Sei sulla pagina 1di 7

L'ILLUMINISMO ITALIANO

L'Illuminismo italiano nasce come reazione all'arretratezza delle regioni italiane e si caratterizza per il suo spirito riformatore. influenzato in diversa misura dall'empirismo di Locke e Newton e dall'Illuminismo francese. Gli illuministi italiani sono intellettuali aperti alle idee europee; presentano tratti comuni, ma anche specifiche peculiarit locali, soprattutto a Napoli e a Milano. Aspetti generali L'Illuminismo italiano il prodotto di una serie di fattori storici e filosofici che ne determinano i tratti peculiari. L'influenza dei pensatori britannici (Locke e Newton) e degli enciclopedisti francesi si accompagna alla nascita dell'intellettuale critico, autore di giornali e fautore di riforme economiche e sociali. Esso si diffonde, tanto nel settentrione quanto nel meridione, nella seconda 'met del secolo. Un anno chiave nel suo sviluppo il 1764: mentre a Milano i fratelli Verri pubblicano il primo numero del Caff e Cesare Beccaria il suo Dei delitti e delle pene, nel napoletano una disastrosa carestia svela agli occhi del Genovesi il drammatico stato della pubblica amministrazione e l'esigenza di riforme immediate e radicali. Il dato peculiare dell'Illuminismo italiano il forte legame delle varie scuole che sorgono al suo interno con la specifica realt storica e geografica in cui esse agiscono. Per questo non si ha un unico centro propulsore, quanto piuttosto varie scuole regionali, fra le quali spiccano quella lombarda e quella napoletana; inoltre, manca in Italia una figura che per capacit teoriche sovrasti gli altri pensatori. Si possono tuttavia individuare alcuni tratti comuni alle diverse scuole: principalmente, un certo eclettismo teorico, in cui convergono diversi indirizzi di pensiero preesistenti, e una diffusa inclinazione a privilegiare gli esiti pratici della riflessione piuttosto che i'astrattezza teorica. per questo che i risultati pi importanti si hanno nell'economia (Antonio Genovesi e la sua scuola) e nel diritto (Cesare Beccaria). Sul piano teorico comune l'opposizione alle due scuole di pensiero sino ad allora egemoni: il cartesianesimo e il neoplatonismo. Gli illuministi italiani esprimono un forte rifiuto della metafisica e una spiccata predilezione per l'empirismo derivato da Locke e da Newton. Caratteristico l'incontro, all'interno di questo comune atteggiamento antimetafisico, di orientamenti di pensiero fra loro differenti: dal giansenismo, con la sua vivacit polemica in favore della libert di critica religiosa, all'anticartesianesimo di Giambattista Vico, dai filosofi francesi dell'Encyclopdie (ma con un generale rifiuto per i tratti pi marcatamente antireligiosi) ai teorici della fisiocrazia. L'influenza di Locke e Newton I pensatori francesi, con il loro concetto di Ragione e la loro critica ai privilegi e agli abusi dello Stato e della Chiesa, sono sicuramente pi letti dagli illuministi italiani degli empiristi inglesi, il cui moderatismo non risponde alle esigenze di un ceto intellettuale attivo e battagliero. Ci nonostante, le idee di Locke, gi diffusesi all'inizio del secolo, si rivelano per gli illuministi italiani un prezioso strumento nella battaglia contro i sistemi metafisici. Al Saggio di Locke gli illuministi italiani riconoscono infatti il merito di aver analizzato l'animo umano e di aver scandagliato la genesi delle idee.

