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Ballast elettronici e lampade

fluorescenti

Università di Firenze
Anno accademico 2002/2003
Dipartimento di elettronica e telecomunicazioni
Corso di circuiti elettronici di potenza

Studio di:
Andrea Catoni
Introduzione

Con la presente è nostra intenzione sensibilizzare l’utente e il progettista sulle opportunità di


risparmio energetico offerte dalle nuove tecnologie dei ballast elettronici e delle lampade
fluorescenti. Quindi, oltre a dare una descrizione generale sulle lampade fluorescenti e sui ballast
elettronici al fine di migliorare la comprensione di questi elementi, ci soffermeremo sul risparmio
energetico che è possibile ottenere, cercando di darne una stima reale. Non per ultimo cercheremo
di dare una valida guida alla realizzazione di ballast elettromagnetici, di ballast elettronici half
bridge self oscillant e, in minima parte, di ballast elettronici controllati da IC dedicati (precisamente
ci occuperemo di chips Phlips e International rectifier).
Indice

Capitolo 1 – Le lampade fluorescenti

• Generalità sulle lampade fluorescenti Pag 1


• Lampade fluorescenti e ambiente Pag 4
• Descrizione del funzionamento elettrico Pag 7
• Il ballast Pag 9
• Altri tipi di lampade a scarica e analisi degli spettri di emissione Pag 17

Capitolo 2 – Ballast elettronici

• Perché scegliere un ballast elettronico Pag 20


• Topologie più comuni Pag 24
• Implementazione delle fasi di preheat ed ignition Pag 29
• Armoniche introdotte in rete Pag 32

Capitolo 3 – Ballast half bridge self oscillant

• Analisi approfondita Pag 36


• Progettazione Pag 40
• Reti di protezione per ballast elettronici Pag 50

Capitolo 4 – Ballast elettronici con IC dedicati

• Philips UBA2014 Pag 55


• International rectifier IR21571 – IR2166 Pag 59
Le lampade fluorescenti

Generalità sulle lampade fluorescenti:

Le lampade fluorescenti sono lampade a scarica, cioè è il meccanismo della scarica elettrica in un
gas a determinare l’emissione luminosa, direttamente o indirettamente. Comunemente vengono
chiamate anche lampade al neon o tubi al neon per la forma tubolare che normalmente hanno, ma in
realtà il gas nobile neon non ha niente a che vedere, o quasi, con queste lampade. Le lampade al
neon vere e proprie esistono, ma in esse non è presente nessun convertitore fluorescente; è il gas
stesso che attraversato da una scarica elettrica, emette una luce con tonalità cromatica molto vicina
all’arancione. Lampade di questo tipo con potenze molto piccole, tipicamente di qualche Watt
massimo, sono largamente utilizzate per le spie di segnalazione, in quanto presentano buona
luminosità, bassissimo consumo, lunga durata, ed inoltre la limitazione della corrente viene
realizzata semplicemente inserendo una resistenza da un centinaio di kΩ (L’innesco avviene a
tensione di rete per la vicinanza dei catodi, che si aggira intorno a qualche millimetro). Ad esempio
le lampade di segnalazione che troviamo negli impianti elettrici residenziali hanno una potenza di
0,5 Watt e una durata media che si aggira intorno ai 10-15 anni di funzionamento continuato, anche
se sarebbe opportuno sostituirle al massimo ogni 5 anni (sempre considerando un funzionamento 24
ore su 24) perché l’esaurirsi del gas insieme all’annerimento delle pareti interne del bulbo ne
riducono drasticamente l’emissione luminosa, facendo deteriorare il rendimento in modo
significativo.
In realtà il gas contenuto nelle lampade fluorescenti è vapore di mercurio a bassissima pressione,
ecco perché il nome neon per queste lampade risulta totalmente inappropriato. Inoltre l’emissione
luminosa non è diretta conseguenza della scarica elettrica nel gas, bensì è il convertitore
fluorescente che emette nello spettro visibile. Il vapore di mercurio ionizzato infatti emette luce
sull’ultra violetto, questa emissione eccita i livelli energetici del convertitore fluorescente, che per
il fenomeno appunto delle fluorescenza riemette fotoni a lunghezza d’onda diversa da quella
assorbita. Praticamente quindi il convertitore fluorescente converte la lunghezza d’onda emessa dal
gas ionizzato in altre ricadenti nello spettro visibile. Si capisce quindi che il vero cuore della
lampada fluorescente sta proprio in quella sottilissima polverina di colore bianco depositata
internamente al tubo: il convertitore appunto. Migliorare tecnologicamente la lampada vuol dire
andare ad agire proprio qui, infatti ciò che fa la differenza in termini di rendimento, di emissione
luminosa ecc. non è tanto la miscela di gas, che è sostanzialmente la stessa, quanto la composizione
del convertitore. Per avere rendimenti massimi occorre che l’emissione sia praticamente tutta nel
visibile e che il 100 % dell’emissione luminosa del gas ionizzato sia convertita, tuttavia è bene
ricordare che non si deve considerare il rendimento della sola lampada vera e propria, ma anche
quello del ballast. Ma continuiamo l’analisi delle lampade fluorescenti proprio dal punto di vista del
rendimento. Dati non molto recenti indicano l’efficienza di queste lampade all’80 %, ma riteniamo
che le nuove tecnologie dei convertitori fluorescenti e i ballast elettronici ad alta frequenza abbiano
portato il rendimento su un buon 85-90 %. In tabella 1.1 e 1.2 sono riportate le caratteristiche di
alcuni tubi fluorescenti commerciali della Philips di ultima generazione (super 80), e di alcune
lampade ad incandescenza, al fine di fare delle considerazioni:
TAB 1.1 **840 Fluo Lamps (fRUN=50 Hz)
Tipo lampada Potenza elettrica Flusso luminoso Lumen/Watt
(Watt) (lumen)
PL-S 11/840/2P 11 900 81,2
TL-D 18/840 18 1350 75
TL-D 30/840 30 2400 80
TL-D 36/840 36 3350 93

