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APR - GIU 2018 numero 06

Digressioni ARTE - LETTERATURA - POESIA - CINEMA - FILOSOFIA


FOTOGRAFIA - MUSICA - SCIENZA - STORIA - TEATRO

Confini

I bordi del fotogramma


Sofonisba Anguissola
Kurdistan - una linea sulla sabbia
Dove finisce l’universo
Wagner e Stockhausen

Racconti
Poesie
Disegni
Illustrazioni
Fotografie
Digressioni
Editoriale
Editoriale ................................................................................................................. 03
Scienza | Il bordo del Cosmo ....................................................................... 04
Letteratura | La ricerca meridiana di Paul Celan ............................. 08
Confini
Arte | La purezza del sangue ....................................................................... 11
Musica | Come Wagner, più di Wagner ................................................. 16
Letteratura | Ai confini della vita, ai confini dell’amore ............... 20 Con il sesto numero di Digressioni abbiamo scelto di indagare i confini.
Filosofia | I confini della giustizia .............................................................. 24 In questo caso, più che in altri, delimitare è stato arduo, perché lo spa-
Cinema | Dove vanno gli operai? ............................................................... 28 zio del confine è smisurato. Anzi, probabilmente abbiamo sconfinato
Letteratura | Barbara Baynton e il terrore della frontiera ........... 32 e nel nostro viaggio di ricerca ci siamo spinti un po’ più in là del con-
Teatro | Ai confini dell’animo umano ..................................................... 36 sentito: alcuni “limes” li abbiamo abbattuti, altri li abbiamo tracciati ed
Storia | Una linea nella sabbia .................................................................... 40 esaminati; alcuni ci hanno sconcertato, altri ci hanno piacevolmente
Cinema | Una (non così) sottile linea rossa ......................................... 43 sorpreso.
Letteratura | Popiću malo vina ................................................................... 46 Del resto, Medardo di Terralba – meglio noto come visconte dimezzato
Architettura | Dallo spazio al muro ......................................................... 49 – dimostra che spesso la linea di confine non è affatto netta. Comun-
Letteratura | Se il confine determina l’identità ................................ 52 que sia, siamo felici di proporvi la nostra personale “fenomenologia dei
Antropologia | Il confine naturale ............................................................ 55 confini”, che vi guiderà dai bordi del cosmo agli abissi dell’animo uma-
Fotografie | di Bartolomeo Rossi ............................................................... 59 no, dai limiti della giustizia a quelli del fotogramma, dai confini natu-
Racconti | Chi è senza macchia ................................................................. 62 rali, come le siepi e il bosco, a quelli costruiti dall’uomo, come il muro.
Racconti | Welcome to Sky Valley ............................................................. 66 Perché, certo, confine è anzitutto identità: ne sono prova la cosiddetta
Racconti | Bonus ................................................................................................. 71 questione curda, ancora oggi attuale, e l’occupazione cosacca della
Poesie | Inventario 22 aprile ......................................................................... 74 Carnia raccontata da Carlo Sgorlon ne “L’armata dei fiumi perduti”. Ma
Opere | “Confini” di Alfonso Firmani ....................................................... 79 una semplice sbarra non può separare gli uomini – afferma il poeta
Illustrazioni | di Corinne Zanette ............................................................... 80 friulano Luciano Morandini – sicché confine è anche incontro, o me-
glio “mistero dell’incontro”, così come si rivela a Paul Celan nella sua
ricerca meridiana attraverso la poesia, o a Edith Bruck, poetessa ebrea

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sopravvissuta ad Auschwitz, per la quale non vi è patria “al di fuori dei
confini dell’amore”. Confini calpestati da una bestialità senza limite,
mostruosamente umana, tale è ritratta nelle opere di Yukio Mishima

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e di George Tabori e in quelle di Barbara Baynton, scrittrice che rove-

16 32 scia il canone della letteratura coloniale australiana di fine Ottocento.


Confine è demolire le barriere, dunque, come nel caso di Sofonisba
Anguissola, prima donna ritrattista ufficiale di una corte europea, ma è
soprattutto sconfinare, sulla scia del genio “totale” di Stockhausen, che
con la “Licht” supera se stesso, dando vita alla “più grande opera mai
Digressioni è una rivista cartacea indipendente di cultura a uscita concepita nella storia della musica”.
trimestrale. Contiene articoli di cultura, racconti, poesie, fotografie,
illustrazioni e opere d’arte. Confine è – sempre – immaginazione e visionaria interpretazione, tale
è nei racconti inediti, nelle poesie, nelle fotografia e nelle illustrazioni
Hanno scritto: Luca T. Barbirati, Annarosa Maria Tonin, Carlo Londero, Gian Pietro Barbieri, che ospitiamo in questo numero.
Paolo Steffan, Francesco Zanolla, Cinzia Agrizzi, Enrico Losso, Laura Cuzzubbo, Michele Sa-
ran, Christina Lee, Alvise Reiner, Carlo Selan, Matteo Pernini, Davide De Lucca, Matteo Zucchi Cinzia Agrizzi
All’interno: fotografie di Bartolomeo Rossi - illustrazioni di Corinne Zanette e Paolo
Steffan - opere di Alfonso Firmani
In copertina: fotografia di Bartolomeo Rossi
Sullo sfondo: illustrazione di Corinne Zanette
“Digressioni - trimestrale di cultura” | # 05 - Numero 5 anno 2018
www.digressioni.com - info@digressioni.com
Registrazione: Tribunale di Udine n. 19/16
Un progetto di Davide De Lucca e Christina Lee
Direttore responsabile: Cinzia Agrizzi
Grafica: D for Donovan
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L’universo “inchiuso da quel ch’elli’nchiude” Scienza

I l bordo del Cosmo Vi è un concetto – ci ricorda Borges in un memorabile saggio in cui inse-
gue lo svolgersi di un paradosso nei labirinti della storia umana1 – che cor-
rompe e altera tutti gli altri: l’infinito. Lo temettero Euclide – che, chiamato
a definire la retta, ne fece un segmento prolungabile a piacere, eludendo,
di Matteo Pernini così, i rischi di una lunghezza infinita; Escher – che ne chiuse l’orrore in archi-
tetture d’incubo; Kafka – che fece della giustizia un punto irraggiungibile.
Dove, però, esso ci lascia maggiormente smarriti è nel suo farsi attributo
dello spazio, come sottinteso in una nota del filosofo pitagorico Archita:
“Se mi trovassi nell’ultimo cielo, cioè in quello delle stelle fisse, potrei
stendere una mano o la bacchetta al di là di quello, o no? Ch’io non pos-
sa, è assurdo; ma se la stendo, allora esisterà un di fuori, sia corpo sia
spazio. Sempre dunque si procederà allo stesso modo verso il termine di
volta in volta raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e sempre vi sarà
altro a cui possa tendersi la bacchetta”2. L’argomento non è privo di buon
senso e lo si potrebbe altresì formulare in questi termini: è concepibile
un luogo ove un turista cosmico possa gettare uno sguardo al di fuo-
ri dell’Universo, così come guarderebbe oltre la finestra di un edificio?
Sebbene l’immagine richiami alla nostra mente lo stupore di Jim Carrey,
che, in The Truman Show (1998), tocca con mano il bordo dell’orizzonte e
lascia che la sua barchetta vi si incagli con un clangore di metallo, si trat-
ta di un’ipotesi difficile da sostenere. A provare le conclusioni di Archita
interviene, inoltre, il Principio Cosmologico, formulato nel 1932 dall’astro-
nomo Edward A. Milne, che, estendendo l’idea copernicana per cui l’uo-
mo non occuperebbe alcuna posizione privilegiata nel cosmo, sancisce
l’omogeneità e l’isotropia dell’Universo su larga scala; detto altrimenti: la
distribuzione di materia in esso è approssimativamente costante e, non
dandosi alcuna direzione privilegiata, è impossibile definire un centro.
Parrebbe che l’accordo tra il rigore dei principi scientifici e il buon
senso della scuola pitagorica sia bastevole a chiudere il discorso. A ben
vedere, però, quel che si è finora stabilito è la semplice difficoltà di con-
cepire un qualunque confine per il nostro Universo; desumerne, da qui,
l’infinitezza è passo troppo ardito e che non manca di precipitarci in un
fondo di problemi altrettanto ostici. Ci chiediamo, infatti, cosa ne sa-
rebbe, in un Universo infinito, del Principio di Conservazione dell’Ener-
gia, nonché come dovremmo porci rispetto all’ipotesi che esistano in-
finite copie di noi stessi e del nostro mondo – dal momento che, per
quanto alto, il numero di possibili combinazioni degli atomi è limitato.
Come si vede, è sufficiente fare dell’infinito una vaga premessa al discor-
so perché l’immaginazione subito si confonda e sia colta da vertigine.
In questo turbinare di vicoli ciechi, interviene, a scongiurare il rischio
dell’aporia, un suggerimento di Albert Einstein, che, pochi anni dopo la
formulazione della Teoria della Relatività Generale, tiene, all’Università

“Relativity”, M. C. Escher, 1953

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Scienza

di Berlino, una memorabile prolusione dal titolo Geometria ed esperien- curva. Un argomento che richiama l’intuizione di Brunetto Latini, che, nel
za (Geometry and Experience, 1921), in cui, ragionando su ciò che lega XXXV capitolo di quella sorta di enciclopedia del sapere medievale che è
i formalismi e le astrazioni della matematica alla sua capacità di inter- Li livres dou Tresor, per spiegare la forma della superficie terrestre scrive: “E
venire con successo nella descrizione del reale, lascia cadere, sul finale, se due uomini d’uno luogo ad una ora si movessero, e andasse l’uno tanto
un’ipotesi brillante, che segnerà la cosmologia negli anni a venire. Per quanto l’altro, e l’uno andasse verso levante e l’altro verso ponente, e an-
intenderla occorre fare una premessa e domandarsi se possa darsi il dassero dirittamente l’uno a rincontro l’altro, certo eglino si riscontrareb-
caso di uno spazio finito, ma senza alcun bordo a distinguerne i confini. bero dall’altra parte della terra per mezzo quel luogo onde fossero mossi. E
Si immagini, allora, di sottrarre una delle tre dimensioni spaziali al nostro se pure andassero oltra, elli tornerebbero a quel luogo onde si partirono”3.
mondo, precipitando l’umanità in un universo simile a quello dipinto da
Edwin A. Abbott nella fantasia letteraria Flatlandia: Racconto fantastico a Nel 1979, poi, il matematico Mark Peterson scoprì, nei versi del-
più dimensioni (Flatland: A Romance of Many Dimensions, 1884): anziché la Divina Commedia in cui Dante raggiunge l’Empireo, l’intuizione li-
volumi nello spazio, i nostri corpi diverrebbero aree in movimento su un rica di una 3-sfera, ossia della curvatura di un volume in uno spazio
piano, che costituirebbe, a sua volta, il nostro nuovo orizzonte cosmico. A quadridimensionale. Giunto all’ultima sfera celeste, il Poeta guarda in
prima vista il guadagno sembrerebbe esiguo: siamo passati dal doman- alto e vede i cori angelici e, al centro, un punto luminoso, di cui scri-
darci se lo spazio sia limitato da una qualche superficie all’indagare se una ve che pareva “inchiuso da quel ch’elli’nchiude”4, offrendo la preci-
linea contorni il nostro piano. Se ora, però, provassimo a gettare dall’ester- sa descrizione di una sfera in quattro dimensioni, di cui si può dire
no – cioè, dal nostro mondo tridimensionale – uno sguardo sull’universo che ha forma di una sfera che circonda un’altra sfera ed è, al contem-
bidimensionale popolato da questa umanità di aree, scopriremmo una po, da essa circondata. Si tratta di una geometria che sfugge al nostro
cosa alquanto interessante, ossia che curvando il piano-Universo e con- intuito, ma su cui potrebbe essere ricalcata la struttura dell’Universo.
giungendone i bordi sino a ricavare una sfera otterremmo una superficie Sfruttando la geometria intrinseca – ponendoci, cioè, all’interno del co-
finita, eppure del tutto priva di bordo, sulla quale triangoli, cerchi e poligo- smo, anziché osservandolo dall’esterno – potremmo descriverlo come
ni potrebbero muoversi indefinitamente senza incontrare alcun ostacolo. uno spazio in cui un viaggiatore che si muovesse in linea retta lungo una
Facciamo, quindi, tesoro di questa intuizione e, riappropriandoci della direzione finirebbe col tornare al punto di partenza. Per Dante, che aveva
consueta tridimensionalità del nostro mondo, concludiamo, con Einstein, studiato sull’opera del Latini, questa generalizzazione delle caratteristiche
che l’idea di un universo finito, ma senza bordo, è ragionevole a patto di di una sfera al caso quadrimensionale, dovette sembrare pienamente na-
supporre che lo spazio in cui ci muoviamo non sia rigido, ma curvo, il che turale.
è, appunto, il risultato fondamentale della Teoria della Relatività Generale.
Rimane, com’è naturale, una certa perplessità riguardo a cosa signi-
fichi che l’Universo sia curvo. Per piegare una linea retta sino a chiuder- 1
Metamorfosi della tartaruga, in: Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, 2009, pag. 109
2
F. P. De Ceglia (a cura di), Scienziati di Puglia: secoli V a.C. - XXI, Parte 3, Adda, 2007, pag. 18
la in cerchio occorre aggiungere una dimensione; allo stesso modo per 3
Brunetto Latini, Il Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, Co’tipi del Gondoliere,
deformare un piano in una sfera occorre uno spazio tridimensionale. Ne 1839
concludiamo che una descrizione della curvatura del Cosmo richieda uno
4
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, Canto XXX, La Nuova Italia, 2004

spazio a quattro dimensioni, il che va oltre i limiti della nostra immagina-


zione, a meno che non accettiamo di rovesciare il punto di vista e, anziché
indagare le proprietà di un oggetto dall’esterno – come quando, chiamati
a descrivere una sfera, la figuriamo davanti ai nostri occhi in forma di aran-
cia, palla o mappamondo – rinunciamo ad averne una visione d’insieme e
ci impegniamo a desumerne le caratteristiche dall’interno. In ciò compor-
tandoci come Anselmo Lanturlu, protagonista del Geometricon (1985) di
Jean-Pierre Petit, che, bramoso di investigare le proprietà del mondo vago
e nebbioso in cui vive, fissa a terra un paletto, vi lega una corda e la srotola,
finché, dopo giorni di cammino in linea retta, ritrova incredulo il picchetto
che si era lasciato alle spalle, concludendone di vivere su una superficie Matteo Pernini, nato negli anni Novanta tra le nebbie della val Padana, frequenta la
facoltà di Fisica presso l’Università di Padova. Tra le sue passioni: il tennis e il cinema.
Dal 2012 collabora con la webzine di critica cinematografica Ondacinema.

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Uno sconfinamento Letteratura

L a ricerca meridiana di Paul Celan È la consolazione che spetta ai senza pa-


tria, agli esuli di ogni luogo, quella per cui
il non aver un confine permette di osser-
di Luca T. Barbirati vare meglio i confini. E solo un occhio fan-
ciullo può dire, guardando un mappamon-
do, che il luogo che “affratella i paesi” è il
meridiano, quell’arco immaginario che va
da Nord a Sud e che unisce “di un’amorosa
Ogni parola è l’uscita
per un incontro, spesse volte annullato, lontananza” chi è unito dal sole di mezzo-
e allora è una parola vera, quando inisiste nell’incontro.1 giorno. Ma Celan non può accontentarsi di
Ghiannis Ritsos una lingua e di un luogo, perché ben al-
tri confini è destinato a sconfinare. Il dove
Chi è straniero in ogni luogo non ha altra scelta che cercare le pro- che sta cercando è una domanda circolare,
prie radici nell’anima. Se questo straniero ha pure la ventura di essere che fa lo sgambetto a chiunque cerchi sul-
poeta – tra i massimi nel Novecento – la sua ricerca deve fare i conti la mappa il proprio luogo. Il dove celania-
con l’arte e con le lingue in cui viene rappresentata. È sensibile che il no deve affrontare le insidie dell’origine; e
cammino dell’arte debba portare alla Poesia; è evidente che ogni verso come ha scritto Ungaretti nella poesia Gi-
scritto tenda alla Poesia, perché altrimenti non avrebbero senso tutti gli rovago, alla cui raccolta Celan ha dato voce
sforzi di chi, vano e mortale, anela anche a un solo filamento di infinito. in tedesco per l’editore Suhrkamp: “Gode-
L’arte è il cammino che la Poesia è tenuta a percorrere, può essere una re un solo / minuto di vita / iniziale / Cerco
prima sintesi di quanto pronuncia Paul Celan il 22 ottobre 1960, du- un paese / innocente”6.
rante il conferimento del premio Büchner. Ma si domanda anche: “ma
La strada che porta al paese innocente
dove? ma in che luogo? ma con che cosa e in quanto che cosa?”2
è una “via creaturale”7, perché l’uomo è
È la stessa domanda contenuta nella poesia Es war Erde in ihnen, una creatura prima che un individuo. L’in-
che apre la quarta raccolta Die Niemandsrose (S. Fisher, 1963), libro dividuo no, mai, ma la creatura può rim-
dedicato alla memoria di Osip Mandel’štam: “Dove s’andava, giac- patriarsi in questo paese innocente e lo
ché non s’andava in alcun luogo? / Tu scavi ed io scavo, scavando ti può fare lì dove si trova, perché meridia-
raggiungo”3. Celan non agita solo un dubbio geografico ma tenta di namente è già affratellato a chi come se
indicare la cartina col dito e, come un bambino, di dire: “Tutti questi stesso a mezzodì ha il sole sopra la testa.
luoghi sono introvabili, essi non esistono; ma io so, adesso soprat- E avendo il coraggio e la sincerità di no-
tutto, so dove dovrebbero esserci, e… qualcosa trovo”4. Ma Celan è minare le cose col proprio nome, non può
costretto a scavare giorno e notte nella terra che ha dentro di sé e, essere causa di imbarazzo chiamare Eden
solo dopo essersi parificato a un verme confitto nel terreno, in silenzio quel paese innocente che Celan va cercan-
e solitudine, può trovare una lingua e un luogo che forse sono il luogo do. E nell’Eden l’uomo incontrò la donna,
e la lingua. entrambi creature e non creatori, entrambi
testimoni e non fondatori. Lungo questa
Tutto questo senza alcuna certezza poetica, senza possibilità di di-
via dell’impossibile, tra confini linguistici e
mostrare scientificamente la propria scoperta. Nella poesia Bei Wein
geografici, anche l’impossibile può essere
und Verlorenheit scrive infatti: “tra- / scrivevano il nostro nitrito / in una
chiamato col suo nome: incontro! Infatti è
delle loro / lingue illustrate”5. Celan conosceva almeno sette lingue,
l’incontro il luogo di destinazione e il luogo
ma solo nel silenzio s’imbatté in quella lingua altra in cui si comunica
di partenza dell’uomo in cammino, conti-
la gioia e il dolore dell’uomo, in quella lingua universale attraverso la
nuamente.
quale la Poesia si esprime.

