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INSEGNAMENTO DI

STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO

LEZIONE
“LA NASCITA DELLO STATO MODERNO. MODELLI
ASSOLUTISTICI A CONFRONTO”

PROF.SSA MARIA NATALE


Storia del Diritto Medievale e Moderno La nascita dello Stato moderno. Modelli assolutistici a
confronto

Indice

1 La nascita dello Stato moderno in Europa ----------------------------------------------------------- 3

2 Il modello assolutistico spagnolo ---------------------------------------------------------------------- 5

3 L’assolutismo in Francia -------------------------------------------------------------------------------- 8

4 La funzione del Parlamento di Parigi ------------------------------------------------------------- 10

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 La nascita dello Stato moderno in Europa


La transizione dal Medioevo all’Età moderna, convenzionalmente fissata nell’anno 1492
(anno della scoperta dell’America) fu foriera di rilevantissimi cambiamenti in ambito giuridico che,
tuttavia, non possono essere fino in fondo compresi, senza tener conto delle circostanze e degli
eventi che in quegli anni intervennero a modificare complessivamente il quadro di riferimento.
Sul finire del XV e l’inizio del XVI secolo, scoperte geografiche e scientifiche, riforme
religiose, rivolgimenti politici, mutamenti economici di enorme sconvolsero gli assetti esistenti e
determinato il crollo degli ormai tradizionali punti di riferimento della società tardomedievale.
Le conquiste di nuovi territori resero l’umanità consapevole della propria capacità di
conquistare nuovi orizzonti anche intellettuali. Il movimento culturale umanista, fiorito in quegli
anni, contribuì a sviluppare, attraverso la valorizzazione della centralità dell’essere umano, il senso
critico dell’individuo. Ne derivò un nuovo e più spiccato interesse per la dimensione fattuale
dell’esperienza umana, lontana da condizionamenti di ordine teologico, scevra dai condizionamenti
ecclesiastici, aperta a cogliere la varietà e pluralità delle esperienze umane.
In un clima estremamente fervido, qual era quello che preannunciava la stagione
umanistica, ogni campo dell’attività umana divenne oggetto di nuova esplorazione e di studio
critico. Ne derivò una forte rinascita delle arti, della filosofia, della letteratura, ma anche della
scienza e della tecnica. Si realizzò, insomma, la progressiva emancipazione dello spirito umano
dalla subordinazione all’autorità indiscussa della cultura scolastica di matrice aristotelica. Fu
giocoforza che nei confronti della natura nacque un interesse del tutto nuovo, guidato
dall’esperienza e diretto all’indagine sperimentale dei fenomeni. La natura, non più avvertita come
oscura e misteriosa, misconosciuta durante i lunghi secoli del Medioevo, divenne oggetto di un
rinnovato e forte interesse.
Fu in un contesto di profondo rinnovamento che presero corpo le due monarchie più potenti
dell’Europa moderna: la francese e la spagnola. Esse costituirono per il Mezzogiorno due costanti
punti di riferimento, lungo tutto l’arco dell’esperienza moderna. D’altro canto, un filo rosso legava
l’esperienza di questi paesi, accomunati da un comune
immenso patrimonio etnico, culturale, religioso e giuridico. Per entrambi i paesi, il retaggio
dell’antica civiltà romana, rappresentò un supporto imprescindibile per la crescita ed il progresso
sociale.

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La plurisecolare tradizione giuridica latina, aveva accompagnato ovunque, anche se con


diverse e specifiche modalità, lo sviluppo dei primi regni. La fede cristiana rimaneva il credo
ufficiale e più diffuso.
Nonostante ciò, non si può ritenere che, dal punto di vista costituzionale, in Francia ed in
Spagna si svilupparono modelli analoghi e sovrapponibili. In realtà avvenne proprio l’opposto. In
ciascuno dei due Stati, l’assetto politico e costituzionale raggiunto, pur fondato su comuni radici,
fu, comunque, il frutto di una vita civile propria.

