Confini
Racconti
Poesie
Disegni
Illustrazioni
Fotografie
Digressioni
Editoriale
Editoriale ................................................................................................................. 03
Scienza | Il bordo del Cosmo ....................................................................... 04
Letteratura | La ricerca meridiana di Paul Celan ............................. 08
Confini
Arte | La purezza del sangue ....................................................................... 11
Musica | Come Wagner, più di Wagner ................................................. 16
Letteratura | Ai confini della vita, ai confini dell’amore ............... 20 Con il sesto numero di Digressioni abbiamo scelto di indagare i confini.
Filosofia | I confini della giustizia .............................................................. 24 In questo caso, più che in altri, delimitare è stato arduo, perché lo spa-
Cinema | Dove vanno gli operai? ............................................................... 28 zio del confine è smisurato. Anzi, probabilmente abbiamo sconfinato
Letteratura | Barbara Baynton e il terrore della frontiera ........... 32 e nel nostro viaggio di ricerca ci siamo spinti un po’ più in là del con-
Teatro | Ai confini dell’animo umano ..................................................... 36 sentito: alcuni “limes” li abbiamo abbattuti, altri li abbiamo tracciati ed
Storia | Una linea nella sabbia .................................................................... 40 esaminati; alcuni ci hanno sconcertato, altri ci hanno piacevolmente
Cinema | Una (non così) sottile linea rossa ......................................... 43 sorpreso.
Letteratura | Popiću malo vina ................................................................... 46 Del resto, Medardo di Terralba – meglio noto come visconte dimezzato
Architettura | Dallo spazio al muro ......................................................... 49 – dimostra che spesso la linea di confine non è affatto netta. Comun-
Letteratura | Se il confine determina l’identità ................................ 52 que sia, siamo felici di proporvi la nostra personale “fenomenologia dei
Antropologia | Il confine naturale ............................................................ 55 confini”, che vi guiderà dai bordi del cosmo agli abissi dell’animo uma-
Fotografie | di Bartolomeo Rossi ............................................................... 59 no, dai limiti della giustizia a quelli del fotogramma, dai confini natu-
Racconti | Chi è senza macchia ................................................................. 62 rali, come le siepi e il bosco, a quelli costruiti dall’uomo, come il muro.
Racconti | Welcome to Sky Valley ............................................................. 66 Perché, certo, confine è anzitutto identità: ne sono prova la cosiddetta
Racconti | Bonus ................................................................................................. 71 questione curda, ancora oggi attuale, e l’occupazione cosacca della
Poesie | Inventario 22 aprile ......................................................................... 74 Carnia raccontata da Carlo Sgorlon ne “L’armata dei fiumi perduti”. Ma
Opere | “Confini” di Alfonso Firmani ....................................................... 79 una semplice sbarra non può separare gli uomini – afferma il poeta
Illustrazioni | di Corinne Zanette ............................................................... 80 friulano Luciano Morandini – sicché confine è anche incontro, o me-
glio “mistero dell’incontro”, così come si rivela a Paul Celan nella sua
ricerca meridiana attraverso la poesia, o a Edith Bruck, poetessa ebrea
08 28 36
sopravvissuta ad Auschwitz, per la quale non vi è patria “al di fuori dei
confini dell’amore”. Confini calpestati da una bestialità senza limite,
mostruosamente umana, tale è ritratta nelle opere di Yukio Mishima
46
e di George Tabori e in quelle di Barbara Baynton, scrittrice che rove-
I l bordo del Cosmo Vi è un concetto – ci ricorda Borges in un memorabile saggio in cui inse-
gue lo svolgersi di un paradosso nei labirinti della storia umana1 – che cor-
rompe e altera tutti gli altri: l’infinito. Lo temettero Euclide – che, chiamato
a definire la retta, ne fece un segmento prolungabile a piacere, eludendo,
di Matteo Pernini così, i rischi di una lunghezza infinita; Escher – che ne chiuse l’orrore in archi-
tetture d’incubo; Kafka – che fece della giustizia un punto irraggiungibile.
Dove, però, esso ci lascia maggiormente smarriti è nel suo farsi attributo
dello spazio, come sottinteso in una nota del filosofo pitagorico Archita:
“Se mi trovassi nell’ultimo cielo, cioè in quello delle stelle fisse, potrei
stendere una mano o la bacchetta al di là di quello, o no? Ch’io non pos-
sa, è assurdo; ma se la stendo, allora esisterà un di fuori, sia corpo sia
spazio. Sempre dunque si procederà allo stesso modo verso il termine di
volta in volta raggiunto, ripetendo la stessa domanda; e sempre vi sarà
altro a cui possa tendersi la bacchetta”2. L’argomento non è privo di buon
senso e lo si potrebbe altresì formulare in questi termini: è concepibile
un luogo ove un turista cosmico possa gettare uno sguardo al di fuo-
ri dell’Universo, così come guarderebbe oltre la finestra di un edificio?
Sebbene l’immagine richiami alla nostra mente lo stupore di Jim Carrey,
che, in The Truman Show (1998), tocca con mano il bordo dell’orizzonte e
lascia che la sua barchetta vi si incagli con un clangore di metallo, si trat-
ta di un’ipotesi difficile da sostenere. A provare le conclusioni di Archita
interviene, inoltre, il Principio Cosmologico, formulato nel 1932 dall’astro-
nomo Edward A. Milne, che, estendendo l’idea copernicana per cui l’uo-
mo non occuperebbe alcuna posizione privilegiata nel cosmo, sancisce
l’omogeneità e l’isotropia dell’Universo su larga scala; detto altrimenti: la
distribuzione di materia in esso è approssimativamente costante e, non
dandosi alcuna direzione privilegiata, è impossibile definire un centro.
Parrebbe che l’accordo tra il rigore dei principi scientifici e il buon
senso della scuola pitagorica sia bastevole a chiudere il discorso. A ben
vedere, però, quel che si è finora stabilito è la semplice difficoltà di con-
cepire un qualunque confine per il nostro Universo; desumerne, da qui,
l’infinitezza è passo troppo ardito e che non manca di precipitarci in un
fondo di problemi altrettanto ostici. Ci chiediamo, infatti, cosa ne sa-
rebbe, in un Universo infinito, del Principio di Conservazione dell’Ener-
gia, nonché come dovremmo porci rispetto all’ipotesi che esistano in-
finite copie di noi stessi e del nostro mondo – dal momento che, per
quanto alto, il numero di possibili combinazioni degli atomi è limitato.
Come si vede, è sufficiente fare dell’infinito una vaga premessa al discor-
so perché l’immaginazione subito si confonda e sia colta da vertigine.
In questo turbinare di vicoli ciechi, interviene, a scongiurare il rischio
dell’aporia, un suggerimento di Albert Einstein, che, pochi anni dopo la
formulazione della Teoria della Relatività Generale, tiene, all’Università
4 5
Scienza
di Berlino, una memorabile prolusione dal titolo Geometria ed esperien- curva. Un argomento che richiama l’intuizione di Brunetto Latini, che, nel
za (Geometry and Experience, 1921), in cui, ragionando su ciò che lega XXXV capitolo di quella sorta di enciclopedia del sapere medievale che è
i formalismi e le astrazioni della matematica alla sua capacità di inter- Li livres dou Tresor, per spiegare la forma della superficie terrestre scrive: “E
venire con successo nella descrizione del reale, lascia cadere, sul finale, se due uomini d’uno luogo ad una ora si movessero, e andasse l’uno tanto
un’ipotesi brillante, che segnerà la cosmologia negli anni a venire. Per quanto l’altro, e l’uno andasse verso levante e l’altro verso ponente, e an-
intenderla occorre fare una premessa e domandarsi se possa darsi il dassero dirittamente l’uno a rincontro l’altro, certo eglino si riscontrareb-
caso di uno spazio finito, ma senza alcun bordo a distinguerne i confini. bero dall’altra parte della terra per mezzo quel luogo onde fossero mossi. E
Si immagini, allora, di sottrarre una delle tre dimensioni spaziali al nostro se pure andassero oltra, elli tornerebbero a quel luogo onde si partirono”3.
mondo, precipitando l’umanità in un universo simile a quello dipinto da
Edwin A. Abbott nella fantasia letteraria Flatlandia: Racconto fantastico a Nel 1979, poi, il matematico Mark Peterson scoprì, nei versi del-
più dimensioni (Flatland: A Romance of Many Dimensions, 1884): anziché la Divina Commedia in cui Dante raggiunge l’Empireo, l’intuizione li-
volumi nello spazio, i nostri corpi diverrebbero aree in movimento su un rica di una 3-sfera, ossia della curvatura di un volume in uno spazio
piano, che costituirebbe, a sua volta, il nostro nuovo orizzonte cosmico. A quadridimensionale. Giunto all’ultima sfera celeste, il Poeta guarda in
prima vista il guadagno sembrerebbe esiguo: siamo passati dal doman- alto e vede i cori angelici e, al centro, un punto luminoso, di cui scri-
darci se lo spazio sia limitato da una qualche superficie all’indagare se una ve che pareva “inchiuso da quel ch’elli’nchiude”4, offrendo la preci-
linea contorni il nostro piano. Se ora, però, provassimo a gettare dall’ester- sa descrizione di una sfera in quattro dimensioni, di cui si può dire
no – cioè, dal nostro mondo tridimensionale – uno sguardo sull’universo che ha forma di una sfera che circonda un’altra sfera ed è, al contem-
bidimensionale popolato da questa umanità di aree, scopriremmo una po, da essa circondata. Si tratta di una geometria che sfugge al nostro
cosa alquanto interessante, ossia che curvando il piano-Universo e con- intuito, ma su cui potrebbe essere ricalcata la struttura dell’Universo.
giungendone i bordi sino a ricavare una sfera otterremmo una superficie Sfruttando la geometria intrinseca – ponendoci, cioè, all’interno del co-
finita, eppure del tutto priva di bordo, sulla quale triangoli, cerchi e poligo- smo, anziché osservandolo dall’esterno – potremmo descriverlo come
ni potrebbero muoversi indefinitamente senza incontrare alcun ostacolo. uno spazio in cui un viaggiatore che si muovesse in linea retta lungo una
Facciamo, quindi, tesoro di questa intuizione e, riappropriandoci della direzione finirebbe col tornare al punto di partenza. Per Dante, che aveva
consueta tridimensionalità del nostro mondo, concludiamo, con Einstein, studiato sull’opera del Latini, questa generalizzazione delle caratteristiche
che l’idea di un universo finito, ma senza bordo, è ragionevole a patto di di una sfera al caso quadrimensionale, dovette sembrare pienamente na-
supporre che lo spazio in cui ci muoviamo non sia rigido, ma curvo, il che turale.
è, appunto, il risultato fondamentale della Teoria della Relatività Generale.
Rimane, com’è naturale, una certa perplessità riguardo a cosa signi-
fichi che l’Universo sia curvo. Per piegare una linea retta sino a chiuder- 1
Metamorfosi della tartaruga, in: Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, Feltrinelli, 2009, pag. 109
2
F. P. De Ceglia (a cura di), Scienziati di Puglia: secoli V a.C. - XXI, Parte 3, Adda, 2007, pag. 18
la in cerchio occorre aggiungere una dimensione; allo stesso modo per 3
Brunetto Latini, Il Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, Co’tipi del Gondoliere,
deformare un piano in una sfera occorre uno spazio tridimensionale. Ne 1839
concludiamo che una descrizione della curvatura del Cosmo richieda uno
4
Dante Alighieri, La Divina Commedia. Paradiso, Canto XXX, La Nuova Italia, 2004
6 7
Uno sconfinamento Letteratura
8 9
RUBRICA: Ritratti del potere n. 1
E l’incontro con un altro, per Celan, che meditò gli scritti di Martin
Buber, è sempre figura del totalmente Altro, a cui l’uomo in cammino vi
si dispone, “lo va cercando; e vi si dedica”8, in un moto di quasi sponta-
nea preghiera o nella forma di un “colloquio disperato”9. È solo dentro
L a purezza del sangue
Sofonisba Anguissola dipinge “Ritratto di Filippo II” (1565)
il “mistero dell’incontro”10 che può apparire la mappa dell’anima, ossia
quella geografia che racchiude la segreta essenza spirituale degli uo-
mini, senza cui non possono vivere la propria esistenza autentica. O con di Annarosa Maria Tonin
parole migliori, Buber:
La più alta cultura dell’anima resta fondamentalmente arida
e sterile, a meno che da questi piccoli incontri, a cui noi dia-
mo ciò che spetta, non sgorghi, giorno dopo giorno, un’ac-
qua di vita che irriga l’anima; allo stesso modo la potenza
più immane è, nel suo intimo profondo, solo impotenza se
non si trova in alleanza segreta con questi contatti – umili
e pieni di carità nel contempo – con un essere estraneo
eppur vicino.11
La critica letteraria tuttavia deve dileguarsi, diminuire, affinché la Po-
esia che vuole testimoniare cresca e risplenda da sé. È il caso del com-
ponimento In der Luft, con cui si chiude Die Niemandsrose, che nomina
per sempre l’iter di questa ricerca meridiana:
Dapper-
tutto è Qui e Oggi, è, venendo da disperazioni,
lo splendore
in cui i Separati entrano
con le loro bocche abbacinate:
il bacio, notturno, imprime a fuoco
il significato ad una lingua, cui essi si destano –:12
1
Il senso della semplicità (da Poeti greci del Novecento, Mondadori, 2010)
2
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
3
Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998
4
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
5
Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998
6
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori, 2009
7
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
8
Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, Einaudi, 1993
9
Ibidem
10
Ibidem
11
Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, 1990
12
Paul Celan, Poesie, Mondadori, 1998
Luca T. Barbirati è nato a Vittorio Veneto nel 1990. Dal 2014 vive a Firenze dove si laurea in
letteratura. Nel 2018 pubblica “Carlo Michelstaedter. Un angelo debole” (Arcipelago Itaca).
