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IL SUBLIME DEL REALE OVVERO MATERIALISMO E TEOLOGIA

di Felice Cimatti

Si chiamano elementari le particelle di cui non si


conosce la struttura1.

Di che cosa stiamo parlando?

L’obiettivo della Object Oriented Ontology è ambizioso


ma irrealizzabile: descrivere le cose come sono in sé stesse, ma
appunto descrivendole. La descrizione è una attività affatto
soggettiva, mentre le cose come sono in sé stesse (ammesso
che qualcosa come una “cosa in sé stessa” esista davvero) per
definizione non hanno nulla a che fare con l’eventuale
descrizione che ne possiamo fare. Il problema si potrebbe
risolvere, almeno in linea di principio, se fossero le cose stesse
a scrivere un libro sulla propria ontologia. Però i libri di
ontologia li scrivono gli esseri umani, non le cose.
Conseguenza: le uniche cose di cui ci possiamo occupare
sono le cose-per-noi che ne parliamo e scriviamo. Secondo lo
«speculative realism»2, al cui interno rientra la OOO, quello
che abbiamo appena scritto è un perfetto esempio di ‘fallacia
correlazionale’, cioè della tesi che consiste nel «negare ogni
credito alla pretesa di considerare le sfere della soggettività e
dell’oggettività l’una indipendentemente dall’altra»
(Meillassoux 2012, 18). Il problema è che nessun teorico della
OOO è mai riuscito a spiegare davvero come si fa a togliere di
mezzo il soggetto. Anche il più spietato critico del
correlazionalismo continua a scrivere libri sulle cose, mentre
queste rimangono ostinatamente mute: «OOO tries to
supplement modern science with a premodern ontology
which describes the “inner life” of things» (Žižek 2016, 176).

1
Fermi 2009, 124.
2
Niemoczynski 2017.
198 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

L’OOO non esce da questa aporia: il desiderio tutto moderno,


che solo chi viene dopo Kant può desiderare, di arrivare a
‘toccare’ le cose stesse senza l’intralcio del soggetto
trascendentale da un lato; usare produttivamente la pre-
moderna categoria di cosa-in-sé che proprio Kant ha mostrato
essere del tutto inutilizzabile come categoria scientifica e
filosofica dall’altro lato:

The problem with subjectless objects is not that they are too
objective, neglecting the role of subject, but that what they
describe as subjectless world of objects is too subjective,
already within an unproblematized transcendental horizon.
We do not reach the In-itself by way of tearing away
subjective appearances and trying to isolate “objective
reality” as it is “out there,” independently of the subject; the
In-itself inscribes itself precisely into the subjective excess,
gap, inconsistency that opens up a hole in reality (Ibidem).

Il punto è, come vedremo, che di questa aporia l’OOO in


fondo ne è consapevole. Ma allora, che cosa si vuole dire
quando ci si riferisce alle cose così come sono senza di noi?
La tesi che proveremo a discutere in questo lavoro è che in
realtà il problema della OOO non è scientifico, né filosofico
né tantomeno estetico: è un problema teologico. L’OOO è
l’ultima incarnazione della teologia. Il problema non sono le
cose, è Dio.

Esistenza e indipendenza

Di che si parla, quando si parla di OOO, cioè della Object


Oriented Ontology? Mettiamo insieme un po’ alla rinfusa
alcune delle risposte più comuni: realismo, stop alle
chiacchiere postmoderne, materialismo, le cose invece dei
soggetti che le conoscono, i fatti al posto delle parole, e così
via. Le tesi delle numerose versioni della OOO sono più o
meno queste3, tuttavia la sensazione è che la posta in gioco

3
Si veda, solo per fare qualche esempio di alcuni fra i titoli più
Felice Cimatti 199

non possa essere davvero questa. Perché affermare con enfasi


che una bottiglia, ad esempio, “è davvero una bottiglia” e non
è soltanto una “interpretazione” della bottiglia, è sicuramente
convincente, ma anche un po’ deludente. Si tratta di una tesi
talmente condivisa e condivisibile che lascia le cose (sic)
esattamente come stavano prima che qualcuno si prendesse la
briga di ribadirlo: chi, infatti, ha davvero mai negato che
quando qualcuno dice “mi passi la bottiglia, per favore” si stia
riferendo proprio alla bottiglia materiale di vetro che contiene
l’acqua (H2O), e non l’idea o la rappresentazione mentale
dell’acqua? Allora, qual è la posta in gioco della OOO?
Facciamo un passo indietro, allora, al realismo ‘normale’.
Sono due le tesi che nessuno che si dica realista non può non
fare sue: «First, there is a claim about existence. Tables, rocks,
the moon, and so on, all exist, as do the following facts: the
table’s being square, the rock’s being made of granite, and the
moon’s being spherical and yellow. The second aspect of
realism about the everyday world of macroscopic objects and
their properties concerns independence. The fact that the moon
exists and is spherical is independent of anything anyone
happens to say or think about the matter» (Alexander 2019).
Il mondo esiste, e la sua esistenza è indipendente da quello
che possiamo dire o pensare del mondo. Sembrano tesi
ragionevoli, così ragionevoli che verrebbe da chiedersi chi le
possa avere mai negate, ammesso che negarle abbia effettive
conseguenze pratiche (anche chi sostiene che esse est percipi, ad
esempio, se ha fame e non è vegano mangerà una ‘vera’
bistecca). Tuttavia come sappiamo negli ultimi anni è tutto un
fervore di ontologie (già questo plurale dovrebbe insospettire)
contro epistemologie (qui invece il plurale non pone
problemi), di realismi e nuovi realismi. Questo significa,
evidentemente, che la questione del realismo è ancora viva,
anche se forse più per le sue implicazioni etico-politiche da un
lato (rispetto al tema della post-verità), ed ecologiche
dall’altro (l’antropocene pone il tema della nostra invadenza

rappresentativi: Harman 2002; Bennett 2010; Bryant 2011; Niemoczynski


2017. In Italia si segnala il ‘nuovo realismo’ di Maurizio Ferraris (2012).
200 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

rispetto al mondo naturale), che per il dibattito gnoseologico.


Ma forse, e sarà questa la tesi che proveremo a discutere in
questo intervento, la posta in gioco è ancora più profonda:
L’OOO parla non delle cose, bensì di Dio.
Riprendiamo intanto i due punti fermi del realismo,
l’esistenza del mondo, e l’indipendenza del mondo da quello
che noi ne possiamo pensare. Si tratta di due presupposti fra
loro connessi, perché l’esistenza interessa in quanto è
indipendente da noi. Una esistenza che fosse in qualche
modo dipendente da noi – come ad esempio quella delle
illusioni ottiche, oppure dei sogni – non sarebbe reale nello
stesso senso in cui possiamo dire che è reale il morso di un
cane oppure un terremoto. La posta in gioco del realismo è
quindi l’indipendenza del mondo rispetto al nostro conoscere
e parlare di quello stesso mondo. In questo senso il realismo è
un problema ancora attuale, perché l’epoca contemporanea è
forse l’epoca più idealista che sia mai esistita. Si pensi al
mercato finanziario, in cui vengono venduti (per lo più
attraverso procedure algoritmiche automatiche; vedi
Laumonier 2018) entità del tutto immaginarie come i futures o
credits default swap (CDS)4. In questo senso l’idealismo, cioè la
dottrina che sostiene il primato (conoscitivo e/o ontologico)
del mentale rispetto al mondo reale, è il vero bersaglio
polemico di quella che viene chiamata OOO, cioè Object
Oriented Ontology:

As OOO sees it, the true danger to thought is not relativism


but idealism, and hence the best remedy for what ails us is not
the truth/knowledge pair, but reality. Reality is the rock
against which our various ships always founder, and as such
it must be acknowledged and revered, however elusive it may
be (Harman 2018, 6).

La realtà è una «roccia» su cui inevitabilmente vanno a


schiantarsi le nostre idee della realtà. Già da questa
formulazione trapela una curiosa atmosfera ‘religiosa’: la

4
Vedi Malik 2014, 629-812; Lehman & Mortensen 2019.
Felice Cimatti 201

realtà va infatti «riconosciuta e riverita» nonostante sia di per


sé «elusiva»: come si dice nei Salmi, «Signore, mia roccia, mia
fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui trovo
riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza» (18,3).
La realtà è quella roccia a cui ci si aggrappa nel momento del
pericolo, quando ogni altra certezza è svanita, e cerchiamo un
solido fondamento (firmamentum) per le nostre fragili
esistenze. Che il reale della OOO abbia caratteristiche molto
speciali emerge anche dal fatto che questo stesso reale non
può essere visto direttamente:

Just as military commanders say that no battle plan survives


the first contact with the enemy, philosophers ought not to
legislate foolproof procedures for surmounting emotion and
belief, but should recall instead that no theory survives its
first contact with reality. Furthermore, since reality is always
radically different from our formulation of it, and is never
something we encounter directly in the flesh, we must
approach it indirectly. This withdrawal or withholding of things
from direct access is the central principle of OOO (Ivi, 6-7).

