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L’ipotesi scettica dei cervelli in una vasca

Introduzione

Che cos’è la verità? La domanda si presenta incessantemente nel corso della storia
del pensiero, e la filosofia, fin dalla sua nascita, ha intrecciato molti dei suoi percorsi
intorno a questo quesito. Al contempo, il discorso sulla conoscenza è inscindibile da
quello sulla realtà. Verità ed essere si richiamano l’una con l’altro, riflettendosi
reciprocamente tanto nei presupposti su cui vertono quanto nelle conseguenze alle
quali conducono. In fin dei conti, come poter parlare della verità senza una sia pur
minima concezione di ciò riguardo cui dire l’essere vero o falso? E allo stesso modo,
come poter parlare – o pensare – di una qualsiasi realtà senza accordare un valore di
verità a ciò di cui si sta dicendo o pensando? Possiamo però affermare che, almeno
fino alla tarda modernità, la questione ontologica rivestiva un ruolo fondativo rispetto
alla verità, una primarietà sintetizzabile nella massima tomista veritas supra ens
fundatur. Il discorso epistemologico, quindi, non è ontologicamente neutrale nella
misura in cui deriva da una concezione, a volte implicita, sull’essere e la realtà.

A riprova di ciò, si può evidenziare una costante di carattere storiografico: ogni


grande crisi del paradigma ontologico vigente è segnato dal riemergere d’istanze
scettiche, volte a minare – con più o meno radicalità e al di là di tutte le loro possibili
sfaccettature – le condizioni di possibilità della verità. La stessa nascita della filosofia,
secondo la ricostruzione di Giorgio Colli (Colli 1975), è il frutto della reazione alla
crisi del pensiero arcaico, il cui elemento religioso – la sfida dell’enigma posto dal dio
all’uomo, espressione della frattura metafisica che separa i due piani– si era
cristallizzato nell’agone dialettico, portando così al pericolo di un pensiero sradicato
dalla sua origine, potenzialmente distruttivo e, in quanto tale, nichilistico. Alla luce di
ciò bisogna leggere il diktat parmenideo – l’essere è e il non essere non è – dove «l’
“è” significa la parola che salvaguarda la natura metafisica del mondo, che la traduce
nella sfera umana, che manifesta ciò che è nascosto» (ivi, pp. 88-89). Chi può
legittimare, viene da chiedersi, un tale verdetto? «E la dea che presiede a questa
manifestazione è “Aletheia”, la “verità”» (ibidem). Essa, dunque, viene a costituirsi

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nel momento in cui il fondamento ontologico è in bilico tra l’essere e il non essere.
Bisogna sottolineare, però, che questo costituirsi della verità non è neutrale nelle sue
modalità, coerentemente con la non neutralità dell’istanza ontologica cui soccorre;
l’aletheia si pone come entità del mondo, trascendente rispetto al logos umano, al
quale impone – da buona tiranna – l’essere.

Sebbene Parmenide sia legato al pensiero arcaico-religioso – non ancora sistematico


ed esplicito rispetto ai meccanismi logici del discorso razionale – è evidente che nel
suo argomento è già operativa quella che sarà chiamata refutazione elenctica, ovvero
una confutazione che «per distruggere il discorso si avvale del discorso» (Aristotele
Metafisica, IV, 1006a25), arrivando a mostrarne l’autocontraddittorietà. Anzi, ciò è
perfettamente coerente con quello che era lo svolgimento delle sfide dialettiche; il
primo sfidante doveva scegliere una delle due tesi – antinomiche tra loro – riguardanti
un determinato problema, mentre il secondo aveva il compito di confutare
l’avversario attraverso una serie di domande, fino a portarlo a sostenere la tesi
opposta e quindi alla contraddizione. È particolarmente significativo che la scelta
iniziale della tesi da difendere fosse, di fatto, superflua: qualsiasi argomento era
sottoponibile alla refutazione elenctica e, nel caso non avvenisse, ciò era da imputare
all’incapacità del domandante (cfr. Colli 1975, pp. 86-87). Nonostante Parmenide
tenti di mettere in salvo l’essere da questo meccanismo – bloccandolo di fronte alla
necessaria verità dell’essere – la sua stessa tesi viene attaccata, secondo le stesse
modalità dialettiche, da Gorgia nel celebre scritto Sul non essere, rovesciando tanto
l’istanza ontologica che quella epistemologica.