10 11
Arte
A fare da tramite tra la Anguissola e il re di Spagna sono il duca d’Alba della concezione e dell’esercizio del potere del re, Sofonisba Anguissola di-
e il duca di Sessa, per i quali lei dipinge alcuni ritratti durante un soggiorno pinge la limpieza de sangre, il rapporto biologico tra la purezza del sangue
a Milano. Filippo II la invita a Madrid, a conferma di quanto scrive Annibale spagnolo e la purezza della fede cattolica, che Filippo vuole incarnare, fino
Caro nel 1556 in una lettera al padre della pittrice: “le cose sue son da alla macerazione monacale degli ultimi anni di regno, conseguenza anche
principi”. della morte della sua quarta moglie.
Nel palazzo reale di Aranjuez, in attesa di poter abitare al Escorial, il re
Nel 1570 le principesse Isabella e Caterina accolgono una nuova regina,
la osserva dipingere i ritratti della regina e delle figlie. Sempre serena, ab-
Anna d’Austria (1549-1580), loro prima cugina. Il re Filippo, dunque, sposa
bigliata in modo semplice con tessuti di colore scuro e colletti di merletto
la nipote.
bianco, nel 1565 dipinge l’opera Ritratto di Filippo II, dando vita figurativa a
L’ambasciatore Alberto Badoer nel 1578 scrive: “Ama tenerissimamente
quanto l’ambasciatore Federico Badoer scrive al Senato della Serenissima.
la moglie e la tiene piuttosto stretta che altrimenti, lasciandola poco o non
Il re Filippo è di statura piccola e di membri minuti, ha la mai senza di lui”.
fronte grande e bella, gli occhi di color cilestro assai grandi, Il matrimonio del re con la nipote segna, tuttavia, l’inizio della fine per
le ciglia grosse non molto disgiunte, il naso proporziona- gli Asburgo di Spagna. Filippo ritiene che la purezza del sangue non sia sol-
to, la bocca grande, il labbro di sotto grosso che distorce tanto un’ideale da difendere con la spada e il Rosario; essa diventa, nei fatti,
alquanto, porta la barba puntuta all’uso della maniera spa- un atto estremo, un esperimento genetico secolare, una teoria di volti esan-
gnuola, è di pelle bianca e di pelo biondo, ed ha apparenza gui, poiché i matrimoni consanguinei diventeranno prassi consolidata.
di fiammingo, ma pare altiero perché sta sulle maniere di La regina Anna, madre del futuro re Filippo III, muore nel 1580 e viene
spagnuolo. sepolta nel mausoleo del Escorial.
Da uno sfondo scuro, che ha la funzione di avvicinare il soggetto ri- Sofonisba Anguissola vede nascere El Escorial e il mausoleo degli Asbur-
tratto a chi guarda, Sofonisba fa risaltare il volto pallido, cadaverico del go di Spagna, luogo simbolo anche di un gusto estetico e, quindi, di una
sovrano. La pittrice, impietosa, traccia i contorni di un viso emaciato, privo filosofia che Filippo vuole imporre all’Europa. Sofonisba se ne va un anno
di reale e pulsante forza e autorevolezza, il volto di un uomo già sfiancato prima della macabra cerimonia d’inaugurazione nel 1574. Un anno dopo,
dalla lotta per preservare i domini spagnoli, ancora prima che le sue scon- rimasta vedova, inizia a viaggiare senza sosta per raggiungere altre corti
fitte politiche più cocenti nella seconda metà del Cinquecento sanciscano europee, fino a un secondo matrimonio e al ritorno in Sicilia, dove muore
il fallimento di una politica monocorde: sanguinaria, repressiva, lenta e ac- nel 1625, dopo aver insegnato l’arte del ritratto ad Anton Van Dyck, giunto
centratrice. un anno prima a Palermo per renderle omaggio.
Nella rigida postura del re, nei suoi abiti neri Sofonisba Anguissola di-
pinge la gravitas, un modello educativo che accomuna la formazione di
molti principi dell’epoca, uno stato della mente e dell’anima che implica un
comportamento e un’azione politica basati sulla consapevolezza del pro- Bibliografia di riferimento:
Gli ambasciatori veneti 1525-1792, a cura di Giovanni Comisso, Longanesi, 1985, pp. 98-132
prio ruolo. Nel caso di Filippo II il costante, e impari, confronto con la figura Hugh Trevor-Roper, Principi e artisti. Mecenatismo e ideologia alla corte degli Asburgo (1517-1633),
del padre Carlo V, lo convince del necessario trionfo della fede cattolica cap. II “Filippo II e l’Antiriforma”, pp. 51-100
sull’eresia protestante, della centralità anche geografica e fisica del gover-
no, della repressione di ogni moto di ribellione politica. Filippo II per ragio- Nel prossimo numero:
ni anagrafiche non vive il tempo di Erasmo da Rotterdam. Quando inizia Anton Van Dyck, La regina Enrichetta Maria in azzurro (1636-38)
a viaggiare nei suoi domini europei ciò che vede è il dilagare dell’eresia e
degli aneliti alla libertà dal giogo spagnolo. Il re non è educato all’ascolto,
al dialogo e al confronto, alla bellezza della diffusione delle idee; si isola,
costruendo un modello politico non più legato ai rapporti personali di fe-
deltà e amicizia, ma basato su un’efficiente capillare macchina burocratica
che a lui deve rendere conto.
Nell’attenzione ai dettagli, il collare del Toson d’oro e il Rosario, simboli Annarosa Maria Tonin è nata nel 1969. Laureata in Lettere Moderne, è stata docente di
Materie Letterarie e Storia dell’Arte. Ha pubblicato le raccolte di racconti “Vento d’autunno”
e “Tele di ragno” e i romanzi “Rivelazione”, “La scala a chiocciola” e “Il segreto di Alvise”.
14 15
Dalla Tetralogie alla Licht: Stockhausen sconfina (quasi) tutto
C ome Wagner, più di Wagner In musica spessissimo risulta facile parlare di totalità. Quante volte lo
sentiamo? “Artista completo”. “Artista totale”. La più tronfia, “Artista a tre-
centosessanta gradi”. Si dovrebbe riflettere: prendiamo Richard Wagner.
Tutto è totale in Wagner. A cominciare dalla commistione tra vita, avven-
turosa, nomade, errabonda, addentata con gran voracità a ogni suo lato,
di Michele Saran e la sua arte. I lasciti, iniziando dal Die Feen (1833) fino ad arrivare alla
sacralità assoluta del Parsifal (1877-1882), danno il vertice vocal-operistico
del romanticismo come anche di decadentismo e simbolismo. E alcune di
esse sono probabilmente le maggiori opere liriche mai scritte a memoria
d’uomo. Come la sua più epica, il ciclo del Der Ring des Nibelungen (1848-
1874), Tetralogie per gli amici. Dalla potenza del primo capitolo, Rheingold,
alla più celebre Walküre, dal superomismo del Siegfried fino all’epilogo, il
mitico Valhalla in fiamme in Götterdämmerung, il genio di Bayreuth varca
almeno tre confini.
Anzitutto la realizzazione. In queste quattro opere – quindicina d’ore
di ascolto in tutto – scompaiono le figure di librettista, regista, scenogra-
fo, direttore del coro, e quant’altro. Esiste solo il teutonico compositore
a occuparsi di qualsiasi cosa, la musica, la direzione, la messa in scena,
persino l’ottimale disposizione del pubblico pagante. E poi la tonalità, che
dai tempi di Bach non veniva messa in discussione: in Wagner la musica
non è più tonalmente agganciata e definita, nessun “re maggiore” o “do
minore”, ma libera, libera di svariare da un accordo all’altro, d’impastarsi
di sfumature. Non ultimo la struttura. A parte il preludio (e che preludio:
un massiccio terrificante e meraviglioso a ergersi all’orizzonte), le classiche
ripartizioni in arie, cori, duetti e recitativi divengono fossili del passato. Le
scene si estendono in una sorta di mare magnum, un oceano di suoni sen-
za soluzione di continuità, tra ottoni imponenti, fughe d’archi e terremoti
di timpani. I cantanti devono perciò essere possenti, anche stentorei, per
elevarsi tra l’orchestra. La quale scompare alla vista del pubblico in una
buca ancor più profonda, di nuovo per dare il maggior potere, la maggior
totalità possibile al dramma in scena.
Passa circa un secolo et voilà, ci risiamo. Un altro tedescone visionario,
occhi puntuti, sguardo (bestemmia!) da serial killer. Karlheinz Stockhausen.
Musicologi, studiosi e ammiratori considerano all’unanimità i suoi capola-
vori come capisaldi assoluti del serialismo, della musica elettronica ed elet-
troacustica, del “live electronics”: Gesang der Jünglinge (1955-56), Gruppen
(1957), Telemusik (1960), Mikrophonie (1964-65), Mantra (1970), e diversi
altri. Già molti meno conoscono la sua ultima opera compiuta, Licht, un
ciclo lirico che ha richiesto al compositore più di venticinque anni di lavoro,
dal 1977, anno della sua iniziale concezione, al 2003. È significativo anzi-
tutto il disegno generale, riesumato da un suo precedente ciclo vocale e
Portrait of Richard Wagner, Cäsar Willich, strumentale, l’altrettanto monumentale Aus Den Sieben Tagen (1968), sette
1862 (Reiss Engelhorn Museum - Mannheim)
16 17
Musica
pingui opere per altrettanti giorni della settimana, il cui ordine d’appari- clo lirico. Non solo ognuna delle sette opere, dipendentemente dalla sua
zione non segue la scansione naturale ma viepiù gli anni di composizione: “super-formula”, prevede una composizione a sé stante, ma anche ogni
Donnerstag (1978-80), giovedì; Samstag (1981-83), sabato; Montag (1984- singolo atto o scena. Si va dal corale immane alla singola performance,
88), lunedì; Dienstag (1988-91), martedì; Freitag (1991-94), venerdì; Mitt- dall’orchestra sinfonica a quella elettronica, dai singoli ensemble alla mu-
woch (1992-98), mercoledì; e Sonntag (1998-2003), domenica. sica concreta, ai sintetizzatori, agli strumenti orientali. Non basta. Vi sono
momenti che richiedono compresenza di più orchestre o attori in più sale,
Licht, “luce”, dunque. “Hikari” in giapponese, come avrebbe dovuto
persino di un quartetto d’archi in elicotteri al di sopra del teatro. La spa-
intitolarsi in origine. Capita che Stockhausen venga chiamato a compor-
zializzazione del suono, da sempre cruccio di Stockhausen, qui diventa la
re una pièce per danzatori e orchestra Gagaku, l’orchestra tradizionale
regola: canali sonori sono sparsi per l’auditorium, pure posti in mezzo al
giapponese che prevede esecuzioni – per definizione – non trascritte
pubblico. Vanno installate bocchette che persino diffondono aromi, a se-
ma enunciate oralmente. Inconcepibile per uno scienziato dello spartito
conda del momento o del personaggio. Alla fine di tutto, la chiusa di Son-
come Stockhausen. Ma anziché incidente diplomatico in musica, il fatto
ntag, la partitura prevede una seconda scena in parallelo da eseguirsi in
diviene pretesto creativo. Così, quel Jahreslauf – questo il nome del pri-
una non meglio precisata separata sede, chiamata Luziferium, interamen-
missimo abbozzo – si trasforma lentamente, lo si può dire senza pericolo
te dedicata, nomen omen, a Lucifero. Ma nessuno sa se sia stata anche
di smentita, nella più grande opera mai concepita nella storia della musi-
solo scritta. È ancora un altro confine da varcare, quello del non-finito.
