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“IL GIUSNATURALISMO IN EUROPA”

PROF.SSA MARIA NATALE


Università telematica Pegaso Il Giusnaturalismo in Europa

Indice

1 I presupposti dottrinali della codificazione---------------------------------------------------------- 3

2 Ugo Grozio ------------------------------------------------------------------------------------------------- 6

3 Thomas Hobbes ------------------------------------------------------------------------------------------- 8

4 Jhon Locke----------------------------------------------------------------------------------------------- 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 I presupposti dottrinali della codificazione


I presupposti dottrinali per cui nella cultura giuridica europea la crisi del diritto comune
portò a piena maturazione l’idea di codificazione sono da rintracciare nella cultura giusfilosofica
che si sviluppò dagli ultimi decenni del XVII secolo sino a dopo la metà del secolo XVIII.
Si trattò di correnti, dapprima giusnaturalistiche e poi illuministiche, che dominarono la
cultura europea e che condizionarono fortemente gli sviluppi non solo del pensiero giuridico, quindi
a livello astratto, ma anche della politica del diritto nel suo attuarsi in concreto.
Il pensiero giusnaturalistico moderno fiorì in Europa tra il Seicento ed il Settecento. Esso
però aveva origini antiche classiche: l’idea che esistesse un diritto naturale scaturente da una natura
buona e benefica era antichissima nella cultura occidentale. Addirittura, le sue prime origini
rinviano al pensiero filosofico greco e solo successivamente vennero trasmesse al mondo romano ed
al pensiero medievale.
Per San Tommaso D’Aquino il diritto naturale era il diritto che partecipava, assieme al
diritto divino indicato nelle Sacre Scritture, all’ordine armonico di origine divina. Poteva perciò
essere conosciuto dall’intelletto umano solo se la ragione era illuminata rettamente: una recta ratio
era capace di conoscere tutto il diritto.
Il giusnaturalismo postula l’esistenza in assoluto di un complesso di regole autoevidenti di
giustizia e di valori etico-sociali universali (diritto naturale), che ha costante fondamento nella
natura razionale dell’uomo.
I giusnaturalisti ritengono, cioè, che esista una tabula universale di regole extra-legali della
convivenza umana, che in quanto naturali sono necessariamente anche razionali, e per ciò stesso
universali ossia valide per tutti, per tutto il genere umano.
E’ chiaro che, così formulata, l’idea di diritto naturale si contrappone all’idea di diritto
positivo, inteso quale complesso di precetti scritti, posti da un legislatore e come tali prodotti dalla
storia e validi e vigenti in un determinato contesto spazio-temporale. Ricordiamo che il diritto
positivo si definisce tale perché positivo deriva da positum, che significa posto, scritto, fissato da un
artefice con una valenza spazio temporale definita.
Proprio per la loro intrinseca natura, le argomentazioni giusnaturalistiche hanno ripreso
attualità anche recentemente nella nostra società. Si fa riferimento ad esse tutte le volte in cui si
intende definire quell’insieme di diritti e di valori irrinunciabili propri dell’individuo ed insiti nella
sua natura. Ed è proprio nella parola ‘irrinunciabile’ la chiave per capire il giusnaturalismo: i diritti