Si tratta di un passo veramente curioso. L’OOO è


duramente realista, si oppone fieramente all’idealismo, ma
subito dopo ci dice che le cose, cioè appunto l’ontologia, sono
«elusive», che si mostrano a noi solo «indirettamente», che la
loro principale caratteristica è il «ritiro» rispetto ai nostri goffi
(come quelli dei comandanti che confondono la realtà della
battaglia con i loro piani a tavolino) tentativi di afferrarle.
Ancora più curiosa l’affermazione successiva, che trae le
conclusioni da questa premessa. Se le cose si ritirano, allora le
possiamo conoscere appunto solo in modo indiretto, in
particolare attraverso l’arte e la poesia:

The usual objection to this principle is the complaint that it


leaves us with nothing but useless negative statements about
an unknowable reality. Yet this objection assumes that there
are only two alternatives: clear prose statements of truth on
one side and vague poetic gesticulations on the other. I will
argue instead that most cognition takes neither of these two
202 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

forms, as is clear from such domains as aesthetics, metaphor,


design, the widely-condemned discipline of rhetoric, and
philosophy itself. Like all of the disciplines in this list,
philosophy has great cognitive value even though it is not a
form of knowledge (Ivi, 8).

OOO e postmodernismo

Estetica, metafora, design, retorica, sono questi i mezzi per


provare ad avvicinarsi a queste entità sfuggenti che sono le
cose poste a fondamento – peraltro elusivo – della OOO. Ma
che cos’è questo se non un catalogo degli strumenti
concettuali dell’aborrito postmodernismo? Se «OOO holds
that philosophy generally has a closer relationship with
aesthetics than with mathematics or natural science» (Ivi, 9),
ebbene anche Lyotard sarebbe stato d’accordo. Ma Lyotard è
stato più conseguente, perché se l’OOO ha a che fare con
l’estetica e la retorica ne segue che «il diritto di decidere ciò
che è vero non è indipendente dal diritto di decidere ciò che è
giusto, anche se gli enunciati sottoposti alle due autorità sono
di natura differente. Il fatto è che esiste un rapporto di
gemellaggio tra il tipo di linguaggio che chiamiamo scienza e
l’altro che chiamiamo etica e politica» (Lyotard 2005, 19).
Qual è il punto a cui Lyotard vuole arrivare? «La scienza
gioca il suo gioco, [tuttavia] non può legittimare altri giochi
linguistici. Per esempio, gli sfugge il gioco prescrittivo. Ma
soprattutto essa non può autolegittimarsi, contrariamente a
quanto supponeva l’ipotesi speculativa» (Ivi, 73) . È questo il
punto, il tanto aborrito postmoderno prende atto che non si
dà più un metalinguaggio assoluto, cioè un punto di vista
‘esterno’ rispetto alle diverse pratiche umane che possa
‘giudicarne’ la validità e l’attendibilità. In fondo il
postmoderno non è altro che questa constatazione: «possiamo
considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle
metanarrazioni» (Ivi, 6), in particolare l’incredulità per l’idea
che la verità ‘scientifica’ (cioè per ciò che la ‘scienza’ al
momento t considera essere una asserzione vera del mondo)
Felice Cimatti 203

rappresenti la verità logicamente superiore a tutte le altre


possibili verità. Tutto nasce, per Lyotard, da un’altra
constatazione, il fatto che ormai (Lyotard scrive nel 1979, ma
quello che valeva allora vale anche di più oggi, a partire
dell’esempio del capitalismo linguistico-finanziario) «le
scienze e le tecnologie […] di punta vertono sul linguaggio»5.
Ma che cosa vuol dire che il linguaggio permea tutte le
attività umane? Non significa che la pratica scientifica verta
solo su discorsi e interpretazioni e non sui fatti; significa che
la distinzione fra fatti e interpretazioni non è una distinzione
reale. In effetti qualcosa è un ‘fatto’ solo se individuato
attraverso una pratica che è allo stesso tempo sperimentale e
discorsiva, nel senso che un ‘fatto’ presuppone un apparato
sperimentale che lo possa individuare e misurare, e una
ipotesi (linguistica) che permetta di immaginarlo come fatto. Il
«linguaggio» di cui parla Lyotard è questo insieme di pratiche
e discorsi, di cause e ragioni, di descrizioni e prescrizioni.
Come scrive Hilary Putnam, un realista senza se e senza ma:

the fact that something – perceptual representation or


reference or truth or intentionality or reasons – can’t be
“naturalized” in the way that “physicalists” demand doesn’t
make those things “non-natural” or “queer” or suspiciously
close to “supernatural.” It is true that the notion of a reason,
for example, is not the subject matter of a special science, but
that notion is presupposed by all science as well as by fields
like history and politics and criticism (including
philosophical criticism) that are not sciences, because in all
of them one has to decide what there is reason to consider,
and “elegance” figures in the reasons scientists give for
testing certain theories at all. They are not scientific notions,
but the activity of science presupposes a reasonable command
of them (Putnam 2016, 42).

In effetti, una volta che si vada realmente a leggere il libro di


Lyotard, molta dell’avversione che il postmoderno ha attirato
su di sé non può non svanire. La tesi del libro infatti non è che

5
Ivi, p. 9.
204 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

non esistono più fatti, piuttosto è la tesi che l’accertamento di


un fatto è inseparabile dalle pratiche discorsive e
argomentative con cui quel ‘fatto’ viene individuato6.
L’insistenza di Lyotard sulla fine delle metanarrazioni non
vuol dire altro che questo: non c’è un punto di vista ‘esterno’
dal quale sia possibile osservare il mondo in modo
radicalmente e neutralmente oggettivo: «the fact is that the
God’s-Eye View of the Universe as One Closed System-the
metaphysical picture on which materialism is based […] is as
incoherent from a consistent materialist view as it is from an
empiricist view» (Putnam 1990, 50).
Ma questo vuol dire che in fondo quello che sostiene
Lyotard non è così lontano da quello che lo stesso Putnam
sostiene quando definisce il suo come un realismo «with a
small “r”», contrapposto alle «metaphysical versions of
“realism” [that] go beyond realism with a small “r” into
certain characteristic kinds of philosophical fantasy» (Ivi, 26).
L’esempio che Putnam discute poco dopo è particolarmente
perspicuo; prendiamo il ‘fatto’ di una sedia dipinta di blu:
«that the chair is blue is paradigmatically a “reality”, and yet that
the chair [is/is not/we don’t have to decide] a space-time region is a
matter of convention» (Ivi, 27). La sedia è sicuramente qualcosa,
ma descrivere questo qualcosa come una “sedia”, ad esempio
mediante l’asserzione “nella stanza c’è una sedia blu”
dipende da quello che pensiamo e crediamo esserci nella
stanza, così come dagli apparati sensoriali con cui

Forse non è un caso se nello stesso 1979 esce la prima edizione del
6

libro di Richard Rorty Philosophy and the Mirror of Nature, un libro che in
fondo sostiene tesi non dissimili da quelle di Lyotard, per quanto espresse
con un lessico diverso e rivolte in particolare alla filosofia analitica. Si
veda, per fare un solo esempio, come Rorty scansi l’accusa di relativismo,
la classica accusa rivolta a chi sostenga che la nozione di “vero” non è
separabile da quella di “efficacia pragmatica”: «to see relativism lurking in
every attempt to formulate conditions for truth or reality or goodness
which does not attempt to provide uniquely individuating conditions we
must adopt the “Platonic” notion of the transcendental terms […]. We
must think of the true referents of these terms (the Truth, the Real,
Goodness) as conceivably having no connection whatever with the
practices of justification which obtain among us» (1991, 374).
Felice Cimatti 205

‘accertiamo’ questo fatto. In questo senso del ‘fatto’ della


sedia partecipano tanto elementi oggettivi che soggettivi. Ma
questo vuol dire che la distinzione fra ‘oggettivo’ e
‘soggettivo’ non è di grande aiuto per capire come è fatto il
mondo e come facciamo esperienza del mondo. Come scrive
con esemplare chiarezza Lyotard:

Essendo la realtà ciò che fornisce le prove per


l’argomentazione scientifica ed i risultati per le prescrizioni e
le promesse d’ordine giuridico, etico e politico, ci si
impadronisce delle une e delle altre impadronendoci della
“realtà”, ciò che è consentito dalle tecniche. Rinforzando
queste ultime, si “rinforza” la realtà, dunque la probabilità di
essere giusti e di aver ragione. Inversamente, è tanto più
agevole rinforzare le tecniche quanto più si dispone del
sapere scientifico e dell’autorità decisionale (Lyotard 2005,
85-86).