ca, e uno degli sforzi creativi più immani di sempre. La cellula germinale
di Licht è la “formel”, la formula, un tema-contrappunto affidato ai tre Ancestrale e futuristico, orientale e occidentale, terrestre e celeste, pri-
personaggi, Michael, Eve e Lucifer, con uno specifico strumento a fiato vato e universale. Dire che Licht è il testamento artistico del grande autore
(tromba per Michael, corno per Eve, trombone per Lucifer). Le trascende è dire nulla (e sulla sua tomba campeggia l’effige della “formel”, ndr). Ne
la “super-formel”, la “superformula”, una per ciascuna delle sette opere, consigliamo l’ascolto? Certo, anche se è quanto di più ostico e alieno pos-
anche identificate da un glifo alchemico e da una tonalità cromatica. Il siate pensare di immaginare. E nonostante un paio di confini ancora non
parallelo con Wagner è qui ancora relativamente possibile. Nella Tetra- superati: la fruizione da disco non è che una blanda versione di quanto
logie sussisteva il fulgore del leitmotiv (peraltro progenitore dei “theme” si possa esperire nel suo allestimento, monca com’è di tutte queste in-
delle odierne colonne sonore), pensiamo all’arcinoto tema della Walkiria, tuizioni supremamente multimediali, multi-sensoriali. E poi il confine col
che alla chiusa convergeva in un “super-tema”: e qui dietro l’angolo c’è pubblico. Da buon asceta avanguardista, Stockhausen non consente di
di certo il superomismo dell’amico-nemico, allievo-maestro Nietzsche. oltrepassare la demarcazione con gli esecutori, non ammette integrazioni
Stockhausen invece risente dell’influsso del mistico indiano Sri Aurobindo e derive dadaiste, timoroso di arrischiare potenziale puerilità. Lo stesso
e della sua “supra-mente”. diremmo certamente per Wagner e il suo rigore. Ma ora, forse, ci è più
chiaro a quali soggetti vada affibbiato quell’aggettivo. “Totale”.
Ma il genio di Colonia supera poi tutti i confini ritracciati dalla Tetralo-
gie. Anzitutto nella durata complessiva: le ore d’ascolto sono quasi trenta.
Il libretto, esoterico quanto quello wagneriano ma ben più ambizioso e
universale, si fonda su più direttrici, dalla Genesi al libro di Urantia, alla
Mistica medievale, fino al nonsense e ai vaneggi onirici tout court dello
stesso compositore. Il linguaggio: si comincia con l’ovvio tedesco, si passa
per svariate lingue e idiomi dal mondo, si termina con lessicologie inven-
tate di sana pianta. Nella messa in scena c’è letteralmente di tutto. Il teatro
occidentale, il nō e il kabuki, la performance e la mimica, ovviamente la
danza in svariate forme, e una scenografia più che imponente. Se con
Wagner gli interpreti dovevano dimostrare possanza, la Licht richiede doti
ginniche quasi sovrumane, di ballo, canto, il tutto mentre ci si muove in
congegni rotanti.
La sola descrizione dell’organico utilizzato da Stockhausen meritereb- Michele Saran trevigiano, classe ’79, scrive per ondarock.it e altre testate online, è anche
be un saggio a parte. Un’intera vita di ricerche trova posto in questo ci- giurato per Arezzowave Veneto, è stato speaker per Radio Base Popolare Network, ora
dispone di un piccolo blog personale. Battezzato dalla musica classica e dal jazz, fu unto
dal sacro ascolto compulsivo fin dalla più tenera età.
18 19
La poesia, vera patria di Edith Bruck Sarò una stella gialla
per ricordarvi che c’era una volta
A
Auschwitz
Edith Bruck
di Paolo Steffan
20 21
Letteratura
l’obiettivo di indirizzare il nostro cuore alla bellezza, ritrovata – dopo se non da piccola
il martirio – nella devozione alla scrittura e nel lungo sodalizio senti- se non a scuola
mentale e artistico col poeta Nelo Risi, morto nel 2015. “Per me era dove il tema favorito
madre, padre, patria, fratello”, ha dichiarato Edith Bruck in un recen- era la mamma
te intervento in riferimento al marito3. Conferma che per lei – privata la casa
violentemente delle radici ungheresi e trapiantata in un’Italia che l’ha la famiglia
sempre identificata come l’ebrea sopravvissuta – non può esserci patria parole strane
al di fuori dei confini dell’amore: neppure in quella Terra promessa, che parole.6
sua madre idealizzava e che Auschwitz non le permise mai di vedere,
“Mamma, zolla aria luce” invoca un verso di Clemente Rebora7, che
ma dove Edith emigrò dopo il ritorno dal lager. Ben diversa da quella
può riassumere lo spirito con cui Edith Bruck si rivolge a questa sua
sognata nella diaspora era la terra d’Israele, che i versi del Tatuaggio
unica patria possibile, di amore coniugale e materna memoria. Torna
(1975) ripudiano assieme a ogni nazionalismo, che – foss’anche voluto
allora, eco roboante, il verso tagliente di Attila József, che in uno dei te-
da Dio – non potrà in terra che generare odio: “Infine l’eterno lamen-
sti più celebri dice, con voce di verità: “Non ho padre né madre / né Dio
to il martirio / s’è trasformato in gridi di guerra. / Nacque la patria! /
né patria / né culla né sepolcro / né amante né baci. // […] Mi catturino
Qualsiasi patria è sanguisuga / padre e bambino affamato d’amore / di
e m’impicchino / con terra benedetta mi coprano / erba mortale cresca
protezione di difesa armata / chiede una coscienza di nazione / a noi
/ sul mio bellissimo cuore”8. Accordati al ritmo di queste pulsazioni,
nuova: inermi sognatori / stranieri tolleranti possessori / di una terra
ci rendiamo conto, leggendo tra i versi di Edith Bruck, che è la poesia
conquistata con l’uguaglianza, / l’uguaglianza del male”4.
la sola vera patria cui la nostra scrittrice possa sentirsi d’appartenere,
A questo passo ruggente, rispondono i versi di In difesa del padre affratellata senza tempo ai grandi poeti di sempre, uniti in quell’afflato
(1980): “Vivere qui o altrove / è lo stesso / quello che conta / quello che la stringeva al suo Nelo, come da un amore grande che travalica
che tiene in vita / non è legato a un luogo / un paese vale l’altro”5. I soli ogni confine e che può dire di una sola appartenenza vera: “C’è chi col-
ancestrali confini sono dunque quelli uterini, di un’identità femminile leziona farfalle / e chi colleziona medaglie / chi denaro chi francobolli
di cui la madre perduta ad Auschwitz è per Edith sapore incancellabile, / c’è chi costruisce armi / chi le usa / chi lavora se c’è lavoro / c’è chi si
senso profondo cui votarsi continuamente, in una preghiera struggente perde dietro un amore / vincendo una vita”9.
o in un fragile interrogativo. È così che, con un dire accidentato per-
ché estraneo alla lingua e in confidenza col cuore, può riemergere un
ricordo puerile e toccante, ma anche una testimonianza bruciante e
tremenda:
1
Attila József, Poesie 1922-1937, a cura di E. Bruck, Mondadori, 2002, pag. 55
2
Edith Bruck, Versi vissuti. Poesie (1975-1990), a cura di Michela Meschini, con una prefazione di
Il tuo grembiule Paolo Steffan e una postfazione di Edith Bruck, eum, 2018, pag. 43
3
Soul – Edith Bruck ospite di Monica Mondo, Tv2000, 27 gennaio 2018, corsivo mio. L’intervista è
sapeva di mestruo ora consultabile in rete: https://www.youtube.com/watch?v=qTFyNk9DBOQ
di farina 4
Edith Bruck, Op. cit., p. 63. Tornano con forza, in questo senso, le parole di pace rilasciate nell’in-
tervista appena citata, secondo cui “per raggiungere la pace a tutti i costi” Gerusalemme do-
di pane caldo vrebbe essere divisa non tra islamici ed ebrei, ma in tre, come capitale del monoteismo e luogo
di grano fresco d’incontro tra le principali religioni, compresa la cristiana: “riconoscersi, avvicinarsi e vivere in
di gioia totale, totale pace se possibile”. Anche se è costretta a concludere di non avere molta speranza
in una tale possibilità.
di paura 5
Ibid., pag. 156
di morte 6
Ibid., pag. 120
di tutto
7
Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di G. Mussini e M. Giancotti, Interlinea, 2008, pag. 80
8
Attila József, Op. cit., pag. 49
di niente 9
Edith Bruck, Op. cit., pag. 124
mamma,
che parola strana
da adulta non l’ho mai scritta
non l’ho mai pronunciata Paolo Steffan è nato nel 1988. Dopo studi classici si è laureato in Lettere. È poeta e autore di
saggi monografici su Andrea Zanzotto (Aracne, 2012), Luciano Cecchinel (Arcipelago itaca,
2016) e Sebastiano Barozzi (San Fior, 2016). Ha di recente introdotto per EUM l’opera poetica
di Edith Bruck.
22 23
Libertà e limiti del potere dello Stato in J. Rawls e R. Nozick
24 25
Filosofia
loro propugnatore più sistematico. Se dunque la posizione rawlsiana rappresenta la difesa teoretica del
Quando nel ‘74 Nozick dà alle stampe Anarchia, stato e utopia (Anar- modello di Stato sociale keynesiano nato tra le due guerre e cresciuto
chy, State and Utopia) ha trentasei anni e insegna anche lui ad Harvard. dopo il ‘45, le argomentazioni di Nozick, assieme a quelle di economisti-
Se lo scopo primario dell’opera è confutare le tesi di Rawls, essa tenta filosofi come Friedrich Von Hayek e Ludwig Von Mises, forniranno ar-
anche di fornire una versione “mediana” del “libertarismo”, lontana dal- gomenti utili all’arsenale del cosiddetto “neoliberismo”, che predica la
le posizioni radicalmente antistataliste e anarco-capitaliste di pensatori riduzione radicale dei servizi di welfare pubblico e il loro affidamento ad
come Murray Rothbard e David Friedman. aziende private e più in generale esalta la prevalenza dell’”economico”
A tale scopo, Nozick recupera uno dei classici del pensiero politico sul “politico”, il mercato come solo spazio di allocazione razionale delle
moderno, il John Locke dei Due trattati sul Governo (Two Treatises on Go- risorse e la matrice organizzativa aziendale come unico modello efficace
vernment, 1689), adottandone radicalmente l’impianto giusnaturalistico, di organizzazione delle relazioni sociali.
centrato cioè sull’idea che gli individui in quanto tali hanno per natura Anche se col passare degli anni i due autori rivedranno e modifiche-
dei diritti assoluti da esercitare compatibilmente con la loro originaria ranno alcune delle posizioni espresse nel ‘71 e nel ‘74, le loro tesi fonda-
condizione di perfetta libertà. mentali hanno fecondato diffusamente il dibattito pubblico negli Usa e
“Tale è la forza e la portata di questi diritti”, scrive Nozick, “da sol- in Europa degli ultimi trent’anni, e debitamente distillate e semplificate
levare il problema di che cosa possano fare lo stato e i suoi funzionari, sono state incorporate nei bagagli ideologici e programmatici di forze
se qualcosa possono fare. Quale spazio lasciano allo stato i diritti degli politiche e partiti impegnati a competere ancora oggi per il governo nel-
individui?”3 le principali democrazie occidentali.
La risposta di Nozick mira a ricavare per lo Stato uno spazio minimo.
Esso è concepito come una pura e semplice agenzia incaricata di pro-
teggere i consociati da furti, frodi e aggressioni, risolvere le controversie
e mantenere l’ordine pubblico. Per fornire tali servizi, detta agenzia può 1
John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1997, pag. 255
2
Ibid. pag. 32
pretendere il pagamento di un canone, corrispondente all’unico tipo di 3
Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia, Il Saggiatore, 2008, pag. 17
tassazione che può essere legittimamente richiesta ed eventualmente ot- 4
Ibid. pag. 133-135 § La spiegazione a mano invisibile dello stato
tenuta coattivamente, a quelli che sono concettualmente più dei “clienti”
che dei “cittadini” dotati di un set di diritti e doveri collettivi.