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naturali sono tali perché sono insiti nella natura dell’uomo, nella sua intima essenza. Rispetto a
questi diritti, patrimonio intangibile dell’umanità, il potere legislativo degli Stati deve arrestarsi: lo
Stato non può negare i diritti naturali dell’individuo.
Naturalmente, una simile speculazione filosofica presta il fianco ad una pluralità di
interpretazioni a proposito del significato della parola natura.
E’ chiaro, infatti, che mentre per la filosofia scolastica, ossia per San Tommaso, la natura
dell’uomo era da rinvenire nella sua origine divina (tutti gli uomini sono creati da Dio e posti ad
immagine di Cristo) per i teorici moderni del diritto naturale, che apparivano liberi da
preoccupazioni teologiche e religiose, il rinvio all’elemento della natura esprimeva la negazione di
ogni ordine ontologico precostituito di origine divina ed, invece, l’affermazione della libera
soggettività umana quale fonte del diritto.
Il giusnaturalismo moderno fu dunque il prodotto di quella «crisi della coscienza europea1»
che attraversò l’Europa nel corso del Seicento e che fu crisi del razionalismo cristiano, ossia crisi di
un patrimonio di certezze di origine divina su cui si era sviluppata tutta la civiltà europea nel corso
del Medioevo.
In età moderna la speculazione filosofica giusnaturalistica fu arricchita e divenne dominante
con la diffusione della celebre opera del 1625 De jure belli ac pacis (Del diritto di guerra e di pace)
dell’olandese Ugo Grozio.
Prima di esaminare i caratteri dell’opera, è opportuno introdurre una schematizzazione che
possa aiutare a capire le idee guida del giusnaturalismo.
Prima di tutto, il giusnaturalismo si basa sull’idea che esistano alcuni diritti soggettivi innati
nell’individuo: si tratta di diritti assolutamente irrinunciabili, perché insiti nella sua natura.
L’essenza di questi diritti è da rinvenirsi in un originario stato di natura anteriore alla società
politica e civile, ossia precedente rispetto a quel contratto sociale che è posto a fondamento del
potere legittimo e dello Stato.
Coerentemente a questo sistema di idee, i giusnaturalisti nutrono fiducia nella possibilità di
mettere a disposizione dei consociati ed in vista del loro benessere un sistema scientifico di diritto
naturale ordinato in modo conforme alla ratio, coerente cioè con la ragione.

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La formula è di Paul Hazard.

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In realtà, la cultura giusnaturalistica diede vita, a sua volta, ad una molteplicità d’indirizzi
dottrinali che disgiuntamente svilupparono alcuni temi più ricorrenti2. Ma, pur esplicitandosi in
teorie e posizioni diverse, rimase costante l’idea che la libera soggettività umana fosse fonte di
produzione del diritto. In sostanza il paradigma che fu comune a tutta la speculazione
giusnaturalistica consistette nel ritenere che i diritti naturali non traessero la loro fonte in Dio, ma
nell’uomo.

2
Per lungo tempo è prevalsa nella storiografia filosofica e giuridica una rappresentazione sostanzialmente unitaria del
pensiero giusnaturalistico, ma gli studi più recenti, sviluppando gli spunti del Welzel, hanno rivelato le profonde
differenze esistenti tra i diversi filoni giusnaturalistici. I recentissimi studi di Dario Luongo sul tema del Consensus
Gentium hanno posto in luce, per esempio, la netta differenza tra il filone ‘idealistico’ facente capo a Grozio e Leibniz,
ed il filone ‘nominalistico’ facente capo a Hobbes e Pufendorf. Certo è che l’esistenza di posizioni molto diversificate
tra i grandi esponenti del pensiero giusnaturalistico non inficia la validità della nozione di giusnaturalismo moderno.