Da tutto ciò possiamo arrivare a una parziale conclusione: lo scetticismo è


connaturale alla filosofia stessa, l’accompagna come un’ombra, e sarebbe, oltre che
un fraintendimento, un indebito pressapochismo considerarlo come semplice
irrazionalismo. Viceversa, esso può svolgere ancora oggi un’importante funzione
teoretica. Come proverò a mostrare nelle seguenti pagine – attraverso l’analisi
dell’argomento di Hilary Putnam dei cervelli in una vasca – il pensiero trova, nel
domandare delle istanze scettiche, la misura entro cui dire con verità della realtà che
indaga. Procederò, quindi, analizzando nel primo capitolo le tesi di Putnam e nel
secondo alcune possibili criticità. Infine, tenterò nelle conclusioni di riallacciare gli
argomenti esposti per approfondire il significato e la valenza della dubbio scettico.

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1. Non siamo cervelli in una vasca

Il pensiero di Hilary Putnam si è contraddistinto – oltre che per profondità e


acutezza – per un costante sviluppo delle proprie tesi, soggette a più ripensamenti e
svolte teoretiche. Una di esse è il passaggio dal realismo metafisico al realismo
interno, esplicitato apertamente in Reason, Truth and History (Putnam 1981b). Ora,
se di ogni opera si può dire che presenti una pars costruens e una pars destruens, nel
caso del testo di Putnam ciò assume una particolare sfaccettatura, scaturendo
entrambe dalla stessa istanza critica che ha portato l’autore ad avanzare la nuova
prospettiva e abbandonare la precedente. Il punto in cui le due pars arrivano quasi a
coincidere, il luogo dove la distanza che le separa è la più ristretta possibile, è il
dubbio scettico, proposto – a riprova della sua decisività, già nel primo capitolo – in
una declinazione fantascientifica, l’ipotesi dei cervelli in una vasca (d’ora in poi
CIV). La premessa meta-teoretica a ogni svolgimento possibile dell’argomento è che
«argomentare a favore o contro l’ipotesi dei CIV non è un compito neutrale, ma
presuppone una ben determinata posizione metafisica dal cui punto di vista sia
possibile descrivere la situazione epistemica degli esseri umani nel mondo» (Dell’Utri
2004, p. 215)1. In particolare, le posizioni metafisiche cui ci si riferisce appartengono
tutte all’alveo del realismo, in quanto l’argomento non mette in questione l’esistenza
o meno di una realtà, ma solo le condizioni di possibilità epistemiche che da esse
derivano. In ragione di ciò, in questa formulazione il dubbio scettico si caratterizza
come «un’analisi delle precondizioni per pensare, rappresentare, riferirsi a qualcosa»
(Putnam 1981b, p. 22), ovvero un’analisi sul modo in cui è possibile rendere conto del
rapporto conoscitivo tra la mente e il mondo.

L’argomento – nella sua teorizzazione più forte – consiste nell’ipotesi di un mondo


dove tutti gli esseri umani siano in realtà dei cervelli posti dentro a delle vasche,
riempite di un liquido nutritivo, e collegati tramite dei cavi a un computer che «fa sì
che la persona di cui quello è il cervello abbia l’illusione che tutto sia perfettamente
normale» (Putnam 1981b, p. 12), ovvero identico a quella che è la nostra percezione.
La funzione del computer è, quindi, di simulare ogni rappresentazione della realtà, la

1
L’analisi dell’argomento presentata in questo capitolo segue, in buona parte, quella in Dell’Utri 2004,
cap. 10.

3
quale è costituita solamente dai CIV e dal computer stesso. Inoltre, si può immaginare
che questa condizione sia esistita da sempre, e che tutto quello che è il mondo
dell’argomento – computer, cervelli ecc. – sia frutto del caso e non di uno scienziato
che coordina le illusioni. In questa rappresentazione del dubbio scettico, accettando
per vero lo scenario immaginato, la domanda diviene: «saremmo in grado, se fossimo
cervelli in una vasca nelle condizioni descritte, di dire o di pensare che lo siamo?»
(ivi, p. 13). Putnam non solo anticipa immediatamente la risposta che «no, non
saremmo in grado» né di pensare né di dire che siamo CIV, ma aggiunge anche che
tale condizione «non può assolutamente essere vera. Essa non può assolutamente
essere vera proprio perché, in un certo modo, si confuta da sola» (ibidem). Quindi,
secondo quanto detto più sopra, la confutazione dell’enunciato “noi siamo CIV” è una
refutazione elenctica, in virtù della quale l’enunciato stesso implica la propria
contraddizione (p → ¬p).

