tipo di rosso, che è più
preciso di un rosso in generale -es. rosso mattone-). Non è la sua approssimazione, anche perché a
cosa dovrebbe approssimarsi il tipo? Non c'è un metro di approssimazione o un punto finale a cui
dover arrivare.
Il tipo ci consente di formulare giudizi con una validità limitata PER COME SONO FATTI, perché
abbiamo una forte restrizione del contenuto e perché l’esempio da cui parti (tratto dall’esperienza) è
contingente: il tipo non può dare base per enunciati con validità necessaria. Fornisce la base per
questi enunciati la visione d’essenza, invece. Questo perché vi è una divisione tra generi d'essere in
cui da una parte ci sono le cose necessarie senza le quali non è possibile che qualcosa sia e dall’altra
parte le cose contingenti che si appiccicano a quelle necessarie; no, perché anche l'essenza è un
prodotto di un'operazione, è il parto maschio di una nuova teoria dell'astrazione. Teoria in cui non si
tratta di sbucciare, ma realizzare delle variazioni assistiti da un metodo che è quello della scelta di
un punto di partenza; devi trovare una strada che porti ad estreme conseguenze una variazione e
devi anche avere lo sguardo fisso su ciò che non cambia.
Invariante: non è un pezzo particolare dell'insieme delle variazioni, possiamo trovare l'invariante
nel processo della variazione. C’è un’operazione di variazione e ciò che non varia qui è
l’operazione che faccio col passaggio, ma ci può essere un’invariante tra le variazioni. L’invariante
è ciò che tu scopri, è quello che tu, animato dal desiderio di trovare l'invariante, scopri mentre fai le
variazioni.
Il campo invariante delle variazioni non è una porzione delle variazioni, ma è come più o meno
insegna la nozione matematica di limite, tutto ciò che sta dentro il limite.
Questa è l’idea che sta alla base della variazione eidetica e della visone dell’essenza, la quale non è
che preesista alla variazione; non si può fare una comparazione tra il risultato dell’operazione e
l’operazione stessa.
Scrivo il saggio, il quale c’è dopo una settimana che l’ho scritto: non sa senso confrontare il saggio
con la settimana che ho impiegato per scriverlo.
L'essenza se non ci pensi è come se non ci fosse, se non la scopri non te ne accorgi. Quando l’hai
trovata si presume che essa abbia la validità che VA AL DI LA’ DEL FATTO CHE L’ABBIA
TROVATA.
Se io dipingo un quadro, non è che alla fine dico “com’è venuto bene perché c’era il sole”.
“Intuizione” richiamava un movimento irrazionalistico.
Digressione
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La filosofia fu per il primo novecento una setta con caratteri fortemente religiosi e complicazioni
politiche fortemente razionali…
NEL PRIMO NOVECENTO LA FENOMENOLOGIA NON ERA VISTA DI BUON OCCHIO,
MENTRE NEL SECONDO NOVECENTO VIENE COMPRESA ED ACCOLTA…
“Esperienza e giudizio” viene letta e recensita tra ‘38 e ‘48 SOLO negli USA, questo ha un effetto
impattante. Gli effetti principali che ha questa lettura sono su 3 autori: alfred schutz, felix caufzman
e aron mulvich (tutti nomi che ho scritto rigorosamente in modo sbagliato). Questo pezzo di storia
gli europei non lo conoscevano, l’Europa scopre questo testo nelle pagine di Merleau-Ponty…
La storia di esperienza e giudizio è coincidente con la storia della fenomenologia della
conoscenza, con un'idea che è stata quella di privilegiare la prima sezione di questo libro; gli effetti
erano teoricamente evitabili. Uno dei problemi che si pone oltre all'opposizione valoriale tra
esperienza e scienza è proprio quello della distinzione tra tipo ed eidos.
Se abbiamo uno sguardo fisso solo sulla prima sezione ci sfugge il rapporto tra tipo e idea.
Leggendo l’intero testo riusciamo a capire come l'idea non è così tanto lontana dal tipo. E riusciamo
a capire quel livello intermedio di ciò che viene tipizzato; questa è la grande fascia che parte
dall'esperienza comune e arriva alle scienze empiriche, essa è accomunata dalla tipizzazione. Si
vede molto nelle scienze sociali, in cui ad es Persona giuridica è una tipizzazione.
Persona giuridica: colui che è imputabile o autorizzato ad atti giuridici.
Una visione complessiva di “esperienza e giudizio” ci restituisce uno strumento .. per guardare che
cos’è un tipo. Precedentemente le nozioni sul tipo erano più scarse.
Il tipo è legato ad un genere letterario che è la commedia, non la tragedia.
Il tipo è un concetto empirico, non è il risultato di un'esperienza.
Non produciamo tipi ma vediamo tipi in azione, è il livello minimo di concettualizzazione. Il tipo è
il livello minimo di concettualizzazione; ha una funzione molto utile se pensiamo che i termini
coinvolti in un giudizio sono sempre termini generali.
Il cane è un animale. CANE è un termine generale
Quel tipo di generalità è un fatto scontato, CANE è un nome comune. La generalità espressa dalla
parola CANE è una generalità tipica. Chi usa il termine comune CANE non ne sa dare una
definizione (es bambini), quel termine esprime una generalità tipica. Le differenze tra la nozione di
cane e la definizione di cane, quest’ultima ha un portato diverso e una validità diversa: non perché
la seconda è più precisa/meno vaga della prima, piuttosto gli elementi di cui sono composte le due
operazioni che facciamo (usare cane come termine generale e dare una definizione di cane da
zoologo o veterinario) sono diverse.

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