Questo atteggiamento tipico del filosofo bolognese Francesco Maria Zanotti e del suo discepolo Francesco Algarotti, che sviluppano l'indirizzo lockiano nella direzione aperta dalla fisica di Newton. In particolare Zanotti, che nega l'esistenza di un qualche legame fra filosofia lockiana ed empiet, utilizza, nel saggio bella forza attrattiva delle idee, la fisica newtoniana per spiegare la connessione delle idee; inoltre, in Della forza de' corpi che chiamano viva, egli espone in termini brillanti la filosofia del calcolo infinitesimale. L'opera di Zanotti degna di rilievo proprio per il tentativo di unire esposizione scientifica e speculazione filosofica, utilizzando un linguaggio spesso brillante; lo stile di Zanotti meriter l'apprezzamento di Giacomo Leopardi, che ne inserir diversi brani nella Crestomazia italiana. Pi esplicita la contrapposizione fra Newton e Cartesio in Francesco Algarotti. Questi, nei Dialoghi sopra l'ottica newtoniana, mette a confronto l'asserita inconsistenza della fisica cartesiana, fondata sul concetto di vortice, con i risultati ottenuti da Newton nello studio della luce. Algarotti si mostra convinto che le nuove scoperte nel campo dell'ottica mettano in evidenza il carattere provvidenziale della natura, che ha disposto e ordinato le cose in base a leggi perfette. Genovesi e l'Illuminismo napoletano Antonio Genovesi l'esponente di punta della scuola riformatrice napoletana. Dato costante nel suo pensiero il rigetto della metafisica e della filosofia astratta, in favore di una filosofia pratica che sappia cimentarsi nelle necessarie riforme dell'economia e della burocrazia. Per Genovesi il mondo composto da fenomeni, corpi e sensazioni, e ogni sapere sapere di fenomeni: nel suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze Genovesi, seguendo la lezione di Vico, contrappone un'antica e originaria filosofia, fatta di cose concrete e di problemi reali, ai moderni filosofi, che paragona a Don Chisciotte. La stessa giurisprudenza, considerata da Genovesi un esempio di scienza pratica, intesa come scienza dei pubblici doveri e contrapposta all'arte di litigare o di ciarlare. Dopo la grave carestia del 1764 Genovesi si impegna negli studi economici e si fa sostenitore del liberismo, contro i vincoli imposti alla produzione e circolazione delle merci dall'apparato statale borbonico, alla cui inefficienza addebita la maggiore responsabilit della crisi del 1764. La riforma dello Stato richiede la creazione di un linguaggio comune fra citt e campagne, fra signori e contadini: questo linguaggio pu essere creato solo dal progresso tecnico. Tuttavia Genovesi, nel coniugare Illuminismo e teoria del progresso, non fa propri gli eccessi antireligiosi che invece riconosce nelle opere di Voltaire: alla base del suo progressismo, come si vede nella sua Logica per gli giovanetti, c' un sentimento umanitario che si richiama al messaggio evangelico dell'amore. Nondimeno, egli si oppone alle invadenze politiche del clero, cos come all'astrattezza delle dispute teologiche. Gli allievi di Genovesi possono essere distinti in due indirizzi: gli utopisti e i pragmatici. Fra i pragmatici sono Giuseppe Maria Galanti e Giuseppe Palmieri, protagonisti delle riforme realizzate durante il decennio del governo di Gioacchino Murat. Fra gli utopisti sono da ricordare Gaetano Filangieri, Francesco Maria Pagano, Francesco Antonio Grimaldi. Esponenti del giacobinismo meridionale, gli utopisti portano a Napoli le idee della fisiocrazia e propugnano un'ideologia antifeudale e radicalmente egualitaria.