Anziché costituirsi attraverso un patto sociale, come nelle versioni
classiche del contrattualismo (Hobbes, Rousseau, Kant e lo stesso Locke,
che viene dunque in parte “tradito”) questo “Stato minimo” emergerebbe
spontaneamente, dalla competizione di più agenzie, che vedrebbe affer-
marsi quella più efficiente ed economica su un dato territorio4.
Una volta costituitosi secondo questo schema e queste funzioni, ad
esso resterebbe ben poco altro da fare. Ogni sua pretesa di imporre ul-
teriori tasse, ad esempio per finanziare ambiti come la scuola, la sanità o
le infrastrutture, esorbiterebbe i limiti legittimi delle sue prerogative, poi-
ché violerebbe il diritto naturale di ognuno a disporre liberamente di se
stesso, del proprio corpo e di ciò che riesce ad acquisire legalmente con
il proprio lavoro. È il cosiddetto diritto di “autoappartenenza”, sviluppato
concettualmente dalla figura del “diritto (naturale) di proprietà” esposto
da Locke nel Secondo trattato sul Governo, che costituisce il parametro
ultimo per valutare la giustizia, la legittimità di un ordinamento politico e
quindi la sussistenza o meno dell’obbligo di prestargli obbedienza.
Francesco Zanolla nato a Venezia, vive in provincia di Treviso. Laureato in scienze politiche
a Padova, consegue presso lo stesso ateneo un master in “Integrazione europea e sistemi
locali” Oltre che di teoria e storia del pensiero politico, si interessa di letteratura, teatro,
cinema e scrittura creativa.
26 27
I confini del fotogramma Cinema
D ove vanno gli operai? Si ripropone, a fasi alterne, il problema del formato, della larghezza
del fotogramma. Non, beninteso, declinato nei termini puntuali di un
articolato discorso culturale, ma gonfiato nel grido di slogan promozio-
nali – quando un’accorta distribuzione rimarca l’eccezionalità di un film
di Matteo Pernini realizzato in pellicola 70mm – oppure ridotto alla grossolana forma di un
bisticcio condominiale – quando, sul proprio profilo Twitter, Xavier Do-
lan pubblica una risentita lettera ai dirigenti di Netflix, colpevoli di aver
alterato il previsto rapporto tra lunghezza e larghezza dell’immagine nel
suo film Mommy (2014). Se è, certo, comprensibile il disagio di chi assista
all’indebita adulterazione del proprio lavoro sino a doverne rigettare la
paternità, quel che spiace, nella diramazione capillare della polemica in
rete, è soprattutto l’esaurirsi nel chiacchiericcio di una questione decisiva.
Proprio oggi che il cinema si disperde nella levità del digitale, in quel
rincorrersi di astrazioni matematiche che richiamano i cascami di byte
fluorescenti in Matrix (The Matrix, 1999); oggi che, compresso all’inve-
rosimile, può rinunciare alla voluminosità delle bobine per adagiarsi
nell’esiguo spazio di una chiavetta USB; oggi, insomma, che il cinema è
divenuto materia leggerissima e quasi evanescente, la questione del for-
mato, della buccia dell’immagine si impone con evidenza. Senza contare
che, sebbene sia spesso destituito al rango di mero cruccio di una cine-
filia maniacale, esso è, forse, il caso di maggiore stabilità nella storia del
cinema: a fronte del divario che corre tra le capriole di Buster Keaton nel
modesto spazio di uno schermo in 4:3, l’estensione del VistaVision con
cui Alfred Hitchcock cattura le peripezie ladresche di Cary Grant in Caccia
al ladro (To Catch a Thief, 1955), il glorioso CinemaScope de Il disprezzo
(Le mépris, 1963) di Jean-Luc Godard – un formato, ci informa Fritz Lang,
adatto solo per i serpenti e i funerali – e i 70mm in cui Quentin Tarantino
ha chiuso il Grand-guignol del suo The Hateful Eight (2016), il permanere
della forma-rettangolo è indiscusso.
Con tutto il loro furore iconoclasta, neppure le avanguardie obiet-
tarono all’impero dell’inquadratura rettangolare, sebbene qualche indi-
retta forma di resistenza si segnali nei trucchi ottici, che, agli albori del
Novecento, animarono il costruirsi di una grammatica cinematografica
– tra essi la chiusura a iride di David W. Griffith, che permetteva di ferma-
re nei contorni di un cerchio l’elemento di interesse dell’inquadratura e
l’ardito split-screen diagonale che spacca in tre visioni contemporanee lo
schermo nel thriller Suspense (1913) di Lois Weber.
Chiusa entro il perimetro di una bordatura quadrangolare, l’immagi-
ne cinematografica mima, con Georges Méliès, l’organizzazione scenica
di uno spazio teatrale, inseguendo i contorni del sipario e delle quinte
per isolare l’area di ripresa; rinuncia, invece, coi fratelli Lumière, a una
28 29
Cinema
cornice stabile per indagare la profondità di uno sguardo che corre a per- del colletto dei militari, così da farne, in un gesto ideologico di rara for-
dita d’occhio lungo i binari della stazione di La Ciotat. Per gli inventori del za, una parata di ghigliottinati. Lo sciagurato restauro ce li mostra, ora,
cinematografo il bordo non è un’intelaiatura in cui ci si debba industriare sino a metà busto, vanificando l’intento politico di Pudovkin e lasciandoci
a inscrivere un mondo, ma uno spazio aperto, una geometria liberissima, inebetiti a domandarci il perché di una ripresa che pone in primo piano
che prolunga il set ben oltre le pareti dello studio, designando, mentre le calzature degli ufficiali.
sceglie il campo dell’inquadratura, un fuoricampo con cui l’immagine
Ecco, dunque, come pochi millimetri ai margini, un breve colpo di
entra in stretto dialogo – se è vero che, ancora oggi, Enrico Ghezzi può
forbici sul bordo dell’inquadratura, siano sufficienti per alterare il senso e
interrogarsi con divertita ammirazione su quali strade abbiano preso gli
destituire di potenza espressiva una pellicola; ecco, dunque, la centralità
operai una volta usciti dalle fabbriche Lumière1, mentre la sorte del dia-
del bordo, di quello spazio sottile in cui il cinema confina col mondo.
volaccio che svapora a un gesto di San Michele Arcangelo ne Il diavolo in
Non dovrebbe sorprendere, ora, il cruccio per gli astrusi dibattiti sul di-
convento (Le Diable Au Couvent, 1899) ci soddisfa senza indugi. La ragio-
ritto del regista di non vedere alterati i propri film – già investiti, peraltro,
ne è presto detta: per Méliès il cinema è una scatola magica che si fa pro-
dall’oltraggio del transito televisivo, che, mutandone la velocità da 24 a
lungamento del palcoscenico; nel fuoricampo egli scopre il più grande
25 fotogrammi per secondo, di fatto li comprime, e ogni ora sono due
gesto illusionistico della storia del teatro, quasi un doppiofondo da cui
minuti e mezzo che svaniscono – come se la questione dei margini del
far scaturire ogni sorta di oggetti/persone, un dietro-le-quinte che non
fotogramma fosse uno stendardo da scuotere al vento per patrocinare la
è più necessario occultare, essendo già oltre l’occhio dello spettatore,
libertà dell’artista, anziché un mistero da interrogare durante la visione.
nell’intervallo in cui una ripresa viene fermata, gli attori entrano o escono
– da sotto un lenzuolo, da un baule, dal set – e la scena riprende. Infine, la quarta parete. Nell’era digitale l’avvento della tecnologia 3D
minaccia l’ultimo confine tra il cinema e il mondo, quel grande schermo
Al quesito di Ghezzi sulla destinazione degli operai in uscita dagli
che, da sempre, preserva la qualità capitale del cinema, ossia la sua natu-
stabilimenti, vorremmo aggiungerne un altro, che spesso ci coglie nel
ra di finzione. Qual è, in fondo, il valore di una immagine tridimensionale,
rivedere pellicole degli albori del cinema: sono davvero, quelle immagini,
se non quello di riportarci alle impressioni del quotidiano? Vale, allora,
le stesse che videro i primi spettatori paganti? È proprio quello, il treno?
la pena di recuperare la lezione di Enrico Ghezzi, che in una illuminata
Sono proprio quelli, i volti? O, piuttosto, nelle copie randagie diffuse in
conferenza dal titolo “Dov’è finito il cinema?”2 ci invita a trovare il 3D non
rete o in televisione – o che la dedizione di qualche accademia restaura
nella tecnologia, ma nella capacità di un film di restituirci uno sguardo in-
e poi distribuisce in digitale – manca qualche volto, qualche sguardo, un
timo e perturbante, come fanno il protagonista di Arancia meccanica (A
gesto in meno proprio lì, ai margini del fotogramma?
Clockwork Orange, 1971) o Jack Torrence in Shining (The Shining, 1980).
Un timore che si potrebbe dire infondato, se non vi fossero innu- Non è, la tridimensionalità del cinema, una protrusione di forme, un in-
merevoli casi a istigarlo. Si prenda La fine di San Pietroburgo (The End ganno dei sensi, ma l’incanto subitaneo dello spettatore che si scopre,
of St. Petersburg, 1927) del regista russo Vsevolod I. Pudovkin: di esso la d’un tratto, a essere guardato dal film. I confini sono ancora saldi.
Mosfilm realizzò, nel 1969, un ardito restauro, aggiungendo allo scorrere
muto delle inquadrature una colonna sonora. Accostando le immagini
tratte dal DVD in commercio con i fotogrammi di una copia in 35mm,
si rimane sgomenti nel constatare che il restauro – sottraendo spazio al
1
Enrico Ghezzi, “Ma dove vanno a finire gli operai?”, in paura e desiderio, Bompiani, Milano, 1995
2
http://www.sentieriselvaggi.it/dovi-finito-il-cinema-in-un-ignoto-spazio-profondo/
fotogramma per l’aggiunta della banda sonora, che corre sul bordo della
pellicola – ha imposto una sfasatura del quadro, che risulta ri-fotografato
per guadagnare spazio. Se la logica del film non subisce eccessivi danni
quando l’azione è al centro dell’immagine – pur suscitando una viva per-
plessità nello spettatore, scosso dalle evidenti asimmetrie dei quadri – è,
però, là dove Pudovkin ha lavorato sui margini dell’inquadratura che l’in-
tervento rivela la sua scelleratezza. In una celebre scena che vede schie-
rata innanzi alla cinepresa una squadra di ufficiali dell’esercito, il regista
aveva previsto di tagliare il bordo superiore dell’inquadratura all’altezza Matteo Pernini, nato negli anni Novanta tra le nebbie della val Padana, frequenta la
facoltà di Fisica presso l’Università di Padova. Tra le sue passioni: il tennis e il cinema.
Dal 2012 collabora con la webzine di critica cinematografica Ondacinema.
30 31
Letteratura femminile nell’Australia di fine Ottocento
B arbara Baynton e il terrore della frontiera Here in Australia it is considered more a crime to steal a
horse than ruin a girl
Louisa Lawson1
di Christina Lee
Il canone della letteratura coloniale australiana
ha spesso esaltato i coraggiosi pionieri (bushman)
di autori come Henry Lawson e Banjo Patterson,
uomini solitari alla conquista dell’outback, la nuo-
va frontiera. Il mito australiano dei coloni poveri e
laboriosi che popolavano un paradiso utopico di-
venne elemento cardine nella nascente letteratura
dell’epoca, ma questa epopea idealizzava un’esi-
stenza che in realtà era spesso devastante e peri-
colosa, specialmente per le donne. Il cupo realismo
di Barbara Baynton (1857 – 1929) rovescia questa
illusione, esplorando il confinamento delle donne
e l’intrecciarsi delle loro paure legate all’indipen-
denza sessuale e al modo in cui venivano sfruttate.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento erano questi i
problemi che interessavano il nascente movimento
femminista, tanto in Australia come nel resto del
mondo. Il femminismo di epoca coloniale e il mo-
vimento per il suffragio universale finirono per de-
nudare il maschilismo oppressivo della società au-
straliana e il conflitto tra sessi che aveva generato.