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2 Ugo Grozio
Ugo Grozio, giurista olandese nato nel 1583 e morto nel 1645, scrive nel 1625 la sua opera
più importante De jure belli ac pacis, ossia del diritto di guerra e di pace, che è considerato il primo
capolavoro del giusnaturalismo. Con questo scritto, infatti, il giurista olandese pone le basi della
dottrina giusnaturalistica e del diritto internazionale, un settore poco sviluppato e al tempo del tutto
carente di una disciplina positiva e moderna.
E’ facile rendersi conto dell’importanza di questo ambito del diritto alle soglie del XVII
secolo. La centralità acquisita dalle attività commerciali, l’importanza delle relazioni transoceaniche
rappresentano una forte sollecitazione per la regolamentazione delle relazioni internazionali. Ma
questa regolamentazione non può che partire da una riflessione capace di individuare alcuni principi
fondamentali, universali, validi per tutto il genere umano e capaci di costituire una base comune e
condivisa per tutti.
Grozio si rivelò il giurista capace di elaborare questa disciplina deducendone i principi
dall’universo culturale umanistico, da una cornice di principi autoevidenti espressione della giusta
ragione, della naturalis ratio dell’uomo. Erano quelli i principi ed i valori che, in quanto tratti dalla
natura umana, erano irrinunciabili e quindi non potevano essere sospesi né in guerra, né in pace.
L’indagine groziana prescinde, infatti, da ogni considerazione di carattere morale, religioso
o teologico. Per il giurista olandese il complesso dei principi di diritto naturale è completamente ed
assolutamente autosufficiente, valido «etsi daremus Deum non esse». Il che vale a dire che, anche
qualora Dio non essistesse, quell’assetto di valori resta provvisto della stessa validità.
Grozio sostiene che la natura dell’uomo è caratterizzata da un fondamentale istinto alla vita
sociale. Sulla base di questo principio, Grozio ritiene di poter enunciare un complesso di regole
universali ed autoevidenti, tutte rispondenti alla natura razionale e socievole dell’uomo, ossia al
suo istinto alla vita sociale. Sulla base di quei principi, autoevidenti e pertanto condivisi, deve
svilupparsi il diritto positivo, ossia il diritto posto dall’autorità legislativa.
Secondo Grozio, tre sono i principi primi autoevidenti, capaci di costituire il fondamento del
diritto positivo:
1) l’astenersi dall’appropriarsi dei beni appartenenti ad altri, ossia non rubare, e restituire
quanto eventualmente rubato
2) mantenere fede ai patti
3) riparare i danni causati per propria colpa.

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Da queste tre massime è possibile ricavare tutta la catena di precetti giuridici, man mano più
specifici e particolari, necessari per disciplinare compiutamente la vita della società e dei rapporti
umani.
Grozio immagina insomma un processo di normativizzazione, basato sul metodo deduttivo.
Bisogna dedurre dalle tre massime basilari tutti i precetti: il corpo normativo elaborato su quella
base è un insieme coerente e privo di contraddizioni e, come tale, può valere come diritto.
Dunque, tutto il diritto positivo trae origine da un diritto naturale prestatale. Ed infatti,
secondo Grozio, la vita sociale segue diverse fasi, passando da un originario stato di natura allo
stato civile.
La prima fase è data dallo stato di natura presociale, caratterizzato dalla convivenza
pacifica degli individui. Nello stato di natura tutti gli uomini vivono liberamente, posseggono i beni
in comunione tra loro, rispettano spontaneamente i patti.
Lo Stato di natura è, dunque, delineato da Grozio come la condizione in cui l’uomo realizza
il proprio istinto sociale, il proprio appetitus societatis.
Secondo Grozio, però, lo stato di natura è per sua natura precario, soggetto a entrare in crisi
per effetto dell’aumento dei bisogni e della diminuzione delle ricchezze disponibili. La nascita degli
istinti egoistici pone in pericolo la convivenza pacifica degli individui: lo stato di natura degenera
così nella violenza e nella sopraffazione.
Per evitare i pericoli della precarietà e perseguire l’utilità comune, gli uomini devono,
mediante un contratto, trasferire ad un Sovrano il potere di far rispettare coercitivamente la sfera di
interessi di ciascun individuo.
Con il contratto sociale, stipulato tra gli uomini ed il Sovrano, gli uomini diventano parte
dello Stato civile, ossia lasciano la loro condizione naturale e diventano membri di una comunità
organizzata di cives.
Il contratto sociale, da un lato fissa e delimita i diritti del singolo ed attribuisce al sovrano il
dovere di garantirli, dall’altro attribuisce al Sovrano i poteri cui tutti gli individui si assoggettano.
Il Sovrano, è dunque, in virtù del contratto, sociale posto a capo dell’organizzazione sociale:
l’autorità sovrana è collocata al vertice dello Stato.
Come si vede, nella teoria groziana è presente una visione assolutistica del potere che trova
nel contratto sociale la propria legittimazione. Tuttavia, i poteri del sovrano non sono illimitati
perché il contratto sociale è fonte anche dei limiti del potere sovrano.