Spicca fra essi Filangieri, autore di una Scienza della legislazione che si ispira a Montesquieu; in quest'opera Filangieri teorizza la necessit di armonizzare le leggi con i principi immutabili di giustizia ed equit contenuti nel diritto naturale. Filangieri si interessa anche ai problemi dell'educazione, riprendendo da Rousseau l'ammirazione per l'educazione dell'antica Sparta, che ritiene ancora attuale e meritevole di essere applicata ai giovani del suo tempo. Un altro esponente dell'Illuminismo settecentesco Melchiorre Delfico, pensatore profondamente imbevuto dello spirito del suo tempo: nelle sue Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana Delfico si mostra convinto sostenitore della missione dei Lumi, destinata entro breve tempo ad annientare ogni residuo di barbarie. Inoltre, in un'opera di poco posteriore alla fine del secolo, i Pensieri sulla storia, giunge a negare che nella Storia agisca un qualche principio spirituale: nella Storia, egli sostiene, non vi sono che cause meccaniche o fisiologiche. L'Illuminismo nel Lombardo-veneto Gli illuministi lombardi si raccolgono attorno al Caff, giornale pubblicato dai fratelli Alessandro e Pietro Verri, che vengono riconosciuti dai filosofi dell'Encyclopdie compagni di lotta. Caratteristica principale dell'Illuminismo milanese l'assenza di vere e proprie opere filosofiche: piuttosto, questi autori producono articoli, brevi saggi, opuscoli, il cui intento di focalizzare una questione in poche parole. La chiarezza e la sinteticit degli scritti dei Verri e di Beccaria hanno una precisa ragione: il loro scopo quello di far circolare i loro pensieri ben oltre la cerchia dei lettori colti, affinch le loro idee divengano patrimonio della pubblica opinione. Scrive infatti Pietro Verri nel suo Discorso sull'indole del piacere e del dolore che la vera natura dell'uomo consiste nella cultura e nella civilt; entrambe, conclude Verri, sono da conquistare col progressivo perfezionamento della ragione. Si tratta di un perfezionamento che non conosce alcun punto di arrivo, giacch, afferma Pietro Verri seguendo Locke, la molla dell'agire umano il perenne stato di inquietudine che proprio della natura umana: scopo della vita non quindi l'edonistico godimento del piacere, ma la faticosa costruzione della civilt. Con toni combattivi, i Verri collegano la necessit della riforma dello Stato con la necessit della riforma della cultura e della lingua. Nella Rinuncia al Vocabolario della Crusca Alessandro Verri difende la necessit di innovare la lingua facendo ricorso, se necessario, ai neologismi e alle parole straniere allo scopo di adeguare la lingua alle nuove idee che nascono in Europa. necessario, si legge nella Rinuncia, portare lo spirito di indipendente libert sulle squallide paludi del dispotico Regno Ortografico: sono le parole a doversi mettere al servizio delle idee, e non le idee al servi' zio delle parole. Alla necessit di adeguare la lingua allo spirito del tempo si accompagna dunque anche l'esigenza di superare i vincoli meramente nazionali imposti da un astratto culto dell'idea di patria. Le esigenze di un rinnovamento della lingua trovano nel saggio del padovano Melchiorre Cesarotti Sulla filosofia delle lingue un'eccellente sintesi. Ispirato al pensiero di Vico e Condillac, il saggio di Cesarotti afferma l'esistenza di uno stretto legame fra l'evoluzione delle lingue e lo sviluppo storico dei popoli. Cesarotti nega, contro Cartesio, l'esistenza di strutture linguistiche astratte e universali: esistono invece in ogni uomo un genio grammaticale e un genio retorico, entrambi suscettibili di trasformazione secondo l'evolversi dei tempi. Perci anche le lingue sono coinvolte nella grande rivoluzione di pensiero in corso nel XVIII secolo, che abbatte le barriere fra le nazioni e confonde fra loro i caratteri originari: compito degli scrittori quello di interpretare questo rivolgimento