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RUBRICA: Ritratti del potere n. 1

E l’incontro con un altro, per Celan, che meditò gli scritti di Martin
Buber, è sempre figura del totalmente Altro, a cui l’uomo in cammino vi
si dispone, “lo va cercando; e vi si dedica”8, in un moto di quasi sponta-
nea preghiera o nella forma di un “colloquio disperato”9. È solo dentro
L a purezza del sangue
Sofonisba Anguissola dipinge “Ritratto di Filippo II” (1565)
il “mistero dell’incontro”10 che può apparire la mappa dell’anima, ossia
quella geografia che racchiude la segreta essenza spirituale degli uo-
mini, senza cui non possono vivere la propria esistenza autentica. O con di Annarosa Maria Tonin
parole migliori, Buber:
La più alta cultura dell’anima resta fondamentalmente arida
e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi dia-
mo ciò che spetta, non sgorghi, giorno dopo giorno, un’ac-
qua di vita che irriga l’anima; allo stesso modo la potenza
più immane è, nel suo intimo profondo, solo impotenza se
non si trova in alleanza segreta con questi contatti – umili
e pieni di carità nel contempo – con un essere estraneo
eppur vicino.11
La critica letteraria tuttavia deve dileguarsi, diminuire, affinché la Po-
esia che vuole testimoniare cresca e risplenda da sé. È il caso del com-
ponimento In der Luft, con cui si chiude Die Niemandsrose, che nomina
per sempre l’iter di questa ricerca meridiana:
Dapper-
tutto è Qui e Oggi, è, venendo da disperazioni,
lo splendore
in cui i Separati entrano
con le loro bocche abbacinate:
il bacio, notturno, imprime a fuoco
il significato ad una lingua, cui essi si destano –:12

1
Il senso della semplicità (da Poeti greci del Novecento, Mondadori, 2010)
2
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
3
Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998
4
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
5
Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998
6
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori, 2009
7
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
8
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
9
Ibidem
10
Ibidem
11
Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, 1990
12
Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998

Luca T. Barbirati è nato a Vittorio Veneto nel 1990. Dal 2014 vive a Firenze dove si laurea in
letteratura. Nel 2018 pubblica “Carlo Michelstaedter. Un angelo debole” (Arcipelago Itaca).

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Arte

Il re Filippo nasconde e dissimula meravigliosamente che diventerà la prima donna ritrattista


i suoi pensieri, né si può conoscere se sia o ben disposto ufficiale di una corte europea. La fiducia
o male affetto verso alcuno, se non dopo il premio o la pena
Tommaso Contarini, ambasciatore veneto alla corte di Madrid (1588-93) che il re ripone in lei è tale da indurlo ad
affidarle l’educazione delle due figlie, pri-
ma e dopo la morte di Elisabetta.
Fondazione Reale di San Lorenzo del Escorial, 1574. La pittrice e istitutrice rimane a Madrid
Le otto salme sono uscite dalle loro sepolture per riunirsi qui, tutte fino al 1573, quando parte per la Sicilia,
insieme, affinché io possa celebrarne la gloria ogni giorno, come monaco in seguito al matrimonio con il nobile
tra i monaci. Hanno percorso l’altopiano come io ho ordinato: lente, tra i Fabrizio Moncada Pignatelli, principe di
silenzi di luoghi deserti, accompagnate da orazioni e canti gregoriani. Da Paternò.
Yuste giunge l’Imperatore mio padre, da Granada l’Imperatrice madre, Isa- Sofonisba Anguissola (1532-1625) ha la
bella. Si è fermata ora davanti a me donna Giovanna, la Pazza di Tordesillas; fortuna di nascere da Amilcare Anguisso-
da oggi sarà per sempre la madre dell’Imperatore mio padre. la, membro del Consiglio dei Decurioni,
Altre salme la seguono: donna Leonora, sorella dell’Imperatore e regi- che governa Cremona a nome di Filippo
na di Francia, giunta da Talaveruela, sua sorella Maria, regina d’Ungheria, e II. Amilcare riconosce e promuove il ta-
Maria d’Aviz, la mia prima regina, da Valladolid, dove sono nato. lento della figlia, portandola a bottega
La tempesta sta infuriando, ma non turberà la celebrazione della No- dal pittore Bernardo Campi. All’epoca
stra gloria. Forse, un giorno, verrà qualcuno più grande di Noi, ma fino alle fanciulle era proibito lo studio della
ad allora chiunque dovrà inchinarsi e poi ritirarsi davanti a un Asburgo di matematica, della prospettiva e della tec-
Spagna. nica dell’affresco. Tuttavia, la formazione
Filippo II (1527-1598), vestito di nero, tiene fra le mani un Rosario e dal di Sofonisba le consente di perfezionarsi
suo collo riluce la gloria del Toson d’Oro. L’abito è molto attillato, come nella pittura al cavalletto (in particolare
costume del sovrano, che osserva il simbolo del suo regno: El Escorial, nel ritratto e nella scena di genere), nello
che è monastero, seminario, mausoleo, palazzo reale, palazzo del governo, studio della musica al clavicembalo, del-
chiesa, collezione d’arte. la poesia italiana e latina e nell’arte della
Accanto al re, severo e implacabile, le due amatissime figlie: Isabella tessitura e del ricamo.
Clara Eugenia, futura reggente dei Paesi Bassi, e Caterina Michela, futura “Ritratto di Filippo II”, Sofonisba Anguissola, 1565 Viene notata da Michelangelo, che in-
duchessa di Savoia, avute da Elisabetta di Valois (1545-1568), la sua terza
(Museo Nacional del Prado - Madrid)
trattiene una fitta corrispondenza con
regina. Amilcare Anguissola. Il Buonarroti dona
Filippo ed Elisabetta, figlia di Caterina de’ Medici, si sposano nel 1559. a Cosimo I de’ Medici un disegno a car-
Lei ha quattordici anni. Cinque figlie nasceranno, ma soltanto due raggiun- boncino e matita su carta, opera di So-
geranno l’età adulta. Elisabetta morirà a causa di un aborto spontaneo, fonisba raffigurante un fanciullo morso
nove anni dopo il suo arrivo a Madrid. Scrive di lei Paolo Tiepolo, amba- da un granchio, che sarà d’ispirazione a
sciatore veneto in Spagna dal 1562 al 1563: “Sa ella fare il re molti disordini Caravaggio per il celebre dipinto Ragazzo
con donne, ma avendo imparato la tolleranza da sua madre, pazientemen- morso da un ramarro. Il fanciullo del di-
te lo sopporta senza mai dir parola di risentimento”. segno è Asdrubale, fratello minore della
Del resto, Filippo non è nuovo ad avventure galanti. Già Federico Ba- pittrice, la quale ha appreso già in giova-
doer, ambasciatore dal 1554 al 1557, annota: “Nelli piaceri delle donne è nissima età la lezione leonardesca legata
incontinente, prendendo dilettazione di andare in maschera la notte anco allo studio della fisiognomica, secondo
in tempo di negoziazioni importanti”. cui la prova del talento di un artista ri-
Affinché la regina apprenda l’arte del dipingere e non sia lasciata troppo siede nel saper cogliere in un volto i moti
tempo sola, Filippo invita a corte la pittrice italiana Sofonisba Anguissola, del riso e del pianto.

“Fanciullo morso da un granchio”, Sofonisba


Anguissola, 1554 (Museo nazionale di Capodi-
monte - Napoli)
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Arte

A fare da tramite tra la Anguissola e il re di Spagna sono il duca d’Alba della concezione e dell’esercizio del potere del re, Sofonisba Anguissola di-
e il duca di Sessa, per i quali lei dipinge alcuni ritratti durante un soggiorno pinge la limpieza de sangre, il rapporto biologico tra la purezza del sangue
a Milano. Filippo II la invita a Madrid, a conferma di quanto scrive Annibale spagnolo e la purezza della fede cattolica, che Filippo vuole incarnare, fino
Caro nel 1556 in una lettera al padre della pittrice: “le cose sue son da alla macerazione monacale degli ultimi anni di regno, conseguenza anche
principi”. della morte della sua quarta moglie.
Nel palazzo reale di Aranjuez, in attesa di poter abitare al Escorial, il re
Nel 1570 le principesse Isabella e Caterina accolgono una nuova regina,
la osserva dipingere i ritratti della regina e delle figlie. Sempre serena, ab-
Anna d’Austria (1549-1580), loro prima cugina. Il re Filippo, dunque, sposa
bigliata in modo semplice con tessuti di colore scuro e colletti di merletto
la nipote.
bianco, nel 1565 dipinge l’opera Ritratto di Filippo II, dando vita figurativa a
L’ambasciatore Alberto Badoer nel 1578 scrive: “Ama tenerissimamente
quanto l’ambasciatore Federico Badoer scrive al Senato della Serenissima.
la moglie e la tiene piuttosto stretta che altrimenti, lasciandola poco o non
Il re Filippo è di statura piccola e di membri minuti, ha la mai senza di lui”.
fronte grande e bella, gli occhi di color cilestro assai grandi, Il matrimonio del re con la nipote segna, tuttavia, l’inizio della fine per
le ciglia grosse non molto disgiunte, il naso proporziona- gli Asburgo di Spagna. Filippo ritiene che la purezza del sangue non sia sol-
to, la bocca grande, il labbro di sotto grosso che distorce tanto un’ideale da difendere con la spada e il Rosario; essa diventa, nei fatti,
alquanto, porta la barba puntuta all’uso della maniera spa- un atto estremo, un esperimento genetico secolare, una teoria di volti esan-
gnuola, è di pelle bianca e di pelo biondo, ed ha apparenza gui, poiché i matrimoni consanguinei diventeranno prassi consolidata.
di fiammingo, ma pare altiero perché sta sulle maniere di La regina Anna, madre del futuro re Filippo III, muore nel 1580 e viene
spagnuolo. sepolta nel mausoleo del Escorial.
Da uno sfondo scuro, che ha la funzione di avvicinare il soggetto ri- Sofonisba Anguissola vede nascere El Escorial e il mausoleo degli Asbur-
tratto a chi guarda, Sofonisba fa risaltare il volto pallido, cadaverico del go di Spagna, luogo simbolo anche di un gusto estetico e, quindi, di una
sovrano. La pittrice, impietosa, traccia i contorni di un viso emaciato, privo filosofia che Filippo vuole imporre all’Europa. Sofonisba se ne va un anno
di reale e pulsante forza e autorevolezza, il volto di un uomo già sfiancato prima della macabra cerimonia d’inaugurazione nel 1574. Un anno dopo,
dalla lotta per preservare i domini spagnoli, ancora prima che le sue scon- rimasta vedova, inizia a viaggiare senza sosta per raggiungere altre corti
fitte politiche più cocenti nella seconda metà del Cinquecento sanciscano europee, fino a un secondo matrimonio e al ritorno in Sicilia, dove muore
il fallimento di una politica monocorde: sanguinaria, repressiva, lenta e ac- nel 1625, dopo aver insegnato l’arte del ritratto ad Anton Van Dyck, giunto
centratrice. un anno prima a Palermo per renderle omaggio.
Nella rigida postura del re, nei suoi abiti neri Sofonisba Anguissola di-
pinge la gravitas, un modello educativo che accomuna la formazione di
molti principi dell’epoca, uno stato della mente e dell’anima che implica un
comportamento e un’azione politica basati sulla consapevolezza del pro- Bibliografia di riferimento:
Gli ambasciatori veneti 1525-1792, a cura di Giovanni Comisso, Longanesi, 1985, pp. 98-132
prio ruolo. Nel caso di Filippo II il costante, e impari, confronto con la figura Hugh Trevor-Roper, Principi e artisti. Mecenatismo e ideologia alla corte degli Asburgo (1517-1633),
del padre Carlo V, lo convince del necessario trionfo della fede cattolica cap. II “Filippo II e l’Antiriforma”, pp. 51-100
sull’eresia protestante, della centralità anche geografica e fisica del gover-
no, della repressione di ogni moto di ribellione politica. Filippo II per ragio- Nel prossimo numero:
ni anagrafiche non vive il tempo di Erasmo da Rotterdam. Quando inizia Anton Van Dyck, La regina Enrichetta Maria in azzurro (1636-38)
a viaggiare nei suoi domini europei ciò che vede è il dilagare dell’eresia e
degli aneliti alla libertà dal giogo spagnolo. Il re non è educato all’ascolto,
al dialogo e al confronto, alla bellezza della diffusione delle idee; si isola,
costruendo un modello politico non più legato ai rapporti personali di fe-
deltà e amicizia, ma basato su un’efficiente capillare macchina burocratica
che a lui deve rendere conto.
Nell’attenzione ai dettagli, il collare del Toson d’oro e il Rosario, simboli Annarosa Maria Tonin è nata nel 1969. Laureata in Lettere Moderne, è stata docente di
Materie Letterarie e Storia dell’Arte. Ha pubblicato le raccolte di racconti “Vento d’autunno”
e “Tele di ragno” e i romanzi “Rivelazione”, “La scala a chiocciola” e “Il segreto di Alvise”.

14 15
Dalla Tetralogie alla Licht: Stockhausen sconfina (quasi) tutto

C ome Wagner, più di Wagner In musica spessissimo risulta facile parlare di totalità. Quante volte lo
sentiamo? “Artista completo”. “Artista totale”. La più tronfia, “Artista a tre-
centosessanta gradi”. Si dovrebbe riflettere: prendiamo Richard Wagner.
Tutto è totale in Wagner. A cominciare dalla commistione tra vita, avven-
turosa, nomade, errabonda, addentata con gran voracità a ogni suo lato,
di Michele Saran e la sua arte. I lasciti, iniziando dal Die Feen (1833) fino ad arrivare alla
sacralità assoluta del Parsifal (1877-1882), danno il vertice vocal-operistico
del romanticismo come anche di decadentismo e simbolismo. E alcune di
esse sono probabilmente le maggiori opere liriche mai scritte a memoria
d’uomo. Come la sua più epica, il ciclo del Der Ring des Nibelungen (1848-
1874), Tetralogie per gli amici. Dalla potenza del primo capitolo, Rheingold,
alla più celebre Walküre, dal superomismo del Siegfried fino all’epilogo, il
mitico Valhalla in fiamme in Götterdämmerung, il genio di Bayreuth varca
almeno tre confini.
Anzitutto la realizzazione. In queste quattro opere – quindicina d’ore
di ascolto in tutto – scompaiono le figure di librettista, regista, scenogra-
fo, direttore del coro, e quant’altro. Esiste solo il teutonico compositore
a occuparsi di qualsiasi cosa, la musica, la direzione, la messa in scena,
persino l’ottimale disposizione del pubblico pagante. E poi la tonalità, che
dai tempi di Bach non veniva messa in discussione: in Wagner la musica
non è più tonalmente agganciata e definita, nessun “re maggiore” o “do
minore”, ma libera, libera di svariare da un accordo all’altro, d’impastarsi
di sfumature. Non ultimo la struttura. A parte il preludio (e che preludio:
un massiccio terrificante e meraviglioso a ergersi all’orizzonte), le classiche
ripartizioni in arie, cori, duetti e recitativi divengono fossili del passato. Le
scene si estendono in una sorta di mare magnum, un oceano di suoni sen-
za soluzione di continuità, tra ottoni imponenti, fughe d’archi e terremoti
di timpani. I cantanti devono perciò essere possenti, anche stentorei, per
elevarsi tra l’orchestra. La quale scompare alla vista del pubblico in una
buca ancor più profonda, di nuovo per dare il maggior potere, la maggior
totalità possibile al dramma in scena.
Passa circa un secolo et voilà, ci risiamo. Un altro tedescone visionario,
occhi puntuti, sguardo (bestemmia!) da serial killer. Karlheinz Stockhausen.
Musicologi, studiosi e ammiratori considerano all’unanimità i suoi capola-
vori come capisaldi assoluti del serialismo, della musica elettronica ed elet-
troacustica, del “live electronics”: Gesang der Jünglinge (1955-56), Gruppen
(1957), Telemusik (1960), Mikrophonie (1964-65), Mantra (1970), e diversi
altri. Già molti meno conoscono la sua ultima opera compiuta, Licht, un
ciclo lirico che ha richiesto al compositore più di venticinque anni di lavoro,
dal 1977, anno della sua iniziale concezione, al 2003. È significativo anzi-
tutto il disegno generale, riesumato da un suo precedente ciclo vocale e
Portrait of Richard Wagner, Cäsar Willich, strumentale, l’altrettanto monumentale Aus Den Sieben Tagen (1968), sette
1862 (Reiss Engelhorn Museum - Mannheim)

16 17
Musica

pingui opere per altrettanti giorni della settimana, il cui ordine d’appari- clo lirico. Non solo ognuna delle sette opere, dipendentemente dalla sua
zione non segue la scansione naturale ma viepiù gli anni di composizione: “super-formula”, prevede una composizione a sé stante, ma anche ogni
Donnerstag (1978-80), giovedì; Samstag (1981-83), sabato; Montag (1984- singolo atto o scena. Si va dal corale immane alla singola performance,
88), lunedì; Dienstag (1988-91), martedì; Freitag (1991-94), venerdì; Mitt- dall’orchestra sinfonica a quella elettronica, dai singoli ensemble alla mu-
woch (1992-98), mercoledì; e Sonntag (1998-2003), domenica. sica concreta, ai sintetizzatori, agli strumenti orientali. Non basta. Vi sono
momenti che richiedono compresenza di più orchestre o attori in più sale,
Licht, “luce”, dunque. “Hikari” in giapponese, come avrebbe dovuto
persino di un quartetto d’archi in elicotteri al di sopra del teatro. La spa-
intitolarsi in origine. Capita che Stockhausen venga chiamato a compor-
zializzazione del suono, da sempre cruccio di Stockhausen, qui diventa la
re una pièce per danzatori e orchestra Gagaku, l’orchestra tradizionale
regola: canali sonori sono sparsi per l’auditorium, pure posti in mezzo al
giapponese che prevede esecuzioni – per definizione – non trascritte
pubblico. Vanno installate bocchette che persino diffondono aromi, a se-
ma enunciate oralmente. Inconcepibile per uno scienziato dello spartito
conda del momento o del personaggio. Alla fine di tutto, la chiusa di Son-
come Stockhausen. Ma anziché incidente diplomatico in musica, il fatto
ntag, la partitura prevede una seconda scena in parallelo da eseguirsi in
diviene pretesto creativo. Così, quel Jahreslauf – questo il nome del pri-
una non meglio precisata separata sede, chiamata Luziferium, interamen-
missimo abbozzo – si trasforma lentamente, lo si può dire senza pericolo
te dedicata, nomen omen, a Lucifero. Ma nessuno sa se sia stata anche
di smentita, nella più grande opera mai concepita nella storia della musi-
solo scritta. È ancora un altro confine da varcare, quello del non-finito.
ca, e uno degli sforzi creativi più immani di sempre. La cellula germinale
di Licht è la “formel”, la formula, un tema-contrappunto affidato ai tre Ancestrale e futuristico, orientale e occidentale, terrestre e celeste, pri-
personaggi, Michael, Eve e Lucifer, con uno specifico strumento a fiato vato e universale. Dire che Licht è il testamento artistico del grande autore
(tromba per Michael, corno per Eve, trombone per Lucifer). Le trascende è dire nulla (e sulla sua tomba campeggia l’effige della “formel”, ndr). Ne
la “super-formel”, la “superformula”, una per ciascuna delle sette opere, consigliamo l’ascolto? Certo, anche se è quanto di più ostico e alieno pos-
anche identificate da un glifo alchemico e da una tonalità cromatica. Il siate pensare di immaginare. E nonostante un paio di confini ancora non
parallelo con Wagner è qui ancora relativamente possibile. Nella Tetra- superati: la fruizione da disco non è che una blanda versione di quanto
logie sussisteva il fulgore del leitmotiv (peraltro progenitore dei “theme” si possa esperire nel suo allestimento, monca com’è di tutte queste in-
delle odierne colonne sonore), pensiamo all’arcinoto tema della Walkiria, tuizioni supremamente multimediali, multi-sensoriali. E poi il confine col
che alla chiusa convergeva in un “super-tema”: e qui dietro l’angolo c’è pubblico. Da buon asceta avanguardista, Stockhausen non consente di
di certo il superomismo dell’amico-nemico, allievo-maestro Nietzsche. oltrepassare la demarcazione con gli esecutori, non ammette integrazioni
Stockhausen invece risente dell’influsso del mistico indiano Sri Aurobindo e derive dadaiste, timoroso di arrischiare potenziale puerilità. Lo stesso
e della sua “supra-mente”. diremmo certamente per Wagner e il suo rigore. Ma ora, forse, ci è più
chiaro a quali soggetti vada affibbiato quell’aggettivo. “Totale”.
Ma il genio di Colonia supera poi tutti i confini ritracciati dalla Tetralo-
gie. Anzitutto nella durata complessiva: le ore d’ascolto sono quasi trenta.
Il libretto, esoterico quanto quello wagneriano ma ben più ambizioso e
universale, si fonda su più direttrici, dalla Genesi al libro di Urantia, alla
Mistica medievale, fino al nonsense e ai vaneggi onirici tout court dello
stesso compositore. Il linguaggio: si comincia con l’ovvio tedesco, si passa
per svariate lingue e idiomi dal mondo, si termina con lessicologie inven-
tate di sana pianta. Nella messa in scena c’è letteralmente di tutto. Il teatro
occidentale, il nō e il kabuki, la performance e la mimica, ovviamente la
danza in svariate forme, e una scenografia più che imponente. Se con
Wagner gli interpreti dovevano dimostrare possanza, la Licht richiede doti
ginniche quasi sovrumane, di ballo, canto, il tutto mentre ci si muove in
congegni rotanti.
La sola descrizione dell’organico utilizzato da Stockhausen meritereb- Michele Saran trevigiano, classe ’79, scrive per ondarock.it e altre testate online, è anche
be un saggio a parte. Un’intera vita di ricerche trova posto in questo ci- giurato per Arezzowave Veneto, è stato speaker per Radio Base Popolare Network, ora
dispone di un piccolo blog personale. Battezzato dalla musica classica e dal jazz, fu unto
dal sacro ascolto compulsivo fin dalla più tenera età.