Una volta esposta l’ipotesi, Putnam si interroga su quali siano i riferimenti di un


qualsiasi enunciato proferito dai CIV. Nonostante essi possano esperire immagini del
tutto identiche alle nostre – e sottolineando che i cervelli sono perfettamente
funzionanti – i denotati di ogni enunciato non possono che essere le immagini
prodotte dal computer. Se, ad esempio, il computer facesse apparire un albero,
l’enunciato dei CIV “vedo un albero” si riferirebbe all’immagine corrispondente
(albero*) – o, tutt’al più, agli impulsi elettrici – «poiché non c’è nulla che faccia sì
che il loro pensiero “albero” rappresenti un albero reale» (ivi, p. 19). Ora, applicando
questo risultato all’ipotesi “noi siamo CIV” si ottiene che i riferimenti delle parole
“cervelli” e “vasca” devono necessariamente essere le immagini, e quindi quello che
si sta dicendo è “noi siamo cervelli* in una vasca*”. A sua volta

parte dell’ipotesi secondo cui noi saremmo cervelli in una vasca è che noi non siamo cervelli
in una vasca nell’immagine (l’essere cervelli in una vasca, cioè, non fa parte della nostra
allucinazione), per cui, se siamo effettivamente cervelli in una vasca, allora l’enunciato
“siamo cervelli in una vasca” dice qualcosa di falso (se pur dice qualcosa). In breve, se siamo
cervelli in una vasca, allora “siamo cervelli in una vasca” è falso. Così esso è
(necessariamente) falso. (ivi, p. 21)

L’ipotesi “noi siamo CIV” implica, quindi, la sua negazione, e per il principio di
non contraddizione risulta falsa. Considerando, però, che il nesso cruciale per la

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confutazione risiede nel negare ogni possibile riferimento esterno delle parole dei
CIV, in che modo possiamo essere certi che ciò non avvenga?

Per tale ragione, occorre precisare le premesse implicite da cui Putnam muove il
ragionamento (cfr. ivi, pp. 20-23). Lo strumento logico della refutazione elenctica,
infatti, è di per sé insufficiente alla confutazione 2 , necessitando di una struttura
teoretica che chiarisca i limiti concettuali entro cui è possibile – e ragionevole –
svolgere l’argomento. Per questo motivo, Putnam definisce il suo ragionamento «a
priori, non nel vecchio senso “assoluto” […] ma piuttosto nel senso di un’indagine su
che cosa sia ragionevolmente possibile assumendo certe premesse generali, o facendo
certe assunzioni teoriche molto ampie» (ivi, p. 22). L’argomento quindi, continua
l’autore, ha una natura trascendentale affine al criticismo kantiano, con l’importante
differenza che le premesse sono assunte empiricamente, e quindi suscettibili di errore.
La prima e più generale delle assunzioni in questione recita che «la mente non ha
alcun accesso a cose esterne o proprietà, se non quello che le proviene dai sensi»
(ibidem), specificata poi nelle premesse che «le teorie magiche del riferimento sono
errate» (ibidem) e che «non ci si può riferire a certi generi di cose (per esempio, gli
alberi) senza aver avuto alcuna interazione causale con essi» (ivi, p. 23). Queste
ultime due assunzioni, di fatto, costituiscono le uniche alternative che possano
giustificare la prima premessa. Identificabili, rispettivamente, con le teorie
intenzionali e causali del riferimento, alla prima di esse viene negata validità3 in tutte
le sue declinazioni. La veridicità della seconda, invece, è teoreticamente più
problematica in virtù della sua neutralità metafisica (cfr. Dell’Utri 2004, cap. 5, ¶ 6)
ed è, quindi, soggetta a vari impieghi a seconda della posizione metafisica sostenuta –
come d’altra parte si evince dalla presenza della stessa nelle differenti fasi del
pensiero di Putnam.