TAB 1.2 Incandescents lamps


Tipo lampada Potenza elettrica Flusso luminoso Lumen/Watt
(Watt) (lumen)
Oliva 25 200 8
A25 25 225 9
A100 100 1350 13,5

Si può notare subito l’abisso esistente tra le lampade fluorescenti e ad incandescenza, infatti le
lampade ad incandescenza hanno uno spettro di emissione centrato sull’infrarosso (poco spettro
cade nel visibile), ciò determina un enorme spreco di energia in quanto molta della potenza elettrica
se ne va in calore, generando oltre ad un enorme spreco, grossi problemi di sicurezza e di
smaltimento del calore negli apparecchi di illuminazione. E’ bene fare chiarezza anche su due punti:
i dimmer per lampade ad incandescenza e le lampade alogene. I primi sono utili solo ai fini estetici
dell’illuminazione, non del risparmio energetico, in quanto il rendimento di queste lampade
precipita con la diminuzione della temperatura del filamento, quindi ad esempio se la luminosità
viene ridotta di ½ la corrente si riduce di meno di 1/3. Per quanto riguarda le lampade alogene c’è
da dire che sono solo lampade ad incandescenza (quindi con lo stesso rendimento circa) con inserito
nel bulbo un gas alogeno che ha la funzione di impedire che le particelle staccatesi dal filamento si
depositino sulla parte interna del bulbo di vetro, opacizzandolo e riducendo quindi l’emissione
luminosa. Hanno quindi il vantaggio di rimanere efficienti più a lungo e di avere una durata
maggiore perché le particelle che si staccano dal filamento vi sono riportate per la presenza del gas
alogeno, ma rimangono sempre e comunque lampade ad incandescenza.
Un ottimo indice per confrontare le lampade in termini di luminosità su potenza elettrica assorbita è
senza dubbio il Lumen/Watt. Comunque è un indice da utilizzare con attenzione; ad esempio dalla
tabella sopra sembrerebbe che la lampada fluorescente tecnologicamente più avanzata sia il TL-D
36/840. Tuttavia l’indice lumen/Watt non è lineare, più elevata è la potenza, più efficiente risulta la
lampada, il TL-D in questione quindi è si quello più efficiente della tabella, in quanto per ogni Watt
di energia elettrica riesco ad ottenere ben 93 lumen, ma la lampada
tecnologicamente più avanzata è senza dubbio la PL-S 11/840/2P
(vedi foto a fianco) che, nonostante abbia una potenza di soli 11
Watt e una superficie di convertitore molto limitata data la sua
compattezza, riesce a fornire una luminosità di ben 81,2 lumen per
ogni Watt. Prove effettuate hanno dimostrato che 2 di queste
lampade da 11 Watt alimentate con ballast elettronici operanti alla
frequenza di 40 kHz (come vedremo ciò migliora ulteriormente
l’efficienza delle lampade), riescono ad illuminare efficacemente
un ambiente residenziale di 25 m2 . Ma il confronto più
interessante è quello con le lampade ad incandescenza. Come si
può estrapolare dalla tabella, il rendimento delle lampade fluorescenti è maggiore rispetto a quelle
ad incandescenza da un minimo di 5,6 volte ad un massimo di 11,6 volte. Confrontando lampade
simili per compattezza e potenza elettrica si può affermare che in media una lampada fluorescente è
più efficiente di ben 8 volte rispetto ad una ad incandescenza. Ciò vuol dire che, a parità di
illuminazione, la lampada fluorescente mi permette di impiegare solo 1/8 della potenza elettrica
richiesta da una lampada ad incandescenza (87,5 % di risparmio energetico). Sono quindi da
aggiornare i dati presenti solitamente in letteratura, che in media stimavano questo rapporto tra 4,5 e
5 volte (80 % di consumo in meno rispetto ad una lampada ad incandescenza). Quanto discusso
prima vale solo per le lampade fluorescenti di ultima generazione, per la Philips le Super 80
appunto, ovviamente esistono ancora in commercio lampade con luminosità più bassa e
conseguentemente, costo più basso. Se pochi anni fa quindi, non erano molto importanti i dati di
luminosità e per l’acquisto venivano specificate solo dimensioni fisiche e potenza elettrica (dato che
esisteva poca differenza sia tra i costruttori, sia tra i modelli), oggi si impone al progettista, ma
anche al consumatore, un attento esame di più lampade, al fine di scegliere quella che presenta il
flusso luminoso maggiore. In realtà nella scelta dovrebbe influire anche il costo, ma non è un
elemento rilevante; solitamente infatti l’incremento di costo risulta molto inferiore rispetto
all’incremento del flusso luminoso. Per dare un esempio pratico della convenienza di una lampada
con convertitore fluorescente di ultima generazione, riporto nella tabella 1.2 le caratteristiche di
alcune C.F.L. commerciali, con ballast elettronico (lampade a risparmio energetico):