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La poesia, vera patria di Edith Bruck Sarò una stella gialla
per ricordarvi che c’era una volta

A
Auschwitz
Edith Bruck

i confini della vita, ai confini dell’amore

di Paolo Steffan

“Il muro che ti ho eretto contro è un crollo eterno”1, recita un verso


stupendo di Attila József, tratto da una lirica che s’impasta di amore,
nella più fiera esperienza della carne (“ti compenetri cuore a cuore”) e
nel più assoluto richiamo dello Spirito (“con te rispondo a Dio”). Il la-
voro dei poeti veri è vivere per poterlo poi scrivere, questo sentimento
altissimo, sperimentarne il volo, di volta in volta spezzato dall’erezione
di muri: che però amare (verbo che va qui considerato alla massima
intensità) e scrivere per amore fa cadere, in un “crollo eterno”.
Su queste premesse dev’essere stata “partorita” ogni possibilità di
scrittura dopo Auschwitz, per Edith Bruck, la cui fine sensibilità poetica
ci ha donato in versione italiana il verbo vivo del suo illustre conna-
zionale. Edith è infatti nata in un paesino ai confini dell’Ungheria nel
1932, ultimogenita di una famiglia ebrea poverissima, e fin da bam-
bina ha amato la poesia di Attila, ricca di quei valori umani che presto
avrebbe sentito rarefarsi intorno a sé, e carica di tutta la sofferenza
cui non poteva ancora sapere di star andando incontro, così giovane
e innocente. I confini minimi del suo vivere periferico non andavano
allora oltre i lembi della “sottana lisa” della madre2, garanzia di miracoli
continui, nella certezza di pochissima farina che ella sapeva distribuire
in pane, conforto quotidiano al dolore necessario a procurarlo. Un oriz-
zonte che, prematuramente, il nazionalsocialismo le avrebbe allargato,
per deflagrarne una volta per sempre il velo primigenio: all’età di dodici
anni, coi genitori, il fratello maggiore e la sorella Eliz, viene deportata
ad Auschwitz. Dopo la selezione non rivedrà mai più gli occhi amati
di chi l’ha generata. Sopravvissuta assieme alla sorella, con cui è stata
prigioniera anche a Dachau e Bergen-Belsen, ha votato la sua esistenza
all’amore, trasmesso attraverso una scrittura che, per testimoniare il di-
lagare del male, sa esaltare i semi del bene.
Il suo amore per la vita è d’altronde dichiarato fin da subito, quando
nel 1959 esordisce in Italia, sua patria d’adozione, con un libro-testi-
monianza che contiene l’esperienza del lager e le sue conseguenze: lo
intitola Chi ti ama così, mungendo ancora stille di poesia dai versi del
suo Attila, per trasmetterci tutto l’orrore del proprio vissuto, ma con

20 21
Letteratura

l’obiettivo di indirizzare il nostro cuore alla bellezza, ritrovata – dopo se non da piccola
il martirio – nella devozione alla scrittura e nel lungo sodalizio senti- se non a scuola
mentale e artistico col poeta Nelo Risi, morto nel 2015. “Per me era dove il tema favorito
madre, padre, patria, fratello”, ha dichiarato Edith Bruck in un recen- era la mamma
te intervento in riferimento al marito3. Conferma che per lei – privata la casa
violentemente delle radici ungheresi e trapiantata in un’Italia che l’ha la famiglia
sempre identificata come l’ebrea sopravvissuta – non può esserci patria parole strane
al di fuori dei confini dell’amore: neppure in quella Terra promessa, che parole.6
sua madre idealizzava e che Auschwitz non le permise mai di vedere,
“Mamma, zolla aria luce” invoca un verso di Clemente Rebora7, che
ma dove Edith emigrò dopo il ritorno dal lager. Ben diversa da quella
può riassumere lo spirito con cui Edith Bruck si rivolge a questa sua
sognata nella diaspora era la terra d’Israele, che i versi del Tatuaggio
unica patria possibile, di amore coniugale e materna memoria. Torna
(1975) ripudiano assieme a ogni nazionalismo, che – foss’anche voluto
allora, eco roboante, il verso tagliente di Attila József, che in uno dei te-
da Dio – non potrà in terra che generare odio: “Infine l’eterno lamen-
sti più celebri dice, con voce di verità: “Non ho padre né madre / né Dio
to il martirio / s’è trasformato in gridi di guerra. / Nacque la patria! /
né patria / né culla né sepolcro / né amante né baci. // […] Mi catturino
Qualsiasi patria è sanguisuga / padre e bambino affamato d’amore / di
e m’impicchino / con terra benedetta mi coprano / erba mortale cresca
protezione di difesa armata / chiede una coscienza di nazione / a noi
/ sul mio bellissimo cuore”8. Accordati al ritmo di queste pulsazioni,
nuova: inermi sognatori / stranieri tolleranti possessori / di una terra
ci rendiamo conto, leggendo tra i versi di Edith Bruck, che è la poesia
conquistata con l’uguaglianza, / l’uguaglianza del male”4.
la sola vera patria cui la nostra scrittrice possa sentirsi d’appartenere,
A questo passo ruggente, rispondono i versi di In difesa del padre affratellata senza tempo ai grandi poeti di sempre, uniti in quell’afflato
(1980): “Vivere qui o altrove / è lo stesso / quello che conta / quello che la stringeva al suo Nelo, come da un amore grande che travalica
che tiene in vita / non è legato a un luogo / un paese vale l’altro”5. I soli ogni confine e che può dire di una sola appartenenza vera: “C’è chi col-
ancestrali confini sono dunque quelli uterini, di un’identità femminile leziona farfalle / e chi colleziona medaglie / chi denaro chi francobolli
di cui la madre perduta ad Auschwitz è per Edith sapore incancellabile, / c’è chi costruisce armi / chi le usa / chi lavora se c’è lavoro / c’è chi si
senso profondo cui votarsi continuamente, in una preghiera struggente perde dietro un amore / vincendo una vita”9.
o in un fragile interrogativo. È così che, con un dire accidentato per-
ché estraneo alla lingua e in confidenza col cuore, può riemergere un
ricordo puerile e toccante, ma anche una testimonianza bruciante e
tremenda:
1
Attila József, Poesie 1922-1937, a cura di E. Bruck, Mondadori, 2002, pag. 55
2
Edith Bruck, Versi vissuti. Poesie (1975-1990), a cura di Michela Meschini, con una prefazione di
Il tuo grembiule Paolo Steffan e una postfazione di Edith Bruck, eum, 2018, pag. 43
3
Soul – Edith Bruck ospite di Monica Mondo, Tv2000, 27 gennaio 2018, corsivo mio. L’intervista è
sapeva di mestruo ora consultabile in rete: https://www.youtube.com/watch?v=qTFyNk9DBOQ
di farina 4
Edith Bruck, Op. cit., p. 63. Tornano con forza, in questo senso, le parole di pace rilasciate nell’in-
tervista appena citata, secondo cui “per raggiungere la pace a tutti i costi” Gerusalemme do-
di pane caldo vrebbe essere divisa non tra islamici ed ebrei, ma in tre, come capitale del monoteismo e luogo
di grano fresco d’incontro tra le principali religioni, compresa la cristiana: “riconoscersi, avvicinarsi e vivere in
di gioia totale, totale pace se possibile”. Anche se è costretta a concludere di non avere molta speranza
in una tale possibilità.
di paura 5
Ibid., pag. 156
di morte 6
Ibid., pag. 120
di tutto
7
Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini e M. Giancotti, Interlinea, 2008, pag. 80
8
Attila József, Op. cit., pag. 49
di niente 9
Edith Bruck, Op. cit., pag. 124
mamma,
che parola strana
da adulta non l’ho mai scritta
non l’ho mai pronunciata Paolo Steffan è nato nel 1988. Dopo studi classici si è laureato in Lettere. È poeta e autore di
saggi monografici su Andrea Zanzotto (Aracne, 2012), Luciano Cecchinel (Arcipelago itaca,
2016) e Sebastiano Barozzi (San Fior, 2016). Ha di recente introdotto per EUM l’opera poetica
di Edith Bruck.

22 23
Libertà e limiti del potere dello Stato in J. Rawls e R. Nozick

I confini della giustizia “vita buona” secondo i contenuti che


preferisce compatibilmente con la libertà
altrui, e il principio di differenza, il quale
invece postula che le ineguaglianze eco-
di Francesco Zanolla nomiche sono legittime solo se assicu-
rano il massimo beneficio possibile ai
meno avvantaggiati e risultano da una
competizione in cui a tutti è stata offerta
A voler dar seguito all’opinione di Norberto Bobbio, la filosofia poli- la possibilità di concorrere in condizioni
tica occidentale nel corso del suo sviluppo si è occupata di quattro que- di eguali opportunità1.
stioni fondamentali: la ricerca dell’ottima, o migliore, forma di governo; Sono i principi che gli individui sceglie-
l’individuazione del fondamento della legittimità del potere politico; la rebbero in una ipotetica condizione ori-
ricerca sull’essenza della “politica” come attività umana distinta dalle al- ginaria, in quanto
tre, e la riflessione sui metodi e le forme delle scienze sociali e politiche
empiriche. persone razionali, preoccupate
A prevalere nelle indagini elaborate a partire dalla seconda metà del della propria sorte, in condizioni
XIX secolo sarebbero state le ultime due accezioni, determinando un di eguaglianza iniziale, qualora
progressivo appannamento delle prime due, afferenti a una dimensione cioè nessuno fosse manifesta-
“normativa” e “prescrittiva”, a cui la moderna coscienza del “politeismo mente avvantaggiato o svantag-
dei valori”, per dirla con Max Weber, avrebbe sottratto agibilità euristica giato da contingenze sociali o
e legittimità intellettuale. naturali2.
Se riteniamo tale ricostruzione plausibile, appare più che compren- Se il primo principio riafferma le libertà
sibile la risonanza che ebbe negli ambienti specialistici, ma non solo, la civili e politiche della tradizione libera-
pubblicazione nel 1971 di Una teoria della giustizia (A Theory of Justice) le, il secondo fornisce la legittimazione
di John Rawls. concettuale per quegli interventi ridistri-
In essa l’autore, che all’epoca ha 50 anni e insegna ad Harvard da butivi da parte dello Stato, nel momento
undici, stabilisce, attraverso una complessa struttura argomentativa rigo- in cui essi mirino a realizzare le circo-
rosamente logica, una serie di principi universali, razionali e astratti per stanze poste dai principi su cui poggia
individuare dei criteri normativi di organizzazione sociale improntati al il contratto sociale, cioè eguaglianza di
massimo grado di equità possibile, originando istituzioni giuste, e quindi opportunità e di condizioni di partenza.
legittimate a pretendere obbedienza da parte dei cittadini. Ecco che allora, adottando come criteri
Se i bersagli teorici di Rawls sono alcune dottrine come l’utilitarismo i due principi definiti da Rawls, uno Stato
e il libertarismo, che come vedremo risponderà per le rime alle sollecita- che obbligasse i propri cittadini a confe-
zioni rawlsiane, l’obiettivo pratico della sua costruzione teorica è invece rire una parte delle loro risorse per mi-
la difesa del modello politico incarnato dallo stato liberal-democratico gliorare le condizioni di partenza dei più
keynesiano nato dal secondo dopoguerra, i cui sistemi di welfare co- svantaggiati non violerebbe alcun diritto
minciavano a scricchiolare dopo un trentennio di espansione economica di libertà individuale, ed eserciterebbe
ininterrotta. anzi in piena legittimità i suoi poteri en-
I principi che Rawls individua come architravi di un vero e proprio tro i confini e le prerogative implicate dal
contratto tra soggetti individuali chiamati a istituire una società sono contratto sociale che lo ha originato.
due: il principio di uguaglianza, per cui a ognuno viene riconosciuto il È proprio su questo punto che si con-
massimo grado di libertà di perseguire il proprio personale progetto di centrano gli attacchi dei cosiddetti “li-
bertarians”, trovando in Robert Nozick il

24 25
Filosofia

loro propugnatore più sistematico. Se dunque la posizione rawlsiana rappresenta la difesa teoretica del
Quando nel ‘74 Nozick dà alle stampe Anarchia, stato e utopia (Anar- modello di Stato sociale keynesiano nato tra le due guerre e cresciuto
chy, State and Utopia) ha trentasei anni e insegna anche lui ad Harvard. dopo il ‘45, le argomentazioni di Nozick, assieme a quelle di economisti-
Se lo scopo primario dell’opera è confutare le tesi di Rawls, essa tenta filosofi come Friedrich Von Hayek e Ludwig Von Mises, forniranno ar-
anche di fornire una versione “mediana” del “libertarismo”, lontana dal- gomenti utili all’arsenale del cosiddetto “neoliberismo”, che predica la
le posizioni radicalmente antistataliste e anarco-capitaliste di pensatori riduzione radicale dei servizi di welfare pubblico e il loro affidamento ad
come Murray Rothbard e David Friedman. aziende private e più in generale esalta la prevalenza dell’”economico”
A tale scopo, Nozick recupera uno dei classici del pensiero politico sul “politico”, il mercato come solo spazio di allocazione razionale delle
moderno, il John Locke dei Due trattati sul Governo (Two Treatises on Go- risorse e la matrice organizzativa aziendale come unico modello efficace
vernment, 1689), adottandone radicalmente l’impianto giusnaturalistico, di organizzazione delle relazioni sociali.
centrato cioè sull’idea che gli individui in quanto tali hanno per natura Anche se col passare degli anni i due autori rivedranno e modifiche-
dei diritti assoluti da esercitare compatibilmente con la loro originaria ranno alcune delle posizioni espresse nel ‘71 e nel ‘74, le loro tesi fonda-
condizione di perfetta libertà. mentali hanno fecondato diffusamente il dibattito pubblico negli Usa e
“Tale è la forza e la portata di questi diritti”, scrive Nozick, “da sol- in Europa degli ultimi trent’anni, e debitamente distillate e semplificate
levare il problema di che cosa possano fare lo stato e i suoi funzionari, sono state incorporate nei bagagli ideologici e programmatici di forze
se qualcosa possono fare. Quale spazio lasciano allo stato i diritti degli politiche e partiti impegnati a competere ancora oggi per il governo nel-
individui?”3 le principali democrazie occidentali.
La risposta di Nozick mira a ricavare per lo Stato uno spazio minimo.
Esso è concepito come una pura e semplice agenzia incaricata di pro-
teggere i consociati da furti, frodi e aggressioni, risolvere le controversie
e mantenere l’ordine pubblico. Per fornire tali servizi, detta agenzia può 1
John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1997, pag. 255
2
Ibid. pag. 32
pretendere il pagamento di un canone, corrispondente all’unico tipo di 3
Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia, Il Saggiatore, 2008, pag. 17
tassazione che può essere legittimamente richiesta ed eventualmente ot- 4
Ibid. pag. 133-135 § La spiegazione a mano invisibile dello stato
tenuta coattivamente, a quelli che sono concettualmente più dei “clienti”
che dei “cittadini” dotati di un set di diritti e doveri collettivi.
Anziché costituirsi attraverso un patto sociale, come nelle versioni
classiche del contrattualismo (Hobbes, Rousseau, Kant e lo stesso Locke,
che viene dunque in parte “tradito”) questo “Stato minimo” emergerebbe
spontaneamente, dalla competizione di più agenzie, che vedrebbe affer-
marsi quella più efficiente ed economica su un dato territorio4.
Una volta costituitosi secondo questo schema e queste funzioni, ad
esso resterebbe ben poco altro da fare. Ogni sua pretesa di imporre ul-
teriori tasse, ad esempio per finanziare ambiti come la scuola, la sanità o
le infrastrutture, esorbiterebbe i limiti legittimi delle sue prerogative, poi-
ché violerebbe il diritto naturale di ognuno a disporre liberamente di se
stesso, del proprio corpo e di ciò che riesce ad acquisire legalmente con
il proprio lavoro. È il cosiddetto diritto di “autoappartenenza”, sviluppato
concettualmente dalla figura del “diritto (naturale) di proprietà” esposto
da Locke nel Secondo trattato sul Governo, che costituisce il parametro
ultimo per valutare la giustizia, la legittimità di un ordinamento politico e
quindi la sussistenza o meno dell’obbligo di prestargli obbedienza.
Francesco Zanolla nato a Venezia, vive in provincia di Treviso. Laureato in scienze politiche
a Padova, consegue presso lo stesso ateneo un master in “Integrazione europea e sistemi
locali” Oltre che di teoria e storia del pensiero politico, si interessa di letteratura, teatro,
cinema e scrittura creativa.

