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“IL DIRITTO DEI MERCANTI”

PROF.SSA MARIA NATALE


Università Telematica Pegaso Il diritto dei mercanti

Indice

1 Il protagonista della scena giuridica: il mercante--------------------------------------------------- 3

2 Il modello delle corporazioni ---------------------------------------------------------------------------- 5

3 Dal diritto alla giustizia: la specialità della curia mercatorum ---------------------------------- 6

4 Dalla curia mercatorum ai moderni tribunali di commercio ------------------------------------ 8

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)

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1 Il protagonista della scena giuridica: il mercante


Sul piano giuridico, la moltiplicazione soggettiva ed oggettiva dei diritti, cui è stata dedicata
l’ottava lezione, produceva un’importante conseguenza nel distinguere la condizione dei soggetti
commercianti da quella dei non commercianti. E’ per questa ragione che lo ius mercatorum, ossia il
diritto proprio dei mercanti, ci offre una chiara ed ineguagliabile testimonianza di che cosa abbia
prodotto il particolarismo giuridico nella società d’Antico Regime.
In una società, come la nostra, sempre più condizionata dalla ferrea logica del profitto, è
evidente che l’economia costituisca il fulcro centrale intorno al quale ruota l’intero assetto politico
ed istituzionale. Per lungo tempo, tuttavia, lo status del mercante fu caratterizzato da una vera e
propria ‘marginalità’ rispetto alla gerarchia sociale. Soprattutto perché itineranti, essi apparivano
difficilmente controllabili e suscitavano per questa ragione la stessa preoccupazione che era destata
in genere dai vagabondi. Da parte della Chiesa altomedievale il giudizio nei loro confronti era a dir
poco ambiguo: alla naturale, ed almeno formale, riprovazione per lo scopo esclusivamente lucrativo
della loro attività si associava la propensione a considerare i commercianti alla stregua delle altre
miserabiles personae. Erano definiti tali, in generale, i soggetti giudicati deboli e nel contempo
meritevoli di preoccupazione da parte dell’ordinamento: donne, pupilli, ma anche vagabondi e
mercanti. Insomma, i mercanti erano considerati da un lato come soggetti potenzialmente
pericolosi, perché privi di vincoli sociali stabiliti e, perciò, poco controllabili, dall’altro lato, essi
erano accomunati ai viandanti, ai pellegrini, insomma, ai deboli ed ai bisognosi di protezione.
Fu proprio per questa via che ai mercanti cominciarono ad essere riconosciuti i privilegi
della giurisdizione ecclesiastica. Una prova eloquente è contenuta nel Decreto di Graziano,
un’importante opera canonistica del XII secolo. Lo storico Piergiovanni evidenzia la perfetta
assimilazione che in quel documento era compiuta tra i mercanti e le altre miserabiles personae: gli
uni e gli altri potevano godere del foro ecclesiastico. Fu la prima tappa di un’evoluzione foriera
d’importanti sviluppi. Nel XIV secolo Baldo degli Ubaldi indicava con chiarezza la necessità di
attribuire ai mercanti «multas […] immunitates et exemptiones, quae eis benigne et sine cavillatione
custodiendae sunt». Dopo aver definito optima la peregrinatio dei religiosi, melior quella degli
scolari, l’insigne giurista riconosceva come bona quella dei mercanti privilegiati, «quia mundus non
potest sine mercatoribus vivere».
La descrizione di queste prime tappe dà il senso di come l’immagine stessa della mercatura
muti nel tempo. In quest’evoluzione, la svolta decisiva si realizzò, tuttavia, nel basso medioevo,

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quando i mercanti iniziarono ad imporsi come «soggetto collettivo». L’espressione, utilizzata da