Ancora e sempre Kant

La tesi di Lyotard, in fondo, è una tesi che, dopo Kant, è


quasi banale: una affermazione è vera se corrisponde a come
‘oggettivamente’ stanno le cose nel mondo. Ma come stanno
le cose del mondo dipende anche inestricabilmente e
‘soggettivamente’ dal modo in cui facciamo esperienza del
mondo, cioè dal nostro modo di parlarne, di misurarlo, di
metterlo alla prova (ad esempio mediante un esperimento
scientifico). È Putnam, ancora una volta, a mettere in chiaro
che nessuna tesi realista può esimersi dal fare i conti con
Kant: «for me, at least, almost all the problems of philosophy
attain the form in which they are of real interest only with the
work of Kant» (Putnam 1990, 3)7. Della realtà fanno parte
tanto le cose che il nostro modo di conoscerle. Questo
significa che il soggetto è dentro e fra le cose, sempre; ma
significa anche che il soggetto stesso è una cosa, perché

7
L’idea di una verità allo stesso tempo ‘oggettiva’ ma anche
‘prospettica’ è discussa da ultimo da Massimi 2018, 342-359.
206 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

altrimenti non potrebbe interagire con le cose (Cimatti 2018).


Il dualismo del soggetto e dell’oggetto è intenibile, e non
perché ci sono solo oggetti, piuttosto perché ci sono solo
relazioni fra cose-oggetti e cose-soggetti. In questo senso il
«criterio di performatività» (2005, 87) che Lyotard propone
come unico criterio guida delle azioni umane è un modo per
disattivare il dualismo fra soggetto e oggetto8. In effetti, se
torniamo alla definizione di “oggetto” che Kant propone
nella Critica della ragion pura non troviamo qualcosa di molto
diverso: «l’oggetto è ciò, nel cui concetto il molteplice di una
intuizione è unificato» (Kant 1995, 135), cioè non ci sono
oggetti da un lato e soggetti dall’altro, bensì una relazione che
‘produce’ da un lato l’oggettività della cosa e dall’altro la
soggettività di chi la conosce. Il punto, per Kant, non è
trasformare l’“essere” in un sinonimo del “conoscere”,
quanto piuttosto di mostrare l’inseparabilità del soggetto
dall’oggetto, cioè appunto la non separabilità di principio di
un sapere senza oggetto, e di un oggetto senza sapere: «poiché
ciò che non è fenomeno non può essere oggetto
dell’esperienza, l’intelletto non può mai sorpassare mai i
limiti della sensibilità, dentro i quali soltanto ci sono dati
oggetti. I suoi sono semplicemente principi dell’esposizione
dei fenomeni, e l’orgoglioso nome di Ontologia, che presume
di dare in una dottrina sistematica conoscenze sintetiche a
priori delle cose in generale […] deve cedere il posto a quello
modesto di semplice Analitica dell’intelletto puro» (Ivi, 250).
Kant non sta dicendo che non c’è più l’ontologia, cioè che il
mondo scompare per essere assorbito dal pensiero umano: sta
dicendo che del mondo fa parte a pieno titolo anche il
soggetto umano, cosa fra cose, benché sia una cosa

Non è di questa idea Maurizio Ferraris, il capostipite del nuovo


8

realismo italiano, che scrive infatti che dopo Kant «tra “essere” e
“conoscewre” non intercorre più alcuna differenza, vale a dire che proprio
la distinzione fra oggettivo e soggettivo viene meno» (2004, 140). Sul
rapporto fra Kant la tradizione filosofica antirealista v. Braver 2007.
Tuttavia il problema sembra essere non quello di salvare la venerabile
distinzione fra oggetto e soggetto, quanto piuttosto mostrarne l’intrinseca
inconsistenza.
Felice Cimatti 207

particolare, una cosa che ‘conosce’ altre cose9.


Il punto in questione è nella natura di quella particolare
entità che è il “fenomeno”, cioè il mostrarsi dell’oggetto. Il
fenomeno sta di fronte al soggetto, come vuole l’impensata
metafisica dualista? Oppure il fenomeno è il luogo
dell’indistinzione fra oggettivo e soggettivo? Se c’è una
acquisizione che ancora turba i materialisti è quella della
fisica del ’900, che sembra mettere in discussione proprio «the
distinction between subject and object» (Bohr 1928, 590).
Secondo Bohr prima che soggetto e oggetto vengano divisi,
c’è un campo relazionale unitario, che non è né soggettivo né
oggettivo: «now the quantum postulate implies that any
observation of atomic phenomena will involve an interaction
with the agency of observation not to be neglected.
Accordingly, an independent reality in the ordinary
physical sense can neither be ascribed to the phenomena
nor to the agencies of observation» (Ivi, 580). Come non
esiste oggetto senza soggetto, così non esiste soggetto senza
oggetto. In realtà questi non sono altro che poli di un campo
relazionale originario – questo e nient’altro è propriamente il
“fenomeno”10 – che li precede cronologicamente e
logicamente e di cui non rappresentano che due regioni

9
«We have to introduce here the distinction between the
transcendentally constituted phenomenal reality and the Real: the way to
be a consequent materialist is not to directly include subject into reality, as
an object among objects, but to bring out the Real of the subject, the way
the emergence of subjectivity functions as a cut in the Real» (Žižek, 2016,
187).
10
Si potrebbe sostenere, in realtà, che il vero realista è proprio chi,
come Bohr, ammette come esistente soltanto ciò di cui si può provare
l’esistenza: «il termine realtà in meccanica quantistica non si può usare se
non si specificano le condizioni sperimentali nelle quali quella realtà
potrebbe essere accertata» (Laudisa 2019, 138). Al contrario come è
possibile stabilire la distinzione, centrale in ogni teoria OOO, fra «real
objects [that] exist whether or not they currently affect anything else» e
«sensual objects [that] exist only in relation to some real object» (Harman
2018, 9)? Noi abbiamo esperienza solo di questi ultimi, come possiamo
anche solo immaginare l’esistenza dei primi? E soprattutto, da dove
sorgerebbe questa esigenza?
208 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

particolari: «io non vedo come sia possibile, in fisica» – scrive


Wolfgang Pauli, un altro degli scienziati all’origine della fisica
quantistica – «una definizione di ‘fenomeno’ che miri a
isolare i dati della percezione dai principi ordinatori
razionali» (Pauli 2016, 103); al contrario «il passo che è stato
fatto dalla meccanica quantistica» consiste in «una più
essenziale inclusione dell’osservatore e delle condizioni
sperimentali nella descrizione fisica della natura» (Ivi, 107).

E allora?

Tuttavia, nonostante Kant e la fisica quantistica, rimane


che «OOO holds that the external world exists independently
of human awareness» (Harman 2018, 10). Si potrebbe
rispondere facilmente a questa affermazione facendo
osservare che è davvero difficile trovare qualcuno che
sostenga la bizzarra tesi secondo cui il mondo esiste solo se
uno è cosciente del mondo (anche il vescovo Berkeley quando
si alzava di notte era sicuro che avrebbe trovato le sue ciabatte
proprio accanto al letto). Ma anche i teorici della OOO lo
sanno benissimo. Tuttavia tutta la questione della OOO è
intorno a questa ribadita insistenza: le cose sono indipendenti
dai pensieri che (eventualmente) li riguardano. Seguiamo
l’esempio di un altro sostenitore del realismo speculativo, Ray
Brassier:

When I say that Saturn does not need to be posited in order


to exist, I am not saying that the meaning of the concept
SATURN does not need to be posited by us in order to exist—
quite obviously, the concept SATURN means what it does
because of us, and in this sense it is perfectly acceptable to
say that it has been ‘posited’ through human activity. But
when I say that Saturn exists un-posited, I am not making a
claim about a word or a concept; my claim is rather that the
planet which is the referent of the word ‘Saturn’ existed
before we named it and will probably still exist after the
beings who named it have ceased to exist, since it is
something quite distinct both from the word ‘Saturn’ and the
Felice Cimatti 209

CONCEPT Saturn for which the word stands. Thus the


‘Saturn’ that is synonymous with ‘correlate of the act of
positing’ (i.e. Saturn as the sense of the word ‘Saturn’) is not
synonymous with the Saturn probed by Cassini-Huygens
[spacecraft]. To say that Saturn exists un-posited is simply to
say that Cassini-Huygens did not probe the sense of a word
and is not in orbit around a concept (Brassier 2006, 118).