Susan Martin2 imputa agli autori di narrativa loca-
le “l’invenzione della donna australiana di ceto me-
dio, priva di passioni, riservata e molto operosa”3;
come conseguenza di queste inclinazioni apparen-
temente “naturali”, alle donne fu affidato il compi-
to di riformare la nazione in quanto “portatrici di
cultura, moralità e ordine”4. Questi ruoli di mogli e
madri modello furono creati allo scopo di confinare
le donne all’interno della sfera domestica. La storica
Marilyn Lake attribuisce al femminismo coloniale il
tentativo di liberare la cultura locale dalle mani dei
promotori di un “maschilismo ben organizzato”5 e
di un nazionalismo spesso eccentrico che emerge
dalle pagine di The Bulletin, forse la più influente
“The spirit of the drought”, Arthur Streeton , 1895
(National Gallery of Australia - Canberra) pubblicazione australiana degli anni ‘80 dell’Ot-
tocento – che promosse tra l’altro una campagna
decisa contro il diritto di voto alle donne anche nei
decenni successivi.
33
Letteratura
I racconti di Barbara Baynton ambientati nell’ostile outback austra- 1892. Le donne di queste storie possiedono tutte le caratteristiche e
liano dell’epoca riflettono le paure delle donne per la loro incolumità le capacità necessarie per sopravvivere nell’outback, ma, diversamente
fisica in quelle comunità isolate. Per molte femministe dell’età coloniale, dalla protagonista di The Drover’s Wife che combatte contro gli incen-
il leggendario bushman australiano si trasformò nella figura del “pre- di, contro i vagabondi e protegge la sua famiglia, le donne di Barbara
datore di frontiera”6, incarnato dal vagabondo (swagman) che insidia e Baynton sono consumate e gettate via dagli uomini, nonostante la loro
stupra una madre senza nome in The Chosen Vessel (1896). La visione forza.
di Barbara Baynton della sessualità maschile è prodotto del femmini-
smo coloniale, per cui il comportamento promiscuo degli uomini, il Nel 1905, lo scrittore e critico Vance Palmer ridimensionerà il lavoro
loro “rifiuto di responsabilità come padri” e lo stupro erano percepiti delle autrici australiane di fine Ottocento definendolo completamen-
come “armi” usate contro le donne per fare “l’interesse della società te privo di validità letteraria14. Non fu così, evidentemente, dato che,
maschile”7. come per il movimento per il suffragio universale, le autrici dell’epoca
dimostrarono una crescente consapevolezza del posto che spettava
Il preconcetto diffuso che le donne (bianche) fossero particolarmen- loro fuori dalla sfera domestica. È curioso che, in un paese dove le don-
te a rischio in quanto prede per gli uomini aiutò a definire la “specifica ne ottennero il diritto di voto due decadi prima dell’Inghilterra e degli
natura protettiva del femminismo di frontiera australiano”8. Molti uo- Stati Uniti15, autrici come Barbara Baynton siano state dimenticate dalla
mini interpretarono l’attivismo per i diritti delle donne come un “assal- letteratura nazionale tradizionale. Il lavoro della Baynton, trattando la
to contro i privilegi maschili e le loro abitudini consolidate”9. Inoltre, psicologia e l’intimo della sofferenza femminile in una terra ostile, fu
una serie di casi di violenza sessuale che fecero scalpore tra il 1880 e accusato di concentrarsi “ossessivamente” sulla brutalità degli uomini
il 1890 alimentarono l’idea di stupro “legittimo”, definito comunemen- nei confronti delle donne; in realtà offre un’accurata immagine della
te e vagamente “stupro di donna bianca nell’outback perpetrato da condizione femminile – se non da un punto di vista storico, sicuramen-
sconosciuto”10. te delle più intime paure che le riguardavano.
Alla luce di tutto questo non sorprende che The Chosen Vessel sia
stato pesantemente modificato per essere incluso in The Bulletin, e
pubblicato con il titolo di The Tramp nel 189611. Il racconto fu imme- 1
Cit. in M. Lake, Frontier feminism and the marauding white man, Journal of Australian Studies,
diatamente comprensibile per i contemporanei, connotato da quel 1996, pag. 12
tipo di violenza che molti lettori e autori di The Bulletin consideravano 2
S. K. Martin, Ladies and grocers’ wives: the crisis of middle-class female subjectivity in 1890s
Australian women’s fictions, Westerly, 1999, pag. 61-73
infrequente e “giustificabile”. A un altro livello, raccontando il violen- 3
Ibid. pag. 68
to maschilismo australiano come fallimento della civilizzazione, è una 4
M. Lake, Op. cit., pag. 14
reinterpretazione sovversiva della “fantasia di libertà”12 che l’outback e L. Murrie, Australian Legend and Australian Men in R. Nile, The Australian Legend and its Discon-
5
34 35
“Il mio amico Hitler” di Yukio Mishima
A i confini dell’animo umano Berlino, residenza ufficiale del Cancelliere. Sulla scena si dispiega il
dramma di Yukio Mishima1, Il mio amico Hitler (1968), che vede coin-
volti il futuro Führer, il capo delle SA Ernst Röhm, il rappresentante
di Cinzia Agrizzi dell’ala socialista della NSDAP Gregor Strasser e l’imprenditore dell’ac-
ciaio Gustav Krupp, voce indiscussa dell’industria pesante tedesca.
Tre atti ispirati al caso Röhm (e alla “notte dei lunghi coltelli” del 30
giugno 1934), nei quali la tragedia politica – che rivela la crisi interna
al partito e vede Hitler abbattere l’estrema destra e l’estrema sinistra
per seguire una fittizia “via di centro”2 e affermare il suo potere asso-
luto – sconfina in quella interiore, prettamente umana, sul modello del
Britannicus di Racine (1669)3: la parola esalta la virilità attraverso un
linguaggio elegante, poetico e metaforico, espressione di una crudeltà
“raffinata” che precorre la brutalità degli eventi venturi. Afferma Mishi-
ma: “Il problema ‘Hitler’ si ricollega da un lato all’essenza stessa della
civiltà del XX secolo, e dall’altro agli oscuri abissi della natura umana”4.
Il suo Hitler è, infatti, un uomo “dalla lugubre, tetra intelligenza”5, un
personaggio cupo come il tempo a cui appartiene, “un genio politico
ma non eroe”6, emblema del volto bifronte del potere e dell’amicizia,
che egli manovra e riassetta a suo beneficio. Alternando verità storica
e pura invenzione (pensiamo all’episodio del topo Adorst), Mishima
esplora i confini dell’animo di Adolf: un mostro dalle sembianze uma-
ne, la cui freddezza lucida e il cui misticismo nazista messo a punto
per educare “giovani tedeschi virili e belli come Wotan”7, si mescolano
al malessere per l’insonnia, ai nervi tesi, al passeggiare meditabondo
nel salone della sua residenza. D’altronde, come afferma Moni Ovadia
a commento di un altro dramma che ha per protagonista il cancelliere
tedesco, Mein Kampf di George Tabori (1987), “(…) chi dovrebbe essere
stato Adolf Hitler se non un uomo? Sì! Il mostro nazista fu solo un
uomo, le sue patologie furono tipicamente umane, l’abbruttimento di
un’intera nazione fu umano (…)” 8, a conferma della “banalità del male”
che sembra pervadere l’esistenza e la storia. All’aumentare della ten-
sione drammatica, nel testo di Mishima, la dicotomia tra Apparire ed
Essere diviene sempre più consistente e a poco a poco risulta chiaro
come il piano di realtà nel quale si muove il personaggio del Führer sia
opposto a quello nel quale fluttua Röhm. “Abbraccio il mio rivale, ma
per soffocarlo”9, afferma il Nerone di Racine. E così opera Hitler, quasi
una maschera del teatro Nō, un dottor Caligari irrazionale, mostruoso
eppure ipnotico: egli, al fine di facilitare la sua elezione a presidente,
rievoca il vecchio legame fraterno che lo univa a Röhm per chiederne
supporto e fedeltà, celando l’inganno e l’inevitabile tradimento, quan-
do ordinerà la sua uccisione insieme a tutti i quadri delle Truppe d’As-
36 37
Teatro
salto nella “notte dei lunghi coltelli”, con l’accusa di aver tentato un se stesso, stabilisce che “la guerra che verrà non è la prima” (B. Brecht)
colpo di Stato. e mette in evidenza “la continuità inconscia che lo lega all’oggetto indi-
struttibile del suo odio”16, la sua incapacità di accettare l’alterità, il diver-
HITLER E allora vorrei che ti ricordassi di quello che mi
so da sé, nelle vesti di colui che ostacola la sua immagine del mondo.
dicevi un tempo.
Non a caso Mishima gli associa l’immagine della tempesta che abbatte
RÖHM Ma ora la situazione è mutata.
gli alberi marci per resuscitare, come fa Dio. Un delirio cui fa eco un
HITLER No, le leggi della politica sono immutabili.10
processo di separazione dal mondo che lo conduce ad arrogarsi il dirit-
Al contrario, l’ottuso e inconsapevole capo delle SA, pur messo in to di governare per volere divino, sulla scia di Riccardo II. D’altra parte,
guardia da Strasser, non vede oltre lo specchio dell’apparenza: acceca- afferma Adolf: “(…) Questo è il mio destino”17.
to da un fasullo sentimento d’amicizia e d’onore, egli legge gli eventi
con la lente dell’ingenuità, riesumando un affetto defunto, qualora fos-
se mai esistito, e riferendosi a colui che ben presto si sarebbe autopro- 1
Conservatore e nazionalista, nostalgico di un passato idealizzato, Mishima fu un personaggio
clamato Führer – alla morte del presidente Hindenburg – come a un controverso ed enigmatico, senza dubbio “di confine”: ultimo dei samurai, l’autore giapponese
vero amico che mai tradirebbe e dal quale mai sarebbe tradito. nato a Tokyo nel 1925 si tolse la vita a 45 anni, nel 1970, con il seppuku (suicidio rituale), uscendo
di scena nel modo più teatrale possibile
RÖHM Non accadrà nulla, Strasser. Il mondo non cam- 2
Y. Mishima, Il mio amico Hitler, Guanda, 2009, pag. 96
bierà. Io e Adolf saremo sempre amici fraterni, tu un vile
3
Y. Mishima, Note a Il mio amico Hitler, Appendice, in Op. cit., pag. 102
4
Y. Mishima, Considerazioni dell’autore su Il mio amico Hitler, Appendice, in Op. cit., pag. 99
impostore, Krupp un mercante di morte…11 5
Y. Mishima, Op. cit., pag. 80
6
Y. Mishima, Note a Il mio amico Hitler, in Op. cit., pag. 103
Vittima “dell’amico Hitler” è anche Schlomo Herzl, il libraio ebreo 7
Y. Mishima, Op. cit., pag. 15
della pièce di Tabori: egli, dopo aver accolto il giovane aspirante pit- 8
M. Ovadia, L’umanità del mostro, in G. Tabori, Mein Kampf, Einaudi, Torino, 2005
9
J. Racine, Britannicus, Atto IV, scena III
tore tedesco giunto a Vienna per sostenere l’esame di ammissione 10
Y. Mishima, Op. cit., pag. 27
all’Accademia di Belle Arti, e dopo averlo sorretto nella sua aspirazione 11
Y. Mishima, Op. cit., pag. 67
politica, dovrà assistere alla sadica uccisione della gallina Mitzi, cotta
12
G. Tabori, Op. cit., pag. 58
13
Cfr. H. Broch, Il Kitsch, Einaudi, 1990, pp. 161-162
“in una deliziosa salsa di sangue”, per non aver consegnato ad Adolf 14
Ibid., pag. 200
e Himmler l’atteso romanzo che avrebbe dovuto scrivere, Mein Kampf. 15
Y. Mishima, Op. cit., pag. 94
16
M. Recalcati, Il gesto di Caino, in I tabù del mondo, Einaudi, 2017 pag. 21
HERZL Se cominci col bruciare gli uccelli, finirai con il 17
Y. Mishima, Op. cit., pag. 90
bruciare gli uomini.12
Analogamente, l’odore intenso del sangue pervade la residenza del
personaggio Hitler creato da Mishima, quando, dopo aver ordinato
l’eliminazione fisica dei suoi avversari politici, sul balcone con Gustav
Krupp ascolta i colpi di fucile in lontananza: al pari di Nerone, che in-
scena uno spettacolo nei suoi giardini imperiali con i corpi dei cristiani
trucidati e arsi vivi13, “Hitler ha vissuto il kitsch del sangue”14, dietro al
quale si nascondono la decadenza dei valori e il male come esibizione
priva di ogni etica ma estetizzata.
