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IN EUROPA”
Indice
1 L’ILLUMINISMO ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2 FASI E AREE DELL’ILLUMINISMO EUROPEO -------------------------------------------------------------------- 5
3 MONTESQUIEU --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 8
4 IL TEORICO DEL COSTITUZIONALISMO MODERNO: JEAN-JACQUES ROUSSEAU ---------------- 12
5 ILLUMINISMO E CODIFICAZIONE DEL DIRITTO --------------------------------------------------------------- 16
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 18
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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1 L’Illuminismo
Secondo Immanuel Kant: L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale
è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di
un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di
intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza
esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza - è
dunque il motto dell'illuminismo (da Risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo, 1784). La
definizione Kantiana descrive perfettamente ed in maniera chiara la natura e lo spirito
dell’Illuminismo che, durante tutto il Settecento, non rappresentò soltanto una filosofia ma un modo
di essere e di pensare per milioni di individui che riconobbero nella ragione l’unica fonte del vero.
Da un punto di vista filosofico l’Illuminismo rappresenta l’incontro tra le due correnti di pensiero
che avevano dominato la scena durante il Seicento: l’empirismo e il razionalismo. Il primo si
fondava sul giudizio sintetico a posteriori e riconosceva nell’esperienza e nel metodo empirico le
basi per di ogni processo gnoseologico; il secondo invece fondava la conoscenza sul giudizio
analitico a priori, ossia sulle idee e sull’intuizione. L’Illuminismo, con Kant, riuscì a conciliare
queste due filosofie mettendo d’accordo ragione ed esperienza.
L’ illuminismo, come si è detto, permeò di sé tutto un secolo caratterizzando anche la
politica e il diritto del Settecento che, sotto la spinta dei philosophes, si indirizzarono verso una
riforma su basi razionali dello stato e dei sistemi giuridici d’antico regime. Sotto questo profilo la
corrente di pensiero cui l’Illuminismo appare più legato è senza dubbio il giusnaturalismo. Proprio i
maggiori esponenti del giusnaturalismo – Grozio, Hobbes e Locke - avevano fondato su basi
razionali una nuova teoria dello stato e del diritto individuando nel contratto sociale l’origine della
società e il fondamento del diritto. L’assolutismo di Hobbes e il liberalismo di Locke
rappresenteranno le due anime dell’Illuminismo: il primo influenzerà la stagione del cosiddetto
“Assolutismo Illuminato” mentre il secondo influenzerà l’Illuminismo liberale e democratico. Da
queste brevi premesse appare chiaro che gli Illuministi si occuparono e molto di stato e di diritto
proponendo un vasto piano di riforme che avrebbe trovato molti riscontri nella legislazione del
periodo rivoluzionario. Tuttavia parte della storiografia giuridica italiana ha negato all’Illuminismo
il carattere giuridico sostenendo la mancanza di elaborazioni dottrinali e l’insistenza della polemica
su aspetti politici ed istituzionali (cfr. G. Astuti). Tuttavia, come tra breve si vedrà, il carattere
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giuridico dell’Illuminismo sarà evidente soprattutto in Italia dove spiccano figure come Cesare
Beccaria, Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano che con le loro conosciutissime opere
approfondirono aspetti e problemi della crisi del diritto nel Settecento ed indicarono un organico
piano di riforme. Bisogna anche dire che l’Illuminismo è stato oggetto di critiche serrate a partire
dall’Ottocento: dalla critica storicistica di F. C. von Savigny a quella marxista che vedeva nel
movimento dei Lumi l’espressione dell’ideologia borghese fino alla critica idealistica crociana. La
storiografia giuridica italiana degli ultimi decenni ha invece rivalutato l’Illuminismo dedicando ad
essi numerosi studi: in particolare Raffaele Ajello ha insistito sulla rivolta contro il formalismo di
cui si resero protagonisti gli Illuministi.