TAB 1.2 Commercial C.F.L.


Produttore Modello Potenza elettrica Flusso luminoso Lum/Watt
(Watt) (Lumen)
EDY 11 660 60
OSRAM 23W/41-827 23 1500 65,2
PHILIPS PL*Electronic/T 15 900 60

Se facciamo un confronto fra questa tabella e la lampada PL-S 11/840/2P si intuisce subito che le
C.F.L. montano tubi molto scadenti per gli standard attuali (notare che per queste lampade il
risparmio energetico rispetto a quelle ad incandescenza è circa dell’80 %, come si trova in genere in
letteratura), in realtà però la situazione è ancora peggiore di quanto possa sembrare a prima vista.
Infatti montano tutte ballast elettronici che operano intorno a 40 kHz, ciò comporta un aumento del
rendimento delle lampade in quanto l’efficienza delle stesse aumenta con la frequenza (l’aumento è
tale da recuperare molto bene anche il rendimento un po’ basso di alcuni tipi di ballast). In media,
se la topologia e i componenti del ballast sono buoni questo aumento può essere quantificato
approssimativamente nel 15 %. Alla luce di quanto sopra e considerando che i dati di luminosità per
le lampade della serie Super 80 sono forniti per una frequenza di rete (ballast elettromagnetici
operanti a 50 Hz), ci si rende conto di quanto scadenti sono i tubi montati sulle C.F.L. commerciali.
Nonostante ciò risultano inserite in classe A secondo le recenti normative sul risparmio energetico,
quando un TL-D Standard da 30 Watt, 2300 lumen (76 lum/Watt) risulta invece inserito in classe B.
Il motivo dell’utilizzo di tubi fluorescenti così scadenti è chiaro: Essendo i costi di sviluppo di un
ballast elettronico abbastanza elevati (soprattutto se di dimensioni molto compatte), per offrire il
prodotto sul mercato a basso costo mantenendo sempre un cospicuo margine di guadagno si
risparmia proprio sul tubo fluorescente. Il problema è che non esiste una sufficiente sensibilità del
consumatore a quanto esposto, quindi non esiste di fatto una richiesta sul mercato di C.F.L. con tubi
fluorescenti ad alta luminosità, e per il momento non sembra che le cose cambieranno, almeno nel
futuro prossimo. Infatti come si nota dalla tabella sopra, i produttori utilizzano tutti, più o meno,
tubi della stessa qualità; non ha senso, dal punto di vista economico, investire risorse
nell’informazione e nella commercializzazione di questi nuovi prodotti quando semplicemente
evitando di informare il mercato “tira” benissimo.
A conferma di queste teorie abbiamo provato a sostituire in laboratorio il tubo fluorescente da 11
Watt da 660 lumen di una C.F.L. commerciale con una lampada PL-S 11/840/2P da 900 lumen
(dopo aver tolto lo starter integrato). Il confronto è stato stupefacente: Non è stato necessario
ricorrere a nessun luxmetro perché la luminosità della lampada ad alta efficienza era nettamente
superiore all’altra.