26 27
I confini del fotogramma Cinema

D ove vanno gli operai? Si ripropone, a fasi alterne, il problema del formato, della larghezza
del fotogramma. Non, beninteso, declinato nei termini puntuali di un
articolato discorso culturale, ma gonfiato nel grido di slogan promozio-
nali – quando un’accorta distribuzione rimarca l’eccezionalità di un film
di Matteo Pernini realizzato in pellicola 70mm – oppure ridotto alla grossolana forma di un
bisticcio condominiale – quando, sul proprio profilo Twitter, Xavier Do-
lan pubblica una risentita lettera ai dirigenti di Netflix, colpevoli di aver
alterato il previsto rapporto tra lunghezza e larghezza dell’immagine nel
suo film Mommy (2014). Se è, certo, comprensibile il disagio di chi assista
all’indebita adulterazione del proprio lavoro sino a doverne rigettare la
paternità, quel che spiace, nella diramazione capillare della polemica in
rete, è soprattutto l’esaurirsi nel chiacchiericcio di una questione decisiva.
Proprio oggi che il cinema si disperde nella levità del digitale, in quel
rincorrersi di astrazioni matematiche che richiamano i cascami di byte
fluorescenti in Matrix (The Matrix, 1999); oggi che, compresso all’inve-
rosimile, può rinunciare alla voluminosità delle bobine per adagiarsi
nell’esiguo spazio di una chiavetta USB; oggi, insomma, che il cinema è
divenuto materia leggerissima e quasi evanescente, la questione del for-
mato, della buccia dell’immagine si impone con evidenza. Senza contare
che, sebbene sia spesso destituito al rango di mero cruccio di una cine-
filia maniacale, esso è, forse, il caso di maggiore stabilità nella storia del
cinema: a fronte del divario che corre tra le capriole di Buster Keaton nel
modesto spazio di uno schermo in 4:3, l’estensione del VistaVision con
cui Alfred Hitchcock cattura le peripezie ladresche di Cary Grant in Caccia
al ladro (To Catch a Thief, 1955), il glorioso CinemaScope de Il disprezzo
(Le mépris, 1963) di Jean-Luc Godard – un formato, ci informa Fritz Lang,
adatto solo per i serpenti e i funerali – e i 70mm in cui Quentin Tarantino
ha chiuso il Grand-guignol del suo The Hateful Eight (2016), il permanere
della forma-rettangolo è indiscusso.
Con tutto il loro furore iconoclasta, neppure le avanguardie obiet-
tarono all’impero dell’inquadratura rettangolare, sebbene qualche indi-
retta forma di resistenza si segnali nei trucchi ottici, che, agli albori del
Novecento, animarono il costruirsi di una grammatica cinematografica
– tra essi la chiusura a iride di David W. Griffith, che permetteva di ferma-
re nei contorni di un cerchio l’elemento di interesse dell’inquadratura e
l’ardito split-screen diagonale che spacca in tre visioni contemporanee lo
schermo nel thriller Suspense (1913) di Lois Weber.
Chiusa entro il perimetro di una bordatura quadrangolare, l’immagi-
ne cinematografica mima, con Georges Méliès, l’organizzazione scenica
di uno spazio teatrale, inseguendo i contorni del sipario e delle quinte
per isolare l’area di ripresa; rinuncia, invece, coi fratelli Lumière, a una

“Caccia al ladro” (To Catch a Thief, 1955)

28 29
Cinema

cornice stabile per indagare la profondità di uno sguardo che corre a per- del colletto dei militari, così da farne, in un gesto ideologico di rara for-
dita d’occhio lungo i binari della stazione di La Ciotat. Per gli inventori del za, una parata di ghigliottinati. Lo sciagurato restauro ce li mostra, ora,
cinematografo il bordo non è un’intelaiatura in cui ci si debba industriare sino a metà busto, vanificando l’intento politico di Pudovkin e lasciandoci
a inscrivere un mondo, ma uno spazio aperto, una geometria liberissima, inebetiti a domandarci il perché di una ripresa che pone in primo piano
che prolunga il set ben oltre le pareti dello studio, designando, mentre le calzature degli ufficiali.
sceglie il campo dell’inquadratura, un fuoricampo con cui l’immagine
Ecco, dunque, come pochi millimetri ai margini, un breve colpo di
entra in stretto dialogo – se è vero che, ancora oggi, Enrico Ghezzi può
forbici sul bordo dell’inquadratura, siano sufficienti per alterare il senso e
interrogarsi con divertita ammirazione su quali strade abbiano preso gli
destituire di potenza espressiva una pellicola; ecco, dunque, la centralità
operai una volta usciti dalle fabbriche Lumière1, mentre la sorte del dia-
del bordo, di quello spazio sottile in cui il cinema confina col mondo.
volaccio che svapora a un gesto di San Michele Arcangelo ne Il diavolo in
Non dovrebbe sorprendere, ora, il cruccio per gli astrusi dibattiti sul di-
convento (Le Diable Au Couvent, 1899) ci soddisfa senza indugi. La ragio-
ritto del regista di non vedere alterati i propri film – già investiti, peraltro,
ne è presto detta: per Méliès il cinema è una scatola magica che si fa pro-
dall’oltraggio del transito televisivo, che, mutandone la velocità da 24 a
lungamento del palcoscenico; nel fuoricampo egli scopre il più grande
25 fotogrammi per secondo, di fatto li comprime, e ogni ora sono due
gesto illusionistico della storia del teatro, quasi un doppiofondo da cui
minuti e mezzo che svaniscono – come se la questione dei margini del
far scaturire ogni sorta di oggetti/persone, un dietro-le-quinte che non
fotogramma fosse uno stendardo da scuotere al vento per patrocinare la
è più necessario occultare, essendo già oltre l’occhio dello spettatore,
libertà dell’artista, anziché un mistero da interrogare durante la visione.
nell’intervallo in cui una ripresa viene fermata, gli attori entrano o escono
– da sotto un lenzuolo, da un baule, dal set – e la scena riprende. Infine, la quarta parete. Nell’era digitale l’avvento della tecnologia 3D
minaccia l’ultimo confine tra il cinema e il mondo, quel grande schermo
Al quesito di Ghezzi sulla destinazione degli operai in uscita dagli
che, da sempre, preserva la qualità capitale del cinema, ossia la sua natu-
stabilimenti, vorremmo aggiungerne un altro, che spesso ci coglie nel
ra di finzione. Qual è, in fondo, il valore di una immagine tridimensionale,
rivedere pellicole degli albori del cinema: sono davvero, quelle immagini,
se non quello di riportarci alle impressioni del quotidiano? Vale, allora,
le stesse che videro i primi spettatori paganti? È proprio quello, il treno?
la pena di recuperare la lezione di Enrico Ghezzi, che in una illuminata
Sono proprio quelli, i volti? O, piuttosto, nelle copie randagie diffuse in
conferenza dal titolo “Dov’è finito il cinema?”2 ci invita a trovare il 3D non
rete o in televisione – o che la dedizione di qualche accademia restaura
nella tecnologia, ma nella capacità di un film di restituirci uno sguardo in-
e poi distribuisce in digitale – manca qualche volto, qualche sguardo, un
timo e perturbante, come fanno il protagonista di Arancia meccanica (A
gesto in meno proprio lì, ai margini del fotogramma?
Clockwork Orange, 1971) o Jack Torrence in Shining (The Shining, 1980).
Un timore che si potrebbe dire infondato, se non vi fossero innu- Non è, la tridimensionalità del cinema, una protrusione di forme, un in-
merevoli casi a istigarlo. Si prenda La fine di San Pietroburgo (The End ganno dei sensi, ma l’incanto subitaneo dello spettatore che si scopre,
of St. Petersburg, 1927) del regista russo Vsevolod I. Pudovkin: di esso la d’un tratto, a essere guardato dal film. I confini sono ancora saldi.
Mosfilm realizzò, nel 1969, un ardito restauro, aggiungendo allo scorrere
muto delle inquadrature una colonna sonora. Accostando le immagini
tratte dal DVD in commercio con i fotogrammi di una copia in 35mm,
si rimane sgomenti nel constatare che il restauro – sottraendo spazio al
1
Enrico Ghezzi, “Ma dove vanno a finire gli operai?”, in paura e desiderio, Bompiani, Milano, 1995
2
http://www.sentieriselvaggi.it/dovi-finito-il-cinema-in-un-ignoto-spazio-profondo/
fotogramma per l’aggiunta della banda sonora, che corre sul bordo della
pellicola – ha imposto una sfasatura del quadro, che risulta ri-fotografato
per guadagnare spazio. Se la logica del film non subisce eccessivi danni
quando l’azione è al centro dell’immagine – pur suscitando una viva per-
plessità nello spettatore, scosso dalle evidenti asimmetrie dei quadri – è,
però, là dove Pudovkin ha lavorato sui margini dell’inquadratura che l’in-
tervento rivela la sua scelleratezza. In una celebre scena che vede schie-
rata innanzi alla cinepresa una squadra di ufficiali dell’esercito, il regista
aveva previsto di tagliare il bordo superiore dell’inquadratura all’altezza Matteo Pernini, nato negli anni Novanta tra le nebbie della val Padana, frequenta la
facoltà di Fisica presso l’Università di Padova. Tra le sue passioni: il tennis e il cinema.
Dal 2012 collabora con la webzine di critica cinematografica Ondacinema.

30 31
Letteratura femminile nell’Australia di fine Ottocento

B arbara Baynton e il terrore della frontiera Here in Australia it is considered more a crime to steal a
horse than ruin a girl
Louisa Lawson1
di Christina Lee
Il canone della letteratura coloniale australiana
ha spesso esaltato i coraggiosi pionieri (bushman)
di autori come Henry Lawson e Banjo Patterson,
uomini solitari alla conquista dell’outback, la nuo-
va frontiera. Il mito australiano dei coloni poveri e
laboriosi che popolavano un paradiso utopico di-
venne elemento cardine nella nascente letteratura
dell’epoca, ma questa epopea idealizzava un’esi-
stenza che in realtà era spesso devastante e peri-
colosa, specialmente per le donne. Il cupo realismo
di Barbara Baynton (1857 – 1929) rovescia questa
illusione, esplorando il confinamento delle donne
e l’intrecciarsi delle loro paure legate all’indipen-
denza sessuale e al modo in cui venivano sfruttate.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento erano questi i
problemi che interessavano il nascente movimento
femminista, tanto in Australia come nel resto del
mondo. Il femminismo di epoca coloniale e il mo-
vimento per il suffragio universale finirono per de-
nudare il maschilismo oppressivo della società au-
straliana e il conflitto tra sessi che aveva generato.
Susan Martin2 imputa agli autori di narrativa loca-
le “l’invenzione della donna australiana di ceto me-
dio, priva di passioni, riservata e molto operosa”3;
come conseguenza di queste inclinazioni apparen-
temente “naturali”, alle donne fu affidato il compi-
to di riformare la nazione in quanto “portatrici di
cultura, moralità e ordine”4. Questi ruoli di mogli e
madri modello furono creati allo scopo di confinare
le donne all’interno della sfera domestica. La storica
Marilyn Lake attribuisce al femminismo coloniale il
tentativo di liberare la cultura locale dalle mani dei
promotori di un “maschilismo ben organizzato”5 e
di un nazionalismo spesso eccentrico che emerge
dalle pagine di The Bulletin, forse la più influente
“The spirit of the drought”, Arthur Streeton , 1895
(National Gallery of Australia - Canberra) pubblicazione australiana degli anni ‘80 dell’Ot-
tocento – che promosse tra l’altro una campagna
decisa contro il diritto di voto alle donne anche nei
decenni successivi.

33
Letteratura

I racconti di Barbara Baynton ambientati nell’ostile outback austra- 1892. Le donne di queste storie possiedono tutte le caratteristiche e
liano dell’epoca riflettono le paure delle donne per la loro incolumità le capacità necessarie per sopravvivere nell’outback, ma, diversamente
fisica in quelle comunità isolate. Per molte femministe dell’età coloniale, dalla protagonista di The Drover’s Wife che combatte contro gli incen-
il leggendario bushman australiano si trasformò nella figura del “pre- di, contro i vagabondi e protegge la sua famiglia, le donne di Barbara
datore di frontiera”6, incarnato dal vagabondo (swagman) che insidia e Baynton sono consumate e gettate via dagli uomini, nonostante la loro
stupra una madre senza nome in The Chosen Vessel (1896). La visione forza.
di Barbara Baynton della sessualità maschile è prodotto del femmini-
smo coloniale, per cui il comportamento promiscuo degli uomini, il Nel 1905, lo scrittore e critico Vance Palmer ridimensionerà il lavoro
loro “rifiuto di responsabilità come padri” e lo stupro erano percepiti delle autrici australiane di fine Ottocento definendolo completamen-
come “armi” usate contro le donne per fare “l’interesse della società te privo di validità letteraria14. Non fu così, evidentemente, dato che,
maschile”7. come per il movimento per il suffragio universale, le autrici dell’epoca
dimostrarono una crescente consapevolezza del posto che spettava
Il preconcetto diffuso che le donne (bianche) fossero particolarmen- loro fuori dalla sfera domestica. È curioso che, in un paese dove le don-
te a rischio in quanto prede per gli uomini aiutò a definire la “specifica ne ottennero il diritto di voto due decadi prima dell’Inghilterra e degli
natura protettiva del femminismo di frontiera australiano”8. Molti uo- Stati Uniti15, autrici come Barbara Baynton siano state dimenticate dalla
mini interpretarono l’attivismo per i diritti delle donne come un “assal- letteratura nazionale tradizionale. Il lavoro della Baynton, trattando la
to contro i privilegi maschili e le loro abitudini consolidate”9. Inoltre, psicologia e l’intimo della sofferenza femminile in una terra ostile, fu
una serie di casi di violenza sessuale che fecero scalpore tra il 1880 e accusato di concentrarsi “ossessivamente” sulla brutalità degli uomini
il 1890 alimentarono l’idea di stupro “legittimo”, definito comunemen- nei confronti delle donne; in realtà offre un’accurata immagine della
te e vagamente “stupro di donna bianca nell’outback perpetrato da condizione femminile – se non da un punto di vista storico, sicuramen-
sconosciuto”10. te delle più intime paure che le riguardavano.
Alla luce di tutto questo non sorprende che The Chosen Vessel sia
stato pesantemente modificato per essere incluso in The Bulletin, e
pubblicato con il titolo di The Tramp nel 189611. Il racconto fu imme- 1
Cit. in M. Lake, Frontier feminism and the marauding white man, Journal of Australian Studies,
diatamente comprensibile per i contemporanei, connotato da quel 1996, pag. 12
tipo di violenza che molti lettori e autori di The Bulletin consideravano 2
S. K. Martin, Ladies and grocers’ wives: the crisis of middle-class female subjectivity in 1890s
Australian women’s fictions, Westerly, 1999, pag. 61-73
infrequente e “giustificabile”. A un altro livello, raccontando il violen- 3
Ibid. pag. 68
to maschilismo australiano come fallimento della civilizzazione, è una 4
M. Lake, Op. cit., pag. 14
reinterpretazione sovversiva della “fantasia di libertà”12 che l’outback e L. Murrie, Australian Legend and Australian Men in R. Nile, The Australian Legend and its Discon-
5

tents, University of Queensland Press, 2000, pag. 83


la nuova frontiera rappresentavano. 6
M. Lake, Op. cit., pag. 12
7
L. Murrie, Op. cit., pag. 84
In modo simile, anche se meno drammatico, la forte e pratica com- 8
M. Lake, Op. cit.
pagna di Squeaker in Squeaker’s Mate (1902) rimane invalida in seguito 9
L. Murrie, Op. cit., pag. 83
10
N. Philadelphoff-Puren, Reading Rape in Colonial Australia: Barbara Baynton’s ‘The Tramp’,
agli sforzi e alla fatica, e viene economicamente sfruttata dal suo di- JSAL, 2010, pag. 1-2
sonesto “compagno”, che vende le sue pecore e i suoi effetti perso- 11
Ibid., pag. 1
nali per far posto alla sua nuova “compagna” – esempio dello stato M. Lake, Op. cit., pag. 13
12
13
K. Iseman, Woman as the ‘The Chosen Vessel’, Australian Literary Studies, 11, 1983, pag. 28
di impotenza delle donne di ceto basso, specialmente non sposate, 14
C. Lee, Turning the Century: Writing of the 1890s, University of Queensland Press, 1999
nelle società coloniali. Nei racconti di Barbara Baynton, “la donna, di 15
S. Magarey, My Brilliant Career and feminism, Australian Literary Studies, 2002, pag. 398
per sé, non esiste”13. I personaggi femminili sono appena tratteggiati
e sembrano essere lì soltanto in attesa di diventare vittime di uomini Articolo tradotto dall’inglese
senza scrupoli: lavoratori itineranti con cattive intenzioni, mariti o com-
pagni, aspiranti protettori. Sia Squeaker’s Mate che The Chosen Vessel
contengono eco di The Drover’s Wife di Henry Lawson, pubblicato nel
Christina A. Lee, nata a Melbourne (Australia). Laureata in giornalismo, si
interessa di arte e letteratura. Vive a Udine.

34 35
“Il mio amico Hitler” di Yukio Mishima

A i confini dell’animo umano Berlino, residenza ufficiale del Cancelliere. Sulla scena si dispiega il
dramma di Yukio Mishima1, Il mio amico Hitler (1968), che vede coin-
volti il futuro Führer, il capo delle SA Ernst Röhm, il rappresentante
di Cinzia Agrizzi dell’ala socialista della NSDAP Gregor Strasser e l’imprenditore dell’ac-
ciaio Gustav Krupp, voce indiscussa dell’industria pesante tedesca.
Tre atti ispirati al caso Röhm (e alla “notte dei lunghi coltelli” del 30
giugno 1934), nei quali la tragedia politica – che rivela la crisi interna
al partito e vede Hitler abbattere l’estrema destra e l’estrema sinistra
per seguire una fittizia “via di centro”2 e affermare il suo potere asso-
luto – sconfina in quella interiore, prettamente umana, sul modello del
Britannicus di Racine (1669)3: la parola esalta la virilità attraverso un
linguaggio elegante, poetico e metaforico, espressione di una crudeltà
“raffinata” che precorre la brutalità degli eventi venturi. Afferma Mishi-
ma: “Il problema ‘Hitler’ si ricollega da un lato all’essenza stessa della
civiltà del XX secolo, e dall’altro agli oscuri abissi della natura umana”4.
Il suo Hitler è, infatti, un uomo “dalla lugubre, tetra intelligenza”5, un
personaggio cupo come il tempo a cui appartiene, “un genio politico
ma non eroe”6, emblema del volto bifronte del potere e dell’amicizia,
che egli manovra e riassetta a suo beneficio. Alternando verità storica
e pura invenzione (pensiamo all’episodio del topo Adorst), Mishima
esplora i confini dell’animo di Adolf: un mostro dalle sembianze uma-
ne, la cui freddezza lucida e il cui misticismo nazista messo a punto
per educare “giovani tedeschi virili e belli come Wotan”7, si mescolano
al malessere per l’insonnia, ai nervi tesi, al passeggiare meditabondo
nel salone della sua residenza. D’altronde, come afferma Moni Ovadia
a commento di un altro dramma che ha per protagonista il cancelliere
tedesco, Mein Kampf di George Tabori (1987), “(…) chi dovrebbe essere
stato Adolf Hitler se non un uomo? Sì! Il mostro nazista fu solo un
uomo, le sue patologie furono tipicamente umane, l’abbruttimento di
un’intera nazione fu umano (…)” 8, a conferma della “banalità del male”
che sembra pervadere l’esistenza e la storia. All’aumentare della ten-
sione drammatica, nel testo di Mishima, la dicotomia tra Apparire ed
Essere diviene sempre più consistente e a poco a poco risulta chiaro
come il piano di realtà nel quale si muove il personaggio del Führer sia
opposto a quello nel quale fluttua Röhm. “Abbraccio il mio rivale, ma
per soffocarlo”9, afferma il Nerone di Racine. E così opera Hitler, quasi
una maschera del teatro Nō, un dottor Caligari irrazionale, mostruoso
eppure ipnotico: egli, al fine di facilitare la sua elezione a presidente,
rievoca il vecchio legame fraterno che lo univa a Röhm per chiederne
supporto e fedeltà, celando l’inganno e l’inevitabile tradimento, quan-
do ordinerà la sua uccisione insieme a tutti i quadri delle Truppe d’As-