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2 Il modello assolutistico spagnolo


L’assetto costituzionale moderno dell’area spagnola fu il punto di arrivo di un lungo cammino,
iniziato dopo l’invasione araba. La penisola iberica fu conquistata quasi interamente dalle
popolazioni islamiche nel VIII secolo, dopo un lungo periodo di soggezione alla dominazione dei
visigoti e di vigenza di un diritto romano-barbarico.
La storia della Spagna medievale ebbe, infatti, al suo centro la lotta difficile e scomposta
della Reconquista. I regni rimasti cristiani e collocati nell’area più settentrionale, dal secolo
XI iniziarono, infatti, una serie di attività belliche per recuperare terreno e riappropriasi delle
regioni cadute nelle mani degli stranieri. La Reconquista fu un’impresa complessa, attuata con
modalità non uniformi da provincia
a provincia, che investì più settori: fu contemporaneamente una crociata contro gli infedeli, un insieme
di spedizioni militari attuate per fare bottino ed anche una migrazione di popolo. I tre aspetti
della vicenda incisero profondamente sulla vita futura della società spagnola.
La guerra santa intrapresa contro gli arabi musulmani implicitamente conferì al clero una
posizione di privilegio e di prestigio. I ministri della Chiesa, furono protagonisti di una cospicua e
penetrante manovra ideologica: plasmarono gli animi e li predisposero all’esercizio di una guerra
santa, lunga e sanguinosa. Per tutti rappresentava una missione voluta da un disegno divino,
necessaria per liberare il paese dai mori. Fu una forma di cristianesimo militante che si radicò
nelle menti, anche perché fu spesso abbinata ad interessi più materiali e terreni. L’ideale di
riaffermare, ovunque sul territorio, la fede cristiana era accompagnata dalla brama della conquista e
del possesso di nuove terre. In sostanza le spedizioni militari, quando si traducevano in vittorie,
diventavano fonte di nuova ricchezza e di potere.
La guerra di religione esaltò il valore delle arti marziali e delle virtù militari, diffuse gli ideali
del coraggio e dell’onore e nello stesso tempo incise sulla vita economica spagnola. Si formarono in
molte aree orientate verso il sud della Spagna grandi proprietà terriere: insediamenti seguiti da
migrazioni e spostamenti di interi gruppi familiari. Le nuove risorse territoriali ebbero vocazione
agricola, anche se svilupparono un’economia essenzialmente pastorale.
La Reconquista fu conclusa definitivamente nel 1492, con la presa di Granada e
l’abbattimento dell’ultimo Stato arabo su suolo europeo.
Ma fu, alla fine del Quattrocento, che il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando

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d’Aragona, determinò un nuovo e più stabile assetto per la penisola iberica. I sovrani cattolici più
che l’unità del paese, realizzarono nell’immediato l’unione personale delle Corone. Ogni regione
conservò la propria identità amministrativa, rimanendo organizzata sulla base delle proprie
strutture istituzionali e facendo capo ad uno solo dei sovrani.
Il dualismo delle corone e
dei domini permase ma fu, comunque, intrapreso un processo di riorganizzazione generale: in
entrambi i regni, Castiglia ed Aragona, fu, infatti, istituito un organo centrale di governo, il Consejo,
le cui mansioni erano molteplici, riguardavano l’amministrazione generale e la giustizia, inoltre il
coordinamento e la soprintendenza sugli organi di governo locali. In tal modo, l’ordinamento dello
Stato si avviò sul binario che conduceva ad un sistema centralistico. Sotto il profilo giuridico, appare
determinante sottolineare che nei Consejos sedettero principalmente giuristi e ciò avvenne a
svantaggio dell’antica e potente aristocrazia. I grandi nobili potevano assistere alle sedute del
Consejo ma senza diritto di voto. L’innovazione limitava fortemente l’influenza del potere nobiliare
sulla Corona e rendeva quest’ultima indiscussa detentrice del potere politico.
La Corona spagnola, tuttavia, non avrebbe potuto pienamente realizzare il proprio potere se
non fosse, altresì, riuscita ad imporre il proprio controllo anche sulle istituzioni ecclesiastiche. La
guerra contro l’infedele aveva influito sulle dimensioni e sulla potenza della Chiesa spagnola, che si
era accresciuta enormemente. Le sue numerose diocesi ed i suoi organi godevano di ampissimi
poteri, anche in campo temporale, supportati da immense ricchezze patrimoniali e notevoli
privilegi, specialmente fiscali. La coppia regnante comprese rapidamente che, per affermare la
propria autorità, era necessario intraprendere anche una politica ecclesiastica adeguata e
indirizzata in direzione centripeta. Bisognava quindi cercare di intervenire sulla nomina degli alti
prelati e orientarne la giurisdizione. In qualche modo appariva opportuno prendere anche le
distanze dalle politiche pontificie e definire dall’interno delle linee programmatiche di condotta.
L’occasione per procedere alla svolta derivò dalle ultime guerre di religione. L’operato
della Corona di Spagna in difesa della cristianità era stato mirabile e produttivo, meritava un
riconoscimento e delle precise ricompense. Nel 1486 il pontefice Innocenzo VIII conferì ai
sovrani il diritto di patronato regio e di presentazione di tutti i principali benefici ecclesiastici sugli
ultimi regni conquistati. In realtà si trattò di una prerogativa non marginale, che determinò il
controllo sulle nomine degli ecclesiastici e che presto si estese a tutto il paese. Al sistema del
patronato regio furono affidate anche le nuove conquiste realizzate oltreoceano. L’interesse del

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papato a mantenere una solida alleanza con la Spagna e con si suoi re, nei decenni appena
successivi, si tradusse in varie bolle che, oltre a confermare i poteri regi già accordati, di fatto, li
estesero su tutto il territorio. I sovrani quindi realizzarono, attraverso vie dirette e canali diplomatici,
il controllo e la guida delle diocesi. I benefici spagnoli non furono più conferiti a stranieri,
perché il papa si limitava a confermare le proposte indicate dalla Corona, nominando le persone
gradite e segnalate dai regnanti.
Di lì scaturì anche il controllo regio sulla giurisdizione ecclesiastica e sul patrimonio della
Chiesa. La tendenza che tese ad affermarsi mirava a far sì che le controversie si definissero
completamente in patria, evitando i ricorsi alla Sacra Rota Romana e quindi di ripristinare una rete di
ingerenze pilotate dalla Santa Sede. Inoltre molte quote delle imposte e contributi versati dalla
Chiesa spagnola furono raccolti e fatti confluire nelle casse dello Stato, rimpinguandone
notevolmente le finanze. Far rientrare le istituzioni ecclesiastiche nell’orbita della monarchia
equivaleva a potenziare le loro specifiche attività in direzione centripeta. Ma, accanto al
problema della riorganizzazione delle strutture ecclesiastiche, si imponeva la necessità di una
campagna di restaurazione della religione cristiana. La coesistenza di diversi gruppi appartenenti a
fedi diverse implicava tensioni e disordini, per cui la Corona si prodigò per una riforma della
Chiesa spagnola che le infondesse nuova energia e vigore.
Fu così che Ferdinando e Isabella si prodigarono, con un esplicito riconoscimento
ottenuto dalla Santa Sede, per disporre l’introduzione di un potente tribunale, che agisse al di sopra di
ogni altra istituzione, perseguendo obiettivi religiosi e insieme politici, l’Inquisizione. Come si intuisce,
in Spagna, già nel XV secolo le esigenze di accentramento e di stabilità politica trovarono una
risposta efficace e coerente nella politica dei sovrani che agirono per realizzare l’unità sul profilo
religioso, civile e giuridico.