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improcrastinabili: il granduca Leopoldo in Toscana col codice penale Leopoldino recepisce alcune
riforme suggerite dal Beccaria (abolizione della pena di morte), in Piemonte Vittorio Amedeo II
promulga le sue costituzioni (con il divieto di citazioni dottrinali ma la possibilità di riferimento agli
usus fori, référé legislatif ma solo nell’ed. del 1770), a Modena Francesco III pubblica il Codice
estense ( che contiene il divieto delle citazioni nei tribunali e l’obbligo del référé legislatif), a
Napoli Bernardo Tanucci progetta la realizzazione di un codice e nel 1774 emana due importanti
dispacci con i quali si impone ai magistrati di motivare le sentenze sulla base della “legge espressa e
manifesta del regno” e si impone l’obbligo di pubblicare le sentenze.
Nell’Area inglese prevale l’utilitarismo e la figura di J. Bentham che critica il sistema della
common law (proponendo una codificazione), la costituzione inglese e il contrattualismo di Locke
(il contratto sociale è una fola priva di riscontro nella storia, il diritto di resistenza non si deve
basare su di esso ma solo sull’utilità).
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3 Montesquieu
Con Charles Louis de Secondat de Montesquieu (1689-1755) e la sua opera principale
L’esprit des lois si confronta tutta la cultura giuridica europea. L’Esprit è un’opera maestosa con la
quale l’Autore abbandona suo seggio di presidente del parlamento di Bordeaux per diventare
presidente del tribunale della regione: egli si propone di indagare sulla ratio di tutte le leggi, ovvero
di spiegarne il loro fondamento razionale. Punto di partenza è il concetto che leggi e istituzioni non
rappresentano qualcosa di arbitrario ma esprimono una naturale razionalità. E’ possibile dunque per
Montesqueu individuare questa razionalità considerando che: «Le leggi sono i rapporti necessari
che derivano dalla natura delle cose». Le leggi possono essere sia naturali, sia positive. Le leggi
naturali sono: sentimento della debolezza, sentimento dei propri bisogni corporali, ricerca di Dio e
ricerca della società. Queste leggi naturali cessano di essere tali quando inizia la società, dove
possono riconoscersi tre tipi di leggi positive: diritto delle genti, diritto pubblico e diritto civile. Ma
tutte le leggi positive devono esprimere una razionalità: «La legge in generale è la ragione umana,
in quanto governa tutti i popoli della terra, e le leggi politiche e le leggi civili di ogni nazione non
devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana. Devono essere
talmente adatte ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione
possano convenire ad un’altra». Per Montesquieu la Legge deve essere chiara, semplice, concisa
(Esprit, T.II, lib. XXIX dove si indicano questi elementi nella «maniera di comporre le leggi»).
La parte più nota dell’opera di Montesqueu è quella relativa alla separazione dei poteri.
Partendo dalla considerazione che “Il potere assoluto corrompe assolutamente” Montesquieu
afferma che per assicurare la libertà del cittadino è necessario che i tre poteri fondamentali dello
stato restino assolutamente divisi: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario. La
separazione dei poteri è propria delle repubbliche che si fondano sul principio della virtù; le altre
forme di governo, monarchia e dispotismo, si fondano invece rispettivamente sul principio
dell’onore e della paura. Sempre con riguardo alla divisione dei poteri Montesquieu, riferendosi al
potere giudiziario, afferma che si tratta di un potere “nullo” in quanto i giudici e i tribunali altro non
devono essere che la “Bouche qui prononce les paroles de la lois”. E’ una teoria importante che
caratterizzerà tutto l’illuminismo e le riforme rivoluzionarie e napoleoniche. La legge, chiara
semplice, concisa, espressione del potere legislativo, non può e non deve essere interpretata:
l’interpretazione di giuristi e tribunali che nel medioevo e in età moderna era stato il cuore del
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teoria proporzionalistica che afferma l’esigenza di graduare la pena a seconda del reato commesso.