Ad ogni modo, l’idea condivisa da tutte le formulazioni della teoria causale è che

2
Secondo Dell’Utri – il quale, bisogna dire, non si riferisce mai esplicitamente alla refutazione
elenctica – «è importante sottolineare che non si è giunti a tale conclusione [la confutazione
dell’argomento] in virtù di un’analisi logica dell’enunciato “Noi siamo CIV”: sulla base della pura e
semplice analisi del senso dell’enunciato non sarebbe stato possibile confutare l’affermazione dello
scettico» (Dell’Utri, 2004, p. 226).
3
Putnam argomenta l’erroneità delle teorie magiche, negando un rapporto necessario fra le
rappresentazioni e i loro riferimenti, cfr. Putnam 1981, pp. 23-27. Ai fini del nostro discorso, non è
rilevante discutere la posizione di Putnam al riguardo, sebbene si possano muovere critiche pertinenti.
Una di queste è contenuta in Searle 2004, cap. 6.

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la conditio sine qua non affinché l’uso di una parola da parte di un parlante abbia un
riferimento è una certa relazione causale che deve sussistere tra quell’uso e l’oggetto
nominato dalla parola. Tale relazione causale è determinata da interazioni dirette o indirette
del parlante con l’oggetto in questione, ossia, da un contatto personale o da un contatto
verbalmente mediato con un altro parlante che ha avuto quelle stesse interazioni. Il parlante
deve inoltre avere l’intenzione di riferirsi a quell’oggetto […]. Questa complessa
interconnessione tra parlanti crea una cosiddetta “catena causale di riferimento” che,
allungandosi nello spazio e nel tempo, connette tutti gli usi della parola tra loro e questa
all’oggetto. (ivi, p. 221)

Anche un realista metafisico – un “esternista” – però, potrebbe sottoscrivere le due


clausole della teoria, con la precisazione che ogni catena causale sia del tipo
appropriato. «Ma», osserva Putnam, «come potremmo avere intenzioni che
determinino quali catene causali siano del “tipo appropriato”, a meno di non essere
già in grado di riferirci a qualcosa? » (Putnam 1981b, p. 59). L’argomentazione di
Putnam, insomma, rimarca che la posizione esternista cade vittima del dialelle – la
fallacia logica in cui le premesse derivano dalla conclusione, che a sua volta deriva
dalle premesse creando così un circolo vizioso. Inoltre, la fallacia nasconde la vera
clausola soggiacente alla teoria causale esternista: in ultima analisi, percorrendo per
intero una qualsiasi catena, ciò su cui si fonda il riferimento è il riconoscimento
dell’esistenza di «Oggetti Autoidentificanti» (ivi, p. 61) del tutto indipendenti dalle
capacità cognitive dei soggetti, il che equivale – oltre a ricadere in una concezione di
fatto corrispondentistica del riferimento – a sostenere un punto di vista dell’Occhio di
Dio. Nel caso dei CIV, dunque, sarebbe del tutto impossibile accertare la verità o
meno della propria condizione.

La posizione internista differisce proprio nel non accettare quest’ultima clausola,


sostenendo invece che l’esistenza degli oggetti autoidentificanti è dovuta alla
concettualizzazione degli schemi della mente attraverso i quali «scomponiamo il
mondo nei vari oggetti», e « poiché sia gli oggetti, sia i segni sono entrambi interni
rispetto allo schema di descrizione, è possibile dire quale segno corrisponde a quale
oggetto» (ivi, p. 60). L’ultima affermazione è decisiva, perché permette di evitare il
problema che si pone agli esternisti nel momento in cui devono giustificare una
corrispondenza tra due ordini ontologici differenti – i segni della mente e gli oggetti
del mondo – superando così trascendentalmente la classica dicotomia mente/mondo e
la necessità del punto di vista dell’Occhio di Dio. Se quest’ultima prospettiva può

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dirsi superata, sostenere la dipendenza del mondo dagli schemi concettuali rischia
però di configurare o un relativismo o un idealismo, cioè, in altre parole, passare
dall’impossibilità di possedere una giustificazione razionale ad averne troppe. Per
scongiurare ogni fraintendimento della sua posizione, Putnam specifica subito quale
ruolo abbia la realtà nel processo conoscitivo:

L’internismo non nega che ingredienti derivanti dall’esperienza concorrano alla conoscenza,
che non è considerata come una storia il cui unico vincolo sia la coerenza interna, ma nega
che vi siano ingredienti che non siano essi stessi modellati in qualche modo dai nostri
concetti, dal vocabolario di cui ci serviamo per narrarli e descriverli, o ingredienti dei quali si
può dare un’unica descrizione, indipendente da qualsiasi scelta concettuale. (ivi, p. 62)

Il vincolo della coerenza interna determina l’accettabilità razionale – la


giustificazione – delle varie asserzioni, senza però che la verità possa essere
identificata con l’accettabilità razionale stessa (cfr. ivi, p. 63). Infatti, continua
Putnam, alcune asserzioni accettabili in una determinata epoca successivamente
decadono, senza che con ciò si possa sostenere che erano vere allora e false poi.
Questo dimostra che l’accettabilità razionale è relativa alle condizioni epistemiche
contingenti, mentre «la verità è un’idealizzazione dell’accettabilità razionale.
Parliamo come se esistessero condizioni ideali da un punto di vista epistemico e
consideriamo “vera” un’asserzione se la si potesse giustificare anche in tali
condizioni» (ibidem).. Il trascendentalismo di Putnam elimina così la necessità di un
riferimento noumenico inconoscibile, proiettando nel momento in cui si raggiungono
condizioni epistemiche ideali il sostanziale ottenimento di una conoscenza piena della
realtà. La verità svolge, dunque, una funzione regolativa rispetto alla conoscenza,
costituendosi come un orizzonte epistemico che, almeno in linea di principio, è
conoscibile e giustificabile. Oltre a ciò, questo orizzonte è di fatto non oltrepassabile,
ineludibile nel suo essere precondizione di ogni asserzione: il nostro uso del
linguaggio ne è una prova, in quanto la regola implicita che lo sottende è che
«miriamo a pronunciare parole ed enunciati dotati di valore semantico» (Dell’Utri
2004, p. 223). Senza questa regola, ogni asserzione sarebbe o vuota di senso o
incomunicabile agli altri. La confutazione dell’ipotesi dei CIV risiede, allora, proprio
qui, nella misura in cui anche i CIV stessi mostrano «un pieno possesso della capacità
di parlare – e, quanto a ciò, di pensare – : ossia di una capacità di usare il linguaggio
e il pensiero in una maniera referenziale sostanziale. E questo è qualcosa che un CIV
[…] non può fare» (ivi, p. 229).

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2. Non siamo cervelli in una vasca?

Nella confutazione di Putnam dell’ipotesi CIV, abbiamo osservato che il passaggio


più importante risiede nel chiarire che il riferimento dei CIV non possano che essere
le immagini prodotte dal computer, invalidando così la tesi per autocontraddizione:
partendo da “noi siamo CIV” (P) si arriva a “non siamo CIV” (¬P). Bisogna però
osservare che l’argomento è suscettibile di una correzione. Posta infatti la tesi P per
ipotesi – e quindi fissando in un riferimento “esterno” l’asserzione – la conclusione
cui si giunge è in realtà ¬P*, essendo le immagini i riferimenti della percezione; e
questo non costituisce di per sé una contraddizione. A questo punto, però, si potrebbe
far notare che anche la tesi stessa è imprecisa, risultando invece essere P*, sempre per
ipotesi e secondo le due premesse sopra esposte. Il che equivale in effetti a una
conferma dell’impossibilità dei CIV di dire o pensare di essere dei CIV, ma per le
ragioni e con conseguenze opposte a quelle che vuole sostenere Putnam. Come
sottolinea Thomas Nagel, dell’argomento si può dire

Only that I can’t express my skepticism by saying “Perhaps I’m a brain in a vat”. Instead I
must say, “Perhaps I can’t even think the truth about what I am, because I lack the necessary
concepts and my circumstances make it impossible for me to acquire them!” If this doesn’t
qualify as skepticism, I don’t know what does! (Nagel 1986, p. 73)4