Umberto Santarelli, indica che i mercanti furono ed ebbero coscienza di essere un ceto, ed un «ceto
protagonista»: la società comunale fu ‘mercantile’ perché questi vi esercitarono una forte
«egemonia sociale, culturale, politica» plasmandone i ‘valori’, la ‘cultura’ ed il suo stesso
ordinamento.
Una vivace e potente schiera di uomini dediti ai traffici esercitò, dunque, una funzione
nodale nelle dinamiche della società medievale. Si trattò di una comunità numerosa, ma non fu il
numero a determinarne l’importanza, piuttosto il grado di penetrazione e d’influenza che quel ceto
riuscì ad esercitare sull’intera società. Fu un processo graduale ma profondo, ed incise
sull’immagine del mondo mercantile in modo rilevante anche per l’età moderna. Una conferma è in
una riflessione dello storico Migliorino: nel Cinquecento, quando ormai il commercio itinerante era
soltanto un ricordo, il riferimento del trattatista Benvenuto Stracca alla categoria delle miserabiles
personae era ormai solo un topos che serviva ad indicare la sfera dei privilegi mercantili.

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2 Il modello delle corporazioni


Indispensabile perché quest’evoluzione si realizzasse fu l’organizzazione del lavoro secondo
il modello delle corporazioni. Un insieme di funzioni di carattere religioso, assistenziale e
previdenziale era affidato a questi organismi, ma in primis essi esercitavano un ruolo primario
nell’organizzazione economica e di disciplina del mercato. In ogni città, ciascun mestiere poteva
essere esercitato soltanto da chi era parte della corporazione ed aveva accettato le regole per
l’esercizio di quella professione.
Nelle corporazioni i meccanismi della domanda e dell’offerta erano regolati in modo
singolare. Il controllo sull’offerta e, dunque, sull’accesso al mercato delle nuove forze produttive
era disciplinato dall’assemblea dei membri della corporazione, che votava sull’idoneità
dell’aspirante all’esercizio della professione e con ciò disciplinava l’offerta. Il mercato, in pratica la
domanda, avrebbe poi determinato il successo o il fallimento del singolo mercante.
Le dinamiche del commercio erano disciplinate inoltre da una fitta regolamentazione che
interveniva nei rapporti tra maestri ed apprendisti, favoriva l’introduzione di nuove industrie e di
maestranze specializzate, stabiliva la misura dei salari, fissava le modalità di vendita delle merci e
la qualità delle stesse. Ciò da un lato, permetteva ai mercanti di poter gestire la propria attività e di
prevedere l’evoluzione del mercato, dall’altro lato garantiva lo sviluppo delle città. Fenomeno
singolare era, dunque, che una parte considerevole della normativa economico-giuridica vigente
nelle città, pur incidendo direttamente sull’intera collettività, nasceva all’interno delle singole
corporazioni.
Non ci si può, pertanto, stupire se via via quei collegia assunsero una funzione primaria e
dominante negli assetti politici ed istituzionali dei Comuni: fu giocoforza che ciò avvenisse. La
corporazione, infatti, non costituì soltanto un fenomeno associativo e rappresentativo di interessi
particolari, essa fu una vera e propria fucina di norme. La sua potestas statuendi ebbe caratteri
simili a quella dello stesso Comune e fu oltremodo proficua: gli statuti mercantili costituirono, per
dirla con Calasso, un «imponente» complesso normativo la cui applicazione fu compito dei giudici
delle corporazioni stesse. Ne derivava un vero e proprio circuito, in forza del quale i mercanti erano
autori, interpreti e destinatari di un ius speciale ed autonomo.