36 37
Teatro

salto nella “notte dei lunghi coltelli”, con l’accusa di aver tentato un se stesso, stabilisce che “la guerra che verrà non è la prima” (B. Brecht)
colpo di Stato. e mette in evidenza “la continuità inconscia che lo lega all’oggetto indi-
struttibile del suo odio”16, la sua incapacità di accettare l’alterità, il diver-
HITLER E allora vorrei che ti ricordassi di quello che mi
so da sé, nelle vesti di colui che ostacola la sua immagine del mondo.
dicevi un tempo.
Non a caso Mishima gli associa l’immagine della tempesta che abbatte
RÖHM Ma ora la situazione è mutata.
gli alberi marci per resuscitare, come fa Dio. Un delirio cui fa eco un
HITLER No, le leggi della politica sono immutabili.10
processo di separazione dal mondo che lo conduce ad arrogarsi il dirit-
Al contrario, l’ottuso e inconsapevole capo delle SA, pur messo in to di governare per volere divino, sulla scia di Riccardo II. D’altra parte,
guardia da Strasser, non vede oltre lo specchio dell’apparenza: acceca- afferma Adolf: “(…) Questo è il mio destino”17.
to da un fasullo sentimento d’amicizia e d’onore, egli legge gli eventi
con la lente dell’ingenuità, riesumando un affetto defunto, qualora fos-
se mai esistito, e riferendosi a colui che ben presto si sarebbe autopro- 1
Conservatore e nazionalista, nostalgico di un passato idealizzato, Mishima fu un personaggio
clamato Führer – alla morte del presidente Hindenburg – come a un controverso ed enigmatico, senza dubbio “di confine”: ultimo dei samurai, l’autore giapponese
vero amico che mai tradirebbe e dal quale mai sarebbe tradito. nato a Tokyo nel 1925 si tolse la vita a 45 anni, nel 1970, con il seppuku (suicidio rituale), uscendo
di scena nel modo più teatrale possibile
RÖHM Non accadrà nulla, Strasser. Il mondo non cam- 2
Y. Mishima, Il mio amico Hitler, Guanda, 2009, pag. 96
bierà. Io e Adolf saremo sempre amici fraterni, tu un vile
3
Y. Mishima, Note a Il mio amico Hitler, Appendice, in Op. cit., pag. 102
4
Y. Mishima, Considerazioni dell’autore su Il mio amico Hitler, Appendice, in Op. cit., pag. 99
impostore, Krupp un mercante di morte…11 5
Y. Mishima, Op. cit., pag. 80
6
Y. Mishima, Note a Il mio amico Hitler, in Op. cit., pag. 103
Vittima “dell’amico Hitler” è anche Schlomo Herzl, il libraio ebreo 7
Y. Mishima, Op. cit., pag. 15
della pièce di Tabori: egli, dopo aver accolto il giovane aspirante pit- 8
M. Ovadia, L’umanità del mostro, in G. Tabori, Mein Kampf, Einaudi, Torino, 2005
9
J. Racine, Britannicus, Atto IV, scena III
tore tedesco giunto a Vienna per sostenere l’esame di ammissione 10
Y. Mishima, Op. cit., pag. 27
all’Accademia di Belle Arti, e dopo averlo sorretto nella sua aspirazione 11
Y. Mishima, Op. cit., pag. 67
politica, dovrà assistere alla sadica uccisione della gallina Mitzi, cotta
12
G. Tabori, Op. cit., pag. 58
13
Cfr. H. Broch, Il Kitsch, Einaudi, 1990, pp. 161-162
“in una deliziosa salsa di sangue”, per non aver consegnato ad Adolf 14
Ibid., pag. 200
e Himmler l’atteso romanzo che avrebbe dovuto scrivere, Mein Kampf. 15
Y. Mishima, Op. cit., pag. 94
16
M. Recalcati, Il gesto di Caino, in I tabù del mondo, Einaudi, 2017 pag. 21
HERZL Se cominci col bruciare gli uccelli, finirai con il 17
Y. Mishima, Op. cit., pag. 90
bruciare gli uomini.12
Analogamente, l’odore intenso del sangue pervade la residenza del
personaggio Hitler creato da Mishima, quando, dopo aver ordinato
l’eliminazione fisica dei suoi avversari politici, sul balcone con Gustav
Krupp ascolta i colpi di fucile in lontananza: al pari di Nerone, che in-
scena uno spettacolo nei suoi giardini imperiali con i corpi dei cristiani
trucidati e arsi vivi13, “Hitler ha vissuto il kitsch del sangue”14, dietro al
quale si nascondono la decadenza dei valori e il male come esibizione
priva di ogni etica ma estetizzata.
KRUPP È così, Adolf. Ascolti questi suoni, si abbandoni
a essi, ecciti quanto più le è possibile le sue sanguino-
se fantasie: così resusciterà e poi guarirà. Non ha altro
mezzo per ritrovare se stesso. È l’unico farmaco che può
sconfiggere la sua insonnia.15
Cinzia Agrizzi nata a Vittorio Veneto nel 1981, si è laureata in Scienze della Co-
Il gesto di Hitler, nuovo Caino che colpendo Abele colpisce anche municazione e in Lettere a Trieste. Per diverso tempo si è occupata di comuni-
cazione e nuovi media, senza tralasciare le sue passioni: il teatro, il cinema e la
letteratura per l’infanzia. Attualmente insegna Scienze Umane e Semiotica.

38 39
Alle origini della “questione curda” Storia

U na linea nella sabbia che nel 1880 rivendicava la profonda alteri-


tà della regione: “The Kurdish nation, consi-
sting of more than 500,000 families is a peo-
ple apart. Their religion is different, and their
di Alvise Reiner laws and customs distinct. […] We are also a
nation apart”1. La ribellione venne soffocata
nella repressione, ma l’anelito all’indipenden-
za si ripropose nei decenni successivi, come
Tra l’ottobre 2014 e il gennaio 2015, il Califfato islamico tentò una risposta al crescente nazionalismo centralista
sanguinosa offensiva per la conquista della città di Kobane, portando di teorizzato dal governo dei Giovani Turchi.
fatto alla ribalta internazionale la “questione curda”. Divisi tra Iraq, Iran, Quando questi ultimi si macchiarono del ge-
Turchia e Siria, i curdi hanno fatto della lotta all’ISIS lo strumento per le nocidio della minoranza armena, la richiesta
proprie rivendicazioni autonomiste. Da dove nasce la volontà di questo d’autonomia da parte della popolazione cur-
popolo di essere riconosciuto nazione e in che modo si è giunti, invece, da acquistò forza e organizzazione. Tuttavia,
alla sua frammentazione? quattro precisi momenti nella storia del Me-
dio Oriente ne segnarono il fallimento.
Il Kurdistan è un vasto altopiano mediorientale, situato nella parte set-
tentrionale della Mesopotamia. Definirne i confini esatti non è semplice. “Una linea nella sabbia, dalla A di Acri alla
Esso, infatti, si estende dalla catena dei monti Zagros – in Iran – fino alla K di Kirkuk”, così si sarebbe espresso Sir Mark
catena del Tauro – in Turchia –, dalla Siria settentrionale – a Ovest – fino al Sykes, diplomatico britannico, di fronte al
lago di Urmia – a Est –, comprendendo anche la regione di Irbil, Mosul e suo corrispettivo francese, François Geor-
Kirkuk – nell’Iraq settentrionale. In questa vasta area si concentrano i cur- ges-Picot2. All’indomani dello scoppio della
di, una popolazione di lingua iranica, in origine dedita alla vita nomade e guerra, prevedendo l’inevitabile implosione
all’allevamento. Dopo la conversione all’Islam sunnita, i curdi giocarono dell’Impero ottomano, i due erano stati inca-
un ruolo minore nella turbolenta storia del Medio Oriente. Contesa tra ricati di dirimere la spinosa faccenda legata
la Persia safavide e l’Impero ottomano, la regione passò definitivamente al futuro dei suoi confini e alla spartizione dei
sotto il controllo di quest’ultimo tra il XVI e il XVII secolo. In quanto tale, suoi territori. Ne risultò un’intesa che avreb-
venne investita dalla tempesta geopolitica scatenata dalla dissoluzione be ridisegnato il volto del Medio Oriente.
della “Sublime porta”. Siglato nel 1916, l’accordo Sykes-Picot, san-
civa la divisione dell’Impero ottomano in due
Nell’arco di tempo tra il Congresso di Berlino (1878) e la Rivoluzione grandi aree di influenza, una francese e l’altra
dei Giovani Turchi (1908), l’Impero ottomano vide progressivamente di- britannica. Entrambi i governi si dichiaravano
sgregarsi la propria sovranità. Se da un lato i territori nordafricani entra- pronti a sostenere la nascita di una confede-
rono di fatto nella sfera d’influenza degli imperi coloniali europei, dall’al- razione di stati arabi, sotto il protettorato e la
tro l’area balcanica conquistò diversi gradi di autonomia e indipendenza. guida europea. Di fatto l’accordo stabiliva la
Con la stipula della Pace di Londra (1913), l’Impero dovette riconoscere la nascita di due mandati: l’area comprendente
perdita definitiva di tutti i propri possedimenti oltre lo stretto dei Darda- Siria e Libano alla Francia, quella compren-
nelli, fatta eccezione per la Tracia orientale. Con l’indebolimento dell’au- dente Iraq e Transgiordania alla Gran Breta-
torità centrale e dell’amministrazione turca, nacquero in Medio Oriente gna. La sovranità dell’Impero ottomano ve-
i primi focolai nazionalisti, anche in quelle regioni di antica conquista e niva così limitata alla sola penisola anatolica,
meglio integrate come il Kurdistan. mentre sulla carta si andavano delineando i
Storicamente, l’avvento del nazionalismo curdo viene fatto coincidere confini degli stati mediorientali come li co-
con la rivolta guidata dallo sceicco Ubeydullah, ricco possidente terriero nosciamo oggi.
Mustafa Kemal Atatürk

40 41
Le opposizioni nel cinema di Terrence Malick

L’accordo venne ratificato dalla comunità internazionale tramite il Trat-


tato di Sèvres, nell’agosto del 1920. Nonostante la linea ipotizzata da Sir
Mark Sykes tagliasse di fatto in due la regione del Kurdistan, il trattato
U na (non così) sottile linea rossa
apriva alla possibilità di uno stato curdo, sulla scia di quello che già veniva
definito il “Wilsonian moment”. In particolare, l’articolo 62 assicurava “au- di Matteo Zucchi
tonomia locale per la regione (della Turchia) a maggioranza curda”, mentre
l’articolo 64 ipotizzava addirittura l’indipendenza dei curdi dalla Turchia3.
Il Trattato, per quanto firmato dagli ambasciatori ottomani e sostenuto
Non comprendono che, pur discordando in se stesso, è concorde:
dal sultano Maometto VI, non fu mai ratificato dal parlamento turco, sop- armonia contrastante, come quella tra arco e lira.
presso e sostituito appena qualche mese prima dalla Grande Assemblea Eraclito, Sulla Natura
Nazionale Turca, guidata da Mustafa Kemal Atatürk. Quest’ultimo, leader
del Partito Popolare Repubblicano, fu il protagonista assoluto della Guerra In principio vi è l’unità. La natura prosegue la sua esistenza indiffe-
d’indipendenza che i nazionalisti turchi condussero vittoriosamente contro renziata, nella sua molteplicità, apparentemente fino al sopraggiungere
le ingerenze francesi, britanniche e greche in Anatolia. Come conseguenza, dell’uomo occidentale e del Polemos che da sempre è il suo tratto più
l’1 novembre 1922 Mustafa Kemal abolì il sultanato e l’anno successivo fondativo. Rivelativo è un long take a pochi minuti dall’incipit, in cui il
venne eletto primo presidente della Repubblica di Turchia. dolly che segue il protagonista interpretato da Jim Caviezel all’improv-
Forte della propria vittoria, Kemal costrinse le potenze della Triplice In-
viso devia dalla linea tracciata finora e si muove diagonalmente per poi
tesa a tornare al tavolo dei negoziati, che si conclusero il 24 luglio 1923 con
inquadrare lateralmente l’uomo. Appena dopo questo cambio di pro-
la firma della Pace di Losanna, a vantaggio delle aspirazioni territoriali tur-
spettiva, le forze americane raggiungono l’isola in cui egli e un suo so-
che. A venir tradito fu, invece, l’anelito all’indipendenza del popolo curdo.
dale si erano rifugiati e ha inizio la narrazione propriamente detta de La
Inviso al governo nazionalista di Kemal, il Kurdistan non venne considerato
sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998): lo spettatore si trova in una
nel nuovo assetto dato al Medio Oriente e, a causa dell’immaginaria linea
realtà corale e indistricabile, la cui abbondanza di prospettive finisce per
tracciata da Sir Mark Sykes, i curdi si ritrovarono divisi in quattro diverse
offrire un unico punto di vista su quanto mostrato, quasi a riaffermare
nazioni.
quello a cui già alludevano le iniziali sequenze naturalistiche.

Una precisazione dev’essere fatta: parlare dei curdi soltanto come vit-
La sottile linea rossa non rappresenta uno scarto così netto all’in-
time della geopolitica internazionale sarebbe sbagliato. La divisione terri-
terno del cinema di Malick: tutti i film del regista americano si fondano
toriale, infatti, è sempre andata di pari passo con una profonda disunione
su opposizioni più o meno insolvibili tra protagonisti, Weltanschauung,
nelle proprie rivendicazioni nazionali. In questo contributo si è cercato di
culture, classi sociali, ecc. Ricordando Badlands (La rabbia giovane), non
ricostruire le cause della frammentazione territoriale del popolo curdo.
è difficile leggere l’esordio del 1973 come una contrapposizione tra stili
Quella della lotta politica e militare per l’indipendenza post Pace di Losan-
di vita e modelli culturali, connotati anche da scelte di messa in scena
na è, dunque, un’altra storia.
piuttosto nette – la regia classicheggiante del contesto cittadino e bor-
ghese contrastata dalle ellissi e dai movimenti della macchina da presa
nella parte centrale del film. Nell’opera seconda del cineasta texano, I
giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), il dualismo (apparente) che mo-
1
Lettera di Ubeydullah a un missionario cristiano per chiedere l’appoggio delle comunità ne- tiva il film si connota ancor più di elementi socio-politici e al contempo
storiane della regione, citata in Wadie Jwaideh, The Kurdish national movement: its origins and ne trascende la concretezza grazie all’ammirabile fotografia di Néstor
development, Syracuse University Press, 2006, pag. 75
2
James Barr, A line in the sand, Simon & Schuster, 2011, pag. 17
Almendros (giorno/notte, cielo/terra, inverno/estate, etc.) e all’emergere
3
Micheal M. Gunter, Historical Dictionary of the Kurds, The Scarecrow Press, 2011 pag. 7 dell’elemento casuale (lo sciame di locuste).
Il diario della ragazzina, sorella minore della protagonista del film,
che funge da filo conduttore della narrazione e che quindi ha il compito
di risolvere in un qualche modo le contrapposizioni che animano Days
Alvise Renier, nato a Chioggia, studia Storia presso la Scuola Superiore
dell’Università degli Studi di Udine. Dirige il blog Cogitoetvolo e collabora
con il blog L’Oppure

42 43
Cinema

of Heaven (si pensi al finale), allude in più di un’occasione a forze al di là re. Speculazioni di matrice heideggeriana
della comprensione umana che ne alterano l’esistenza, prima fra tutte il a latere, questo è il medesimo significato
Male incarnato, a cui ella attribuisce il tragico svilupparsi della vicenda. che la pellicola del 1998 ricopre all’inter-
Lungi dall’interpretare questi discorsi come corrispondenti al punto di no del cinema di Malick, configurandosi in
vista di Malick (consiglio valido per questo regista come per pochi altri), questo modo come un limite, una non così
essi accennano allo spostamento della contrapposizione, già definito sottile linea di demarcazione tra le opere
come cuore del suo cinema, da un piano “solo” storico e psicologico a degli anni 70 e la più rarefatta e specula-
uno trascendente – ontologico si potrebbe dire. Per citare la poesia gre- tiva produzione del nuovo millennio, evi-
ca, La sottile linea rossa si configura come la sphragis, il sigillo, di questo denziando al contempo la coesione del
cambio di paradigma, nonché dell’oltrepassamento di un confine spe- corpus malickiano come cinema della dua-
culativo che solo pochissimi cineasti prima di Malick avevano valicato, lità e della risoluzione non dialettica, come
concependo la settima arte come strumento riflessivo di primo piano. The Tree of Life ribadirà nel 2011. Immagine
emblematica di questa visione di mondo
Chiaramente esplicative risultano quindi, anche alla luce di quanto
è la conclusione stessa della pellicola, una
affermato nel primo paragrafo, le schermaglie dialettiche fra il soldato
ripresa diagonale in cui la profondità della
Witt, interpretato da Caviezel, e il sergente Welsh, che incarnano la con-
macchina da presa fa coesistere cielo e ter-
trapposizione tra un approccio naïf e uno cinico non solo al conflitto
ra, oceano e arena, vita (il seme) e morte
ma all’esistenza stessa; conflitto costruito tramite lunghi primi piani che
(la devastazione distante), sottolineando
rimbalzano grazie al montaggio da un volto all’altro, concedendo solo
come i confini della Realtà siano più che
nella parte conclusiva della pellicola una ripresa d’insieme ai due uomini.
altro limitazioni della prospettiva.
Witt e Welsh vanno incontro a due finali diametralmente opposti (al-
meno apparentemente) e la loro parabola quindi può essere letta come
uno dei molteplici fil rouge di The Thin Red Line e di certo come uno dei
più significativi, soprattutto in virtù del risolversi conclusivo (teorico, non
narrativo) del loro dualismo. Proprio questo convergere finale dei punti
di vista dei due protagonisti ne sancisce l’essenzialità all’interno del film
rispetto a molte altre coppie messe in opposizione, una fra tutte il capi-
tano Staros e il colonnello: se la contrapposizione continua a esistere sul
piano concreto, è su quello concettuale che essa può venir meno, così
come i molti confini interni della Realtà vengono meno con un semplice
cambio di prospettiva che guardi alle cose nella loro simultanea molte-
plicità e unità.
D’altronde l’invito a mutare il proprio punto di vista sta già a inizio
film e la pellicola di Malick lo ricorda continuamente, sia tramite dolly
laterali che cambiano il loro verso, che con la narrazione polifonica e
rapsodica delle vite dei vari soldati della compagnia Charlie. Ulteriore
elemento di alterazione delle prospettive preesistenti è il ricorso a un
montaggio frammentario e spesso disinteressato al rispetto dei raccor-
di, tratto stilistico divenuto proverbiale del regista, e nelle sue ultime
Matteo Zucchi, classe ‘95. Si barcamena tra
produzioni forse abusato, assieme ai carrelli dal ritmo sognante. La sotti- borghi medievali dispersi tra i colli friulani e
le linea rossa sancisce la presenza di innumerevoli confini fra le persone, Bologna, ove al momento frequenta il DAMS.
le cose e le idee per poi dimostrare la componente trascendentale di Collabora con la webzine Ondacinema e con
ogni contrapposizione in unicum ontologico che è la totalità dell’Esse- Digressioni. Delle molte altre cose che fa, o
tenta di fare, preferisce tacere.
“La sottile linea rossa” (The Thin Red Line, 1998)