Con riguardo alla procedura Montesquieu mostra una preferenza per il processo accusatorio
connettendolo alla forma repubblicana poiché in una monarchia poteva rivelarsi pernicioso. E’
Montesquieu a fissare le linee del dibattito in un famoso passo de L’Esprit des Lois: «A Roma era
permesso a un cittadino di accusare un altro. Ciò era stabilito secondo lo spirito della repubblica,
in cui ogni cittadino deve avere uno zelo illimitato per il bene pubblico; in cui ogni cittadino è
tenuto a conservare nelle proprie mani tutti i diritti della patria. Si seguirono, sotto gli imperatori, i
sistemi della repubblica; e subito si vide comparire una genia di uomini funesti, una schiera di
delatori. Chiunque aveva in copia vizi e talento, un animo veramente vile e uno spirito ambizioso,
cercava un criminale la cui condanna potesse riuscir grata al principe; era la via per arrivare agli
onori e alla ricchezza, cosa che non vediamo fra noi. Noi abbiamo oggi una legge ammirevole: è
quella che vuole che il principe, creato per far eseguire le leggi, proponga un funzionario in ogni
tribunale affinché indaghi, a suo nome, tutti i reati, di modo che la funzione del delatore è
sconosciuta fra noi; e se queto pubblico delatore fosse sospetto di abuso di potere, lo si
obbligherebbe a nominare il suo informatore. Nelle leggi di Platone, quelli che trascurano
d’avvertire i magistrati o di aiutarli, devono essere puniti. Oggi ciò non converrebbe. La parte
pubblica veglia per tutti i cittadini; quella agisce, e questi se ne stanno tranquilli». Montesquieu
traccia dunque le linee generali del rapporto tra i due modelli e tra ciascuno di essi e le forme di
governo: il sistema accusatorio sarebbe idoneo in uno stato repubblicano, mentre quello inquisitorio
meglio si adatterebbe al regime monarchico e a quello dispotico. Ciò non solo per la più estesa
possibilità di delazioni infondate in queste ultime due forme di governo ma anche per la posizione
passiva che i cittadini (o, meglio, sudditi) ricoprono in esse.
Montesquieu (XI, 6,) afferma la necessità di giudici temporanei tratti «dal grosso del
popolo», ma non specifica se questi debbano decidere tutta la causa oppure solo il fatto: Tale
vaghezza condizionerà tutto l’illuminismo penale con riferimento al problema delle giurie. E’
tuttavia chiaro che il modello di riferimento di Montesquieu sia quello del giudizio dei pari recepito
dalla tradizione inglese. Su questa linea infatti la voce «pairs» dell’Encyclopédie (de Jaucourt) ed
anche Voltaire. Non così Rousseau che invece indica chiaramente giudici non togati estratti a sorte
e competenti sia sul fatto che sul diritto (quando questo sarebbe stato riformato). Beccaria, nel XIV
capitolo aggiunto nella terza edizione della sua famosa opera, elogia le giurie ma non supera
l’ambiguità di Montesquieu. La traduzione in francese e la diffusione in tutta Europa dopo il 1776
dei Commentarii di Blackstone contribuirono al favore degli illuministi verso la giuria penale
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secondo il modello inglese. Ma in Francia negli anni ’70 e ’90 del ‘700, come ha sottolineato A.
Padoa Schioppa ( La giuria penale in Francia : dai philosophes alla Costituente. Milano 1994), il
dibattito fu intenso ed investì l’opportunità di affidare al popolo la giustizia penale, la sfera di
competenza (solo il fatto o fatto e diritto) delle giurie e le modalità di scelta dei giurati (per censo o
per elezione). Filangieri esaminò compiutamente la questione distinguendo giudici di fatto (scelti
tra i proprietari residenti nelle province) e giudici di diritto togati. Le giurie furono introdotte in
Francia durante la Rivoluzione e recepite nel codice di procedura penale napoleonico nonostante il
malcelato dissenso dello stesso Napoleone, ma la loro attività fu esclusa nelle ipotesi di reati gravi e
turbativi dell’ordine pubblico (per questi c’erano le corti speciali.