Il passo mette bene in luce un aspetto del dubbio scettico che Putnam cerca di
eludere. Lo scettico, infatti, non mira ad affermare una condizione di realtà invece che
un'altra, ma nega che sia possibile stabilirne una con certezza. Quindi, la stessa
affermazione “siamo dei CIV” è per lo scettico non verificabile, tanto quanto la
conclusione “non siamo dei CIV”. Questo in virtù del fatto che sono autoconfutative
sia tutte le asserzioni generali sulla verità che quelle sulla falsità. Infatti,
l’affermazione “tutto è vero” porta ad affermare che anche l’enunciato “tutto è falso”
è vero, così come “tutto è falso” comporta la falsità dell’enunciato stesso (cfr.
D’Agostini 2002, § 5). In questo senso – e come si vede anche nel testo di Nagel
sopra riportato – la formulazione corretta dell’ipotesi CIV dovrebbe essere “come
posso sapere di non essere un CIV?”, invertendo così l’onere della prova. Che cosa,
infatti, ci garantisce la veridicità dei nostri riferimenti? Come possiamo sapere di

4
Il testo è citato in Goldberg 2016, p. 172.

8
essere in una condizione P quando pensiamo o parliamo, e non in una condizione P*?
Il problema, quindi, riguarda la possibilità di giustificare la verità, è cioè in questione
«la verità della verità, ossia la possibilità di decidere se è vero quel che diciamo-
crediamo vero, e se è possibile far riconoscere agli altri come vero, e giustificare
come vero, quel che diciamo vero» (cfr. ivi, p. 200). Come abbiamo visto, Putnam
ritiene che il nostro uso del linguaggio e la teoria causale del riferimento garantiscano
la veridicità dei nostri riferimenti, collocando la pratica linguistica all’interno di un
orizzonte epistemico di per sé veritativo nella sua funzione regolativa. In questo
modo, viene preventivamente rimosso il rischio di un regresso all’infinito5: se questo
mondo è l’unico mondo possibile, o – il che poco cambia – ogni mondo possibile è
soggetto alla stessa regola epistemica soggiacente a ogni semantica possibile, la
regola stessa non ha bisogno di essere a sua volta giustificata, in quanto
semplicemente data e non superabile, e tantomeno discutibile.

Il ragionamento è ascrivibile in pieno al trascendentalismo, in particolare nella sua


immanentizzazione della conoscenza e della conoscibilità. Se, all’opposto, la regola
epistemica invece che immanente fosse trascendente – come nella prospettiva
dell’Occhio di Dio – si creerebbe il regresso, ovvero ogni regola che giustifica il fatto
di essere in una condizione linguistica P, dovrebbe essere a sua volta giustificata, e
così all’infinito6. La prospettiva trascendentale, però, comporta nuove difficoltà. Un
concetto di verità immanente agli schemi concettuali risulta di per sé equivoco
rispetto alla realtà, potendo condurre a un relativismo – di cui è consapevole, come
visto sopra, lo stesso Putnam – vicino alla concezione protagorea del “tutto è vero”7,
nel senso di “tutto è vero per noi”. Ciò che viene eluso, quindi, è il cuore pulsante
dello scetticismo, che non è «la verità “interna” delle mie impressioni, ma la
possibilità del confronto esterno, in rapporto al mondo reale “in sé”» (ibidem).
Affrontando l’argomento scettico da un punto di vista internista, arriviamo alla
conclusione che ogni ipotesi divergente da una concezione epistemica della realtà
sarebbe insensata per noi, ma non ontologicamente impossibile, riducendo di molto la
stessa portata veritativa proposta, vicina a una prospettiva che oscilla tra il

5
Al riguardo, si veda anche l’analisi di Janet Folina, in Goldberg 2016, §10.3.3.
6
Si può confrontare questo punto con le osservazioni di Dell’Utri relative alla tesi di equivalenza,
Dell’Utri 1996, cap. 1, §2.
7
È di questo avviso D’Agostini, della cui analisi ho seguito alcuni punti e alla quale rimando, cfr.
D’Agostini 2002, §42.

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soggettivismo e l’idealismo. D’altra parte, è probabilmente questo il prezzo che si
deve pagare nell’eliminare ogni differenza ontologica tra i due estremi del processo
conoscitivo, il soggetto e il mondo. Lo stesso Kant era consapevole di ciò, riservando
un ruolo fondante per la sua epistemologia al noumeno, ovvero a ciò che è e non può
essere conosciuto pienamente. Se la verità è immanente rispetto ai trascendentali,
coincidente in essi, rimane però trascendente rispetto al mondo in quanto tale,
ristabilendo così una differenza che salvaguarda dal relativismo, in particolare in
ambito morale.