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3 Thomas Hobbes
Nell’ambito del giusnaturalismo occupa una posizione di rilievo il pensiero dell’importante
filosofo empirista inglese Thomas Hobbes, nato nel 1588 e morto nel 1679. La sua speculazione
filosofica si caratterizza per essere la più lucida teorizzazione dell’assolutismo, ma anche la teoria
posta a fondamento del positivismo giuridico moderno.
La sua opera più importante fu scritta nel 1651 ed è intitolata Leviathan: nome che sta a
indicare la forma animalesca mostruosa simboleggiante lo Stato.
Anche Hobbes, come Grozio, presuppone l’esistenza di una condizione primigenia
dell’individuo che, sulla base delle premesse groziane, definisce Stato di natura. Per Hobbes, però,
questa situazione presociale e prestatale è tutt’altro che pacifica e serena.
Lo Stato di natura è uno Stato violento, dominato da passioni primordiali, sconvolto da un
continuo stato di guerra, e prima ancora, da una condizione di anarchia e di prepotenza. Malvagità,
egoismo, istinto di sopraffazione rappresentano l’ordinaria condizione dello Stato di natura.
In questo clima di guerra (bellum omnium contra omnes) e di violenza incontrollata,
l’uomo vive in una perenne condizione di pericolo in cui è posta in discussione la sua stessa
sopravvivenza. Per questa ragione, l’uomo è indotto a stringere un patto. Con il patto hobbesiano,
l’uomo rinuncia ai propri diritti naturali a favore di un Sovrano, cui tutti gli uomini si assoggettano
diventando sudditi.
Per indicare il vincolo tra il sovrano ed i sudditi si deve utilizzare la parola ‘patto’ e non
l’espressione contratto. L’utilizzo non è casuale. Il patto hobbesiano si caratterizza per il fatto di
essere stipulato tra i sudditi tra loro, e non tra i sudditi ed il Sovrano. Il Sovrano resta estraneo al
patto. I sudditi stringono il patto tra di loro per rinunciare ai propri diritti naturali e sottomettersi
all’autorità del Sovrano. Da quel momento in poi i sudditi godranno esclusivamente di quei diritti
che la volontà sovrana, attraverso la legge statuale positiva, vorrà attribuire loro.
Proprio per questa ragione, il filosofo Norberto Bobbio ha detto che Hobbes è un «filosofo
giusnaturalista in partenza ma giuspositivista all’arrivo».
Nella teorizzazione di Hobbes, dunque, è evidente che il Sovrano, restando fuori dal patto,
ha tutti i diritti a cui gli uomini hanno rinunciato, ma nessun dovere nei confronti dei suoi sudditi. Il
patto non vincola l’autorità sovrana. Per questo motivo, il patto hobbesiano è definito pactum
subiectionis, ossia patto di assoggettamento.

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Lo Stato civile che emerge dalla teorizzazione hobbesiana è dunque un autonoma politico,
una creatura artificiale mostruosamente autoritaria inventata dall’uomo in sostituzione dello stato
naturale, governato dalla paura: questa creatura è mossa, in vista del fine supremo della sicurezza,
dalle leggi feree del potere assoluto.
Come ha osservato Gioele Solari, nella teoria di Hobbes, l’assolutismo trova la propria
determinazione psicologica nella paura: il patto di assoggettamento è finalizzato all’esigenza di
pace e di armonia.
In questo quadro, spetta unicamente al Sovrano il potere di porre le leggi.
La legge non è altro che la dichiarazione di volontà di chi comanda. Coerentemente a questa
impostazione, secondo Hobbes, spetta unicamente al sovrano anche il potere di interpretare le
leggi. Infatti, se la legge è la dichiarazione di volontà di chi comanda, è logico che spetta solo a
quest’ultimo il potere di interpretare ossia di spiegare che cosa ha inteso comandare. Questo potere
spetta al Sovrano, che può affidarlo, solo in via subordinata ai suoi magistrati. Per questa ragione, i
magistrati debbono essere nominati ad hoc dal Sovrano con il compito di eseguire l’esatta volontà
della legge, il preciso comando posto dal Sovrano senza potervi nulla togliere o aggiungere.
Come si intuisce, proprio in Inghilterra, con la filosofia hobbesiana, sono formulate e
postulate alcune idee chiare che presiederanno poi sul continente al processo di codificazione.
Prima di tutto la concezione della norma giuridica come dichiarazione di volontà di chi comanda; 2)
la concezione dell’interpretazione come mera esecuzione del comando posto dall’autorità 3) la
concezione per cui l’unica fonte del diritto è la legge.