La tesi è semplice: c’è Saturno, il pianeta, poi c’è il concetto


SATURNO, ed infine c’è il nome “Saturno”. Se teniamo ben
distinte queste tre entità è escluso ogni rischio di idealismo, e
il realismo, cioè l’esistenza oggettiva di Saturno, è salvo. Il
punto è che Kant ci ha spiegato che questa tripartizione non è
affatto scontata. Al contrario, se seguiamo l’insegnamento di
Bohr e Pauli, vale piuttosto il contrario: «l’odierna scienza
della natura ci ha forse condotti in prossimità di un più
soddisfacente approccio al problema mente-materia
introducendo il concetto di complementarità. La cosa migliore
sarebbe infatti poter concepire la materia e la mente come due
aspetti complementari della medesima realtà» (Pauli 2006,
118). Non è che c’è Saturno da un lato, e dall’altro ci sono il
concetto SATURNO e il nome “Saturno”. È proprio questo
dualismo che la scienza moderna sembra mettere in
discussione.
Il soggetto, cioè, già da sempre fa parte del mondo. È ovvio
che il pianeta terra esiste da molto tempo prima della
comparsa di quella particolare entità che è il soggetto
umano11, ma questo propriamente che cosa significa? La tesi
kantiana non confonde esistenza con pensiero (quindi
nessuno sostiene che prima della comparsa di Homo sapiens la

11
È quella che Meillassoux chiama «realtà ancestrale», cioè «anteriore
alla comparsa della specie umana, ed anche anteriore ad ogni forma di
vita rinvenuta sulla Terra» (Meillassoux, 2012, 23). Curiosamente è
esattamente lo stesso esempio usato da Lenin per criticar33333e le tesi
‘idealistiche’ di Mach e Avenarius: «le scienze naturali affermano con
sicurezza che la terra esisteva in condizioni tali che né l’uomo né in
generale qualsiasi essere vivente esisteva e poteva esistere su di essa»
(Lenin 1970, 71-72).
210 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

terra non esistesse), sostiene piuttosto che non è possibile


conoscenza senza un oggetto conosciuto. Allo stesso tempo
sostiene la tesi altrettanto plausibile che la determinazione
dell’età di quella entità astronomica chiamata “Terra” è il
risultato di una operazione di misura, cioè allo stesso tempo
una operazione fisica e concettuale. Un conto è la terra, un
conto è la sua ‘misurazione’ in quanto “Terra”, ad esempio
come pianeta. La tesi kantiana riguarda esclusivamente
l’«oggetto reale» (Kant 1975, 403), cioè potremmo dire
l’oggetto in quanto terminale di una operazione di
misurazione (che può consistere anche nella sua semplice
nominazione), non l’oggetto non ancora misurato di cui
proprio per questa ragione non abbiamo nessuna notizia.
L’obiezione fondamentale a questa tesi è quella di Quentin
Meillassoux, che la considera viziata dalla fallacia che lui
stesso ha definito correlazionalismo.

No X without givenness of X, and no theory about X


without a positing of X. If you speak about something, you
speak about something that is given to you, and posited by
you. Consequently, the sentence: ‘X is’, means: ‘X is the
correlate of thinking’ […]. That is: X is the correlate of an
affection, or a perception, or a conception, or of any
subjective act. To be is to be a correlate, a term of a
correlation. And in particular, when you claim to think any
X, you must posit this X, which cannot then be separated
from this special act of positing, of conception. That is why it
is impossible to conceive an absolute X, i.e., an X which
would be essentially separate from a subject (Meliassoux
2007, 408-449).

Tuttavia per Pauli, come abbiamo visto, il “fenomeno” non


è il correlato di un atto di percezione, è piuttosto il campo di
«complementarità fra energia e tempo», cioè fra le forze che
partecipano del fenomeno: «l’energia resta sì indistruttibile,
ma con un procedimento di misura che consente di
determinare lo svolgimento temporale di un fenomeno non si
sa più quanta ne è entrata dall’esterno nel sistema osservato e
quanta invece ne è uscita» (Pauli 2006, 35). Il fenomeno non è
Felice Cimatti 211

l’oggetto del soggetto; contemporaneamente il soggetto si


forma nel campo del fenomeno, dal momento che esiste come
soggetto solo mediante e durante la misurazione dell’oggetto.
Da questo punto di vista la critica di Meillassoux non sembra
cogliere il segno, dal momento che presuppone un dualismo
di cui invece la posizione kantiana in fondo rende possibile il
superamento.
Se ora torniamo all’esempio di Saturno di Brassier, ci si
accorge che introduce senza poterla giustificare l’esistenza
indipendente del pianeta Saturno; in realtà tutti noi, astronomi
e uomini della strada, abbiamo propriamente a che fare
soltanto con il concetto SATURNO e il nome “Saturno”. Non a
caso Brassier parla di Saturno come pianeta, come se fosse
ovvio che Saturno sia un pianeta. Tuttavia “pianeta” è prima
di tutto un nome della lingua italiana, e poi è un termine
dell’astronomia (più o meno qualcosa come “corpo celeste
che orbita attorno a una stella e che non produce energia
attraverso processi di fusione nucleare”). Già dire che la terra
è un “pianeta”, cioè, è una forma di “misurazione”. Ma
questo vuol dire che l’esempio di Brassier non è corretto: non
ci sono tre termini da correlare fra loro, bensì sempre e solo
due, il concetto SATURNO e il nome proprio “Saturno”. Che
queste due entità nascano dall’incontro con qualcosa di
materiale ‘là fuori’ è esattamente quello che sostiene Kant. Il
punto è che di questa entità abbiamo qualche notizia solo dal
momento in cui la cominciamo a misurare, cioè a nominare e
percepire/concettualizzare. Ipotizzare l’esistenza di qualcosa
prima della misurazione – cioè prima che possiamo averne
notizie – è una operazione non speculativa, bensì come
vedremo fra poco pienamente religiosa.
In effetti l’aspetto curioso della OOO è che se ne rende
perfettamente conto; abbiamo accesso agli oggetti solo in
modo indiretto e obliquo. Secondo Harman, ad esempio, non
esiste una conoscenza ‘letterale’, cioè diretta, del mondo:
«OOO is antiliteralist, because any literal description, literal
perception, or literal causal interaction with the thing does
not give us that thing directly, but only a translation of it.
212 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

Hence, an indirect or oblique means of access to reality is in


some ways a wiser mode of access than any amount of literal
information about it» (Harman 2018, 40). Da questo punto di
vista è molto più conseguente, per quanto dimostri di non
avere compreso molto della scienza moderna, Vladimir
Ulianovic Lenin, che infatti in Materialismo ed empiriocriticismo
sostiene che la conoscenza è un processo che ha luogo
direttamente fra le «cose e i loro riflessi nel cervello» (Lenin
1970, 39). Di conseguenza «il materialismo», per Lenin,
«considera come dato primordiale la materia e come dato
secondario la coscienza, il pensiero, la sensazione» (Ivi, 43).
Ma se il processo della conoscenza è quello descritto da Kant,
allora Lenin ha torto, la conoscenza non è un «riflesso» del
mondo, perché soggetto e oggetto sono manifestazioni diversi
e connessi di un unico “fenomeno”. Tuttavia il materialismo
di Lenin ha il pregio di essere assolutamente coerente con le
sue premesse; al contrario non si capisce in che senso lo
«speculative realism» possa contemporaneamente dirsi
intransigentemente realista da un lato, e ammettere in modo
così sfrontato l’esistenza di «an object» che «cannot be entirely
reduced either to the components of which it is made or to
the effects that it has on other things»12. Che strano realismo è
quello che ammette l’esistenza di qualcosa di cui per
definizione non possiamo fare nessuna esperienza? Chi glielo
ha detto all’OOO che esiste qualcosa del genere?