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termini si confondono e si scambiano l’uno con l’altro: basta però saperli distinguere quando sono
adoperati in tutta la loro precisione1.
Per Rousseau lo stato di natura è caratterizzato dall’illimitata libertà degli uomini che nel
momento in cui addivengono al contratto sociale formano un tutt’uno con lo Stato-sovrano: il corpo
morale che ne nasce è un io collettivo che prende forma, vita e volontà da tutti. Il popolo, o meglio,
tutti i cittadini, sono lo Stato: le individualità che lo formano si disperdono in esso. Con il contratto
– che rappresenta una necessità - l’uomo perde «la sua libertà naturale ed il diritto illimitato a tutto
ciò che tenta e che può essere da lui raggiunto» ma guadagna «la libertà civile e la proprietà di tutto
ciò che possiede». Si tratta dell’asse portante della nuova stagione costituzionale che si ritrova nelle
costituzioni americane e delle costituzioni francesi del periodo rivoluzionario. La sovranità per
Rousseau è «l’esercizio della volontà generale» ed è necessariamente diretta «secondo il fine della
propria istituzione, che è il bene comune». Tale bene comune è l’oggetto della costituzione dello
Stato e non è in alcun modo legato ad uno o a tutti gli interessi particolari: esso è «l’interesse
comune» che ha portato gli uomini al contratto sociale e, come categoria ideale, deve dirigere
l’attività dello Stato. Tuttavia Rousseau non si mantiene nel vago e indica gli obiettivi cui deve
pervenire ogni sistema di legislazione: la libertà e l’uguaglianza. Sull’uguaglianza il ginevrino
aveva già esposto le sue idee nel Saggio sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli
uomini (1755); egli, dando per certa un uguaglianza formale tra gli individui che consenta a tutti di
partecipare alla formazione della volontà generale, si pone il problema dell’uguaglianza sostanziale:
«per quanto riguarda l’uguaglianza non bisogna intendere con questa parola che i gradi di potenza e
di ricchezza siano assolutamente gli stessi: ma che, quanto alla potenza ella sia al di sopra di ogni
violenza, e non si eserciti mai se non in virtù del grado e delle leggi: e quanto alla ricchezza che
nessun cittadino sia tanto opulento da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere
costretto a vendersi». La legislazione, perseguendo il bene comune, doveva porre rimedio alle
ineguaglianze intervenendo con saggezza.
La Sovranità per Rousseau è inalienabile e indivisibile: «Poiché la volontà è generale o non
lo è; essa è quella del corpo del popolo, o solamente di una parte di esso. Nel primo caso, questa
volontà dichiarata è un atto di sovranità e costituisce legge; nel secondo caso è solo una volontà
1
G. G. Rousseau, Il contratto sociale, traduzione con introduzione e commento di Giuseppe Saitta, Bologna 1947, p.
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chiamo legge». Per tali ragioni la legge non può essere che generale ed astratta e non può essere
contaminata da riferimenti nominativi: «In una parola, ogni funzione che si riferisca a un oggetto
individuale non appartiene al potere legislativo». Proprio con riferimento a questo aspetto
Rousseau “decreta” la fine del costituzionalismo antico con queste ispirate parole:
Con questa idea, si vede subito che non bisogna più domandare a chi appartenga fare le leggi,
poiché esse sono atti della volontà generale; né se il principe sia al di sopra delle leggi, poiché
è membro dello Stato; né se la legge può essere ingiusta, poiché nessuno è ingiusto verso se
stesso; né come si sia liberi e sottomessi alle leggi, poiché esse non sono se non i registri delle
nostre volontà2.