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3 Dal diritto alla giustizia: la specialità della curia


mercatorum
Fonti del ius mercatorum furono gli statuti corporativi, la consuetudine e la giurisprudenza
della curia dei mercanti: un complesso normativo che, direttamente creato dalla classe mercantile
senza mediazione della società politica, si impose in forza di una classe, non già nel nome
dell’intera comunità. Secondo la celebre indicazione del Galgano, le regole del commercio si
sottrassero alla «compromissoria mediazione della società politica; esse poterono, al tempo stesso,
varcare i confini comunali ed espandersi, come regole professionali della classe mercantile, fin dove
si estendevano i mercati». Lo ius mercatorum, dunque, era diritto speciale, ma al tempo stesso
universale, capace di rispondere alle richieste di una realtà aperta e problematica.
Quei due caratteri potevano coesistere, perché quel diritto era nato dalla prassi, nel tentativo
di trovare le soluzioni più adatte a rendere flessibili e produttivi i rapporti tra i mercanti.
L’autonomia e la specialità del ius mercatorum, testimonianza del particolarismo giuridico tipico
dell’Antico Regime, trovavano il loro fondamento nel ruolo protagonista, ed a tratti anche egemone,
di quanti si dedicavano al commercio. La loro attività andava disciplinata secondo principi e criteri
coerenti con gli obiettivi di produttività e d’efficienza che essi si prefiggevano. Al dir fuori di
quell’ambito, era del tutto ovvio che continuasse a vigere un diverso e distinto diritto.
Dell’utilità e necessità di uno speciale ius mercatorum ebbe lucida consapevolezza la stessa
scientia juris medievale. Nella seconda metà del Trecento, Baldo degli Ubaldi, una delle voci più
autorevoli della scuola del Commento, aveva chiaramente indicato che «inter mercatores non
convenit de iuris apicibus disputare, sed de mera veritate et consuetudine mercantie». I cavilli
‘apicali’ dei giuristi non aiutavano i mercanti: la concretezza di quei rapporti trovava il proprio
essenziale regolamento nella costante consuetudine mercantile. In altri termini, ai mercanti non
‘conveniva’, utilizzando l’espressione di Baldo, discutere ma più abilmente operare.
La specialità, dunque, del diritto mercantile, lungi dall’essere frutto di una convenzione
giuridica, nasceva sul piano fattuale dalla necessità di regolare dei rapporti che rimandavano ad un
autonomo sistema di principi. Tuttavia, quale significato avrebbe potuto avere l’autonomia del
diritto dei mercanti se, nel caso di una controversia, il giudizio fosse stato rimesso all’ordinario
corso della giustizia?
Nell’originaria organizzazione interna delle corporazioni, questa preoccupazione era stata
risolta prevedendo che alcuni consoli, deputati al governo dell’arte, fossero eletti periodicamente