KRUPP È così, Adolf. Ascolti questi suoni, si abbandoni
a essi, ecciti quanto più le è possibile le sue sanguino-
se fantasie: così resusciterà e poi guarirà. Non ha altro
mezzo per ritrovare se stesso. È l’unico farmaco che può
sconfiggere la sua insonnia.15
Cinzia Agrizzi nata a Vittorio Veneto nel 1981, si è laureata in Scienze della Co-
Il gesto di Hitler, nuovo Caino che colpendo Abele colpisce anche municazione e in Lettere a Trieste. Per diverso tempo si è occupata di comuni-
cazione e nuovi media, senza tralasciare le sue passioni: il teatro, il cinema e la
letteratura per l’infanzia. Attualmente insegna Scienze Umane e Semiotica.
38 39
Alle origini della “questione curda” Storia
40 41
Le opposizioni nel cinema di Terrence Malick
Una precisazione dev’essere fatta: parlare dei curdi soltanto come vit-
La sottile linea rossa non rappresenta uno scarto così netto all’in-
time della geopolitica internazionale sarebbe sbagliato. La divisione terri-
terno del cinema di Malick: tutti i film del regista americano si fondano
toriale, infatti, è sempre andata di pari passo con una profonda disunione
su opposizioni più o meno insolvibili tra protagonisti, Weltanschauung,
nelle proprie rivendicazioni nazionali. In questo contributo si è cercato di
culture, classi sociali, ecc. Ricordando Badlands (La rabbia giovane), non
ricostruire le cause della frammentazione territoriale del popolo curdo.
è difficile leggere l’esordio del 1973 come una contrapposizione tra stili
Quella della lotta politica e militare per l’indipendenza post Pace di Losan-
di vita e modelli culturali, connotati anche da scelte di messa in scena
na è, dunque, un’altra storia.
piuttosto nette – la regia classicheggiante del contesto cittadino e bor-
ghese contrastata dalle ellissi e dai movimenti della macchina da presa
nella parte centrale del film. Nell’opera seconda del cineasta texano, I
giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), il dualismo (apparente) che mo-
1
Lettera di Ubeydullah a un missionario cristiano per chiedere l’appoggio delle comunità ne- tiva il film si connota ancor più di elementi socio-politici e al contempo
storiane della regione, citata in Wadie Jwaideh, The Kurdish national movement: its origins and ne trascende la concretezza grazie all’ammirabile fotografia di Néstor
development, Syracuse University Press, 2006, pag. 75
2
James Barr, A line in the sand, Simon & Schuster, 2011, pag. 17
Almendros (giorno/notte, cielo/terra, inverno/estate, etc.) e all’emergere
3
Micheal M. Gunter, Historical Dictionary of the Kurds, The Scarecrow Press, 2011 pag. 7 dell’elemento casuale (lo sciame di locuste).
Il diario della ragazzina, sorella minore della protagonista del film,
che funge da filo conduttore della narrazione e che quindi ha il compito
di risolvere in un qualche modo le contrapposizioni che animano Days
Alvise Renier, nato a Chioggia, studia Storia presso la Scuola Superiore
dell’Università degli Studi di Udine. Dirige il blog Cogitoetvolo e collabora
con il blog L’Oppure
42 43
Cinema
of Heaven (si pensi al finale), allude in più di un’occasione a forze al di là re. Speculazioni di matrice heideggeriana
della comprensione umana che ne alterano l’esistenza, prima fra tutte il a latere, questo è il medesimo significato
Male incarnato, a cui ella attribuisce il tragico svilupparsi della vicenda. che la pellicola del 1998 ricopre all’inter-
Lungi dall’interpretare questi discorsi come corrispondenti al punto di no del cinema di Malick, configurandosi in
vista di Malick (consiglio valido per questo regista come per pochi altri), questo modo come un limite, una non così
essi accennano allo spostamento della contrapposizione, già definito sottile linea di demarcazione tra le opere
come cuore del suo cinema, da un piano “solo” storico e psicologico a degli anni 70 e la più rarefatta e specula-
uno trascendente – ontologico si potrebbe dire. Per citare la poesia gre- tiva produzione del nuovo millennio, evi-
ca, La sottile linea rossa si configura come la sphragis, il sigillo, di questo denziando al contempo la coesione del
cambio di paradigma, nonché dell’oltrepassamento di un confine spe- corpus malickiano come cinema della dua-
culativo che solo pochissimi cineasti prima di Malick avevano valicato, lità e della risoluzione non dialettica, come
concependo la settima arte come strumento riflessivo di primo piano. The Tree of Life ribadirà nel 2011. Immagine
emblematica di questa visione di mondo
Chiaramente esplicative risultano quindi, anche alla luce di quanto
è la conclusione stessa della pellicola, una
affermato nel primo paragrafo, le schermaglie dialettiche fra il soldato
ripresa diagonale in cui la profondità della
Witt, interpretato da Caviezel, e il sergente Welsh, che incarnano la con-
macchina da presa fa coesistere cielo e ter-
trapposizione tra un approccio naïf e uno cinico non solo al conflitto
ra, oceano e arena, vita (il seme) e morte
ma all’esistenza stessa; conflitto costruito tramite lunghi primi piani che
(la devastazione distante), sottolineando
rimbalzano grazie al montaggio da un volto all’altro, concedendo solo
come i confini della Realtà siano più che
nella parte conclusiva della pellicola una ripresa d’insieme ai due uomini.
altro limitazioni della prospettiva.
Witt e Welsh vanno incontro a due finali diametralmente opposti (al-
meno apparentemente) e la loro parabola quindi può essere letta come
uno dei molteplici fil rouge di The Thin Red Line e di certo come uno dei
più significativi, soprattutto in virtù del risolversi conclusivo (teorico, non
narrativo) del loro dualismo. Proprio questo convergere finale dei punti
di vista dei due protagonisti ne sancisce l’essenzialità all’interno del film
rispetto a molte altre coppie messe in opposizione, una fra tutte il capi-
tano Staros e il colonnello: se la contrapposizione continua a esistere sul
piano concreto, è su quello concettuale che essa può venir meno, così
come i molti confini interni della Realtà vengono meno con un semplice
cambio di prospettiva che guardi alle cose nella loro simultanea molte-
plicità e unità.
D’altronde l’invito a mutare il proprio punto di vista sta già a inizio
film e la pellicola di Malick lo ricorda continuamente, sia tramite dolly
laterali che cambiano il loro verso, che con la narrazione polifonica e
rapsodica delle vite dei vari soldati della compagnia Charlie. Ulteriore
elemento di alterazione delle prospettive preesistenti è il ricorso a un
montaggio frammentario e spesso disinteressato al rispetto dei raccor-
di, tratto stilistico divenuto proverbiale del regista, e nelle sue ultime
Matteo Zucchi, classe ‘95. Si barcamena tra
produzioni forse abusato, assieme ai carrelli dal ritmo sognante. La sotti- borghi medievali dispersi tra i colli friulani e
le linea rossa sancisce la presenza di innumerevoli confini fra le persone, Bologna, ove al momento frequenta il DAMS.
le cose e le idee per poi dimostrare la componente trascendentale di Collabora con la webzine Ondacinema e con
ogni contrapposizione in unicum ontologico che è la totalità dell’Esse- Digressioni. Delle molte altre cose che fa, o
tenta di fare, preferisce tacere.
“La sottile linea rossa” (The Thin Red Line, 1998)
44 45
Berrò un po’ di vino Letteratura
“
anche internazionale (“Momenti”, “La situazione”, “Politica e cultura”) e i so appuntamento poetico internazionale è
riconoscimenti ricevuti per la sua opera. Eppure Morandini non ha mai stato proprio Sarajlić. Forse impaziente per
voluto lasciare il Friuli per i grandi centri culturali italiani. Egli ha sempre la mancata risposta a una precedente co-
confidato nel Friuli; ma non si pensi a una gretta mentalità localistica o Me ne andrò da Morandini municazione scritta, nel suo italiano sgram-
indipendentista dello scrittore ‒ tutt’altro: il poeta ha voluto vivere nella maticato e affettuoso Sarajlić incalza l’ami-
provincia friulana per dedicarsi completamente a lei, per agire diretta-
in via Tarvisio numero uno, co a partecipare alle “Giornate di poesia” in
mente sul suo territorio. berrò un bicchiere di vino, veste di rappresentate ufficiale della poesia
Le parole poste in apertura, tratte dall’intervista radiofonica, sono canterò con Luciano qualche italiana:
quelle con le quali Morandini rende note le sue frequentazioni oltre canzone comune non abbiamo ancora tuo rispondo
“
confine. Sono intelligenti parole di dialogo, fraternità, nient’affatto scon- per tuo venire a Giorno di poesia.
tate. In una recensione a Neriješena molha (la traduzione serbo-croata […] Dai stranieri sicuro viene piu fa-
del suo libro di poesie Epistola inevasa)2 il modo in cui viene ritratta la moso poeta germano (west) Enzen-
figura di Morandini è netto: sberger. Forse Jeoluśenko. Vengono
Lo Izet che Luciano chiama “fratello” è il noto poeta bo- anche altri. Senza Italia non si po, e
sniaco Izet Sarajlić grazie al quale […] un poeta italiano tu sei questa volta – quella Italia.5
può allacciare un colloquio con una vasta cerchia di lettori Izet Sarajlić
Come poteva Morandini rinunciare a una
al di là di un confine che, ancora una volta, si è dimostra- tale esperienza letteraria collettiva, dove
to di essere non una barriera, ma un ponte che unisce i tramite la poesia si abbattono i confini? Ne
popoli.3 resterà sempre molto colpito e a riferirlo è
46 47
Tipologie e funzioni di un plurisecolare confine architettonico
48 49
Architettura
nano grevi e massicci, in materiali grezzi. Il presbiterio si eleva rispetto pieno da parte di Kahn, così come la-
alle navate, in qualche caso nella monotona teoria di colonne compare menta l’incapacità in passato di coglie-
un pilastro. È la crisi degli univoci ritmi cristiani e bizantini, ora spezzati, re e proseguire gli scatti anticlassici del
e il presagio del romanico. Da Milano a Cluny infatti dalle pesanti pa- linguaggio architettonico, uno fra tutti
reti delle cattedrali affiorano pilastri poligonali, costoloni e contraffor- quello dell’inascoltato Borromini.
ti, saldamente concatenati, che impongono al cammino umano verso
Si chiude qui questa breve storia del
Dio una nuova metrica. In seguito e più nelle zone d’oltralpe, il muro,
muro, tangibile confine di Stato fra un
costellato delle gotiche vetrate istoriate, si fa cartilagine tesa fra sottili
vuoto che spazio architettonico è e un
membrature, in virtù della presenza dell’arco ogivale. Gli apparati scul-
vuoto che spazio architettonico non è.
torei e le volte a ombrello prevalgono sui piani, l’edificio si affusola,
fino a originare due direttrici, una verticale e una orizzontale, e a infon-
dere nell’uomo esaltazione e tormento.
1
Bruno Zevi, Saper vedere l’architettura. Saggio
Più tardi l’Umanesimo giustifica l’abolizione dei partiti decorativi sull’interpretazione spaziale dell’architettura, Edizioni
gotici e del dramma insito in essi: un edificio deve emanare equilibrio di Comunità 2000, pag. 21
e serenità, non celare un mistero. Così a Firenze ritroviamo l’essenziale 2
Ibid., pag. 24
3
Cfr. Bruno Zevi, Il linguaggio moderno dell’archi-
bicromia delle pareti nelle chiese brunelleschiane e il ritmico giustap- tettura. Guida al codice anticlassico, Einaudi, 1973,
porsi di semplici moduli in palazzo Rucellai. E se ancora qui vibrava un in cui l’autore indica sette invarianti dell’architettura
moto, esso si placa nei solidi muri dai massicci decori delle costruzioni moderna
4
Cfr. My architect: alla ricerca di Louis Kahn: un uomo,
del ‘500, da cui prende avvio la capacità barocca di modulare il muro Chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza (interno),
le sue opere, i suoi segreti, DVD, Feltrinelli, 2005
Francesco Borromini, 1642-1660, (Roma)
in concavità e convessità che racchiudono figure spaziali in costante
interpenetrazione con gli opulenti e dinamici motivi decorativi.