Lampade fluorescenti e ambiente


Dal puto di vista ambientale queste lampade costituiscono un problema, come accennato
contengono mercurio, un metallo pesante che si accumula negli organismi non potendo essere
eliminato. Lo smaltimento in discariche tradizionali o peggio ancora in inceneritori, di questi tubi
provoca il rilascio nell’ambiente del mercurio in essi contenuto, ed anche se in ogni lampada il
mercurio si misura in mg, moltiplicando per l’enorme numero di pezzi smaltiti, il rilascio
nell’ambiente si misura in tonnellate. Per questo motivo negli Stati Uniti sono stati fissati precisi
limiti al mercurio contenuto nelle lampade fluorescenti, ciò a portato allo sviluppo di tecnologie
ancora più avanzate. Ad esempio la Philips ha sviluppato dei tubi
denominati “Alto” (vedi foto: i cappucci dei catodi di colore verde,
brevettati, le rende facilmente identificabili) che hanno un contenuto
inferiore a 3,8 mg (o almeno questo è il contenuto rilevato dal test
TCLP) senza utilizzare additivi capaci di “assorbire” mediante reazioni
chimiche il mercurio durante il test, che pure sarebbero permessi. Le
caratteristiche di queste nuove lampade sono eccezionali: Ad esempio
un tubo F32T8ADV841/ALTO, appartenente alla serie ad alta
efficienza HI-VISION Phosphor, ha una luminosità di 2950 lumen con
una potenza elettrica assorbita di 32 Watt (92,18 lum/Watt) e una vita
media di 24.000 ore. Purtroppo questo tipo di lampade è disponibile solo per il mercato del nord
America, la produzione avviene in U.S.A. e l’importazione in Europa non è prevista.
E’ interessante anche esaminare la luminosità al termine della vita media. Come si vede dalla
figura 1.1 anche a 24.000 ore la luminosità si
mantiene oltre il 90 %, è bene infatti ricordare
che è inutile che un tubo fluorescente continui a
funzionare per molte ore, ma al 50 % della sua
emissione nominale, in questo modo butto via
solo corrente elettrica.
E’ opportuno anche fare una precisazione
sull’argomento: le voci secondo cui lo stato della
California avrebbe messo al bando totalmente
queste lampade non è del tutto esatta. In realtà è
stato proibito solo l’utilizzo di additivi che
Fig. 1.1 ALTO lamps lum. vs

permettono di superare i test TCLP federali. Del resto una messa al bando totale sarebbe una
pazzia. E’ vero che il problema dello smaltimento del mercurio contenuto all'interno delle lampade
deve essere affrontato con serietà, ma bisogna anche ricordare che bandire queste lampade vuol dire
sostanzialmente tornare all’utilizzo di lampade ad incandescenza, cioè moltiplicare per 8 i consumi
energetici, e quindi aumentare di 8 volte il consumo di combustibili nelle centrali elettriche. Si potrà
parlare seriamente di bando per queste lampade solo quando la tecnologia dell’illuminazione
mediante diodi led, o della sostituzione dei vapori di mercurio per le fluorescenti (esistono prototipi
che utilizzano nanotubi di carbonio al posto del gas per eccitare il convertitore fluorescente),
passerà dai laboratori di ricerca alla produzione industriale. Fino ad allora è opportuno cercare di
ridurre il più possibile il mercurio utilizzato, ma soprattutto smaltire queste lampade separatamente.
Esse infatti possono essere facilmente riciclate (come avviene in Olanda ad esempio), e il mercurio
recuperato, a beneficio dell’ambiente e delle risorse naturali. La riduzione del mercurio però deve
essere fatta in modo serio, invece solitamente viene cercato un modo per superare il test TCLP, e
non per ridurre effettivamente il metallo. Alcuni produttori utilizzano additivi che al momento dello
smaltimento assorbono il mercurio tramite reazioni chimiche come accusa la Philips (vedi anche
grafico nella pagina precedente), d’altra parte la Philips, come accusato da altri produttori, non usa
additivi, ma un altro stratagemma per ottenere lo stesso risultato.
Secondo questi infatti, i grossi catodi delle lampade “Alto” che contengono una placca di acciaio
(vedi foto sotto), inutili ai fini funzionali, assorbono gli ioni Hg2+; in questo modo il contenuto di
mercurio fornito dal test TCLP risulta inferiore a quello reale (vedi grafico del test TCLP con la
presenza dei catodi e senza, riportato in figura 1.3)
Fig. 1.3 TCLP for Hg-depleted T8 ALTO lamps

Fig. 1.2 ALTO lamps cathode

Total mercury content (mg)

Sul grafico abbiamo, su x, il contenuto effettivo (in mg) di mercurio nella lampada, mentre su y
abbiamo il contenuto rilevato dal test TCLP (in mg/litro). Si vede che grazie ai catodi il test indica
una presenza di mercurio pari circa a 1/3 di quella reale. Questa soluzione della Philips non è male;
in fondo il mercurio “fissato” è pur sempre immesso nell’ambiente, ma è meno probabile che si
“fissi” negli organismi, a meno che non si smaltisca la lampada in un inceneritore. Però se si vuole
fare qualcosa per l’ambiente è indubbio che questo atteggiamento dei produttori deve cambiare.
Descrizione del funzionamento elettrico
Sostanzialmente in una lampada fluorescente si distinguono tre zone di funzionamento:

Preheat: Per prima cosa si deve riscaldare i catodi. In questa fase la lampada presenta una
impedenza praticamente infinita, e una corrente maggiore di quella nominale (il valore dipende dal
tipo di lampada) viene fatta scorrere attraverso i filamenti dei catodi, facendo attenzione che la
tensione che si ha sul tubo sia minore di quella minima di ignition, altrimenti si ha subito l’innesco
della scarica. Il riscaldamento dei catodi ha due effetti: i filamenti caldi emetteranno più elettroni
nella fase di ignition e inoltre si ionizza parzialmente il gas intorno agli elettrodi; ciò consente
l’innesco con tensioni più basse rispetto a quelle che si avrebbero con catodi freddi. Questa fase può
sembrare poco importante, in realtà è essenziale; saltandola infatti la vita media della lampada si
accorcia drasticamente. La durata ottimale del preheat varia da 0,8 a 1 secondo, ciò costituisce un
buon compromesso tra riscaldamento dei catodi e rapidità di accensione. E’ da notare che
tipicamente questa fase è molto più lunga qualora si utilizzino ballast elettromagnetici, ciò è dovuto
essenzialmente alla tecnologia realizzativa degli starter e al fatto che è opportuno riscaldare molto
bene i catodi dato che il ballast elettromagnetico non consente di raggiungere tensioni per l’innesco
molto elevate.

Ignition: Riscaldati i catodi si fa in modo (vedremo come) che la tensione sul tubo salga fino a
raggiungere quella di innesco, ciò provoca la ionizzazione del gas all’interno della lampada,
innescando la scarica. Tale tensione, Vstrike , non è una costante ma dipende da diversi parametri
della lampada:
- lunghezza del tubo
- diametro del tubo
- tipo di elettrodi (caldi o freddi)
- pressione e temperatura del gas

Fig. 1.4 Start volt vs % Ar to Ne Fig. 1.5 Start volt vs ambient temp

Per abbassare la tensione di ignition si inserisce nel tubo una miscela di argon e neon, nella
percentuale 50% - 50 %, vedi figura 1.4, ciò consente di raggiungere tensioni di innesco variabili tra
500 e 1200 volt. Altro parametro che influenza la Vignition è la temperatura ambiente; con il
diminuire della stessa infatti la tensione di innesco sale molto rapidamente, tanto che l’innesco di
una lampada fluorescente a temperature molto basse (intorno a 0°c ) può risultare problematico,
soprattutto con l’impiego di ballast elettromagnetici.
Burn: Appena si innesca la scarica la lampada cessa di essere una impedenza infinita e presenta la
sua resistenza caratteristica, calcolabile molto semplicemente come (la relazione vale per lampade
con ballast elettronici, vedremo poi perché):

2
Vlamp _ rms
Rlamp =
Plamp

Fig. 1.6 R lamp vs I lamp vs freq.

Dalla figura 1.6 si nota che l’impedenza della lampada, almeno entro certi limiti, non varia con la
frequenza, quindi quando la scarica è innescata la lampada presenta un comportamento puramente
resistivo, e la resistenza è facilmente calcolabile come visto. Ma dalla figura si vede anche un altro
aspetto importante: la curva dell’impedenza ha una pendenza negativa (qualche volta si dice anche
che la lampada presenta una impedenza negativa), ciò comporta dei problemi di pilotaggio. Non
posso infatti alimentare la lampada direttamente con un generatore di tensione, come faccio per una
comune lampadina, ma dovrò inserire un ballast in serie al circuito proprio per fissare il punto di
lavoro sulla caratteristica V – I, che non sarà un punto casuale, ma proprio quello caratteristico della
lampada che sto utilizzando. Una alternativa, solo teorica, al ballast sarebbe quella di pilotare la
lampada con un generatore di corrente, alternata ovviamente, tuttavia è una soluzione improponibile
perché la complessità del sistema di alimentazione sarebbe troppo elevata, soprattutto se paragonata
all’estrema semplicità del ballast in serie.
Vediamo di seguito le caratteristiche elettriche di una lampada fluorescente commerciale:

Tab. 1.3 TLD 36W/840 (per f=50 Hz)


Ving (rms) 565 Volt
Vburn (rms) 103 Volt
Iburn (rms) 0,44 Amper
Vpreheat (rms) 212 Volt
Ipreheat (rms)
PA 36 Watt
Il ballast
Cerchiamo adesso di analizzare meglio il funzionamento e soprattutto l’importanza che il ballast, o
per essere più precisi l’induttore del ballast, ha per le lampade fluorescenti. La funzione di questo
componente non cambia molto sia che si operi a frequenze industriali (50 – 60 Hz) come avviene
nei ballast elettromagnetici, o a frequenze più elevate (30 – 50 kHz) nei ballast elettronici; il suo
compito primario è infatti quello di limitare la corrente nella lampada.