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dalle assemblee dei soci per svolgere anche funzioni giurisdizionali. In tal modo, tutte le
controversie tra gli associati su questioni inerenti all’esercizio della professione finivano per essere
sottoposte ai giudici corporativi. Come s’intuisce, era una giurisdizione dai caratteri peculiari:
piuttosto che essere amministrata da giuristi di professione, il suo esercizio era demandato
esclusivamente ad esperti del mestiere. Grazie all’azione di questi ultimi, nelle curiae mercatorum
si riusciva ad agire in una duplice direzione: per affermare e diffondere le consuetudini mercantili,
e, contemporaneamente, per creare e dar forza a nuovi istituti giuridici diretti a regolare esigenze
prima sconosciute: dall’assicurazione alla cambiale sino alle svariate tipologie contrattuali sorte per
aggirare il divieto d’usura.
Gli uomini che affermavano quella giustizia erano esperti del mestiere e ben conoscevano
sia le antiche consuetudini sia i nuovi contratti, perché praticavano tanto gli uni quanto gli altri ogni
giorno. Le regole procedurali si modellavano in modo da essere funzionali alla realtà operativa dei
mercanti ed a riflettere, in fase d’accertamento del diritto, i caratteri della consuetudine mercantile
che, in molti casi ed in misura via via crescente, gli stessi tribunali mercantili contribuivano a creare
ed a diffondere. I giudici mercanti legittimavano la prassi mercantile attraverso l’utilizzo che ne
facevano nella curia e le davano cittadinanza nel mondo giuridico prima ancora che essa giungesse
alla dottrina per essere elaborata.
Sin dal secolo XIII, diversi statuti delle città italiane cominciarono a fare riferimento ad una
nuova procedura definita, a seconda dei casi, ‘espeditiva’, ‘sommaria’, ‘alla mercantile’. Le
prescrizioni sulla brevità e sommarietà del giudizio avvicinavano questa giustizia a quella introdotta
nel diritto canonico per le cause interne alla gerarchia ecclesiastica.
Tuttavia, essa ebbe ben presto vita autonoma e largo successo. Ne offre conferma l’ampio
spazio dedicato ad essa dall’autorevole Bartolo da Sassoferrato nel trattato De summaria cognitione
commentarii. A giudizio del celebre commentatore, il nuovo processo realizzava il fondamentale
fine della rapidità, sostituendo le solennità rituali e formalistiche del processo romano-canonico con
nuove formule giudiziarie più snelle e veloci. In curia mercatorum il giudizio doveva avere luogo
breviter, senza dilazioni ed inutili rinvii; l’accertamento del diritto doveva essere sommario: erano a
tal scopo ridotti anche gli strumenti probatori utilizzabili. Il processo doveva essere celebrato sine
strepitu, cioè senza coinvolgere inutili schiere di testimoni, e più in generale, doveva avvenire sine
figura iudicii, ossia senza che neppure fosse evocabile l’immagine di un ordinario processo.
Nasceva così, come dirà Goldschmidt, una nuova procedura «pronta, innanzi a giudici esperti negli
affari».

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4 Dalla curia mercatorum ai moderni tribunali di


commercio
Un rito breve, poco costoso, privo di solennità si presentava in perfetta consonanza con gli
interessi economici del ceto mercantile: la rapidità dei rapporti commerciali si rifletteva in un
modello processuale che, spogliato dai formalismi, realizzava una giustizia aderente alla veritas
facti. La curia mercatorum era il luogo in cui il ius mercatorum poteva pienamente realizzarsi e
tradurre sul piano della concretezza il suo carattere di specialità, attraverso una procedura giudiziale
del tutto differente da quell’ordinaria ed ispirata all’aequitas mercantile piuttosto che allo stretto
diritto.
I confini del ius mercatorum, e conseguentemente della procedura ‘alla mercantile’, erano
segnati comunque da un imprescindibile requisito soggettivo: l’appartenenza di chi poneva in essere
il negozio giuridico (il mercator) ad una corporazione mercantile. La procedura sommaria trovava
spazio solo per un circuito ristretto di soggetti. Si rinviava allo status, all’appartenenza alla
‘categoria’, non solo per circoscrivere l’ambito di applicazione del diritto, ma anche per indicare i
destinatari della procedura sommaria. Nella curia mercatorum trovavano cittadinanza soltanto i
diritti e gli interessi dei professionisti del commercio.
Ma cosa accadde allorquando l’assolutismo monarchico, nel proprio sforzo di accentramento
dello Stato, decise di accentrare e di ricondurre a sé tutte le forme di manifestazioni della sovranità.
Sappiamo che i governi monarchici iniziarono a guardare con sospetto e diffidenza a tutte le
manifestazioni del particolarismo. L’esistenza di un diritto ‘di categoria’, qual era quello
mercantile, era considerato fonte di una complicazione, in aperto contrasto con i caratteri della
società moderna. Ancor più pericoloso appariva poi il riflesso giudiziario di quel particolarismo.
Avrebbe mai potuto il Sovrano, sommo giudice, legittimare la funzione giusdicente della curia
mercatorum?
Né poteva trascurarsi un ulteriore elemento: la materia del commercio suscitava uno
straordinario interesse da parte dello Stato. I Sovrani avevano la chiara e netta percezione che
l’economia fosse una chiave centrale per l’affermazione del loro potere. Dominare il mercato,
disciplinarne le regole, indirizzarne lo sviluppo erano compiti appetiti da qualsiasi governo. Per
realizzare tanto, era indispensabile una sensibile limitazione dell’influenza della corporazione
mercantile, da tempo abituata alla gestione autonoma ed autoreferenziale del commercio. E ciò era