44 45
Berrò un po’ di vino Letteratura

P opiću malo vina Sarajlić (1930-2002) è stato il maggiore


poeta bosniaco vissuto a Sarajevo e letto
in tutta Europa. Anch’egli credeva prima di
tutto nel laico scambio culturale da concre-
di Carlo Londero tizzare levando le sbarre di confine, gettan-
do ponti di dialogo. Un primo resoconto
del procedimento umano e letterario di
Morandini per far cadere i confini ci viene
Conviene iniziare dalle parole di Luciano Morandini estrapolate da un articolo del 1970 che lo vede pro-
dall’intervista di Ivica Tratnik a Radio Koper/Capodistria nell’estate- tagonista. Con esso veniamo a conoscenza
autunno 1976, per l’uscita del suo libro di poesie Dalla domenica dei che il poeta è stato pure ospite a Lubiana
silenzi:1 da Ciril Zlobec ‒ nato nel 1925, altro grande
amico di Morandini oltre che il più impor-
Io non penso che una semplice sbarra di confine riesca a tante poeta e intellettuale sloveno ‒ dove
separare gli uomini. Le idee e i sentimenti vanno al di là di “ha potuto presentare panorami antolo-
queste sbarre: in modo particolare per quanto riguarda i gici di poesia italiana contemporanea”; e
nostri due Paesi, la Jugoslavia e l’Italia, e in modo ancora soprattutto che, in virtù di quel ponte tra
[più] particolare per quanto riguarda Friuli e Slovenia. Est e Ovest qual è la regione Friuli-Venezia
Morandini, nato a San Giorgio di Nogaro nel 1928 e morto a Buja nel Giulia e dei “suoi meriti personali di poeta
2009, è stato poeta, saggista, narratore, giornalista, intellettuale, attivo e di intellettuale impegnato”, è stato “invi-
promotore culturale. Negli anni Cinquanta e Sessanta era l’esponente tato a partecipare alle “Giornate di poesia”
di punta del Neorealismo friulano ‒ o nazionale, vista l’attiva collabo- che si svolsero dall’8 al 16 aprile» del 1970 a
razione redazionale con le più importanti riviste dell’epoca di respiro Sarajevo4. A invitare Morandini al prestigio-


anche internazionale (“Momenti”, “La situazione”, “Politica e cultura”) e i so appuntamento poetico internazionale è
riconoscimenti ricevuti per la sua opera. Eppure Morandini non ha mai stato proprio Sarajlić. Forse impaziente per
voluto lasciare il Friuli per i grandi centri culturali italiani. Egli ha sempre la mancata risposta a una precedente co-
confidato nel Friuli; ma non si pensi a una gretta mentalità localistica o Me ne andrò da Morandini municazione scritta, nel suo italiano sgram-
indipendentista dello scrittore ‒ tutt’altro: il poeta ha voluto vivere nella maticato e affettuoso Sarajlić incalza l’ami-
provincia friulana per dedicarsi completamente a lei, per agire diretta-
in via Tarvisio numero uno, co a partecipare alle “Giornate di poesia” in
mente sul suo territorio. berrò un bicchiere di vino, veste di rappresentate ufficiale della poesia
Le parole poste in apertura, tratte dall’intervista radiofonica, sono canterò con Luciano qualche italiana:
quelle con le quali Morandini rende note le sue frequentazioni oltre canzone comune non abbiamo ancora tuo rispondo


confine. Sono intelligenti parole di dialogo, fraternità, nient’affatto scon- per tuo venire a Giorno di poesia.
tate. In una recensione a Neriješena molha (la traduzione serbo-croata […] Dai stranieri sicuro viene piu fa-
del suo libro di poesie Epistola inevasa)2 il modo in cui viene ritratta la moso poeta germano (west) Enzen-
figura di Morandini è netto: sberger. Forse Jeoluśenko. Vengono
Lo Izet che Luciano chiama “fratello” è il noto poeta bo- anche altri. Senza Italia non si po, e
sniaco Izet Sarajlić grazie al quale […] un poeta italiano tu sei questa volta – quella Italia.5
può allacciare un colloquio con una vasta cerchia di lettori Izet Sarajlić
Come poteva Morandini rinunciare a una
al di là di un confine che, ancora una volta, si è dimostra- tale esperienza letteraria collettiva, dove
to di essere non una barriera, ma un ponte che unisce i tramite la poesia si abbattono i confini? Ne
popoli.3 resterà sempre molto colpito e a riferirlo è

46 47
Tipologie e funzioni di un plurisecolare confine architettonico

nuovamente l’articolo-resoconto già menzionato. Mentre si rimarca che


da noi “la poesia vive, nel migliore dei casi, nelle vetrine dei librai”, è resa
la meraviglia di Morandini nel raccontare di avere visto a Sarajevo “la
D allo spazio al muro
poesia camminare per le strade, a tu per tu con la gente”.6
di Laura Cuzzubbo
Le relazioni umane transfrontaliere di Morandini si arricchiscono an-
che della visita che Sarajlić gli fece nell’autunno del 1969, a Udine. Da
quell’incontro è nata una poesia che rivela il comune senso di apparte-
nenza, tutta la fraterna complicità dei due poeti nel desiderio di solida-
Una profonda comprensione dell’architettura e del suo evolversi
rietà e partecipazione tra popoli, senza più confini:
procederebbe oltre il fattore fisico del muro. Come scrive Bruno Zevi
Doći ću kod Morandinija Me ne andrò da Morandini nel 1948, “L’architettura [...] è come una grande scultura scavata nel cui
u ulicu Tarvisio broj 1, in via Tarvisio numero uno, interno l’uomo penetra e cammina”1, pertanto lo spirito dell’arte del
popiću malo vina, berrò un bicchiere di vino, costruire risiede nello spazio architettonico entro cui vive l’uomo. Pa-
zapevati s Lučianom neku zajedničku pesmu canterò con Luciano qualche canzone comune reti, coperture e pavimenti, materici confini fra interno ed esterno, per
i zažaliti što ta Via Tarvisio dispiacendomi che questa Via Tarvisio quanto avvolti da ricche cromie o squisitamente intagliati, non sono
nije produžetak Ulice Vuka Karadžića ‒ non sia la continuazione di Via Vuk Karadzic ‒
che una “cassa muraria”2, una scatola che racchiude un vuoto.
da drugi put ne moram ići u Udine così un’altra volta non dovrò andare a Udine
da bih stisnuo ruku brata. per stringere la mano al fratello.7 Ma, se protagonista dell’architettura è in assoluto l’impalpabile
spazio, allora muro e decorazione che lo chiudono hanno un ruolo?
Per Zevi lo spazio è l’essenza, il volume edilizio il suo attributo. Da una
lettura smaliziata dei suoi scritti si svela tuttavia il variare nel tempo di
1
L. Morandini, Dalla domenica dei silenzi, Udine, Aviani, 1976 tali epiteti dello spazio architettonico.
2
Id., Epistola inevasa, Udine, La Stretta, 1969; Id., Neriješena molha, prefazione di I. Sarajlić,
traduzione di R. Sarajlić, Sarajevo, Veselin Masleša, 1970 Gli architetti greci plasmano il tempio come una scultura: celebrano
3
G. Scotti, recensione a L. Morandini, Neriješena molha, cit., “La Voce del popolo” (Rijeka/Fiume), con sublimi elementi plastici l’involucro di colonne, capitelli, trabeazio-
25 novembre 1970
4
Le citazioni provengono da V. Zani, Morandini ha visto a Sarajevo la poesia camminare per le
ne e timpani, che partecipa al costituirsi del magnifico spazio urbani-
strade, “Panorama” (Rijeka/Fiume), XIX, 17, 15 settembre 1970 stico delle acropoli, ma negano lo spazio interno, chiuso e accessibi-
5
I. Sarajlić, lettera a L. Morandini, 30 marzo 1970, Archivio Luciano Morandini, San Giorgio di le solo al sacerdote. A Roma invece i muri, in cemento e ricoperti di
Nogaro (Ud). Non ho trovato notizie sul poeta Jeoluśenko
6
V. Zani, Morandini ha visto a Sarajevo…, cit. marmi privi della finezza greca, sono il solido guscio di un vuoto che
7
I. Sarajlić, Doneseno iz Italije, iz Udina, poesie di I. Sarajlić e Luciano Morandini, “Odjek” si dilata e si tende in absidi, cupole e volte, con una grandiosa maestà
(Sarajevo), novembre 1969; la poesia citata è Mogao sam nikad ne doći Udine/Avrei potuto non che richiama al cittadino che vi si aggira il potere che lo sovrasta.
venire a Udine, vv. 11-18, traduzione di servizio di G. Scotti inviata a Morandini con missiva del
3 novembre 1969, Archivio Luciano Morandini, San Giorgio di Nogaro (Ud) Nella basilica paleocristiana il pacato succedersi di colonne e ar-
chi che dividono le navate dirigono lo sguardo umano verso il fulcro
dell’edificio, l’altare. Similarmente, nelle strutture a pianta centrica, i
motivi plastici, come le colonne binate disposte in senso radiale nel
Mausoleo di Santa Costanza a Roma, indicano all’osservatore il centro
dell’edificio. Nell’edilizia bizantina un nuovo elemento posto fra arco
e capitello, il tronco-piramidale pulvino, ora spoglio, ora finemente
cesellato, accelera il processo direzionale verso l’altare. Ad esaltare la
velocità degli orizzontalismi di Bisanzio, il mosaico tramuta la cassa
muraria delle costruzioni a schema centrale in luccicanti membrane
che si piegano verso l’esterno, seguendo nicchie ed esedre e produ-
cendo un moto centrifugo.
Carlo Londero si occupa di poesia contemporanea e del secondo Novecento.
Alla fine dell’alto medioevo il mosaico però scompare, i muri tor-

48 49
Architettura

nano grevi e massicci, in materiali grezzi. Il presbiterio si eleva rispetto pieno da parte di Kahn, così come la-
alle navate, in qualche caso nella monotona teoria di colonne compare menta l’incapacità in passato di coglie-
un pilastro. È la crisi degli univoci ritmi cristiani e bizantini, ora spezzati, re e proseguire gli scatti anticlassici del
e il presagio del romanico. Da Milano a Cluny infatti dalle pesanti pa- linguaggio architettonico, uno fra tutti
reti delle cattedrali affiorano pilastri poligonali, costoloni e contraffor- quello dell’inascoltato Borromini.
ti, saldamente concatenati, che impongono al cammino umano verso
Si chiude qui questa breve storia del
Dio una nuova metrica. In seguito e più nelle zone d’oltralpe, il muro,
muro, tangibile confine di Stato fra un
costellato delle gotiche vetrate istoriate, si fa cartilagine tesa fra sottili
vuoto che spazio architettonico è e un
membrature, in virtù della presenza dell’arco ogivale. Gli apparati scul-
vuoto che spazio architettonico non è.
torei e le volte a ombrello prevalgono sui piani, l’edificio si affusola,
fino a originare due direttrici, una verticale e una orizzontale, e a infon-
dere nell’uomo esaltazione e tormento.
1
Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura. Saggio
Più tardi l’Umanesimo giustifica l’abolizione dei partiti decorativi sull’interpretazione spaziale dell’architettura, Edizioni
gotici e del dramma insito in essi: un edificio deve emanare equilibrio di Comunità 2000, pag. 21
e serenità, non celare un mistero. Così a Firenze ritroviamo l’essenziale 2
Ibid., pag. 24
3
Cfr. Bruno Zevi, Il linguaggio moderno dell’archi-
bicromia delle pareti nelle chiese brunelleschiane e il ritmico giustap- tettura. Guida al codice anticlassico, Einaudi, 1973,
porsi di semplici moduli in palazzo Rucellai. E se ancora qui vibrava un in cui l’autore indica sette invarianti dell’architettura
moto, esso si placa nei solidi muri dai massicci decori delle costruzioni moderna
4
Cfr. My architect: alla ricerca di Louis Kahn: un uomo,
del ‘500, da cui prende avvio la capacità barocca di modulare il muro Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza (interno),
le sue opere, i suoi segreti, DVD, Feltrinelli, 2005
Francesco Borromini, 1642-1660, (Roma)
in concavità e convessità che racchiudono figure spaziali in costante
interpenetrazione con gli opulenti e dinamici motivi decorativi.
Con il XIX secolo, neoclassicismo ed eclettismo vestono gli edifici
di caotici coacervi di motivi decorativi mutuati dai più diversi stili, sof-
focando lo spazio. All’inizio del ‘900, funzionalismo e movimento or-
ganico, risolvendo la questione della casa per la famiglia media con la
nuova tecnica costruttiva dell’acciaio e del cemento armato, sperimen-
tano la leggerezza del muro, ormai ridotto a parete di vetro. Entrambi
condividono la pianta libera, l’indirizzo funzionalista entro uno schema
volumetrico chiuso, quello organico come detonazione di vuoti da un
centro verso l’esterno. E mentre il funzionalismo approda alla sempli-
cità decorativa, l’architettura organica movimenta le pareti seguendo
il cammino dell’uomo e le orna accostando materiali diversi, dal legno
al vetro al cemento.
Qui Zevi si ferma, elogiando l’anticlassicismo3 dell’edilizia organica,
che non blocca l’uomo in edifici fondati su regole statiche ma cresce
con lui. Poco dopo, nel 1950, il maestro statunitense di origine esto-
ne, Louis Kahn, riscopre, nel Mediterraneo, la simmetria e la monu- Laura Cuzzubbo nasce nel 1979 a Catania,
mentalità di piramidi, templi greci e rovine romane, e matura un’idea dove sia laurea con una tesi in Storia dell’ar-
te medievale. Da 10 anni vive e insegna a
di architettura atemporale, dalle forme geometriche primarie, slegate Treviso. Fotografa con una bridge, grazie al
dalla funzione, e fatta di materiali semplici e incorruttibili come il cal- cui generoso zoom trova intrigante fissare
cestruzzo, i cui giunti sono per lui l’ornamento dell’architettura4. Non dettagli anche impercettibili a occhio nudo.
può Zevi empatizzare con la riscoperta del valore classico del muro Salk Institute, Louis Kahn,
1959 (La Jolla - California)

50 51
“L’armata dei fiumi perduti” di Carlo Sgorlon Letteratura

S e il confine determina l’identità mata dei fiumi perduti (Mondadori, 1985).


Con il suo stile profondamente classico,
egli provò a rappresentare questa epopea
di Carlo Selan degli sconfitti che fu l’occupazione cosac-
ca della Carnia attraverso una narrazione
corale che progressivamente si scompone
in ritratti d’individualità profondamente
Un confine è un’identità che si accosta a un’altra e ad essa si apre simili nella loro debolezza. Così, all’inter-
o si chiude, un luogo che sta in mezzo, dove la terra non è di nessuno no del testo, l’invasore non viene mai rap-
ed è di tutti, la casa, spesso, del senza patria e del profugo, di tutta presentato come un vincitore e il dolore
quella umanità in fuga per necessità. Nel corso dei secoli etnie intere di Urvàn, uno dei capi Cosacchi, non sem-
sono state obbligate (in vari momenti e per cause diverse) a migrare e bra poi così diverso da quello di Marta,
a muoversi dai loro luoghi d’origine: un esempio è quello dei cosacchi, paesana che cerca di accoglierlo e di farlo
popolazione dalla storia secolare che nel 1943 fu costretta a partire sentire a casa. Sgorlon preferì mostrare
dalle natie lande russe al confine con l’Ucraina (nella zona dei fiumi prima di tutto la pietà dei personaggi e
Don e Dnepr) per dirigersi verso le alture delle Alpi Carniche in Friuli le loro sconfitte, creando un romanzo il
Venezia Giulia. Il motivo che li spinse ad andarsene fu che agli inizi cui tema principale finisce per essere il
del novecento essi, avendo scelto di schierarsi contro la rivoluzione concetto stesso di perdita: ciò che i co-
bolscevica, furono oggetto, a rivolta compiuta, delle cosiddette misure sacchi si rendono conto di non possede-
di “decosacchizzazione”, ovvero fucilazioni e deportazioni, stabilite dal re più non è soltanto la terra ma anche
Comitato centrale del Partito e pertanto vennero allontanati dai loro un’identità che li distingua. Mettendo in
territori. Per queste ragioni, durante la tentata invasione della Russia scena la tragedia di un popolo, egli riuscì
da parte delle forze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, alcuni a rappresentare l’insicurezza dell’uomo
di loro preferirono sostenere militarmente gli invasori, nella speranza moderno costretto a vivere senza più ri-
di riconquistare le loro terre. Tuttavia lo Stato Maggiore tedesco, ri- ferimenti certi su cui appoggiarsi. I prota-
tenendo i cosacchi solo un peso, preferì allontanarli dai territori russi gonisti de L’armata dei fiumi perduti sono
promettendo e poi concedendo loro una terra nel nord-est dell’Italia, infatti persone alla ricerca di qualcosa che
tra le montagne del Friuli, dove furono convinti a stanziarsi. Questa possa dare loro un senso e una direzione
operazione militare, chiamata Operazione Ataman, venne realizzata permanente. Sgorlon in questo romanzo
nel 1944 e comportò lo spostamento dei soldati cosacchi (con le loro rese esplicita una sua concezione del reale
famiglie) dalla Russia alla Carnia dove si stabilirono comportandosi come luogo di una metafisica immanente
come dominatori nei confronti delle popolazioni locali. Fu però una che trova nel simbolo e nel ruolo/valore
permanenza momentanea: già agli inizi del 1945, a causa dei continui la sua espressione più compiuta: così, la
attacchi partigiani e della conquista della penisola italiana da parte de- figura di Marta è descritta prima di tut-
gli alleati, essi furono costretti a scappare nuovamente in Austria, dove to come quella di una donna archetipica
poi si arresero agli Inglesi1. e antica che rappresenta il tramandare e
L’occupazione dei cosacchi in Friuli fu dunque breve ma di durata l’essere stabilità e memoria, mentre Urvàn
sufficiente per condizionare l’immaginario popolare e le fantasie degli è definito a partire dai suoi atteggiamenti
abitanti dei paesi: da subito, infatti, questi guerrieri alti e vestiti in ma- di guerriero e di uomo di principi; anche
niera orientale arrivati con i cavalli e i carri dal lontano est divennero l’acqua, ad esempio, viene esaltata nel suo
il simbolo di un mondo esotico distante e incomprensibile. Ispirato da valore simbolico di elemento che permet-
queste suggestioni, anche lo scrittore friulano Carlo Sgorlon scelse di te la vita e così il fuoco, anima distruttrice
raccontare la storia di questo popolo senza patria nel suo libro L’ar- ma accogliente.

“Suicidio di Saul”, Pieter Bruegel il Vecchio , 1562


(Kunsthistorisches Museum - Vienna)
52 53
Simbologie dei confini arborei naturali e artificiali

Elio Vittorini nei suoi articoli di critica letteraria spesso si scagliava


contro gli autori nella cui scrittura percepiva inesorabilmente “il lutto per
I l confine naturale
la morte di Dio”2, definizione che, se esautorata del suo valore negativo,
rende ottimamente quello che è il sentimento racchiuso tra le pagine de
L’armata dei fiumi perduti, cioè una progressiva accettazione da parte dei di Gian Pietro Barbieri
personaggi dello smarrimento esistenziale derivato dalla perdita di cer-
tezze fondamentali. Senza dubbio a dividere l’opera di Vittorini da quella
di Sgorlon c’è tutto un sistema ideologico e un’estetica diversa: se nei ro-
manzi del primo rimane una certa retorica neorealista legata ai temi della
resistenza e dell’impegno civile, in Sgorlon spesso prevale il sentimentali-
smo rispetto a una seria analisi storica e antropologica. Tuttavia, sarebbe
anche sbagliato voler cercare un eccessivo rigore raziocinante nei suoi
libri: come già sottolineato, la scrittura di Sgorlon fu un ricercare la rap-
presentazione del mito più che la realtà, il simbolo piuttosto che il fatto.
Narrando la disfatta del popolo cosacco, Sgorlon non volle tanto raccon-
tare un evento storico quanto invece dare forma e simbolo al dramma e
alla fine di un’illusione, alla precarietà di un tempo extra-storico collocato
tra il passato e il futuro, nell’indecifrabile presente del rito e del sacro. E
questo mostra in definitiva un romanzo come L’armata dei fiumi perduti:
una malinconia grande e autentica che non sa rasserenarsi e la sensa-
zione di un’epoca nuova che comincia problematica e che non sa dare
risposte ma è capace solo di promettere e far rimpiangere.