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3 L’assolutismo in Francia
Ancor più precocemente iniziò il processo di unificazione nazionale in Francia. Esso,
infatti, ebbe inizio nel secolo XIII, mediante una progressiva estensione della giurisdizione regia. Il
successivo e vigoroso contributo
politico di Filippo IV il Bello influì efficacemente sulla formazione dello Stato e della sovranità
regia già alla fine del Duecento. Egli mirò a realizzare l’indipendenza del suo regno
contemporaneamente dall’Impero e dalla Chiesa di Roma.
Negli stessi anni il teologo domenicano Jean de Paris poneva le basi teoriche di quella svolta.
Legato alla scuola tomistica, egli ricavava dalla Politica di Aristotele l’idea della naturalità del
diritto e della sua relatività. L’idea che il diritto fosse un elemento naturale, collegato
all’inserimento dell’individuo in una comunità sociale, non ne escludeva il dinamismo e la sua
variabilità. La matrice volontaristica dell’ordinamento giuridico era un altro elemento
imprescindibile. Nel suo trattato De potestate regia et papali, il teologo enunciava l’esistenza di una
pluralità di regni, quindi di monarchi e, conseguentemente, di diritti. In sostanza la sfera temporale
gli appariva chiaramente come una realtà molteplice e pluriforme, tutta terrena e a volte anche
brutale, molto diversa da quella spirituale. Il fratricidio commesso da Romolo, da cui aveva preso
origine la fondazione di Roma, era indicato come esempio chiarissimo a dimostrazione del
principio che e facto oritur ius, ossia che il diritto e l’ordinamento hanno un fondamento sempre
realistico, scaturiscono da elementi ed esigenze fattuali e non meramente ideali. Contro la varietà del
mondo laico, Jean de Paris indicava le caratteristiche della sfera spirituale: unico era il regno celeste
e lo stesso valeva per la sua diretta proiezione sulla terra: la Chiesa. Riconosceva espressamente
che il dominio dello spirito e delle anime dei cristiani richiedeva uniformità. Solo in spiritualibus
poteva e doveva esserci un solo monarca, il pontefice. A tal punto la linea di demarcazione tra la politica
e la fede appariva netta. In sostanza il pontefice si riconosceva come dominus assoluto nel solo
governo delle anime, ma non anche in quello dei beni temporali.
Inoltre, sin dal Duecento, in Francia aveva preso corpo una linea antimperialistica che si era
tradotta in un’irriducibile avversione contro il germanesimo, ossia contro quell’impero che si era
costituito su presupposti francesi e che poi era diventato romano-germanico, sottraendo
definitivamente la corona e lo scettro imperiale alla monarchia di Francia.
La formula per cui rex superiorem non recognoscens, in suo regno est imperator, elaborata in

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ambienti vicini al pensiero giuridico della Scuola bolognese, fu rapidamente accolta in Francia per
legittimare de iure la sovranità del re e la sua autonomia dall’impero. Dimostrare che al
sovrano competevano le stesse prerogative e gli stessi poteri esercitati dall’imperatore, equivaleva a
sancire la parità delle due figure e quindi la possibilità che ciascuno governasse nel proprio ambito
territoriale in via esclusiva.
Per riflesso di questa peculiare condizione politica, sul piano strettamente giuridico Filippo il
Bello, con un’ordinanza del 1312, sancì il primato del diritto consuetudinario francese. La Francia
prendeva, così, le distanze dal diritto giustinianeo, in quanto diritto dell’impero, che difatti, avrebbe
potuto d’ora innanzi trovare applicazione, solo se recepito dalle consuetudini e, in ultimo, se supportato
da un apposito permesso regio. Si profilava una peculiare tendenza alla nazionalizzazione del diritto
francese che trovò una sua prima realizzazione nell’ordonnance di Montils les Tours che, emanata da
Carlo VII, dispose nel 1454 la redazione scritta delle consuetudini locali, ossia la loro certificazione
ufficiale, chiaro segno della volontà della Francia di rivendicare una propria autonomia giuridica,
del tutto scevra dal condizionamento operato dal diritto romano.