Qualcosa in cui credere

Siamo arrivati al punto: OOO ammette che la conoscenza


del mondo è indiretta, quindi ammette che ontologia e teoria
della conoscenza, oggetto e soggetto, sono strettamente e
indissolubilmente intrecciati. Tuttavia l’OOO si presenta
come uno «speculative realism», cioè un realismo capace di
pensare l’assoluto, cioè le cose come sono-per-sé, non come le
possiamo percepire e conoscere, cioè le cose-per-noi. Tuttavia

12
Harman, Object, cit. p. 43.
Felice Cimatti 213

per pensare l’assoluto Meillassoux ha bisogno di quella che


lui stesso definisce una ossimorica «intuition dianoétique»
(Meillassoux 2007, 433). Si tratta infatti di una intuizione, che
tuttavia è argomentativa. In che consiste questa speciale
intuizione? Si tratta di partire proprio dalla tanto criticata
correlazione fra soggetto e oggetto. Secondo Meillassoux
questa relazione non è affatto necessaria, perché possiamo
appunto pensare alle cose indipendentemente dal fatto
contingente che le pensiamo sempre e solo per-noi. Questa
possibilità attesta che il correlazionalismo non è l’unico modo
di avere a che fare con il mondo. Perché la contingenza è
contingente solo rispetto a un assoluto. L’assoluto tuttavia
non è dato immediatamente, al contrario, è il punto di arrivo
di un percorso di pensiero che parte dalla scoperta del proprio
errore, quello di pensare la correlazione come necessaria e non
come contingente:

You must begin with correlationism, then show that


correlationism must itself posit the facticity of the
correlation, and demonstrate in this way that this facticity is
absolute contingency. Then, finally, you will accede to an
independent Real. Hence, the only way to the Real,
according to me, is through a proof, a demonstration: a
demonstration unveils that facticity is not an ignorance of the
hidden reasons of all things but a knowledge of the absolute
contingency of all things. The simple intuition of facticity is
transmuted by a dianoia, by a demonstration, into an
intuition of a radical exteriority. I thought that facticity was
the sign of the finitude and ignorance of thought. I thought I
had, in facticity, a relation to my own deficient subjectivity. I
discover now that what I took for human idiocy was truly an
intuition, a radical intuition – that is, a relation to the Great
Outside. We have a nous unveiled by a dianoia, an intuition
unveiled by a demonstration (Ivi, 433-434).

Il tono ‘religioso’ di questo passo è piuttosto evidente: il


«Great Outside» si raggiunge attraverso un percorso che è allo
stesso tempo intuitivo e razionale, un percorso che comincia
con la constatazione che quello che sembrava necessario è
214 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

invece assolutamente contingente, e che quella che si


scambiava per la propria «idiocy» in realtà era l’unica via per
avvicinarsi infine al «Real with realism» (Ivi, 435), cioè alla
effettiva conoscenza del reale in sé. Quello che Meillassoux
propone è quindi una sorta di percorso mistico e logico che
parte dal dubbio per arrivare alla certezza: «my project is to
derive from a contingency which is absolute» (Ivi, 430-40). In
questa prospettiva il correlazionismo non è che una forma di
scetticismo, cioè di incredulità rispetto alla possibilità di un
assoluto (invece era questo, come abbiamo visto più sopra, il
punto di partenza di Lyotard). «Metaphysics and scepticism –
they are always like two enemies fighting against each other,
but it is always in scepticism that we discover how to realize
metaphysics. […] Contemporary scepticism, the contemporary
correlationism, shows us where to look for the absolute» (Ivi,
437). L’intero ragionamento di Meillassoux implica un
movimento verso la verità, un movimento che diventa
possibile quando si intuisce che quello che si pensava
impossibile era invece solo una questione di ignoranza, non
una impossibilità intrinseca alla mente umana. Una volta
‘visto’ l’errore, la verità della contingenza appare come
un’assoluta verità:

So facticity is a correlationist thesis. But facticity, for the


correlationist, is just our inability to conceive the ultimate
ground, not the lack of an ultimate ground. But what I say is
that in conceiving this facticity as just ignorance, you in fact
implicitly conceive the capacity of thought to conceive its
own end, and thus conceive positively an event which is not
dependent on its contingent existence (Ivi, 446).

Abbiamo infine compreso qual è la posta in gioco della


OOO: l’assoluto in quanto assoluto, cioè al di là della
mediazione e del logos, l’ontologia finalmente liberata dalla
gnoseologia: «I will shift» scrive Jane Bennett, «from the
language of epistemology to that of ontology, from a focus
[…] to an active, earthy, not-quite-human capaciousness
(vibrant matter). I will try to give voice to a vitality intrinsic to
Felice Cimatti 215

materiality, in the process absolving matter from its long


history of attachment to automatism or mechanism» (Bennet
2010, 3). Come mostra bene Meillassoux il paradosso
implicito in questa posizione è che l’umano è l’animale della
mediazione, cioè del linguaggio e del ragionamento (nei suoi
termini l’umano appartiene, o teme di appartenere, alla specie
Homo correlativus), e quindi la possibilità dell’accesso
all’assoluto implicherebbe una vera e propria trasmutazione.
In questo senso l’OOO si inserisce all’interno di quello che
molti di questi autori definiscono «svolta speculativa» della
filosofia contemporanea:

This activity of ‘speculation’ may be cause for concern


amongst some readers, for it might suggest a return to pre-
critical philosophy, with its dogmatic belief in the powers of
pure reason. The speculative turn, however, is not an outright
rejection of these critical advances; instead, it comes from a
recognition of their inherent limitations. Speculation in this
sense aims at something ‘beyond’ the critical and linguistic
turns. As such, it recuperates the pre-critical sense of
‘speculation’ as a concern with the Absolute, while also
taking into account the undeniable progress that is due to the
labour of critique (Bryant 2011, 3).

Deum nemo vidit umquam

Il punto in questione è tutto in quel «‘beyond’ the critical


and linguistic turns», cioè appunto oltre la correlazione e il
linguaggio, la conoscenza e la limitatezza umana, oltre il
soggetto e la cosa-per-noi. È questo al di là che interessa i
teorici della OOO (un al di là che tuttavia sembra piuttosto un
semplice e ingenuo al di qua rispetto alla filosofia critica). E
qui si ripresenta in pieno il curioso rapporto che l’OOO
intrattiene con Kant, in particolare con la figura elusiva della
cosa considerata non rispetto al ‘nostro’ rapporto con essa,
bensì alla cosa senza alcun rapporto con la conoscenza
umana: «pertanto gli oggetti dell’esperienza non sono mai in
sé, ma soltanto dati nell’esperienza, e non esistono punto
216 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

fuori di essa. […] A noi non è dato altro di reale che la


percezione […]. Giacché in sé stessi i fenomeni, come
semplici rappresentazioni, non sono reali se non nella
percezione, che nel fatto non è se non la realtà di una
rappresentazione empirica, cioè fenomeno» (Kant 1975, 402-
403). Tuttavia proprio perché il fenomeno è la cosa-per-
l’intelletto, si pone subito la possibilità della cosa senza
l’intelletto, cioè senza la conoscenza (in definitiva, senza
l’umano che la pensa o percepisce).
Che possiamo sapere di questa possibilità? Ovviamente
nulla: «la causa non-sensibile di queste rappresentazioni ci è
affatto sconosciuta, e perciò non possiamo intuirla come
oggetto; giacché un simile oggetto non dovrebbe essere
rappresentato né nello spazio né nel tempo (condizioni della
sola rappresentazione sensibile): condizioni, senza le quali
noi non possiamo pensare punto nessuna intuizione» (Ivi,
403). In particolare, per Kant, si pone la distinzione non
empirica, bensì di principio, tra i «fenomeni, esseri sensibili
(phaenoumena)» da un lato, e «la loro natura in sé», ossia in
quanto puri «esseri intelligibili (noumena)» (Ivi, 254) dall’altro.
Ma che tipo di ‘sapere’ sarebbe questo sapere relativo alla
cosa in sé? La risposta di Kant è netta: «se noi intendiamo per
noumeno una cosa, in quanto essa non è oggetto della nostra
intuizione sensibile, astraendo dal nostro modo di intuirla,
essa è un noumeno in senso negativo» (Ivi, 255). Kant si
ferma qui, mentre al contrario la OOO prende le mosse
proprio dal punto in cui la filosofia critica (che è tuttora la
nostra filosofia e il nostro modo di stare al mondo 13) si
arresta. Della cosa-in-sé ‘sappiamo’ soltanto quel che non è,
cioè non è un fenomeno di cui possiamo avere esperienza.
Della cosa-in-sé, cioè dell’assoluto, sappiamo solo che non è
questo e quello. Il procedimento kantiano è lo stesso che
segue Dionigi Areopagita nella De coelesti hierarchia: «Dio è
celebrato […] in modo sovramondano con rivelazioni che
non hanno alcuna somiglianza con lui, quando viene
chiamato Invisibile, Infinito, Incomprensibile e con <altre>
13
Cfr. Cimatti 2018.
Felice Cimatti 217