1
Per approfondire la storia dei Cosacchi in Friuli si rimanda ai testi La terra impossibile di Bruna
Sibilla Scizia, Doretti, 1992, e L’armata Cosacca in Italia di Pier Arrigo Carnier, Mursia, 1965
2
Elio Vittorini, Diario in pubblico, Bompiani, 2016

Carlo Selan, nato a Udine nel 1996, studia Lettere presso l’Università di Trieste
e nel 2016 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie “Periferie” per Cam-
panotto Editore. Attualmente collabora con la rivista “Digressioni” e con il blog
“L’oppure”. Suoi versi sono apparsi sulla rivista “Digressioni”.
“Pioppi sull’Epte”, Claude Monet , 1891
(National Gallery of Scotland - Edimburgo)
54 55
Antropologia

La suddivisione geografica, etnica, simbolica del territorio sembra confine della siepe si fonde al paesaggio, ne è parte viscerale; è mano
sia esclusiva del genere homo, prerogativa di una specie autoprocla- tesa continuamente a ricucire il territorio che divide; si attesta sul bordo
matasi “superiore” a tutto il resto, al “rimanente” e pertanto in grado e, riservatole e “sconfina” nello spazio che separa. È un confine vivente la
arbitrariamente, in diritto di stabilire limiti discriminanti, cesure, domini. cui funzione biologica è difficilmente sintetizzabile.
Un segno nero, freddo, netto sulla carta geografica non ammette re-
Il bosco
pliche, né deroghe o eccezioni: lega a un comune destino gli individui
Il bosco è un confine di profondità: in esso ci si immerge, non lo
che racchiude nelle sue invisibili maglie. Esistono poi confini linguistici,
si attraversa; a segnare il confine è la forza ineludibile dell’ombra, ac-
culturali “invisibili”, impalpabili eppure efficacissimi, basti pensare al co-
qua oscura e impalpabile che ci consegna repentinamente a un’altra
lore della pelle, confine insuperabile – sembra che la nostra specie sia
dimensione. La Foresta Madre ricopriva spazi incommensurabili; tale
fatta per sviluppare divisioni, che il segno distintivo del nostro genere,
era la sua estensione e compattezza che a stento si vedevano trapelare i
la civiltà, progredisca soprattutto grazie ai confini, all’attestazione vera
raggi. Già G.B. Vico con il mito dei giganti aveva ipotizzato (cfr. R.P. Har-
o presunta di differenze, dislivelli di superiorità, al senso di sicurezza
rison, Foreste. L’ombra della civiltà, Garzanti) che la nascita della facoltà
che suggeriscono.
immaginativa fosse sorta negli uomini come conseguenza della folta,
Esistono però anche dei confini naturali altrettanto se non addirit-
densissima chioma degli alberi della foresta che letteralmente copriva il
tura più marcati e incisivi; la cifra del loro potere è a un tempo concre-
cielo con una coltre impenetrabile, oltre la quale si immaginava appun-
ta, tangibile ed evocativa, simbolica, di una evanescenza che prelude a
to l’esistenza di esseri superiori, divinità assolute; si immaginava l’altro,
universi nascosti. Fiumi, deserti, burroni, mari, ma anche semplici siepi,
l’altrove. Sappiamo che da sempre il bosco assume in sé il carattere
boschi, cortine di rampicanti, roveti che paiono agitarsi lungo i bordi
della natura quale grembo donativo, vitale, in continuo sviluppo e, con-
dimenticati delle strade segnano un limite all’avanzata del predominio
temporaneamente, quale luogo oscuro, regno dell’ombra e di creature
antropocentrico, sembrano difenderci da “l’umano troppo umano”, o
diaboliche. Per queste e altre caratteristiche, può essere assimilato al
semplicemente ricordarci che siamo immersi in un sistema più ampio
groviglio interiore, spazio di quieto, interminabile conflitto esistenziale
del quale costituiamo un’infima, sostituibile, irrequieta entità.
di ciascuno.
La siepe
L’albero antico
Pochi sanno che le siepi non sono un’idea, un’invenzione umana
Ancora, taluni solitari e ultrasecolari alberi rappresentano (perma-
ma del tutto naturale. Concause legate alla natura del suolo, al clima,
nendo spesso nei toponimi) capisaldi di confini interpoderali o, addi-
alla vicinanza di corsi d’acqua, alla prossimità di radure o altri ambienti
rittura, limiti tra il noto e l’ignoto, tra il sacro e il profano, tra la luce e
selettivi favoriscono la diffusione di taluni tipi di piante rispetto ad altri
la tenebra. I capitelli arborei sono una emanazione di culti degli albe-
le quali, insediandosi lungo un segmento ben delimitato di suolo, for-
ri antichissimi, giunti sino a noi nonostante la tabula rasa del concilio
mano una sequenza straordinariamente ordinata di essenze arboree
di Trento (1545-1563) che ha respinto nella selva torbida e buia spiriti
e/o arbustive omogenea: un confine naturale. Quelle piante sono le
e spiritelli della tradizione popolare. Pensiamoci: vedere in un albero,
più adatte a occupare quella nicchia ecologica e vi si insediano di fatto
nell’ombra che la sua folta chioma proietta sulla Terra, una linea che
colonizzando lo spazio che presenta i requisiti necessari. È chiaro che
separa, che distingue due fasce, due metà, due mondi di luce separati
nel nostro immaginario la siepe si presenta corretta e ordinata dall’ine-
da una linea d’ombra in modo netto, corrisponde a vedere e immagi-
ludibile intervento umano che la scolpisce e raddrizza, trasformandola
nare insieme un confine, una fascia di separazione a un tempo inconsi-
nella forma/funzione cui è destinata, e che pertanto non esiste una vera
stente e insormontabile. Questa “metafisica del confine” ha funzionato
e propria siepe naturale con le caratteristiche che normalmente asso-
in maniera così efficace che nel corso dei millenni, alberi notevoli per
ciamo a questo termine, ma il dato interessante è che la siepe intreccia
dimensioni e longevità hanno svolto la funzione di crocevia, di confine,
armonicamente aspetti naturali e umani.
di riferimento per pellegrini e viandanti; limiti sacri tra il noto e l’ignoto,
Fin qui la spiegazione scientifica, la ratio, la cultura e la civiltà umane
il sacro e il profano, fari metafisici nel mare dell’oggettività. Un singolo
che si dannano a trovare e far emergere dai fenomeni naturali le leggi
albero capace di tanto…
cui soggiacciono, le dinamiche evolutive, le reazioni, le cause, le con-
L’albero è l’individuo isolato, estrapolato, isolato dalla foresta. Pur es-
seguenze; ma c’è anche un non meno importante aspetto simbolico: il
sendone un’infinitesima parte, un singolo albero è foresta, riesce a in-

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Fotografie di Bartolomeo Rossi
carnare la moltitudine da cui è uscito; porta con sé il suo multiplo, è in-
dividualità collettiva. Da qui la sua forza persuasiva, il suo magnetismo.
Ma siepi, boschi e alberi secolari sono in difficoltà, spazi sempre più
angusti, specie del nostro immaginario sono loro riservati e il loro desti-
no è molto incerto; rimangono solo i confini freddi e rettilinei tracciati
dagli uomini, capaci solo di separare, non di sconfinare.

Bibliografia essenziale
Michele Zanetti, Il fosso, il salice, la siepe. Nell’ambiente di pianura, nella didattica delle scienze
naturali, Ediciclo, 1991
William Bryant Logan, La quercia. Storia sociale di un albero, Bollati Boringhieri, 2008
Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, 1997
Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, BUR, 1994
Robert Pogue Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Garzanti

Gian Pietro Barbieri, nato a Treviso nel 1965. Segretario del circolo Legambiente
di Maserada sul Piave (TV), si occupa di eventi culturali e conduce studi antro-
pologici. Ha pubblico i testi poetici “Persistere” (Campanotto, 2004), “Inventario”
(Edizioni Del Leone, 2008) e “Ininterrottamente” (Valentina Poesia, 2014)

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Mi spingevo sulla spiaggia per cercare risposte.
Il confine con il mare del nord segnava un punto
di incontro di persone solitarie; camminando sul
lungo mare sentivo il vento freddo sulla pelle e
gli occhi che iniziavano a lacrimare.

Lì, in quella terra di confine, la nostalgia trovava


un rifugio sicuro: al largo, insieme alle navi.

Bartolomeo Rossi (1993) è un fotografo di Udine.


Dopo la laurea in Scienze e tecnologie
multimediali presso l’Università di Udine, nel 2017
vince la borsa di studio per partecipare al Master
di alta formazione sull’immagine contemporanea
alla Fondazione fotografia di Modena.

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Racconti

C hi è senza macchia sottili sopra le labbra tese, ma non si riuscivano a vedere gli occhi.
Lo sussurrò anche a fior di labbra, mio padre mi ammazza, e non si
di Enrico Losso accorse della donna dal foulard bordeaux seduta al tavolino a fianco che
la stava osservando preoccupata.
Rosalia si passò la mano aperta sul viso. Pensò a quel piccolo fagiolo
Rosalia aprì il foglietto con un gesto incerto, dopo che aveva passato che aveva oltrepassato il confine fra il mondo-che-non-c’è e la sua pan-
un’ora buona dentro il brutto bar di Via Mascarella. Non aveva avuto il cia. E che l’avrebbe trasformata in un otre additato da tutti in paese.
coraggio di fare venti metri in più e salire le scale dell’appartamento che Un lacrima cadde vicino alla macchiolina di caffè.
divideva con altre tre studentesse pugliesi. Non voleva che la vedessero Strinse con la mano la bocca che già si stava storcendo in una smor-
piangere, né di sconforto, né di felicità. Non aveva legato con loro, solo fia di pianto.
con Maria si era spinta, in quei primi quattro mesi da matricola univer- Solo dopo qualche secondo si accorse della mano che le si era posa-
sitaria, a qualche confidenza in più, ma definirla un’amica era troppo, ta sulla spalla e che la stava scuotendo leggermente.
almeno per lei. Girò la testa verso destra e si ritrovò a mezzo metro il volto teso della
Gli indici e i pollici tremolavano, si era sentita così tesa solo prima donna dal foulard bordeaux.
dell’esame di maturità, con il professore di latino che incuteva timore Rosalia biascicò qualche parola, non ho niente, ma poi si accorse del
non appena muoveva le sopracciglia. Ma qui non c’era in gioco un ses- dito della donna che indicava un punto indistinto all’esterno bar.
santa – che poi era stato soltanto un cinquantasei – ma una vita intera. La realtà del mondo le franò addosso.
Trattenne lo sguardo sull’intestazione del referto. Poi lo fece scende- Sentì un rumore forte, vide del fumo. I clienti del bar erano tutti in
re di un paio di millimetri più in giù, fino alla data. piedi, ammutoliti.
Undici marzo millenovecentosettatantasette. Un ragazzo con un fazzoletto premuto sulla bocca che correva lungo
Il medico che le aveva prescritto le analisi, le aveva spiegato anche la strada, passando davanti alla vetrina, diede una manata contro il vetro
come interpretare il valore risultante. Nel farlo, le sue guance rasate da e fuggì via. Rimase un’impronta biancastra vicino alla scritta “aperto tutti
poco si erano velate di un accenno di rossore. E questa cosa aveva col- i giorni”.
pito molto Rosalia. Un altro colpo, più forte del primo, fece sussultare Rosalia.
Abbassò per un secondo le palpebre. Due pensionati e il barista aprirono la porta e si affacciarono sulla
Si ripeté per la centesima volta che tutto – l’angoscia, il ricordo della strada.
notte di un mese prima, l’ansia repressa durante le telefonate con i suoi Rosalia li seguì. Voleva capire cosa stesse succedendo. Le era sem-
genitori – tutto sarebbe scoppiato come una bolla di sapone, per poi brato che i colpi provenissero dalla direzione dello stabile dove abitava.
svanire nell’aria senza lasciare traccia. Sentì la voce della donna dal foulard bordeaux che le raccomandava di
Le riaprì. stare attenta.
Il cervello catturò e elaborò in un niente quello che gli occhi avevano Appena varcò la soglia, si portò d’istinto la mano al basso ventre. Era
letto. un gesto che non aveva mai fatto prima di allora.
I muscoli dell’addome le si contrassero in uno spasmo. Sulla strada c’era fumo, moltissimo fumo. Un odore acre torturava le
Se era vero quello che le aveva detto il medico, non ci potevano es- narici.
sere dubbi. Sentì delle urla in direzione dell’incrocio di Via Mascarella con Via
Era incinta. Irnerio. In lontananza una camionetta di militari sfrecciò a gran velocità.
Il foglietto le sfuggì di mano e planò su quella goccia di caffè che C’erano ragazzi che scappavano in tutte le direzioni.
aveva versato sul tavolino, mentre stava girando con troppa foga il cuc- Rosalia ne fermò uno. Era anche lui una matricola di Giurisprudenza,
chiaino. Si espanse una macchiolina marrone sulla carta, poco sotto la o almeno lei si ricordava di averlo visto in Facoltà. Il ragazzo si teneva
cifra incriminata del marcatore. un fazzoletto davanti alla bocca. Aveva uno strappo sui jeans all’altezza
Nella testa di Rosalia baluginarono un pensiero – mio padre mi am- del ginocchio destro. Gli chiese cosa stesse succedendo, cosa fosse tutto
mazza – e poi l’immagine del suo volto, in cui spiccavano i suoi baffi quel fumo.

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Racconti

I lacrimogeni, le rispose, ma hanno sparato anche piombo. chi era ancora vivo.
Chi?, chiese lei. E così Rosalia si ritrovò ad asciugarsi con il dorso della mano le la-
I carabinieri, le rispose il ragazzo. crime dalle guance, per la seconda volta in poco tempo, lei che, a chi le
Mentre parlava, il ragazzo stringeva forte il fazzoletto nel pugno. Le chiedeva quando fosse stata l’ultima volta che aveva pianto, rispondeva
nocche gli erano diventate bianche. boh, forse da piccola, non me lo ricordo.
Si levò un altro urlo che proveniva dai portici vicino all’incrocio,
l’hanno ammazzato bastardi l’hanno ammazzato, e poi rumore di sirene
in lontananza.
Il ragazzo sparì in fretta com’era apparso. Rosalia si diresse verso i In ricordo di Francesco Lorusso, morto a Bologna l’undici marzo millenovecentoset-
portici sul lato opposto. Fece qualche metro in avanti, riparandosi dietro tantasette.
ai piloni. A certe scene aveva assistito solo al cinema, nei film polizieschi
che andava a vedere con la compagnia di amici che la prendevano in
giro se a volte si copriva gli occhi.
Ma in quel momento voleva vedere. Capire cosa fosse successo. I
piedi la spingevano in avanti, verso le urla che continuavano a bucare il
tramestio di fondo.
Il fumo dei lacrimogeni si era diradato, ma la puzza rimaneva forte
nell’aria.
C’erano quattro ragazzi chini su un corpo steso a terra. Rosalia pote-
va vederne le gambe – immobili – fasciate da un paio di pantaloni color
marroncino. C’era una macchia di sangue, scura, rossa, sui pantaloni,
sopra le cosce.
Un altro ragazzo con i baffi camminava avanti e indietro tenendo le
mani sui capelli ricci. Stava urlando bastardi, bastardi.
Rosalia socchiuse le labbra. Quei ragazzi avevano più o meno la sua
età, forse solo qualche anno in più. E uno di loro giaceva a terra e aveva
i pantaloni sporchi di sangue.
Qualcuno disse a voce alta, è morto.
Rosalia pensò che poteva avere gli anni di suo fratello, quel ragazzo
a terra. Si sentì tremare le gambe, appoggiò la schiena al muro.
Nel frattempo stava accorrendo altra gente, passanti, un postino che
aveva una borsa a tracolla. Anche la donna con il foulard bordeaux che
le stava appeso alle spalle, sul punto di cadere.
Rosalia si lasciò scivolare fino a toccare con il sedere la pavimenta-
zione del portico. Si abbracciò la pancia e raccolse le ginocchia contro il
petto.
Si ricordò delle parole che le aveva detto sua nonna un anno prima,
a proposito della morte. Così, di punto in bianco, senza che lei le avesse
chiesto nulla, le aveva detto che in fondo, tra la vita e la morte c’era solo
una linea sottile, come quelle di gesso tracciate dalla sarta sugli scam- Enrico Losso, nato nel 1974, abita a Ferrara. Lavora a Bologna, dunque fa parte della
poli di stoffa. E che bastava un niente per oltrepassarla, quella linea, ma Grande Famiglia dei Pendolari, dedita all’osservazione della gente nei vagoni dei treni.
che dall’altra parte si poteva comunque vedere tutto, e sentire le voci di Da tempo coltiva la passione per la scrittura e ha pubblicato un romanzo, “I disintegrati”,
con la casa editrice Panda edizioni nell’aprile 2015. Legge molto e ogni tanto sottolinea.

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Racconti

W elcome to Sky Valley verate. Odore di uova fritte e pancetta.


Il caffè che la cameriera ci aveva versato per la seconda volta nelle
tazze faceva se possibile ancora più schifo della prima.
di Francesco Zanolla Nova lo aveva trangugiato rapida e si era guardata intorno per l’enne-
sima volta.
Aveva fretta di finire. Niente residui. Niente tracce incongrue.
Io e quel che restava di Felix eravamo scarti di lavorazione di cui di-
sfarsi in fretta.
Oh, sunshine, your Le uova avevano la consistenza del cartone umido. Le avevo mandate
love and beauty passed me by, giù a fatica. Era come cercare di ingoiare la poltiglia della vita che fino a
should I waste my time
in your valley, beneath your sky? sei ore prima avevo creduto di avere.
(Kyuss - Whitewater)
Nova.
Che raccontava, con voce ferma e distaccata.
“Uno degli studenti di Felix apparteneva a una cellula dormiente delle
Nova. Milizie dell’Egira. Stavano cercando di farsi un’arma nucleare da usare in
Che vola attraverso il parabrezza, come un manichino da crash test. Pakistan, contro la giunta militare al governo. Gli serviva un fisico specia-
Non aveva le cinture allacciate. E non c’era airbag sul lato del passeg- lizzato in alte energie, proprio come Felix.
gero. Intendevano reclutarlo dopo averlo reso più sensibile alla causa, map-
Fino a un attimo prima, giocherellava con la pistola in grembo. Vibra- pandogli il substrato neurale, riconfigurandogli gli schemi elettrochimici
va appena. Un tremito leggero e controllato, sotto la patina di ghiaccio fondamentali e manipolandogli selettivamente la memoria. Sei settima-
australe che le avvolgeva il profilo magro e affilato. ne in una vasca di deprivazione sensoriale modificata per il trattamento
La coda dell’occhio mi era scivolata ancora sul filare di pali della linea mnemorigenerante e il gioco è fatto.
elettrica che correva parallela alla strada. Come è stato fatto con te.
Poi, come un lampo surreale: sotto un cielo rosso eccoci di nuovo Ti abbiamo riprogrammato e infiltrato, per friggergli il cervello sabo-
mano nella mano, tipo fidanzatini pubblicitari su una spiaggia deserta, tando la procedura e farci poi arrivare agli altri membri della cellula.
Lefkada, Santorini, o forse un satellite di Pentesilea, sistema stellare Canis Un’operazione clandestina da manuale.
Maior, e lei che recita qualcosa a memoria, Rimbaud o forse Verlaine, e io Una talpa convinta ad agire non per denaro o per ideologia ma per
che tento invano di non baciarla. motivi personali. Un brillante fisico del CalTech intrappolato in una sin-
Quindi, un fermo-fotogramma sul corpo di Felix, nel bagagliaio. La drome autistica irreversibile.
testa riversa all’indietro. La lingua bluastra a fior di labbra. Applicazione di trattamenti vietati. Lesioni permanenti. Varie violazioni
Ho accelerato e con una sterzata brusca ho puntato il muso verso la dei diritti umani fondamentali. Tecnicamente, anche un rapimento.
base del primo palo che mi sono trovato davanti. Tutta roba che né il Congresso, né il Presidente si potevano permette-
Ora c’è il cofano che si solleva come un foglio di carta strappato da un re di approvare o autorizzare.”
quaderno. Le parole le cadevano fuori dalla bocca. Come brandelli di carne cru-
La griglia del muso che implode. da.
Il palo che si schianta verso il deserto e i cavi della corrente, che teneva
sospesi a quasi dieci metri d’altezza, danzano per un attimo come crotali Nova.
impazziti sul tetto dell’auto, prima di frustare la polvere giallastra sul ter- Che mi sorrideva e mi sfiorava il viso con le dita mentre i ragazzi del
reno e restare immobili. comitato studentesco preparavano molotov versando nafta in bottiglie
Materia che obbedisce docile alle leggi della fisica. vuote di rum da quattro soldi.
Inizio di semestre di un trilione di anni fa: corteo di protesta contro le
Nova. operazioni militari NATO in Bielorussia.
Che controllava il display del tablet. L’ennesima piccola guerra europea destinata a sancire la fine del bloc-
Il riverbero del sole di mezzogiorno tremolava dietro le vetrate impol-

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Racconti

co occidentale. Era la prima fottuta volta.”