rompendo con i vecchi modelli linguistici e rinnovare la lingua, opponendo la scintilla del genio nazionale al dispotismo delle accademie. Collaboratore del Caff Cesare Beccaria, autore del celebre Dei delitti e dellepene, che viene immediatamente tradotto in Francia (dall'enciclopedista Morellet) e ha un'eco vastissima in tutta Europa. Beccaria sostiene che le leggi devono scaturire da patti liberi fra uomini e devono avere come obiettivo la massima felicit per il maggior numero possibile di uomini. Per Beccaria necessario riformare i codici, liberandoli dal retaggio del passato e dalla possibilit di divergenti interpretazioni causate dal linguaggio oscuro con cui sono scritti, separare i ruoli del legislatore e del sovrano e limitare il rigore delle pene. Poich delitto e pena sono fra loro incommensurabili, ogni pena che ecceda il limite della sua utilit diviene inutilmente atroce. L'intento principale di Beccaria una razionalizzazione delle leggi e delle procedure giudiziarie; questo intento comporta, fra l'altro, il rifiuto della presunzione di colpevolezza e dell'uso della tortura. La sua opera diventa quindi, agli occhi dei riformatori del Settecento, un atto di accusa contro la disumanizzazione e gli arbitri che dominano i processi e mettono gli imputati in condizioni di inferiorit rispetto agli accusatori. In particolare, egli si scaglia contro l'uso della tortura come strumento atto a estorcere la confessione: la tortura una pena anticipata inflitta a un uomo che non pu essere considerato colpevole, in quanto ancora in attesa di processo. Per di pi, la tortura , ai fini pratici, uno strumento di scarsa utilit perch di fatto essa condanna l'innocente debole e fiacco e manda assolto il colpevole robusto e coraggioso.

Dei Delitti e delle Pene Cesare Beccaria


Trattato del filosofo e giurista milanese Cesare Bonesana, marchese di Beccaria (1738-1794). Scritto fra il marzo 1763 e il gennaio 1764, fu stampato a Livorno nell'estate del 1764. Il Beccaria si propone in questa opera di rivelare i difetti della legislazione giudiziaria dei suoi tempi, invocandone la correzione ed esponendo in proposito le proprie vedute. Egli parte (cap. I-III) dal concetto, gi esposto da J.-J. Rousseau nel Contratto Sociale, secondo il quale gli uomini per libero accordo si sarebbero riuniti a comune convivenza, sacrificando una parte di libert, la minore possibile, in vista dell'utilit maggiore: e questa concezione influisce su tutto il suo modo di esaminare la questione, inducendo a considerare il diritto penale come fondato non sul classico principio della "restitutio juris", secondo il quale "punitur quia peccatum est", ma su quello, relativista e pragmatico, per cui "punitur ne peccetur". Ma ben pi che questa discutibile e non nuova tesi iniziale (le cui fonti possono essere fatte risalire sino alla sofistica greca), importante in quest'opera la rude energia con la quale additata all'esame una questione cos grave come la riforma della legislazione penale, e, in molti casi, l'opportunit pratica (di l da ogni considerazione teorica di principio) dei rimedi proposti. Per il Beccaria necessario che la determinazione dei delitti e delle pene sia fatta in base a un codice ben chiaro e definito di leggi: nulla deve essere lasciato all'arbitrio del giudice, che per essere uomo pu lasciarsi influenzare o trasportare dai propri istinti. Deve quindi cessare il dannoso abuso delle "interpretazioni", come si dice, secondo lo spirito delle leggi, interpretazioni cavillose e pi o meno arbitrarie, fatte in realt secondo lo spirito di chi giudica. Gli uomini tutti debbono conoscere chiaramente i limiti della propria responsabilit, quindi i codici debbono essere divulgati in modo da non lasciar luogo a incertezze o ignoranza (cap.