Con il XIX secolo, neoclassicismo ed eclettismo vestono gli edifici
di caotici coacervi di motivi decorativi mutuati dai più diversi stili, sof-
focando lo spazio. All’inizio del ‘900, funzionalismo e movimento or-
ganico, risolvendo la questione della casa per la famiglia media con la
nuova tecnica costruttiva dell’acciaio e del cemento armato, sperimen-
tano la leggerezza del muro, ormai ridotto a parete di vetro. Entrambi
condividono la pianta libera, l’indirizzo funzionalista entro uno schema
volumetrico chiuso, quello organico come detonazione di vuoti da un
centro verso l’esterno. E mentre il funzionalismo approda alla sempli-
cità decorativa, l’architettura organica movimenta le pareti seguendo
il cammino dell’uomo e le orna accostando materiali diversi, dal legno
al vetro al cemento.
Qui Zevi si ferma, elogiando l’anticlassicismo3 dell’edilizia organica,
che non blocca l’uomo in edifici fondati su regole statiche ma cresce
con lui. Poco dopo, nel 1950, il maestro statunitense di origine esto-
ne, Louis Kahn, riscopre, nel Mediterraneo, la simmetria e la monu- Laura Cuzzubbo nasce nel 1979 a Catania,
mentalità di piramidi, templi greci e rovine romane, e matura un’idea dove sia laurea con una tesi in Storia dell’ar-
te medievale. Da 10 anni vive e insegna a
di architettura atemporale, dalle forme geometriche primarie, slegate Treviso. Fotografa con una bridge, grazie al
dalla funzione, e fatta di materiali semplici e incorruttibili come il cal- cui generoso zoom trova intrigante fissare
cestruzzo, i cui giunti sono per lui l’ornamento dell’architettura4. Non dettagli anche impercettibili a occhio nudo.
può Zevi empatizzare con la riscoperta del valore classico del muro Salk Institute, Louis Kahn,
1959 (La Jolla - California)
50 51
“L’armata dei fiumi perduti” di Carlo Sgorlon Letteratura
1
Per approfondire la storia dei Cosacchi in Friuli si rimanda ai testi La terra impossibile di Bruna
Sibilla Scizia, Doretti, 1992, e L’armata Cosacca in Italia di Pier Arrigo Carnier, Mursia, 1965
2
Elio Vittorini, Diario in pubblico, Bompiani, 2016
Carlo Selan, nato a Udine nel 1996, studia Lettere presso l’Università di Trieste
e nel 2016 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie “Periferie” per Cam-
panotto Editore. Attualmente collabora con la rivista “Digressioni” e con il blog
“L’oppure”. Suoi versi sono apparsi sulla rivista “Digressioni”.
“Pioppi sull’Epte”, Claude Monet , 1891
(National Gallery of Scotland - Edimburgo)
54 55
Antropologia
La suddivisione geografica, etnica, simbolica del territorio sembra confine della siepe si fonde al paesaggio, ne è parte viscerale; è mano
sia esclusiva del genere homo, prerogativa di una specie autoprocla- tesa continuamente a ricucire il territorio che divide; si attesta sul bordo
matasi “superiore” a tutto il resto, al “rimanente” e pertanto in grado e, riservatole e “sconfina” nello spazio che separa. È un confine vivente la
arbitrariamente, in diritto di stabilire limiti discriminanti, cesure, domini. cui funzione biologica è difficilmente sintetizzabile.
Un segno nero, freddo, netto sulla carta geografica non ammette re-
Il bosco
pliche, né deroghe o eccezioni: lega a un comune destino gli individui
Il bosco è un confine di profondità: in esso ci si immerge, non lo
che racchiude nelle sue invisibili maglie. Esistono poi confini linguistici,
si attraversa; a segnare il confine è la forza ineludibile dell’ombra, ac-
culturali “invisibili”, impalpabili eppure efficacissimi, basti pensare al co-
qua oscura e impalpabile che ci consegna repentinamente a un’altra
lore della pelle, confine insuperabile – sembra che la nostra specie sia
dimensione. La Foresta Madre ricopriva spazi incommensurabili; tale
fatta per sviluppare divisioni, che il segno distintivo del nostro genere,
era la sua estensione e compattezza che a stento si vedevano trapelare i
la civiltà, progredisca soprattutto grazie ai confini, all’attestazione vera
raggi. Già G.B. Vico con il mito dei giganti aveva ipotizzato (cfr. R.P. Har-
o presunta di differenze, dislivelli di superiorità, al senso di sicurezza
rison, Foreste. L’ombra della civiltà, Garzanti) che la nascita della facoltà
che suggeriscono.
immaginativa fosse sorta negli uomini come conseguenza della folta,
Esistono però anche dei confini naturali altrettanto se non addirit-
densissima chioma degli alberi della foresta che letteralmente copriva il
tura più marcati e incisivi; la cifra del loro potere è a un tempo concre-
cielo con una coltre impenetrabile, oltre la quale si immaginava appun-
ta, tangibile ed evocativa, simbolica, di una evanescenza che prelude a
to l’esistenza di esseri superiori, divinità assolute; si immaginava l’altro,
universi nascosti. Fiumi, deserti, burroni, mari, ma anche semplici siepi,
l’altrove. Sappiamo che da sempre il bosco assume in sé il carattere
boschi, cortine di rampicanti, roveti che paiono agitarsi lungo i bordi
della natura quale grembo donativo, vitale, in continuo sviluppo e, con-
dimenticati delle strade segnano un limite all’avanzata del predominio
temporaneamente, quale luogo oscuro, regno dell’ombra e di creature
antropocentrico, sembrano difenderci da “l’umano troppo umano”, o
diaboliche. Per queste e altre caratteristiche, può essere assimilato al
semplicemente ricordarci che siamo immersi in un sistema più ampio
groviglio interiore, spazio di quieto, interminabile conflitto esistenziale
del quale costituiamo un’infima, sostituibile, irrequieta entità.
di ciascuno.
La siepe
L’albero antico
Pochi sanno che le siepi non sono un’idea, un’invenzione umana
Ancora, taluni solitari e ultrasecolari alberi rappresentano (perma-
ma del tutto naturale. Concause legate alla natura del suolo, al clima,
nendo spesso nei toponimi) capisaldi di confini interpoderali o, addi-
alla vicinanza di corsi d’acqua, alla prossimità di radure o altri ambienti
rittura, limiti tra il noto e l’ignoto, tra il sacro e il profano, tra la luce e
selettivi favoriscono la diffusione di taluni tipi di piante rispetto ad altri
la tenebra. I capitelli arborei sono una emanazione di culti degli albe-
le quali, insediandosi lungo un segmento ben delimitato di suolo, for-
ri antichissimi, giunti sino a noi nonostante la tabula rasa del concilio
mano una sequenza straordinariamente ordinata di essenze arboree
di Trento (1545-1563) che ha respinto nella selva torbida e buia spiriti
e/o arbustive omogenea: un confine naturale. Quelle piante sono le
e spiritelli della tradizione popolare. Pensiamoci: vedere in un albero,
più adatte a occupare quella nicchia ecologica e vi si insediano di fatto
nell’ombra che la sua folta chioma proietta sulla Terra, una linea che
colonizzando lo spazio che presenta i requisiti necessari. È chiaro che
separa, che distingue due fasce, due metà, due mondi di luce separati
nel nostro immaginario la siepe si presenta corretta e ordinata dall’ine-
da una linea d’ombra in modo netto, corrisponde a vedere e immagi-
ludibile intervento umano che la scolpisce e raddrizza, trasformandola
nare insieme un confine, una fascia di separazione a un tempo inconsi-
nella forma/funzione cui è destinata, e che pertanto non esiste una vera
stente e insormontabile. Questa “metafisica del confine” ha funzionato
e propria siepe naturale con le caratteristiche che normalmente asso-
in maniera così efficace che nel corso dei millenni, alberi notevoli per
ciamo a questo termine, ma il dato interessante è che la siepe intreccia
dimensioni e longevità hanno svolto la funzione di crocevia, di confine,
armonicamente aspetti naturali e umani.
di riferimento per pellegrini e viandanti; limiti sacri tra il noto e l’ignoto,
Fin qui la spiegazione scientifica, la ratio, la cultura e la civiltà umane
il sacro e il profano, fari metafisici nel mare dell’oggettività. Un singolo
che si dannano a trovare e far emergere dai fenomeni naturali le leggi
albero capace di tanto…
cui soggiacciono, le dinamiche evolutive, le reazioni, le cause, le con-
L’albero è l’individuo isolato, estrapolato, isolato dalla foresta. Pur es-
seguenze; ma c’è anche un non meno importante aspetto simbolico: il
sendone un’infinitesima parte, un singolo albero è foresta, riesce a in-
56 57
Fotografie di Bartolomeo Rossi
carnare la moltitudine da cui è uscito; porta con sé il suo multiplo, è in-
dividualità collettiva. Da qui la sua forza persuasiva, il suo magnetismo.
Ma siepi, boschi e alberi secolari sono in difficoltà, spazi sempre più
angusti, specie del nostro immaginario sono loro riservati e il loro desti-
no è molto incerto; rimangono solo i confini freddi e rettilinei tracciati
dagli uomini, capaci solo di separare, non di sconfinare.
Bibliografia essenziale
Michele Zanetti, Il fosso, il salice, la siepe. Nell’ambiente di pianura, nella didattica delle scienze
naturali, Ediciclo, 1991
William Bryant Logan, La quercia. Storia sociale di un albero, Bollati Boringhieri, 2008
Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, 1997
Jacques Brosse, Mitologia degli alberi, BUR, 1994
Robert Pogue Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Garzanti
Gian Pietro Barbieri, nato a Treviso nel 1965. Segretario del circolo Legambiente
di Maserada sul Piave (TV), si occupa di eventi culturali e conduce studi antro-
pologici. Ha pubblico i testi poetici “Persistere” (Campanotto, 2004), “Inventario”
(Edizioni Del Leone, 2008) e “Ininterrottamente” (Valentina Poesia, 2014)
58 59
Mi spingevo sulla spiaggia per cercare risposte.
Il confine con il mare del nord segnava un punto
di incontro di persone solitarie; camminando sul
lungo mare sentivo il vento freddo sulla pelle e
gli occhi che iniziavano a lacrimare.
60 61
Racconti
C hi è senza macchia sottili sopra le labbra tese, ma non si riuscivano a vedere gli occhi.
Lo sussurrò anche a fior di labbra, mio padre mi ammazza, e non si
di Enrico Losso accorse della donna dal foulard bordeaux seduta al tavolino a fianco che
la stava osservando preoccupata.
Rosalia si passò la mano aperta sul viso. Pensò a quel piccolo fagiolo
Rosalia aprì il foglietto con un gesto incerto, dopo che aveva passato che aveva oltrepassato il confine fra il mondo-che-non-c’è e la sua pan-
un’ora buona dentro il brutto bar di Via Mascarella. Non aveva avuto il cia. E che l’avrebbe trasformata in un otre additato da tutti in paese.
coraggio di fare venti metri in più e salire le scale dell’appartamento che Un lacrima cadde vicino alla macchiolina di caffè.
divideva con altre tre studentesse pugliesi. Non voleva che la vedessero Strinse con la mano la bocca che già si stava storcendo in una smor-
piangere, né di sconforto, né di felicità. Non aveva legato con loro, solo fia di pianto.
con Maria si era spinta, in quei primi quattro mesi da matricola univer- Solo dopo qualche secondo si accorse della mano che le si era posa-
sitaria, a qualche confidenza in più, ma definirla un’amica era troppo, ta sulla spalla e che la stava scuotendo leggermente.
almeno per lei. Girò la testa verso destra e si ritrovò a mezzo metro il volto teso della
Gli indici e i pollici tremolavano, si era sentita così tesa solo prima donna dal foulard bordeaux.
dell’esame di maturità, con il professore di latino che incuteva timore Rosalia biascicò qualche parola, non ho niente, ma poi si accorse del
non appena muoveva le sopracciglia. Ma qui non c’era in gioco un ses- dito della donna che indicava un punto indistinto all’esterno bar.
santa – che poi era stato soltanto un cinquantasei – ma una vita intera. La realtà del mondo le franò addosso.
Trattenne lo sguardo sull’intestazione del referto. Poi lo fece scende- Sentì un rumore forte, vide del fumo. I clienti del bar erano tutti in
re di un paio di millimetri più in giù, fino alla data. piedi, ammutoliti.
Undici marzo millenovecentosettatantasette. Un ragazzo con un fazzoletto premuto sulla bocca che correva lungo
Il medico che le aveva prescritto le analisi, le aveva spiegato anche la strada, passando davanti alla vetrina, diede una manata contro il vetro
come interpretare il valore risultante. Nel farlo, le sue guance rasate da e fuggì via. Rimase un’impronta biancastra vicino alla scritta “aperto tutti
poco si erano velate di un accenno di rossore. E questa cosa aveva col- i giorni”.
pito molto Rosalia. Un altro colpo, più forte del primo, fece sussultare Rosalia.