espressioni con le quali non si indica ciò che egli è, ma ciò


che non è» (Dionigi Aeropagita 2010, 91).
Tuttavia è lo stesso Kant che ammette la possibilità di una
conoscenza non soltanto negativa dell’assoluto, anche se
subito dopo precisa che questa possibilità è preclusa
all’umano, che anzi in fondo non è altro che questa stessa
impossibilità: «ma se per esso [il noumeno] invece intendiamo
l’oggetto di una intuizione non sensibile, allora supponiamo
una speciale maniera di intuizione, cioè l’intellettuale, la
quale però non è la nostra, e della quale non possiamo
comprendere nemmeno la possibilità; e questo sarebbe il
noumeno in senso positivo» (Kant 1975, 255). Ma che cosa è
l’«intuition dianoétique» di Meillassoux – quella capace della
straordinaria «intuition of a radical exteriority» – se non
appunto quella «intuizione non sensibile» preclusa agli esseri
umani? L’obiettivo teoretico e mistico della OOO non è altro
che smentire Kant: anche gli esseri umani possono avere un
rapporto non soltanto negativo con la cosa-in-sé. Non è vero
che, come sostiene il teoricamente morigerato Kant, «il
concetto di noumeno è dunque solo un concetto limite
(Grenzbegriff»: Ivi, 257): dell’assoluto si può fare esperienza
anche in senso positivo. La sfida teoretica posta dalla OOO è
tutta in questa pretesa. In effetti, come abbiamo visto in
Meillassoux, questa possibilità è implicita nella distinzione fra
fenomeno e noumeno: è lo stesso Kant, infatti, che ribadisce
che «non può dunque ammettersi punto in senso positivo la
divisione degli oggetti in fenomeni e noumeni» (Ibidem). Ma
allora, come può venire in mente questa divisione? Il fatto che
Kant possa pensare questa possibilità attesta che lo stesso
Kant in qualche modo accede (anche se nega che sia
possibile) ad una prospettiva superiore a questa divisione: per
vedere la distinzione fra relativo e assoluto devi già stare al di
fuori di questa distinzione. È questo l’angusto spazio che
Meillassoux prova ad allargare. La domanda che si pone a
questo punto, è se in questo spazio, ammesso che esista, possa
davvero ospitare un essere umano.
Come abbiamo appena visto Kant esclude radicalmente
questa possibilità: Homo sapiens è sapiens proprio perché è
218 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

incapace di «intuizione intellettuale» (nell’assoluto non


sopravvive). In effetti la stessa analisi della posizione di
Meillassoux mostra come la sua «intuition dianoétique» sia in
realtà una conoscenza molto speciale, preclusa ai ‘normali’
esseri umani, quelli che rimangono chiusi in quello che lui
definisce il «circolo correlazionale» (Meillassoux 2012, 18) fra
soggetto e oggetto. Ci vuole un lungo e articolato percorso per
‘liberarsi’ del pregiudizio correlazionista, per poter infine
derivare «from a contingency which is absolute». La domanda
che ora ci poniamo è: qualcuno capace della «intuition
dianoétique» è ancora umano?
Nella lettera De videndo Deo (circa 408 d. C.), Agostino
cerca di rispondere ad un quesito simile: il problema, che gli
ha posto la devota «serva di Dio Paolina» (Agostino 2019, 27),
è se sia possibile vedere Dio. Cioè, nei termini della OOO: si
può vedere con gli occhi correlazionisti l’assoluto (cioè
appunto Dio)? Il condizionato – questo significa essere un
corpo intrappolato nel «circolo correlazionale» – può avere un
rapporto con l’assolutamente incondizionato, cioè con il non
correlazionale, con la cosa-in-sé? Sembrano subito darsi due
opzioni: un conto è il vedere del corpo vivente, un conto
quello del beato nel regno dei cieli. Ma il corpo del beato è
ancora un corpo correlazionale? «Per vedere […] quelle cose
che ho detto essere contemplate dalla mente», ad esempio
Dio, «non adoperi gli occhi del corpo, né percepisci o cerchi
una distanza speciale attraverso la quale tendere lo sguardo,
affinché esso arrivi a scorgere tali cose» (Ivi, 31). Un corpo
finito, cioè un corpo correlazionale, non vede Dio così come
invece può vedere un albero o una stella. Per questo si può
‘vedere’ Dio solo con «sguardo della mente» (Ivi, 34). Ma
questo particolare ‘vedere’ non è affatto un vedere in senso
pieno. È piuttosto un pensare che un vedere. È cioè un atto
indiretto anziché diretto. Ma in questo modo l’assoluto non è
più dato assolutamente. Quindi non è più assoluto. In realtà
questa visione indiretta di Dio è un «credere» piuttosto che un
vedere. Agostino precisa la radicale differenza teoretica e
teologica che intercorre fra queste due attività cognitive: «tra
Felice Cimatti 219

vedere e credere questa è la differenza: che si vedono cose


presenti, e si credono cose assenti? Certo, può darsi che basti,
se in questo punto intendiamo per “presenti” le cose che
stanno davanti ai sensi sia dell’animo che del corpo, le quali
sono denominate “presenti” con un termine derivato dallo
star-davanti» (Ivi, 34-35). In Dio si può solo credere, allora,
perché non lo si può vedere come si vede qualcosa che sta
davanti agli occhi del corpo: «sono dunque credute quelle
cose che sono assenti dai nostri sensi […]; sono invece viste
quelle che stanno davanti, per cui sono denominate “presenti”
ai sensi o dell’animo o del corpo» (Ivi, 35). Ma allora, come si
risponde al quesito di Paolina? Dio si può vedere oppure non
si può? Nel De videndo Deo Agostino sembra escludere questa
possibilità: «Dio non si vede nello spazio, ma con il cuore
puro, né si va in cerca di Dio con occhi corporali, né lo si
circoscrive con la vista né lo si tiene con il tatto né lo si ode
discorrere né lo si sente avanzare: e quando lo si ritiene
assente, viene visto, e quando è presente, non viene visto» (Ivi,
89). Il correlazionale non può fare esperienza del non
correlazionale, gli occhi del corpo (cioè gli occhi kantiani
dello spazio e del tempo) non possono vedere ciò che non è
né spaziale né temporale, cioè l’assoluto. Per ‘vedere’ Dio
occorre una vera e propria trasmutazione, cioè in fondo
diventare un’entità inumana:

Tu intendi […] come puoi aderire al Signore, e prepari


interiormente te stessa a essere il luogo incorporale della sua
dimora per udire il silenzio della sua rivelazione e vedere la
sua forma invisibile. Beati infatti quelli dal cuore puro, perché essi
vedranno Dio, non quando apparirà a loro come un corpo
proveniente da qualche distanza spaziale, ma quando sia
arrivato a loro e abbia preso dimora presso di loro, poiché
essi saranno riempiti fino a tutta la pienezza di Dio, non
quando siano anch’essi il Dio pieno, ma quando siano
completamente pieni di Dio (Ivi, 90).