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4 La funzione del Parlamento di Parigi


Determinante nel processo di unificazione nazionale e di accentramento statale che interessò
il paese transalpino, fu la funzione svolta dal Parlamento di Parigi. Fu grazie ad esso, infatti, che, a
partire dalla seconda metà del Duecento e nei decenni seguenti, la giurisdizione ecclesiastica e
feudale fu limitata, e la monarchia riuscì ad assumere il pieno controllo del territorio.
Naturalmente, se nella prima fase, la funzione svolta dai Parlamento di Parigi, consentì al
Sovrano l’assunzione del proprio potere assoluto, via via l’accresciuto potere nelle mani dei giudici
parlamentari fece crescere esponenzialmente le loro pretese. I giudici cominciarono così ad ambire
un ruolo essenzialmente politico. E grazie al potere di registrazione degli editti e delle ordinanze
regie, il Parlamento di Parigi riuscì a realizzare i propri obiettivi.
Se è vero, infatti che il potere legislativo detenuto dal Sovrano rendeva quest’ultimo unico
detentore del potere di fare le leggi, il fatto che questo potere non potesse contrastare con gli
interessi della nazione faceva sì che i ministri togati, unici soggetti in grado di conoscere ed
applicare il diritto, godessero del potere di registrazione degli editti e delle ordinanze sovrane.
Senza registrazione, nessun provvedimento sovrano trovava cittadinanza nell’ordinamento giuridico
francese. Il diritto di registrazione di cui godevano i ministri togati era istituto che, di fatto,
subordinava la volontà regia al controllo dei ministri togati. Quel diritto, chiamato ‘diritto
d’interinazione’, non si esauriva in un controllo meramente formale, ma in una potente arma
politica. Qualora, infatti, i supremi magistrati avessero avuto delle rimostranze o delle osservazioni
critiche da opporre, era in loro potere di farle e se il Sovrano, sollecitato dal Parlamento, avesse
dimostrato ostilità ad accogliere i suggerimenti, il Parlamento – lungi dall’attenersi passivamente a
tale voluntas principis - avrebbe potuto reagire rimettendo il provvedimento nuovamente allo studio
del Sovrano. E di fronte all’ostilità di questi, era in potere del Parlamento procedere ad una
registrazione con clausole restrittive che di fatto avrebbero esaurito e limitato fortemente la portata
e l’efficacia delle leggi.
Anzi, per evitare che il Parlamento eccedesse nell’utilizzo dei suoi poteri, il Sovrano era
garantito da un ulteriore strumento: il cosiddetto lit de justice. Di fronte ad un atteggiamento troppo
autarchico dei magistrati, il Sovrano poteva convocare il Parlamento, ed, in quella sede, dichiarare
che la propria volontà era assolutamente superiore a quella dei suoi ministri. In quel caso, i poteri di
giustizia erano formalmente riassunti nelle mani del Re, sicché il Parlamento, spogliato dei poteri

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delegatigli dal Re, perdeva integralmente le sue funzioni e non poteva che procedere alla
registrazione.
Tuttavia, è d’obbligo apportare un chiarimento: è ovvio che, essendo il Parlamento
l’organo giurisdizionale supremo, chiamato ad applicare le disposizioni regie, qualora il
provvedimento registrato fosse stato sostanzialmente sgradito ai suoi membri, questi certamente
non ne avrebberofatto applicazione, esautorando sul piano concreto e dei fatti il potere del Re.
L’esempio del Parlamento di Parigi si presenta così utile per almeno due motivi. In primo
luogo aiuta a comprendere di quale forza innovatrice furono dotati i Grandi Tribunali nell’Antico
Regime. In secondo luogo, ci offre una straordinaria testimonianza di quel rapporto dialettico tra
potere sovrano, per così dire legislativo, e potere giudiziario, che, nel corso della storia
dell’esperienza giuridica ha assunto in diversi momenti i caratteri di un vero e proprio braccio di
ferro.

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