Quando ero tornato cosciente, la stanza era immersa nell’oscurità fan- In tivù, le immagini della missione spaziale avevano lasciato il posto a
gosa delle cinque del mattino. quelle di una tempesta tropicale sulle coste della Repubblica Dominica-
na.
Nova.
Che mi puntava contro la Glock 9 mm. Seduta sulla poltroncina in Nova.
similpelle che aveva spostato al centro della stanza. Che, mentre ci rimettevamo in viaggio dopo quell’aborto di colazione,
Lo schermo tivù sulla parete trasmetteva un notiziario a volume zero. mi aveva spiegato che la valle verso cui eravamo diretti era in realtà l’enor-
Immagini sgranate e bassa definizione del decollo di un razzo. me cratere di un meteorite.
Felix era raggomitolato sulla sua metà del letto, in posizione fetale. E io che ora smetto di strisciare sulla sabbia tiepida.
Nella parte bassa dello schermo, il banner scorrevole diceva: NUOVA Non ho fatto più di tre metri in quasi quattro ore.
MISSIONE LUNARE CINESE-NORD COREANA. E dopo averla rimirata un’altra volta, abbandonata su quella specie di
Mi ero messo a sedere sul bordo del materasso. Il classico letto da tavolo anatomico improvvisato che una volta era il cofano dell’auto, non
motel, generatore industriale di cigolii, mal di schiena e disturbi postura- posso fare a meno di pensare che c’è dell’ironia in tutto questo.
li. Non mi facesse così male, forse potrei ridere.
Felix intanto grugniva nel sonno. Come un bambino di cinque anni Ma respirare sta diventando sempre più difficile.
grasso e costipato alle vie aeree, anche se in realtà era magro, stempiato Le costole sono andate in frantumi nell’impatto nonostante l’airbag.
e aveva da poco passato i quaranta. Il cratere di un meteorite. “Un posto dove cinque milioni di anni fa il
“25 chilotoni. 105 terajoule. Neutroni liberi”, biascicava. cielo ha toccato la terra” aveva ammiccato, salendo in auto.
Nova si era alzata dalla poltrona, avvicinandosi al letto. Eravamo ripartiti. Non si era riallacciata la cintura di sicurezza.
Aveva infilato il silenziatore nella canna della pistola puntandogliela “Un buon posto per morire” aveva detto, rimettendosi la Glock in
contro. grembo.
Ironia e contrappasso.
Nova.
E poi c’è ancora lei che recita Rimbaud o Verlaine a memoria e io che
Che tirava fuori dal tascapane una maschera antigas e i libri per l’esa-
tento invano di non soccombere. Di non baciarla, in un altro spazio e in un
me di biochimica. Tesa, ma sorridente, mi tendeva la mano: “Allora, si
altro tempo, così lontani da questo deserto dove stuoli sospesi di nuvole
va?”
compatte vengono avanti, tinti di tramonto.
Il corteo stava per partire.
Come l’avanguardia di una flotta aliena.
Mani che non si erano incontrate davvero.
Non eravamo mai esistiti e io ero il narratore inattendibile della mia
stessa storia.
Nova.
Che aveva esploso tre colpi in rapida successione. Due al torace e uno
alla testa di Felix.
“Abbiamo ripulito selettivamente la tua memoria. Gli ultimi 15 anni
della tua vita sono il frutto di un impianto standard. Ricordi di me inclusi.
Non c’è mai stata nessuna Nova Burroughs. Non siamo mai stati all’uni-
versità insieme. Non abbiamo avuto nessuna disperata storia d’amore e
rivoluzione che ti ha segnato l’esistenza. Mentre tu studiavi per diventare
uno dei migliori neuro-ingegneri del paese, io mi facevo le ossa torchian-
do i qaedisti a Guantanamo.
E quando mi sono presentata alla tua porta a riaccendere la fiamma Francesco Zanolla nato a Venezia, vive in provincia di Treviso. Laureato in scienze politiche
che ti avrebbe portato ad aiutarci, non erano dieci anni che non ci vede- a Padova, consegue presso lo stesso ateneo un master in “Integrazione europea e sistemi
vamo. locali” Oltre che di teoria e storia del pensiero politico, si interessa di letteratura, teatro,
cinema e scrittura creativa.

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Racconti

B onus
di Davide De Lucca

Il signor M. stava varcando la soglia dei cancelli della nuova azienda


dove sarebbe andato a lavorare, consapevole che da quel momento in
poi la sua vita sarebbe cambiata. Aveva accettato di abbandonare il suo
vecchio impiego per entrare alla Contratti Fiducia e Nitidezza (Con.Fi.Ni.).
Il ruolo che ricopriva non lo soddisfaceva più. Consisteva nel sostare
nel corridoio vicino alla porta del titolare. Quando questi perdeva il con-
trollo e si adirava, usciva e gridava ingiurie in faccia al signor M.; in seguito,
a suo piacimento, gli assestava dei poderosi e violenti calci sugli stinchi
fino a quando non si calmava. Il dottore aziendale che aveva visitato il
signor M. lo aveva rassicurato più volte: i calci sugli stinchi non avrebbero
avuto nessuna conseguenza per lui, ma erano essenziali per il benessere
mentale del loro capo. Non si pensi però che il compito del signor M.
fosse soltanto quello. Era anche addetto al taglio della carta quando un
foglio era troppo lungo. C’era da prestare massima attenzione per que-
sta operazione, seguire attentamente la linea del bordo con le forbici e
soprattutto non confondersi: un foglio da accorciare non si poteva poi
allungare nuovamente. Un errore comportava numerosi calci.
Il signor M. viveva in uno dei complessi condominiali di periferia con
tutti i “comfort base”. Andava a lavorare il minimo di 12 ore al giorno e
il resto del tempo era a sua completa disposizione per il riposo, il cibo,
l’acquisto di beni di consumo e la condivisione di tutto questo su Social.
Un giorno il signor M. fu incuriosito da un annuncio di ricerca di lavoro
alla Con.Fi.Ni. Decise di inviare il proprio curriculum tramite Social e fu
contattato per un colloquio.
Entrò nel lussuoso ufficio dei due titolari.
– Signor M. – gli disse uno dei due uomini, – quello che le offriamo
non ha precedenti.
Uno di loro sedeva alla scrivania, in giacca e cravatta, le mani intrec-
ciate dietro la nuca e la camicia sporca di piccole macchie di sugo. L’altro
invece era adagiato sguaiatamente su una poltrona vicina e teneva sulle
ginocchia una ragazza con pochi abiti addosso che rideva senza motivo.
I due imprenditori parlavano alternandosi. Da uno dei computer usciva
musica da discoteca ad alto volume.
– A pochissimi giovani della sua età viene offerto quello che stiamo
per offrirle noi – il signor M. aveva quasi 45 anni, era praticamente un
ragazzino nel mondo del lavoro. – Siamo un’azienda prestigiosa. È molto
fortunato, mi creda.
– Le credo – rispose il signor M. con sincerità.
“Collins St., 5 pm”, John Brack , 1955
(National Gallery of Victoria - Melbourne)

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Racconti

– Ah-ah – venne rimproverato – con noi usi toni più formali, ci dia del signor M. Lo “stipendio base” gli consentiva di pagare l’affitto e le bollette,
Loro. di acquistare 6 porzioni di cibo per i 7 giorni della settimana, e avere ac-
Il signor M. ci pensò: “Gli credo” avrebbe dovuto rispondere, oppure “Li qua corrente. Ma soprattutto c’era il “bonus”: quello significava una svolta
credo”? O “Credo a Loro”? Forse “Gli credo a Loro”. Il signor M. aveva com- nella sua vita, il travalicare una condizione “base” per una condizione “base
pletato tutti gli studi universitari di rito e infatti era rimasto adeguatamente plus”. Il “bonus” poteva significare l’acquisto di un altro oggetto inutile
stupido. ogni settimana, di un capo di abbigliamento, di una micro-vacanza in con-
– Credo, credo – confermò ossequioso. Non voleva mancare di rispetto. dizioni di estremo disagio, una cena fuori o qualunque altra cosa rientrasse
– Bene. Quello che le offriamo è un posto come piegatore di contratti. nel “pacchetto invidia” di Social. Addirittura, senza uscire di casa e fare
– Pensi: avrà una sua sedia. effettivamente una di quelle cose, poteva acquistare il “pacchetto invidia”
– Non tutta sua, si intende. Dovrà dividerla con un collega. e Social avrebbe attribuito a lui una qualunque circostanza-oggetto-espe-
– E piegherà per noi dei fogli. rienza targetizzata sulla base dei suoi contatti, al solo scopo di procurare
– Ma non solo piegare: li dovrà anche infilare gli uni in mezzo agli altri. loro invidia.
Formare dei cosi – al dirigente sfuggiva la parola – come si dice? Il signor M. non poteva non accettare.
– Non mi ricordo – rispose il collega. – Fogli? Il giorno seguente si fece dare gli ultimi calci sugli stinchi e poi chiese di
– Ma no. essere licenziato. La cosa avvenne con effetto immediato e venne sostitui-
– Fascicoli? – tentò di indovinare il signor M. to da un giovane stagista che aveva solo trentadue anni, c’era da invidiarlo
Uno dei dirigenti schioccò le dita entusiasta. – Esatto – gridò. L’altro nel vederlo fare carriera così rapidamente.
fece sobbalzare la ragazza sulle sue ginocchia. – Lo dicevo che era il candi- Il signor M. rientrò a casa la sera e tutto era già spento: la banca in-
dato ideale. Fascicoli – disse di nuovo ammirato. fatti aveva bloccato immediatamente la fornitura di acqua, luce e approv-
Seguì un momento di silenzio. L’uomo seduto in poltrona scattò un sel- vigionamento di Social. Ma sarebbe stata solo questione di ore. Il giorno
fie con la ragazza e poi fece una foto al signor M. che tentò di sorridere. seguente avrebbe iniziato a lavorare per la Con.Fi.Ni. e tutto sarebbe stato
– Le spiace se uso questa sua foto e metto la testa del mio cane sopra ripristinato. Quei due imprenditori erano veri gentiluomini, si vedeva. Il
il suo corpo? Su Social piace. signor M. si addormentò con un sorriso, emozionato e soddisfatto.
– No, si figurino, non si preoccupino. È un onore. Il signor M. varcò la soglia dei cancelli della sua nuova azienda, pronto
Il signor M. si schiarì la voce, avrebbe voluto chiedere del contratto e di a iniziare la sua nuova vita “base plus”. Si presentò alla reception.
un eventuale stipendio, ma non voleva sembrare avido. – Sono il signor M. – disse – comincio oggi. A piegare contratti – ag-
– Quando potrebbe iniziare? giunse con un sorriso orgoglioso.
– Quando desiderano Loro – balbettò il signor M. – Devo però dare le La donna alla reception non fece caso a lui. Alzò il telefono e formulò
dimissioni nell’altro ufficio. Da contratto ci vorranno 3 mesi. un numero di interno per parlare con uno dei due imprenditori. La conver-
– Non possiamo aspettare tanto. Si faccia licenziare, così è libero già da sazione durò pochi secondi. Posò il ricevitore e senza guardare il signor M.
domani. comunicò:
Il signor M. era incerto. E se quei due imprenditori, che sì apparivano – Non c’è più bisogno di lei.
come galantuomini, poi non lo avessero assunto? Se non avessero man- – Prego? – chiese lui interdetto.
tenuto la parola? Ma non era possibile, proprio loro, proprio i titolari di La donna fece un cenno a un uomo che stava alle spalle del signor M.
un’azienda con quel nome, persone perbene. Il signor M. non si era accorto di lui. L’uomo, comparso dal nulla, gli diede
– Posso fare Loro una domanda? – chiese il signor M. dimenandosi una serie di calci sugli stinchi e lo spinse fuori dalla porta.
sulla sedia e accennando un inchino. Il signor M. varcò in direzione opposta la soglia dei cancelli dell’azienda
– Dica. dove gli avevano promesso che sarebbe andato a lavorare, consapevole
– È previsto un compenso? che da quel momento la sua vita era cambiata.
I due sospirarono sconsolati. – Tutti così – dissero, – tutti uguali.
Lasciarono il signor M. in sospeso.
– Sì, le concederemo uno “stipendio base più bonus” – rivelarono – e
questo rende la nostra proposta unica e irripetibile. Lei è un uomo fortunato.
Uno “stipendio base più bonus” sarebbe stato straordinario, pensò il Davide De Lucca è nato in provincia di Treviso nel 1982. Ha pubblicato i
romanzi “Altri castighi” (Giraldi editore, 2011), “Cerchi nel tempo” (Edizioni
Creativa, 2014) e “Le nebbie di Valville” (Edizioni Creativa, 2015)

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Poesie

I nventario 22 aprile
di Gian Pietro Barbieri

DIARIO DI UN ESTINTO / SHOPPING Il vigoroso dibattersi di un estinto


J. Baudrillard – “... epoca in cui si imbalsamano i vivi” nell’aria d’acqua fredda
fra l’erbe rinsecchite dalle brine
Il vento rissoso di novembre e negli specchi ghiacciati delle vetrine
ammassa le montagne all’orizzonte, le spinge in coda anima l’aria per la via
soppressa dalla strada.
la strada è affollata di foglie A rinvenirmi, a rifarmi umano
e prendermi per mano, fare scale
vedo il vento lavorare al posto mio del vento avvolto nel suo invisibile
radunandole in un canto manto, gialla
o forse sono io, confuso con il tempo giunge solo la voce del calicanto
o con l’estivo fervore di dicembre, nella febbre
che costringe il giusto silenzio nei fossi e nelle pozzanghere gelate
poiché altrove impera diabolico l’andirivieni del viavai Perdo anch’io qualcosa, lo sento
per acquistare avvolto nel packaging del gelo qualche souvenir avverto qualcosa di smarrito
di tempo già morto battuto all’asta dai coroner degli ipermercati. nel trasloco
nell’inventario dell’inverno

da Inventario (2008)

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Poesie

ROSACANINA in una pianta


Visioni sul greto del Piave a Maserada (TV) in un’essenza xerica che sia xenia
ai maestri, alla traccia, alla via
gocce di Graal sul greto
segreto, gocce divine di vino merlot ma sono stanco di stare sulle vostre tracce
distillato di freschi ossami che proseguono ora nel cosmo dove un’altra
morbide rocce e saggezza immensa rosacanina lussureggia e splende bianca
nel ciclo dell’azoto
riciclo delle mie puzzle parole qui, pur sapendo che a questa Terra d’ossa tornerò
devo partire, da voi, da qui –
semi conficcati nel paesaggio dai suoni, dagli ammicchi delle vostre bacche
insinuati fra gli strati del cielo e dei sassi che mi hanno sedotto con la loro sinuosa carnalità
rossa brace, morso canino
dure persistenti perle prima che quel loro gonfiore, quel silenzio-respiro
delizie del sub tra scolorati deserti rattenuto esploda, insuffli, si pronunci
oltre i siliconi balconi sbotti in fiore infallibile e irreale
sassolini di hanselegretel fuoriluogo, un fiore-ala, fiore-vela, nuova novella
novellina novizia
rosacanina abbaia alla luna stele di rosetta
canina che introduci
lapillo di rude materno magma ad un altro sentire
sappi che sono stanco di me e di essere che sento
qui ma non di questo leggerissimo greto
dillo alla Terra che adoro questo strato di polvere forse questa è la “morte”.
sul suo balcone
Ti saluto fiore.
forse scintille di un fuoco
– adolescenti rossori – Parto per altro sentire.
che si allontana da me e mi stempera nell’oscurità
– vitamine per la fantasia –
ho oltrepassato – forse, credo – il segno
il sangue vostro appallottolato da Inventario (2008)

come riserva di umanità

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“Confini” di Alfonso Firmani

TORRE DI FINE

… a perdifiato corre ancora corre


in lungo e in largo, mai stanco
si percorre e si rincorre
l’ampio orlo della spiaggia
giunto fino a qui dal cosmo
per offrire pagine di sabbia
ad un orizzonte incerto
fedele alla Terra nel collare dei monti
nell’inesausto estremo sforzo di amarla
si sporge sul baratro ansimando
porgendo il suo silenzio
come la più eloquente parola:
un’immagine vede riflessa
irrisolta, franta in barlumi e abissi
di uno specchio rotto
e corre ancora si percorre e si rincorre
mai stanco, mai pago
ininterrottamente lungo l’orlo
come una bestia in gabbia

Inedito

Gian Pietro Barbieri, nato a Treviso nel 1965. Segretario del circolo Legambiente di
Maserada sul Piave (TV), si occupa di eventi culturali e conduce studi antropologici. Ha
pubblico i testi poetici “Persistere” (Campanotto, 2004), “Inventario” (Edizioni Del Leone,
2008) e “Ininterrottamente” (Valentina Poesia, 2014)

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Corinne Zanette

Corinne Zanette nasce a Vittorio Veneto nel 1984. Diplomata in Pittura all’Accademia di
Belle Arti di Venezia, lavora nel campo dell’illustrazione, in particolare con la casa editrice
francese Les petites bulles éditions. È Atelierista (esperta dei linguaggi espressivi) alla
Scuola dell’infanzia San Giuseppe di Prata di Pordenone - www.corinnezanette.com

80
FINO ALLA FINE DEGLI ANNI

Quando l’essere si parzializza, in un sacco,


in una lercia trippa, i di cui confini sono più
miserabili e più fessi di questo fesso muro pa-
gatasse… che lei me lo scavalca in un salto…
quando succede questo bel fatto… allora… è
allora che l’io si determina, con la sua brava
mònade in coppa, come il càppero sull’acciu-
ga arrotolata sulla fetta di limone sulla costo-
letta alla viennese… Allora, allora! è allora,
proprio, in quel preciso momento, che spunta
fuori quello sparagone d’un io… pimpante…
eretto… impennacchiato di attributi di ogni
maniera…

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore

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