IV-V). Poich il diritto di punire non va oltre la necessit di tutelare la cittadinanza dagli elementi turbolenti non giusto incrudelire sugli accusati prima di averne accertata la colpevolezza: perci riprovevole il costume di sottoporre gli indiziati a umiliazioni, minacce e rigori carcerari prima del processo: il carcere preventivo non deve essere infamante (cap. VI-VII). E pubblici han da essere i giudizi, per non dar luogo a sospetti di tirannide e di ingiustizia, come pure da estirpare il deplorevole sistema delle accuse segrete, che incoraggiano i malvagi istinti del tradimento e della vendetta (cap. VIII-IX). Ci che poi l'autore nettamente condanna (cap. XII) l'uso della tortura, avanzo di inumana barbarie, che, per di pi, di utilit assai dubbia ai fini di chiarire la verit. N le pene debbono essere spietate: affinch una pena ottenga il suo effetto (cap. XV), basta che il male ch'essa procura superi il bene che nasce dal delitto: il di pi superfluo e perci tirannico. Altra consuetudine penale nettamente condannata (cap. XVI), quella della pena di morte: in primo luogo perch contraria allo spirito del contratto sociale, e in secondo luogo perch, dal punto di vista dell'intimidazione, spaventa pi l'idea di una pena prolungata che quella di una pena intensa ma istantanea. Perci la schiavit perpetua, sostituita alla pena di morte, ben pi atta a rimuovere le menti dal concepire l'idea del delitto. La pena poi ha da essere pronta (cap. XIX), al doppio fine di togliere gli imputati dal penoso stato dell'incertezza sulla propria sorte, e di ben stabilire nelle menti dei cittadini la nozione della consequenzialit di colpa e castigo. N, con una buona legislazione, ha ragione di esistere la grazia, che sembra quasi voler riparare a possibili torti della legge, e cos ne infirma in certo modo l'autorit (cap. XX). Le pene debbono essere (cap. XXI-XL), sempre proporzionate ai delitti, ma in generale il meglio cercar di prevenire i delitti (cap. XLI), facendo in modo che le leggi siano chiare e alla portata di tutti e rispettate perch temute, istruendo il popolo, sicch "i lumi accompagnino la libert", e ricompensando la virt. In conclusione, la giustizia dovrebbe tener mente a questo teorema generale: "Perch ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi". Questo trattato ebbe uno straordinario successo, dovuto non a pregi letterari, ma all'opportunit della maggior parte delle riforme auspicate, parecchie delle quali furono, in effetti, e con successo, adottate. L'opera ebbe il commento di Diderot e di Voltaire, e fu conosciuta e ammirata da uomini come il D'Alembert, il Buffon, l'Helvtius, lo Holbach, lo Hume, lo Hegel. Ma, pi ancora che nel campo della cultura strettamente inteso, l'efficacia del libro fu grande nel campo della pratica, poich del suo influsso risent pi o meno profondamente la nuova legislazione penale di tutti i princpi riformatori.

Perch, secondo Beccaria, la pena di morte ingiusta


Dei delitti delle pene, pubblicato nel 1764 dallitaliano Cesare Beccaria, divenne nel 700 un autentico best seller. In questo libro Beccaria metteva in discussione tutti i principali aspetti del diritto penale dellepoca. Innanzi tutto egli si sofferma sullorigine delle pene; in altri termini, cerca di rispondere alla domanda: chi ha il diritto di punire un altro uomo e perch? Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in societ, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libert resa inutile dall'incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillit. [] Ecco dunque sopra di che fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessit di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto pi giuste sono le pene, quanto pi sacra ed inviolabile la sicurezza, e maggiore la libert che il sovrano conserva ai sudditi.

[da C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Mursia, Milano 1982, p. 27, 53-54] Dopo aver spiegato lorigine della societ e del diritto di punire, Beccaria spiega qual , a suo parere, la finalit delle pene applicate a coloro che non rispettano le leggi. Il fine delle pene non di tormentare ed affliggere un essere sensibile, n di disfare un delitto gi commesso. [] Il fine dunque non altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione [tra al gravit della pena e la gravit del delitto], far una impressione pi efficace e pi durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo. [da C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 47] Dopo queste importantissime premesse, Beccaria arriva al cuore della questione, spiegando le ragioni che lo inducono ad escludere la pena di morte. Uno dei pi gran freni dei delitti non la crudelt delle pene, ma l'infallibilit di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severit di un giudice inesorabile, che, per essere un'utile virt, dev'essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, bench moderato, far sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro pi terribile, unito colla speranza dell'impunit. [] I paesi e i tempi dei pi atroci supplizi furon sempre quelli delle pi sanguinose ed inumane azioni, poich il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Qual pu essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranit e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libert di ciascuno; esse rappresentano la volont generale, che l'aggregato delle particolari. Chi mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libert di ciascuno vi pu essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? [] Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d'anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavit e nel dolore in faccia a' suoi concittadini, coi quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ci coll'incertezza dell'esito dei suoi delitti, colla brevit del tempo di cui ne godrebbe i frutti. L'esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai pi forte che non lo spettacolo di un supplizio che lo indurisce pi che non lo corregge. [] Non utile la pena di morte per l'esempio di atrocit che d agli uomini. Se le passioni o la necessit della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbero aumentare il fiero esempio, tanto pi funesto quanto la morte legale data con istudio e con formalit. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volont, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio. [] Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. [] Quali sono queste leggi ch'io debbo rispettare, che lasciano un cos grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della