Per Rousseau ogni stato retto da leggi è una Repubblica, qualsiasi sia la sua forma di
amministrazione, monarchica, aristocratica o democratica. Ma chi deve predisporre le leggi? Chi
può fare da legislatore? Rousseau immagina un ufficio che «non è magistratura, non è sovranità»:
colui che redige le leggi «non ha dunque e non deve avere alcun diritto legislativo»; si limita a
proporre le leggi al popolo che, non potendo in alcun modo spogliarsi del diritto di legiferare
conferitogli con il patto fondamentale, delibera. E’ chiaro che non tutti i popoli sono in grado, per il
ginevrino, di reggere un sistema siffatto. Non tutte le nazioni, per il carattere del popolo e per la
loro estensione territoriale, potevano costituire repubbliche fondate sulle leggi. Sotto questo aspetto
il pessimismo di Rousseau è grande poiché i danni fatti dalla storia sono immensi: «Ciò che rende
penosa l’opera della legislazione non è tanto ciò che bisogna instaurare, quanto ciò che bisogna
distruggere; e ciò che rende il successo così raro, è l’impossibilità di trovare la semplicità della
natura accoppiata ai bisogni della società. Tutte queste condizioni, è vero, si trovano difficilmente
riunite: quindi si vedono pochi Stati ben costituiti». Il riferimento alla distruzione si lega ad un
momento rivoluzionario, necessario per costruire una società nuova, fondata sulle leggi. L’esempio
della Corsica – come si è detto esplicitamente citato dal Rousseau - venne presto seguito da altri
popoli che dopo la «distruzione» edificarono lo stato su una costituzione voluta dal popolo: prima
gli Stati Uniti e poi la Francia prendono la strada indicata dal filosofo ginevrino.
2
Rousseau, Il contratto sociale, p. 75.
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L’Illuminismo apre la strada alla codificazione del diritto sulla base della centralità ed
esclusività della legge intesa – a partire da Rousseau - come espressione della volontà generale.
L’Illuminismo costruisce una teoria della legislazione che contribuirà alla formazione dei codici:
generalità, astrattezza e chiarezza della legge.
In nome della centralità della legge l’Illuminismo spinge i sovrani a realizzare delle
consolidazioni o avviare dei tentativi di codificazione. Da questo punto di vista i progetti più
importanti vengono avviati in Prussia e in Austria e porteranno rispettivamente al Codice Civile
Prussiano (ALR) e al Codice Austriaco del 1811 (ma i lavori sono avviati dall’imperatrice Maria
Teresa nel 1750). Il Codice Prussiano può considerarsi il prodotto più importante dell’Illuminismo
conseguito senza una rivoluzione e espressione più alta dell’assolutismo illuminato. Esaltato per
qualche anno, fu poi largamente superato come modello di codificazione dal codice civile
napoleonico. In ogni caso le grandi codificazioni europee a cavallo tra Settecento e Ottocento
rappresentano la fine di un’epoca e l’avvio dell’età dell’Assolutismo giuridico. In merito possiamo
considerare quanto afferma Paolo Grossi:
Dietro la foglia di fico della “ragione naturale” e della “volontà generale” sta la
consegna nelle mani del potere politico della intiera produzione del diritto. Al vecchio caotico
pluralismo giuridico si va sostituendo un rigidissimo monismo giuridico: la dimensione
giuridica è ormai vincolata all’apparato di potere dello Stato e tende a immedesimarsi in una
dimensione legislativa. E comincia un lungo periodo non solo di legalismo ma di autentica
legolatria: la legge come tale, come emanazione di una volontà sovrana, diviene oggetto di
culto prescindendo dai suoi contenuti. Atteggiamento greve di rischi, che un’onda
lunghissima porterà fino alle nostre spalle e di cui ci stiamo faticosamente liberando proprio
in questi ultimi decennii. Dal Settecento illuminista in poi, sul continente europeo, si farà i
conti unicamente con la volontà del legislatore, poiché solo a lui spetterà la capacità di
trasformare in giuridica una generica regola sociale. Una conclusione finale si deve trarre: la
civiltà del liberalismo economico, nel suo tentativo di operare un completo controllo di quel
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prezioso cemento sociale che è il diritto, si è rivestita della corazza ferrea di un autentico
assolutismo giuridico3.
3
P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari 2007, pp. 112-113.
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