Agostino, anche se non lo sa, ritiene che la pretesa della


OOO di fare esperienza dell’assoluto sia qualcosa di
220 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

impossibile: infatti quando Dio è «assente, viene visto, e


quando è presente, non viene visto». L’esperienza di Dio non
è mai diretta. Se infatti infine si potrà ‘vedere’ «Dio nella
semplicità del cuore», questo significa che non lo si può vedere
con gli occhi corporali. Dio è non-visibile, come pensano
Dionigi e Kant.
Tuttavia questa risposta lascia Agostino insoddisfatto,
perché il cristiano crede nella resurrezione dei corpi: forse
allora nel regno dei cieli i beati potranno vedere quello che
nella vita terrena non potevano vedere? Così nel capitolo
intitolato “De qualitate visionis, qua in futuro saeculo sancti
Deum videbunt” del ventiduesimo capitolo della Città di Dio,
Agostino torna sulla questione che nella lettera a Paolina
aveva liquidato come impossibile. Agostino si chiede che cosa
succederà «quando la vita della loro carne [quella dei beati]
non sarà più carnale, ma sarà diventata spirituale» (Agostino
1973, 1422). Ricordiamo qual è la posta in gioco, la visione
diretta di Dio, cioè, nei termini della OOO, l’esperienza
dell’assoluto: «se dunque i santi dovranno vivere nella pace di
Dio, vivranno certamente in quella pace che supera ogni
intelligenza» (Ibidem). Il punto è tutto in questa condizione
«che supera ogni nostra intelligenza». Ritroviamo qui
esattamente la stessa soluzione che abbiamo trovato in
Meillassoux, quando parla della possibilità che «the simple
intuition of facticity is transmuted by a dianoia, by a
demonstration, into an intuition of a radical exteriority». Il
fatto contingente del mondo è tramutato, attraverso una
«intuition dianoétique», in una intuizione di «un mondo privo
dell’elemento umano» (Meillassoux 2012, 41), cioè in un
mondo assoluto, cioè «il Grande Esterno, l’Esterno assoluto»
(Ivi, 20). In questo senso non è lo stesso essere umano quello
inchiodato nel «circolo correlazionale» e quello finalmente
capace della «intuizione intellettuale dell’assoluto» (Ivi, 103).
Così per Agostino «questa visione», cioè la visione di Dio nel
regno dei cieli, «è dunque riservata come premio della nostra
fede» (Agostino 1973, 1423). Sarà un corpo radicalmente
diverso quello capace di vedere Dio, cioè di fare esperienza
Felice Cimatti 221

dell’assoluto. Occorre infatti una «straordinaria potenza di


visione» (Ivi, 1426) per poter vedere quello che nessun corpo
terreno (correlazionale) può vedere.

La questione è sapere se lo vedranno [Dio] con gli occhi del


corpo quando li terranno aperti. Perché, se nei corpi spirituali
i loro occhi, pure spirituali, non avranno un potere maggiore
di quello dei nostri occhi attuali, è certo che con essi non
potranno vedere Dio. Avranno dunque una capacità molto
superiore se, per loro mezzo, i santi dovranno vedere quella
natura incorporea che non è localizzata in un luogo, ma è
tutta intera dappertutto. Poiché noi diciamo che Dio è in
cielo e in terra […] non dobbiamo credere che egli sia parte
in cielo e parte sulla terra: è tutto intero in cielo e tutto intero
sulla terra non successivamente ma simultaneamente, cosa
impossibile a ogni natura corporea (Ibidem).

È questa la sfida che si pone per ogni OOO: vedere il


mondo, cioè il contingente, «non successivamente ma
simultaneamente», ciò che è appunto impossibile per «ogni
natura corporea», cioè correlazionale e kantiana. Agostino
pensa che una visione del genere sia possibile, ma solo per il
corpo dei beati, cioè per dei corpi capaci di «vedere anche le
cose incorporee» (Ibidem), ossia quelle che la nostra limitata
costituzione corporea e cognitiva ci preclude di vedere (Homo
sapiens è questa stessa limitatezza). Per questo quello posto
dalla OOO è di fatto un problema teologico e non
conoscitivo, perché l’assoluto è per definizione al di là delle
possibilità di conoscenza di ogni creatura determinata. E
questo vale anche per Meillassoux, che invece ritiene (spera?)
che la sua «intellectual intuition» sia, diversamente da quella
di Kant, «an intuition discovered by reasoning» (Meillassoux
2007, 434). Il ‘realista’ Agostino si fida poco della capacità di
ragionamento degli esseri umani, e affida l’unica possibilità di
un esperienza dell’assoluto al regno dei cieli14:

14
In realtà Agostino è molto meno credente di Meillassoux. Infatti
affidare la visione di Dio al regno dei cieli è anche un modo per dire che
qui in terra non c’è posto per lui. Come malignamente osserva Žižek «it is
222 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

Ecco perché è possibile e del tutto credibile che nell’altra vita


noi vedremo i corpi di un nuovo cielo e di una nuova terra, in
modo tale che, per mezzo dei corpi che avremo, da
qualunque parte volgeremo lo sguardo, vedremo Dio nella
più limpida chiarezza [clarissima perspicuitate] presenziare
ovunque e governare tutti gli esseri anche corporali. Sarà una
visione completamente diversa da quella che quaggiù ci fa
vedere le perfezioni invisibili di Dio attraverso le sue opere
per mezzo dell’intelligenza, come in uno specchio, in enigma
[per speculum in aenigmate] e solo in parte e dove la fede che ci
fa credere, ha un ruolo superiore a tutte le bellezze corporali
percepite con gli occhi del corpo (Agostino 1973).

Realtà e mistica

Torniamo, ancora una volta, a Kant, da cui l’OOO non


riesce a prescindere. Nella Critica del Giudizio è discussa una
particolare forma di giudizio, quella che prende la forma del
sentimento del sublime. Come il ‘bello’ anche il ‘sublime’ non
«è un giudizio logico determinante, ma un giudizio di
riflessione» (Kant 1999, 80). Il primo tipo di giudizio è per
così dire quello conoscitivo ‘normale’, in cui il dato empirico
è «sussunto» sotto le categorie conoscitive e viene determinato
come un oggetto «reale». Nel secondo tipo di giudizio, invece,
non è dato un principio universale (trascendentale) sotto cui
ricondurre il caso concreto; in questo caso alla «facoltà di
giudizio […] è dato solo il particolare, per il quale essa deve
trovare l’universale» (Ivi, 15). Nel primo caso per Kant non
c’è propriamente «bisogno di pensare» (Ibidem), tanto
l’operazione è, si direbbe oggi nel lessico delle scienze
cognitive «modulare»15, cioè ‘automatica’; nel secondo caso,
invece, si tratta di volta in volta di risalire dal caso empirico al

Meillassoux who is not ‘materialist’ enough here, proposing a materialism


in which there is again a place for virtual God» (Žižek & Woodard 2011,
408).
15
Fodor 2010.
Felice Cimatti 223

principio universale che invece non è dato. Il ‘sublime’ è un


esempio peculiare di «giudizio riflettente».
In quali occasioni, per Kant, la facoltà di giudizio è portata
a ritenere qualcosa come “sublime”? Mentre «il bello della
natura riguarda la forma dell’oggetto, che consiste nella
limitazione; il sublime, al contrario, è da trovare anche in un
oggetto privo di forma, purché sia rappresentata in esso, o
occasionata da esso, l’illimitatezza e però vi sia aggiunta nel
pensiero la totalità» (Ivi, 80). Il ‘sublime’ è da un lato affatto
singolare (infatti manca un principio universale sotto cui
sussumerlo), dall’altro però è l’occasione per fare esperienza
della «illimitatezza» e della «totalità». Non saremo sorpresi di
ritrovare qualcosa del genere anche nella OOO. In Guerrilla
metaphysics Harman chiama “allure” (fascino) quello che per
Kant sarebbe un caso di ‘sublime’: «somehow, [allure]
manages to put the very sincerity of a thing at issue, by
somehow interfering with the usual relation between a thing and its
qualities» (Harman 2005, 141). Un oggetto è ‘dotato’ di fascino
quando è qualcosa di più di un oggetto con una serie di
caratteristiche riconoscibili; fra ciò che l’oggetto è e ciò che si
mostra essere, in quella ‘intercapedine’ il sublime ‘appare’,
cioè l’illimitatezza (quella che Harman chiama l’onestà)
dell’oggetto. Nel limitato l’illimitato, nel singolare la totalità:
questo particolare modo di essere le cose «makes no attempt
to bring the hidden kingdom of objects to direct visibility.
There is indeed such a kingdom: or rather, there are as many
such kingdoms as there are things. But allure makes no claim
to get us closer to this shadowy realm» (Ivi, 143).
Per Kant esistono due tipi principali di ‘sublime’, quello
matematico e quello dinamico. Nel primo caso è «sublime ciò
che è assolutamente grande» (Kant 1999, 83), cioè ciò «che è
grande oltre ogni comparazione» (Ivi, 84). In questo caso il
sentimento del sublime porta il soggetto oltre ciò che può
pensare in modo determinato: «sublime è ciò che, anche solo
a poterlo pensare, attesta una facoltà dell’animo che supera
ogni misura dei sensi» (Ivi, 86). Nell’altro caso di ‘sublime’ si
fa esperienza di una «potenza» che è un potere «che è
224 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