moglie. [] meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo il fine principale d'ogni buona legislazione, che l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicit o al minimo d'infelicit possibile, per parlare secondo tutt'i calcoli dei beni e dei mali della vita.

Un sostenitore della pena di morte: Ferdinando Facchinei


Beccaria trov avversari soprattutto allinterno della Chiesa cattolica. Uno dei primi ad intervenire contro Dei delitti e delle pene fu non a caso il monaco Ferdinando Facchini che, nel 1765, scrisse un intervento estremamente polemico, di cui riportiamo due passaggi. Il primo affronta direttamente la questione della pena di morte. In tutte le societ duomini della natura di quelli che sono vissuti sin qui, se ne possono trovare molti, che assalgano, e che vogliano ammazzare qualcuno dei loro concittadini, e che lo ammazzino realmente. Affinch ci non segua necessario che la societ assalga od ammazzi i detti assalitori ed omicidi; altrimenti non si verificherebbe che un uomo, entrato in societ, acquista una maggior sicurezza della sua vita; altrimenti non otterrebbe il fine per cui entr in societ; altrimenti sarebbe anche dinferior condizione unito in societ che restando di per s solo ed isolato da tutti. Dunque una societ, siccome deve aver maggior forza dun uomo solo per assicurare la vita di tutti, cos dovr avere anche maggior diritto di tutti i cittadini insieme e siccome un uomo solo ha diritto di ucciderne un altro (come abbiamo supposto) qualunque volta ne venga assalito, cos, e molto pi dovr concedere un tal diritto alla societ. [da F. Facchinei, Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene in C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino 1994.] Nella seconda citazione Facchinei prende di mira, invece, le premesse teoriche di Beccaria, di cui cerca di dimostrare la falsit. Quasi tutto quello che avanza il nostro autore in questo suo libro non appoggiato che su i due falsi ed assurdi principii che tutti gli uomini nascano liberi e siano naturalmente uguali e che le leggi non sono, n devono esser altro che patti liberi ditali uomini, fatti nellatto che per motivo di metter la propria vita in maggior sicurezza si uniscono in societ. Ma lautore non tranquillamente riflettuto che, bench luomo sia un animale socievole, come si deduce e dalle sue indigenze e dalle sue inclinazioni, ogni modo naturalmente cos superbo e cos portato alla libert ed allindipendenza che non concepibile che voglia spontaneamente assoggettarsi ad ubbidire ad altri uomini, tanto pi che, per sua natura, ricusa dubbidire alla propria ragione e sovente si trova in contraddizione con se medesimo. Egli non dimeno, quasi che queste fossero due verit incontrastabili e ricevute da tutti, fonda sopra le stesse con terribile audacia tutto quello che avanza, contro la necessit delle accuse e delle condanne segrete, contro luso di torturare i rei per rilevare la loro confessione a pubblica giustificazione e cautela e contro la giustizia e lutilit della pena di morte, con cui si puniscono i scellerati ed i perturbatori della societ. [da F. Facchinei, Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, cit.]

Potrebbero piacerti anche