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ancor più necessario considerando lo straordinario potere che le antiche corporazioni esercitavano
nell’amministrazione della giustizia, sottraendo all’ordinario corso tutte le controversie in materia
commerciale.
I Sovrani francesi si resero ben presto conto dell’importanza di quella materia e reagirono
istituendo un apposito tribunale, composta da giudici mercanti ma direttamente dipendente dalla
Corona, competente a decidere su tutte le controversie in materia di commercio1.
In tal senso nel 1563 un editto dell’allora Cancelliere Michel de L’Hospital fu chiaro e
preciso nel prevedere la costituzione a Parigi di un nuovo tribunale competente su tutte le
controversie tra mercanti per fatti inerenti all’esercizio della loro professione. Un giudice e quattro
consoli, scelti direttamente tra i mercanti, avrebbero prestato giuramento innanzi al Parlamento di
Parigi, ossia dinanzi al massimo organo giurisdizionale della nazione francese, e sarebbero stati
legittimati all’esercizio delle funzioni giusdicenti per quattro anni. Celerità, gratuità, assenza di
formalismi rappresentavano i punti chiave del nuovo rito. Una nuova giustizia veloce disegnata ad
hoc per le cause commerciali sarebbe stata garanzia di prosperità ora, non solo per il ceto
mercantile, ma tutto il Paese. La competenza commerciale era, in tal modo, sottratta alle magi-
strature locali, espressione delle antiche corporazioni, ed affidata ad una nuova struttura che era al
contempo, accentrata e statale, fortemente legata alla monarchia, ma indipendente dalla
magistratura ordinaria2.
Il progetto francese ebbe discreto successo e fu imitato in diversi Paesi. Non a caso, anche
nel Mezzogiorno d’Italia, nel pieno del Settecento, prendendo a modello le giurisdizioni
commerciali francesi, fu istituito il Supremo Magistrato del Commercio. Fu un modo per reagire
alla frammentazione del diritto creata dal particolarismo, ma si tradusse all’atto pratico in una
ulteriore moltiplicazione perché si ridusse nella creazione di un ulteriore tribunale che si affiancò, e
non sostituì, i precedenti. Nonostante quest’indubbio limite, quei tentativi conservano
un’importanza straordinaria nella storia della nostra esperienza giuridica perché dimostrarono la
consapevolezza che il particolarismo giuridico fosse un problema da superare e che lo Stato

1
La Francia offre pertanto un esempio interessante e significativo di come i programmi assolutistici e monarchici siano
riusciti a concretarsi nel precoce passaggio allo Stato della giurisdizione commerciale (avvenuto nel 1563) e nella
realizzazione di una completa unificazione legislativa delle linee fondamentali della disciplina del commercio. Nel 1673
la celebre ordonnance du commerce e l’altrettanto celebre ordonnance sulla marina mercantile del 1681 furono gli
strumenti legislativi attraverso cui la lucida e vigorosa politica mercantilistica di Luigi XIV riuscì ad affermarsi.
2
Va detto che nella stessa Francia dei secoli XVII e XVIII l’opera di statalizzazione del diritto commerciale non ebbe
esiti del tutto integrali. Al di là delle ordonnances restarono in vigore i molteplici usi di piazza. Fu, dunque, sul piano
pratico e giurisdizionale che il modello francese riuscì ad ottenere i migliori risultati attraverso la creazione delle
giurisdizioni consolari.

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monarchico centrale ed accentrato aveva tutto l’interesse a superare quell’ostacolo per realizzare i
suoi scopi ed i suoi fini.

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