Il riferimento agli “ingredienti del mondo” di Putnam può sembrare analogo nelle
esigenze, anche se, a mio avviso, è più sfumato rispetto alla funzione epistemica del
noumeno kantiano. Dovendo essere conoscibili – almeno in linea di principio – i
referenti da cui partono le catene causali, gli ingredienti del mondo perdono almeno in
parte il carattere trascendente della cosa in sé. Lo strumento concettuale che, invece,
risulta decisivo nel tentativo di ristabilire una prospettiva realista all’internismo, è la
verità come idealizzazione dell’accettabilità razionale. Superando la prospettiva
coerentista, Putnam ritiene che, una volta raggiunte condizioni epistemiche ideali,
l’accettabilità razionale arriverebbe a convergere con la verità nel suo grado più alto.
Anche ammettendo ciò, però,

non si potrà mai avere, per usare le parole dello stesso Putnam, “l’assoluta certezza di essersi
avvicinati il più possibile” all’obiettivo; non si potrà mai avere, dunque, l’assoluta certezza
che una proposizione che è razionale accettare in una situazione epistemica reale sia una
proposizione che sarebbe razionale accettare in una situazione epistemica ideale – che sia,
cioè, una proposizione vera. (Volpe 2014, p. 65)

L’idealità della situazione epistemica ipotizzata da Putnam, quindi, rimane soggetta


all’incertezza veritativa scaturente dall’essere indistinguibile da una condizione
“solamente” reale, proprio in virtù del suo carattere immanente e interno ai soggetti
nella forma di schemi concettuali. Se, invece, per “ideale” si intende una sorta di
disvelamento della verità ad opera delle condizioni epistemiche raggiunte, allora
questa prospettiva diviene pressoché indistinguibile da quella dell’Occhio di Dio, cioè
trascendente rispetto alle condizioni epistemiche reali (cfr. Corvi 2005, § 3). In
entrambi i casi, dunque, e qualsiasi sia la nostra condizione epistemica, sarà sempre
possibile chiedersi se siamo, o scopriremo di essere, dei cervelli dentro a delle vasche.

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Conclusione

L’ipotesi dei cervelli in una vasca viene spesso accostata, anche dallo stesso Putnam,
al genio maligno di Descartes (cfr. Putnam 1981b, p. 14; Dell’Utri 2004, p. 215;
Folina 2016, §10.1). Nei loro sviluppi, però, si possono rilevare importanti differenze.
La tesi di Descartes, infatti, sfocia in un argomento ontologico bipartito: per quanto
riguarda il soggetto, la certezza dell’esistenza viene individuata nell’essere del
pensiero – «intendo con grande chiarezza che per pensare bisogna essere» (Descartes
1641, § 5, rr. 28-29) – mentre, per garantire la non illusorietà del mondo, si deve
avvalere delle dimostrazioni dell’esistenza di Dio. In entrambi gli ambiti, quindi, e in
particolare per la realtà esterna, il dubbio scettico viene acquietato solamente nel
momento in cui si mostra il fondamento ontologico della conoscenza, trascendente
rispetto al soggetto e al mondo. L’ipotesi dei CIV, invece, non investe la sfera
ontologica, ma rimane sempre focalizzata sulle possibilità epistemiche del soggetto.
Rispetto al genio maligno cartesiano, quindi, l’argomento dei CIV può essere
considerato una sua estensione (cfr. Folina 2016, p. 156), il cui obiettivo diventa
eliminare ogni traccia di trascendenza nel rapporto conoscitivo col mondo, pur
garantendone la conoscibilità. In altri termini, le due posizioni metafisiche di partenza
sono differenti, generando così sviluppi altrettanto diversi.

Ciò che accomuna i due argomenti, a mio avviso, è come entrambi si servono
dell’istanza scettica. Sia in Descartes che in Putnam, il dubbio è assunto in modo tale
che possa emergere una precisa idea di razionalità, tipicamente “moderna” nella sua
implacabile cogenza interna. In entrambi gli autori, la ragione non può essere
soddisfatta finché non è dissolta ogni sua ombra, certa e sicura nell’essere padrona di
sé stessa. Per converso, la radicalità dello scetticismo non è affrontata fino in fondo,
arrestandola nel momento in cui la ragione stessa può essere esposta di fronte alla sua
contraddizione. Quindi, il “dover essere per pensare” è giustificazione sufficiente
dell’ego cogito, così come l’uso veritativo del linguaggio lo è per situare in un
orizzonte di senso il nostro pensiero. Per dirla con le parole di Colli:

Il filosofo moderno è simile a un giocatore di scacchi che giuochi una partita da solo,
muovendo i pezzi dell’avversario in modo che sia utile (ma la cosa non deve trasparire) allo
svolgimento del proprio giuoco. (Colli 1974, p. 137)

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Per questa ragione, credo sia più fruttuoso declinare la posizione di Putnam
all’interno di una formulazione scettica più genuina, come la metafora della stanza
piena d’oro, proposta da Sesto Empirico nell’opera Contro i logici. L’immagine
descritta è la seguente:

Supponiamo una stanza al buio, piena d’oggetti d’oro, e supponiamo che qualcuno cerchi al
buio di trovare oro. Così è la situazione nel mondo, quanto alla verità: è probabile che in quel
che vediamo e afferriamo e in quel che ci sembra vero ci sia effettivamente oro, cioè verità,
ma non potremo mai essere certi che sia così. (Sesto Empirico, Contro i logici, libro I, 52, cit.
in D’Agostini 2002, p. 28)

Seguendo la metafora, ciò che manca per conoscere con verità la realtà esterna è una
luce che illumini la stanza e, con essa, la nostra situazione epistemica. Se è questa la
sfida posta dallo scettico, la domanda diviene allora: in che modo possiamo
rintracciare questa luce? E, anche una volta individuata, sarebbe possibile dire che
cosa sia? La risposta di Putnam, da quanto ricostruito nelle pagine precedenti,
consisterebbe nel ritenere che la luce è già presente nel soggetto, nella forma degli
schemi concettuali trascendentalmente costituiti: il mondo è così l’incontro tra ciò che
sussiste di per sé e la nostra capacità di illuminarlo. Usando un’altra metafora, ogni
asserzione o pensiero sul mondo è come una fotografia su di esso, o, più
precisamente, una fotologia, ovvero un pensare le varie realtà attraverso la luce
esercitata dal pensiero. Luce che, nel suo uso sociale, delimita e individua le pareti
della stanza/mondo in cui ci troviamo.

Anche ammettendo questo scenario, però, lo scettico potrebbe porre il dubbio che la
stanza sia vera e coerente in sé, ma situata in uno luogo di cui nulla sappiamo; e che,
una volta usciti, si comprenda che essa è solo una dell’ in(de)finito numero di stanze,
corridoi, anfratti, di volta in volta percorsi – scoprendo così di essere in un labirinto di
cui non esiste uscita e il cui centro, una volta trovato, si rivela essere una voragine,
vuota e impenetrabile al nostro sguardo come il suo senso, la cui contemplazione
condanna alla cupa e muta disperazione della scepsi. È forse in quel momento che il
prigioniero platonico, finalmente libero, potè volgersi indietro per ascendere
dall’oscurità della caverna. E contemplando quella voragine alla luce del Sole,
comprese che era solo un’ombra proiettata dalla ragione stessa.

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Bibliografia primaria

- Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.


- Colli G., Dopo Nietzsche, Adelphi, Milano 1974.
- Colli G., La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975.
- Descartes R., Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, 2 voll., UTET, Torino
1994.
- Putnam H., Reason, Truth and History, Cambridge University Press 1981;
trad. it. a cura di A. N. Radicati di Brozolo, Ragione, verità e storia, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1989.

Bibliografia secondaria

- Corvi R., Realismo interno e razionalità nel pensiero di Hilary Putnam,


Rivista Di Filosofia Neo-Scolastica, vol. 97, no. 3, 2005, pp. 473–496. JSTOR,
www.jstor.org/stable/43063678
- D’Agostini F., Disavventure della verità, Giulio Einaudi editore, Torino 2002.
- Dell’Utri M., Il falso specchio, EDIZIONI ETS, Pisa 1996.
- Dell’Utri M., L’inganno assurdo, Quodlibet, Macerata 2004.
- Goldberg S., Brain in a vat, Cambridge University Press 2016.
- Searle J., Seeing Things As They Are, Oxford University Press 2015; trad. it. a
cura di D. Bordini, Vedere le cose come sono, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2016.
- Volpe G., La verità, Carocci editore, Roma 2014.

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