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4 Jhon Locke
Radicalmente opposte all’assolutismo hobbesiano sono invece le teorie contrattualistiche di
Jhon Locke, filosofo inglese autore nel 1690 dei Two treatises of government (Due trattati sul
governo).
Si può dire che la differenza centrale tra Hobbes e Locke sta in ciò: mentre in Hobbes la
teoria giusnaturalistica assolve ad una funzione potenziatrice dello Stato nei confronti
dell’individuo, in Locke, i principi giusnaturalistici rafforzano la posizione dell’individuo nei
confronti dello Stato. L’opera di Locke insiste sul primato dei diritti naturali e del garantismo
costituzionale: lo Stato lockiano non è una creatura mostruosa ed onnipotente, bensì agisce in
funzione dei sudditi e dei loro diritti.
L’opera di Locke, non a caso, fu scritta nel 1690: un anno dopo l’approvazione del Bill of
Rights, con cui in Inghilterra si pose fine ai conflitti tra il Parlamento ed il Sovrano circa le
prerogative godute dall’uno e dall’altro potere. Il Bill of Rights segnò limiti precisi al potere regio e
delineò un quadro costituzionale chiaro e preciso per uno stato moderno, qual era l’Inghilterra.
Secondo Locke, nello stato di natura gli uomini esercitano liberamente i propri diritti
pacificamente e liberamente. Tuttavia, la precarietà di questa condizione induce l’uomo a stipulare
il contratto sociale: un contratto stipulato tra Sovrano e sudditi per realizzare una tutela più ampia
ed efficace dei diritti naturali. Gli individui infatti, con il contratto, non rinunciano ai loro diritti
innati: essi conservano intatti i loro diritti di proprietà e di libertà. In questo quadro, il Sovrano non
ha il potere di esercitare un predominio assoluto sui consociati, ma ha solo il limitato potere di
positivizzare i diritti naturali, ossia di tradurre in precetti specifici, scritti, i diritti naturali tutelandoli
da ogni invadenza esterna.
I cittadini, pertanto, posseggono il legittimo diritto di resistenza, che è il diritto di resistere
nei confronti dell’autorità pubblica allorquando questa oltrepassi i poteri delegatigli con il contratto
e non rispetti gli inviolabili diritti naturali dell’individuo. Nessun potere è legittimo se non è
consentito.
In questo quadro, il potere legislativo va separato, secondo Locke, da quello esecutivo che
deve essere subordinato al primo. La legge, infatti, non è espressione di una volontà dispotica ed
onnipotente; alla legge spetta il solo compito di ‘positivizzare’ i diritti naturali preesistenti
dell’individuo (libertà, uguaglianza e proprietà) riconoscendoli e garantendoli contro ogni arbitraria
invadenza La visione liberale di Locke ci presenta dunque l’immagine di uno Stato garantista,

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limitato, libero, in cui il Sovrano interviene solo per tutelare la libertà ed i diritti naturali
dell’individuo: non a caso il pensiero lockiano ebbe un’ampia incidenza sullo sviluppo del
costituzionalismo americano ed europeo.

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