superiore […] anche alla resistenza di ciò che ha esso stesso


potenza» (Ivi, 96). In entrambi i casi per Kant è importante
ribadire che «la vera sublimità deve essere cercata solo
nell’animo del giudicante, non nell’oggetto della natura,
giudicare il quale dà occasione a quella disposizione
d’animo» (Ivi, 92). In realtà qui si pone un problema che è
irrisolvibile all’interno dell’apparato teorico di Kant: se il
‘sublime’ sta nel soggetto «giudicante», in che senso ha a che
fare con l’oggetto che viene giudicato sublime? Perché il
sublime per definizione eccede le capacità del soggetto, quindi
è costitutivamente al di là del soggetto. È proprio in questa
impossibilità che si insinua l’OOO, che mette in luce come il
sublime sia possibile solo se propriamente non sta «nell’animo
del giudicante». Il sentimento del sublime in realtà lacera la
compattezza del tessuto trascendentale, e mostra come anche
il soggetto kantiano, il legislatore della natura, sia egli stesso
«oggetto di timore» (Ivi, 97). È questo, in fondo, l’obiettivo
che l’OOO ha sempre più o meno confusamente perseguito,
trovare l’assoluto del mondo oltre e al di là dell’umano. Ma
l’assoluto è Dio, quindi l’OOO è un modo per reintrodurre il
divino – inteso come potenza incontrollabile, come pura
vitalità magmatica16 – nel mondo moderno17. Un divino che
prende le forme di una vitalità materica autonoma e del tutto
indipendente dall’intenzionalità umana: «too often the
philosophical rejection of anthropomorphism is bound up
with a hubristic demand that only humans and God can bear
any traces of creative agency. To qualify and attenuate this
desire is to make it possible to discern a kind of life
irreducible to the activities of humans or gods. This material
vitality is me, it predates me, it exceeds me, it postdates me»
(Bennett 2010, 120). Che cos’è questa della «material vitality»
se non una definizione di Dio?

De Landa 1997. Si veda la sua idea del mondo come una «flowing
16

reality animated from within by self-organizing processes constituting a


veritable non-organic life: the [Deleuze and Guattari’s] Body without
Organs (BwO» (Ivi, 260).
17
Cfr. Lemke 2017.
Felice Cimatti 225

Questo esito è quasi esplicito nel libro di Timothy Morton


dedicato a quelli che definisce, con una formula fortunata,
«iperoggetti». Questi oggetti sono «entità diffusamente
distribuite nello spazio e nel tempo» (ad esempio il
‘riscaldamento globale’ è un iperoggetto)18; si tratta di una
definizione insoddisfacente, perché rende impossibile stabilire
un criterio semplice per determinare se qualcosa è un
iperoggetto oppure no, eppure è proprio questa sublime
inclassificabilità la loro caratteristica distintiva. Cos’è quindi
un iperoggetto? Qualcosa che non può essere posto a
distanza, qualcosa che non assume mai la posizione di
oggetto contrapposto ad un soggetto: «non solo l’accesso agli
iperoggetti non avviene a distanza, ma diventa ogni giorno
più chiaro che quello di “distanza” è solo un costrutto
mentale e ideologico che mi protegge dall’eccessiva vicinanza
delle cose» (Morton 2018, 11).
È interessante notare come il punto di partenza di Morton
coincida perfettamente con quello di Lyotard, anche se ne
deriva una conseguenza opposta: per il teorico del
postmoderno, infatti, «al disuso del dispositivo metanarrativo
di legittimazione corrisponde in particolare la crisi della
filosofia metafisica» (Lyotard 2005, 6). Morton condivide la
diagnosi di Lyotard: «proprio perché non esiste nessun luogo
in cui si possa dire di essere al di fuori delle cose, il risultato è
che siamo consapevoli della verità di una massima come “non
c’è metalinguaggio” in maniera persino più profonda di chi
quella massima l’ha inventata» (Morton 2018, 14). Da questa
massima Lyotard deriva la constatazione che quello che
‘rimane’ è una sorta di «agonistica generale» intessuta di
«giochi linguistici» fra loro in competizione (Lyotard 2005,
22). Si tratta di una conclusione per nulla disfattista e
tantomeno ‘postmoderna’: Lyotard sta dicendo che l’umano è
nel mondo, e che il mondo è inseparabile dalla sua attività sul
mondo (che cos’è questa se non una definizione anticipata
dell’antropocene?). Lyotard trae le conclusioni etico-politiche,
ed ecologiche, delle premesse kantiane. Anche Morton, in

18
Morton 2018, 11.
226 Il sublime del reale, ovvero materialismo e teologia

fondo, e con lui l’OOO, si rifà a Kant, ma in un modo molto


particolare: da un lato infatti vagheggia di un mondo pre-
kantiano di cose-in-sé; dall’altro, però, propone di avere a che
fare con questo in sé in un modo del tutto non scientifico,
bensì estetico-religioso19: «l’iperoggetto», infatti, «può ben
candidarsi a diventare quello che Heidegger chiama “l’ultimo
Dio” o quello che Hölderlin definisce “il potere che salva” e
che cresce là dove c’è il pericolo» (Morton 2018, 35).
Analizziamo, da ultimo, le caratteristiche degli iperoggetti,
e vedremo che coincidono con quelle divine. La realtà degli
iperoggetti è affatto non locale, ossia tutto è collegato con
tutto: «al livello più profondo della realtà non esiste nulla che
possa essere detto locale. La località è un’astrazione. […] La
pioggia che mi ha bagnato in California a inizio 2011
probabilmente è stata causata dallo tsunami che intanto la
Niňa aveva sollevato nell’Oceano Pacifico per poi scaricarlo a
riva – essendo la Niňa una manifestazione del riscaldamento
globale» (Ivi, 68). Dio è dovunque, ossia Dio è il mondo come
infinito iperoggetto. Che fine fa il soggetto, posto di fronte ad
un iperoggetto? Qui l’OOO si allontana da Kant, perché svela
l’insostenibilità teorica della sua nozione di sublime, in cui
cerca invano di tenere insieme il limitato e l’illimitato: al
cospetto dell’iperoggetto «a dissolversi non è la realtà, ma il
soggetto con la sua facoltà di “rispecchiare” le cose, di essere
separato dal mondo allo stesso modo di qualcuno che guarda
un riflesso in uno specchio – isolato da una guaina ontologica
di vetro riflettente» (Ivi, 52). Ci troviamo ora e
definitivamente nell’«età dell’Asimmetria» in cui «il non-
umano è fuori controllo, irrimediabilmente ritratto rispetto
all’accesso umano» (Ivi, 221).
Si vede così quale sia la parabola della OOO: da una critica
pre-kantiana a Kant finisce per approdare ad una fusione
mistica con l’iperoggetto mondo=Dio. Questo significa che
l’OOO non è realmente riuscita a fare i conti con Lyotard e la
svolta linguistica20, cioè proprio con la massima lacaniana «il

19
Cfr. Hayles 2014.
20
Cfr. Cimatti 2018.
Felice Cimatti 227

n’y a pas de métalangage». Quello che infatti manca nella


OOO è un pensiero di come l’animale del linguaggio possa
fare i conti, dentro il linguaggio, con il linguaggio21. La
radicalizzazione romantica22 del sublime kantiano non è una
soluzione, perché si limita a proporre un salto ingiustificato e
ingiustificabile dalla cosa-per-noi alla cosa-in-sé. Il punto è
che Homo sapiens non è altro che questa stessa insuperabile
differenza23. Per superare Kant, ammesso che sia possibile,
non è sufficiente tornare ‘speculativamente’ al mondo pre-
critico: occorre prima passare per Kant e attraverso Kant. Un
passaggio che l’OOO non ha fatto, e non sembra attrezzata a
fare24.
Quando infine l’iperoggetto è, allora l’umano così come
l’abbiamo conosciuto finora finalmente si dissolverà (proprio
come la visione diretta di Dio, per Agostino, costituirà il
«premio della nostra fede»): «brindiamo allora alla cosiddetta
fine del mondo: ora comincia la Storia, la fine del sogno tutto
umano per cui la realtà ha senso solo per gli umani. Ora
abbiamo fatto il primo passo fuori dal bozzolo del mondo,
abbiamo la possibilità di stringere nuove alleanze fra umani e
non-umani» (Ivi, 142). In altri tempi questo tempo
millenaristico della «fine del mondo» (Ivi, 137) si sarebbe
chiamato, e senza fare tante storie, Regno dei Cieli.

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21
Cfr. Cimatti 2019.
22
Washington 2015.
23
Cimatti 2015.
24
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