Abbassò per un secondo le palpebre. Due pensionati e il barista aprirono la porta e si affacciarono sulla
Si ripeté per la centesima volta che tutto – l’angoscia, il ricordo della strada.
notte di un mese prima, l’ansia repressa durante le telefonate con i suoi Rosalia li seguì. Voleva capire cosa stesse succedendo. Le era sem-
genitori – tutto sarebbe scoppiato come una bolla di sapone, per poi brato che i colpi provenissero dalla direzione dello stabile dove abitava.
svanire nell’aria senza lasciare traccia. Sentì la voce della donna dal foulard bordeaux che le raccomandava di
Le riaprì. stare attenta.
Il cervello catturò e elaborò in un niente quello che gli occhi avevano Appena varcò la soglia, si portò d’istinto la mano al basso ventre. Era
letto. un gesto che non aveva mai fatto prima di allora.
I muscoli dell’addome le si contrassero in uno spasmo. Sulla strada c’era fumo, moltissimo fumo. Un odore acre torturava le
Se era vero quello che le aveva detto il medico, non ci potevano es- narici.
sere dubbi. Sentì delle urla in direzione dell’incrocio di Via Mascarella con Via
Era incinta. Irnerio. In lontananza una camionetta di militari sfrecciò a gran velocità.
Il foglietto le sfuggì di mano e planò su quella goccia di caffè che C’erano ragazzi che scappavano in tutte le direzioni.
aveva versato sul tavolino, mentre stava girando con troppa foga il cuc- Rosalia ne fermò uno. Era anche lui una matricola di Giurisprudenza,
chiaino. Si espanse una macchiolina marrone sulla carta, poco sotto la o almeno lei si ricordava di averlo visto in Facoltà. Il ragazzo si teneva
cifra incriminata del marcatore. un fazzoletto davanti alla bocca. Aveva uno strappo sui jeans all’altezza
Nella testa di Rosalia baluginarono un pensiero – mio padre mi am- del ginocchio destro. Gli chiese cosa stesse succedendo, cosa fosse tutto
mazza – e poi l’immagine del suo volto, in cui spiccavano i suoi baffi quel fumo.
62 63
Racconti
I lacrimogeni, le rispose, ma hanno sparato anche piombo. chi era ancora vivo.
Chi?, chiese lei. E così Rosalia si ritrovò ad asciugarsi con il dorso della mano le la-
I carabinieri, le rispose il ragazzo. crime dalle guance, per la seconda volta in poco tempo, lei che, a chi le
Mentre parlava, il ragazzo stringeva forte il fazzoletto nel pugno. Le chiedeva quando fosse stata l’ultima volta che aveva pianto, rispondeva
nocche gli erano diventate bianche. boh, forse da piccola, non me lo ricordo.
Si levò un altro urlo che proveniva dai portici vicino all’incrocio,
l’hanno ammazzato bastardi l’hanno ammazzato, e poi rumore di sirene
in lontananza.
Il ragazzo sparì in fretta com’era apparso. Rosalia si diresse verso i In ricordo di Francesco Lorusso, morto a Bologna l’undici marzo millenovecentoset-
portici sul lato opposto. Fece qualche metro in avanti, riparandosi dietro tantasette.
ai piloni. A certe scene aveva assistito solo al cinema, nei film polizieschi
che andava a vedere con la compagnia di amici che la prendevano in
giro se a volte si copriva gli occhi.
Ma in quel momento voleva vedere. Capire cosa fosse successo. I
piedi la spingevano in avanti, verso le urla che continuavano a bucare il
tramestio di fondo.
Il fumo dei lacrimogeni si era diradato, ma la puzza rimaneva forte
nell’aria.
C’erano quattro ragazzi chini su un corpo steso a terra. Rosalia pote-
va vederne le gambe – immobili – fasciate da un paio di pantaloni color
marroncino. C’era una macchia di sangue, scura, rossa, sui pantaloni,
sopra le cosce.
Un altro ragazzo con i baffi camminava avanti e indietro tenendo le
mani sui capelli ricci. Stava urlando bastardi, bastardi.
Rosalia socchiuse le labbra. Quei ragazzi avevano più o meno la sua
età, forse solo qualche anno in più. E uno di loro giaceva a terra e aveva
i pantaloni sporchi di sangue.
Qualcuno disse a voce alta, è morto.
Rosalia pensò che poteva avere gli anni di suo fratello, quel ragazzo
a terra. Si sentì tremare le gambe, appoggiò la schiena al muro.
Nel frattempo stava accorrendo altra gente, passanti, un postino che
aveva una borsa a tracolla. Anche la donna con il foulard bordeaux che
le stava appeso alle spalle, sul punto di cadere.
Rosalia si lasciò scivolare fino a toccare con il sedere la pavimenta-
zione del portico. Si abbracciò la pancia e raccolse le ginocchia contro il
petto.
Si ricordò delle parole che le aveva detto sua nonna un anno prima,
a proposito della morte. Così, di punto in bianco, senza che lei le avesse
chiesto nulla, le aveva detto che in fondo, tra la vita e la morte c’era solo
una linea sottile, come quelle di gesso tracciate dalla sarta sugli scam- Enrico Losso, nato nel 1974, abita a Ferrara. Lavora a Bologna, dunque fa parte della
poli di stoffa. E che bastava un niente per oltrepassarla, quella linea, ma Grande Famiglia dei Pendolari, dedita all’osservazione della gente nei vagoni dei treni.
che dall’altra parte si poteva comunque vedere tutto, e sentire le voci di Da tempo coltiva la passione per la scrittura e ha pubblicato un romanzo, “I disintegrati”,
con la casa editrice Panda edizioni nell’aprile 2015. Legge molto e ogni tanto sottolinea.
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B onus
di Davide De Lucca
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– Ah-ah – venne rimproverato – con noi usi toni più formali, ci dia del signor M. Lo “stipendio base” gli consentiva di pagare l’affitto e le bollette,
Loro. di acquistare 6 porzioni di cibo per i 7 giorni della settimana, e avere ac-
Il signor M. ci pensò: “Gli credo” avrebbe dovuto rispondere, oppure “Li qua corrente. Ma soprattutto c’era il “bonus”: quello significava una svolta
credo”? O “Credo a Loro”? Forse “Gli credo a Loro”. Il signor M. aveva com- nella sua vita, il travalicare una condizione “base” per una condizione “base
pletato tutti gli studi universitari di rito e infatti era rimasto adeguatamente plus”. Il “bonus” poteva significare l’acquisto di un altro oggetto inutile
stupido. ogni settimana, di un capo di abbigliamento, di una micro-vacanza in con-
– Credo, credo – confermò ossequioso. Non voleva mancare di rispetto. dizioni di estremo disagio, una cena fuori o qualunque altra cosa rientrasse
– Bene. Quello che le offriamo è un posto come piegatore di contratti. nel “pacchetto invidia” di Social. Addirittura, senza uscire di casa e fare
– Pensi: avrà una sua sedia. effettivamente una di quelle cose, poteva acquistare il “pacchetto invidia”
– Non tutta sua, si intende. Dovrà dividerla con un collega. e Social avrebbe attribuito a lui una qualunque circostanza-oggetto-espe-
– E piegherà per noi dei fogli. rienza targetizzata sulla base dei suoi contatti, al solo scopo di procurare
– Ma non solo piegare: li dovrà anche infilare gli uni in mezzo agli altri. loro invidia.
Formare dei cosi – al dirigente sfuggiva la parola – come si dice? Il signor M. non poteva non accettare.
– Non mi ricordo – rispose il collega. – Fogli? Il giorno seguente si fece dare gli ultimi calci sugli stinchi e poi chiese di
– Ma no. essere licenziato. La cosa avvenne con effetto immediato e venne sostitui-
– Fascicoli? – tentò di indovinare il signor M. to da un giovane stagista che aveva solo trentadue anni, c’era da invidiarlo
Uno dei dirigenti schioccò le dita entusiasta. – Esatto – gridò. L’altro nel vederlo fare carriera così rapidamente.
fece sobbalzare la ragazza sulle sue ginocchia. – Lo dicevo che era il candi- Il signor M. rientrò a casa la sera e tutto era già spento: la banca in-
dato ideale. Fascicoli – disse di nuovo ammirato. fatti aveva bloccato immediatamente la fornitura di acqua, luce e approv-
Seguì un momento di silenzio. L’uomo seduto in poltrona scattò un sel- vigionamento di Social. Ma sarebbe stata solo questione di ore. Il giorno
fie con la ragazza e poi fece una foto al signor M. che tentò di sorridere. seguente avrebbe iniziato a lavorare per la Con.Fi.Ni. e tutto sarebbe stato
– Le spiace se uso questa sua foto e metto la testa del mio cane sopra ripristinato. Quei due imprenditori erano veri gentiluomini, si vedeva. Il
il suo corpo? Su Social piace. signor M. si addormentò con un sorriso, emozionato e soddisfatto.
– No, si figurino, non si preoccupino. È un onore. Il signor M. varcò la soglia dei cancelli della sua nuova azienda, pronto
Il signor M. si schiarì la voce, avrebbe voluto chiedere del contratto e di a iniziare la sua nuova vita “base plus”. Si presentò alla reception.
un eventuale stipendio, ma non voleva sembrare avido. – Sono il signor M. – disse – comincio oggi. A piegare contratti – ag-
– Quando potrebbe iniziare? giunse con un sorriso orgoglioso.
– Quando desiderano Loro – balbettò il signor M. – Devo però dare le La donna alla reception non fece caso a lui. Alzò il telefono e formulò
dimissioni nell’altro ufficio. Da contratto ci vorranno 3 mesi. un numero di interno per parlare con uno dei due imprenditori. La conver-
– Non possiamo aspettare tanto. Si faccia licenziare, così è libero già da sazione durò pochi secondi. Posò il ricevitore e senza guardare il signor M.
domani. comunicò:
Il signor M. era incerto. E se quei due imprenditori, che sì apparivano – Non c’è più bisogno di lei.
come galantuomini, poi non lo avessero assunto? Se non avessero man- – Prego? – chiese lui interdetto.
tenuto la parola? Ma non era possibile, proprio loro, proprio i titolari di La donna fece un cenno a un uomo che stava alle spalle del signor M.
un’azienda con quel nome, persone perbene. Il signor M. non si era accorto di lui. L’uomo, comparso dal nulla, gli diede
– Posso fare Loro una domanda? – chiese il signor M. dimenandosi una serie di calci sugli stinchi e lo spinse fuori dalla porta.
sulla sedia e accennando un inchino. Il signor M. varcò in direzione opposta la soglia dei cancelli dell’azienda
– Dica. dove gli avevano promesso che sarebbe andato a lavorare, consapevole
– È previsto un compenso? che da quel momento la sua vita era cambiata.
I due sospirarono sconsolati. – Tutti così – dissero, – tutti uguali.
Lasciarono il signor M. in sospeso.
– Sì, le concederemo uno “stipendio base più bonus” – rivelarono – e
questo rende la nostra proposta unica e irripetibile. Lei è un uomo fortunato.
Uno “stipendio base più bonus” sarebbe stato straordinario, pensò il Davide De Lucca è nato in provincia di Treviso nel 1982. Ha pubblicato i
romanzi “Altri castighi” (Giraldi editore, 2011), “Cerchi nel tempo” (Edizioni
Creativa, 2014) e “Le nebbie di Valville” (Edizioni Creativa, 2015)
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Poesie
I nventario 22 aprile
di Gian Pietro Barbieri
da Inventario (2008)
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“Confini” di Alfonso Firmani
TORRE DI FINE
Inedito
Gian Pietro Barbieri, nato a Treviso nel 1965. Segretario del circolo Legambiente di
Maserada sul Piave (TV), si occupa di eventi culturali e conduce studi antropologici. Ha
pubblico i testi poetici “Persistere” (Campanotto, 2004), “Inventario” (Edizioni Del Leone,
2008) e “Ininterrottamente” (Valentina Poesia, 2014)
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Corinne Zanette
Corinne Zanette nasce a Vittorio Veneto nel 1984. Diplomata in Pittura all’Accademia di
Belle Arti di Venezia, lavora nel campo dell’illustrazione, in particolare con la casa editrice
francese Les petites bulles éditions. È Atelierista (esperta dei linguaggi espressivi) alla
Scuola dell’infanzia San Giuseppe di Prata di Pordenone - www.corinnezanette.com
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FINO ALLA FINE DEGLI ANNI