Fig. 1.7 Flo lamp with electromagnetic ballast

La figura 1.7 mostra una classica configurazione con ballast elettromagnetico, si distinguono bene
l’induttore (in questo caso il ballast vero e proprio), e lo starter, che analizzeremo più avanti. Se
guardiamo la caratteristica V – I tipica della fase di burn di una lampada fluorescente, figura 1.8, ci

Fig. 1.9 V/I char of a lamp, ballast


Fig. 1.8 R lamp & V lamp vs I lamp
& lamp + ballast

accorgiamo subito del perché queste lampade siano definite alcune volte “a impedenza negativa”.
Infatti un aumento della corrente provoca una diminuizione della tensione ai suoi capi, questo
comportamento ha come risultato che, come visto prima, collegandola direttamente ad un
generatore di tensione si comporterebbe come un “pozzo di corrente”, determinando la distruzione
dei catodi e quindi della lampada. Inserendo in serie una impedenza (che avrà un andamento nel
piano V – I all’incirca lineare e con pendenza positiva ovviamente) ottengo un punto stabile di
lavoro per la lampada, come è visibile in figura 1.9 (vedi minimo della curva Vlamp + Vballast).
Naturalmente tale punto di lavoro non potrà essere casuale ma dovrà coincidere proprio con la Vburn
e la Iburn tipica della lampada che sto utilizzando. E’ interessante notare che niente vieta, ai fini della
stabilità del sistema, di sostituire l’impedenza con una resistenza. Infatti supponiamo che il ballast
presenti una certa impedenza Z, sostituendo questa impedenza con una resistenza tale che R=Z la
lampada non si accorge minimamente del cambiamento, e continua a lavorare sullo stesso punto di
lavoro. Quello che cambia è invece l’assorbimento di potenza attiva, perché la resistenza dissipa in
calore una potenza pari a R•(Ilamp)2 , detto più chiaramente sto gettando via inutilmente molta
potenza elettrica. Ecco perché i ballast sono impedenze, più precisamente induttori, (vedremo più
avanti perché), anche se alcune volte si ricorre a ballast resistivi per lampade fluorescenti di
modesta potenza (tipo le spie di segnalazione da 0,5 – 1 Watt) per la semplicità, il poco ingombro e
il basso costo che hanno. Tuttavia il ballast induttivo presenta un altro problema: Essendo un
induttore, in genere di valore piuttosto elevato, assorbe potenze reattive non trascurabili e ciò
peggiora molto il cos ϕ del sistema. Ricordiamo che la potenza reattiva non è “potenza assorbita”,
per intenderci al fornitore di energia elettrica viene pagata la potenza attiva consumata, e non anche
la potenza reattiva transitata in linea. Tuttavia potenza reattiva vuol dire corrente in più che
comunque deve circolare nei conduttori, quindi maggiori perdite oltre ad altri problemi che esulano
da questa trattazione; per questo motivo il sistema di figura 1.7 è sempre completato con un
condensatore (collegato in parallelo rispetto ai connettori di alimentazione) per il rifasamento.
Vediamo un esempio di calcolo per un ballast elettromagnetico:
Supponiamo di utilizzare un tubo fluorescente TLD 36/840, di cui sono riportate le caratteristiche
elettriche nella tabella 1.3, esaminando il circuito di figura 1.7 posso estrapolare la seguente
relazione vettoriale:

Vmain − Vlamp
Z ballast =
I lamp

Questa relazione prevede di conoscere le fasi tra Vmain , Vlamp , Imain e Ilamp . C’è una fase tra Vlamp e
Ilamp non perché V è effettivamente in anticipo su I, ma perché a 50 Hz la Vlamp è molto distorta,
come visibile in figura 1.14; questa fase è determinabile tramite la relazione (suppongo IL reale):

 Pa Lamp   36 
Pa LAMP = VL • I L • cos(ϕ L ) ⇒ ϕ L = arccos  = arccos  = 37,4°
 VL • I L   103 • 0,44 

Adesso devo determinare l’angolo tra Vmain e Imain; suppongo di perdere 8 Watt sul ballast
(Rball=Pball/Imain2 = 38Ω), quindi determino ϕv tramite la relazione:

 36 + 8 
Pa LAMP + Pa BALL = Vmain • I main • cos(ϕ V ) ⇒ ϕ V = arccos  = 64,23°
 230 • 0,44 

Posso quindi determinare la V sul ballast tramite la relazione vettoriale:

Vball _ eff = Vmain _ eff − Vlamp _ eff = Vmain _ eff • e Jϕv − Vlamp _ eff • e Jϕl = 99,99 + J 207,12 − (81,8 + J 62,5) =
= 145,76 • e J 82,83V
Mentre il modulo di Xball è determinabile come:

Vball 145,76 2
Z ball = = = 331Ω ⇒ X ball = Z ball − Rball
2
= 328,8Ω
I ball 0,44

Notare che, supponendo le perdite nel ballast trascurabili, avremmo avuto Vball immaginario
(fase=+90°).
Se operiamo a 50 Hz (frequenza di rete Europea) l’induttanza del ballast può quindi essere
semplicemente calcolata come:

X ball 328,8
Lball = = = 1,05H
2πf 2 • π • 50

Come si vede a 50 Hz il valore dell’induttanza risulta molto elevato, ciò si traduce in un ingombro
notevole del ballast elettromagnetico e in un peso non indifferente per il grosso nucleo
ferromagnetico utilizzato. Già qui si capisce che in un ballast elettronico il valore dell’induttanza di
limitazione della corrente sarà notevolmente più basso, infatti in questo caso la frequenza varierà tra
30 e 50 kHz mentre l’impedenza non sarà molto diversa (ovviamente non è la stessa perché il
convertitore DC-AC non esce con una forma d’onda sinusoidale), tutto ciò si traduce in dimensioni
fisiche molto piccole e peso limitato rispetto al ballast elettromagnetico, particolari non di poco
conto se lo si vuole integrare nello zoccolo di una lampada con attacco E27 (vedi C.F.L.).
Continuando nella progettazione, risulta per il fattore di potenza:

P.F . = cosϕ V = 0,43

Ed infatti per la potenza attiva assorbita dal sistema risulta proprio:

Pa = Vmain _ rms • I main _ rms • cosϕ V = 230 • 0,44 • 0,43 = 43,99Watt

Si noti che è opportuno rifasare, come si vede dal basso P.F. e come è evidente dall’elevata potenza
reattiva scambiata dal sistema lampada - ballast con la rete:

Preatt = Vmain _ rms • I main _ rms • sen ϕ V = 230 • 0,44 • 0,9 = 91,14V . A.R.

Il valore del condensatore di rifasamento da inserire in parallelo risulta:

Preatt 91,14
C rif = = = 5,48µF
ω • Vmain 2πf • 230 2
2
Conviene scegliere un valore inferiore per evitare di trasformare il sistema da ommico-induttivo a
ommico-capacitivo, e anche per la natura di ϕL (distorsione di Vlamp), accettando un rifasamento
parziale. In questo coso scegliendo C=4µF, abbiamo un P.F. di:

Preatt _ residua = Preatt − ω • C rif • Vmain


2
= 91,14 − 2πf • 4 • 10 −6 • 230 2 = 24,66V . A.R.

 Preatt _ residua 
cosϕ = cos arc tan  = 0,87
 PA sis 

Dove nell’ultima relazione abbiamo usato ovviamente la relazione sul triangolo delle potenze.
In figura 1.10 è riportato il diagramma fasoriale relativo al ballast elettromagnetico non rifasato, in
figura 1.11 quello relativo al sistema rifasato, mentre in figura 1.12 lo schema elettrico semplificato.

Im
Vmain

Vlamp

Re
Il=Im

Fig. 1.10 Phasor diag of no P.F. corrected ballast


Im

Vmain

Vlamp

Imain

Re
Ilamp

Fig. 1.11 Phasor diag of P.F. corrected ballast

Lball
Rball

38 1H05

Rlamp
Vmain V1
Crif

230V 4uF
L-eq.Lamp

Fig. 1.12 Electromagnetic ballast for 36W TLD

Come è evidente dai calcoli visti, il valore dell’induttanza, e quindi il suo ingombro, può diventare
eccessivo, per potenze rilevanti quindi ( >40Watt) si ricorre a volte ad una topologia leggermente
diversa, visibile in figura 1.13, in cui invece di utilizzare solo un induttore per limitare la corrente,
viene usato un circuito L-C serie. Il vantaggio è quello di poter ridurre di molto il valore
dell’induttanza, e quindi anche il suo ingombro (ovviamente il valore di L deve essere ancora tale
da garantire la tensione necessaria per l’innesco), ma ciò viene pagato con il fatto che il circuito
diventa ommico-capacitivo. Vediamo lo stesso esempio di calcolo, usando però la topologia di
figura 1.13 e considerando il ballast un induttore ideale:
Lball
C

5,2uF
0,83H

Rlamp
Vmain V1

230V
L-eq.Lamp

Fig. 1.13 reduced iron ballast for 36W TLD

 36 
Pa = Vmain • I L • cos(ϕ V ) ⇒ ϕ V = arccos  = 69,16°
 230 • 0,44 
Vball = Vmain − Vlamp = 230 • e J 69,16 − 103 • e J 37, 4 = 152,5 • e J 90V
Vball 152,5
Z = = = 346Ω
IL 0,44

Complessivamente la rete L-C-lampada dovrà risultare un carico ommico capacitivo per avere i
benefici cercati, quindi sul piano dei fasori posso scrivere:

JX L − JX C = − J 346Ω

A questo punto fisso una induttanza minima tale da garantire l’innesco del tubo; la posso
determinare attraverso la legge di Lenz (E=-L di(t)/dt), oltre ad altri parametri quali la corrente di
preheat, il tempo di apertura dello starter ecc. Procedendo si ottiene un valore per L pari a 0,83 H,
mentre per C risulta:

1
X C = 346 + X L ⇒ C = = 5,25µF
2πf • (346 + 260)

Come si vede in questa topologia il valore, e praticamente quindi anche l’ingombro, di L sono
diminuiti, ma per la linea il sistema ballast + lampada risulta ora un carico ommico-capacitivo.
Per finire la descrizione dei ballast elettromagnetici resta da vedere come viene realizzato il preheat
dei catodi e la fase di ignition. Per queste fasi entra in gioco un componente essenziale per questo
tipo di ballast: Lo starter. Se si osserva la figura 1.7 si nota che questo componente è in parallelo,
attraverso i filamenti dei catodi, con la lampada e quando è chiuso offre un percorso alternativo alla
corrente elettrica. Sostanzialmente lo starter è una piccola lampada a scarica (ecco perché nella fase
di start lo vediamo “accendersi”) con i catodi costituiti da due lamelle metalliche; la sua tensione di
ignition deve essere minore di quella della rete elettrica, ma più grande di quella di burn della
lampada fluorescente, perché non si possa più innescare quando la lampada si è accesa. Quando
chiudo il circuito elettrico il tubo fluorescente presenta una impedenza molto elevata (dell’ordine di
qualche MΩ) e lo starter a sua volta risulta aperto, quindi la corrente non può circolare nel circuito,
ma dato che non circola corrente ai capi dello starter mi trovo praticamente la tensione di linea che
lo ionizza, a questo punto la corrente comincia a circolare attraverso ballast, catodi e starter. Il
passaggio di corrente attraverso i catodi dello starter ionizzato ne determina il forte riscaldamento e
deformandosi vanno in cortocircuito, a questo punto lo starter si de ionizza ma la corrente continua
a circolare fino a che i catodi dello starter rimangono sufficientemente caldi. E’ questo il momento
in cui il passaggio di corrente risulta massimo, in quanto l’impedenza vista dalla rete è solo quella
del ballast più le resistenze parassite. I catodi della lampada fluorescente sono ormai molto caldi
(ciò è visibile dal gas che ionizzandosi parzialmente comincia ad emettere luce alle estremità del
tubo) e tutto è pronto per la fase di ignition. Quando lo starter si riapre, perché i catodi si sono
sufficientemente raffreddati, ho una brusca variazione della corrente, ciò produce una tensione
molto elevata ai capi dell’induttore in accordo con la legge di Lenz (questo è il motivo per cui la
presenza e il valore minimo dell’induttore sono importanti) e se la somma vettoriale della V di linea
con quella dell’induttore è maggiore della V di ignition della lampada, ho l’innesco. Naturalmente
l’apertura dello starter non è sincronizzata con la tensione di linea, ecco perché può accadere che il
tubo non riesca ad innescarsi, in questo caso il ciclo di accensione ricomincia da capo (questo è il
motivo per cui, di solito, l’accensione con ballast elettromagnetici è caratterizzata da qualche
“lampeggio” del tubo prima dell’accensione). Una volta innescata la scarica, ai capi della lampada è
presente la tensione tipica di burn e lo starter non può più ionizzarsi, così che il circuito diviene, in
prima approssimazione, equivalente a quello utilizzato per lo studio del ballast di figura 1.12. La
figura 1.14 mostra una simulazione con spice di una lampada fluorescente con ballast
elettromagnetico.

V lamp when struk 80V/Div.

I lamp 0.5A/Div.

The lamp strikes here

260.0M 280.0M 300.0M 320.0M 340.0M

Fig. 1.14 V & I on florescent lamp


Pur essendo solo una simulazione, la figura mostra molto bene il comportamento di una lampada
fluorescente. Si distinguono infatti la regione di preheat (sull’asse negativo dei tempi) e la regione
di burn (asse positivo); in 0 avviene invece l’ignition (notare il picco nella Vlamp all’istante t=0).
Interessante risulta anche l’andamento della tensione ai capi della lampada nella fase di burn.
Sostanzialmente tale tensione non varia di molto, in quanto tipica del gas ionizzato, tuttavia si nota
l’andamento negativo dell’impedenza della lampada. Infatti all’aumentare della corrente tende a
diminuire, mentre al diminuire della corrente aumenta di nuovo. Altro aspetto interessante è la de
ionizzazione del tubo e l’innesco della scarica con polarità opposta all’inversione della corrente
(non è apprezzabile dalla figura, ma la scarica non cessa proprio all’azzerarsi della corrente, ma ad
un valore residuo ∆Ilamp ), naturalmente il re innesco lo ottengo a tensioni molto minori di Vstrike
perché il gas risulta molto caldo e la frequenza sufficientemente elevata anche a 50 Hz. Questo
fenomeno produce nelle lampade che operano con ballast a 50 Hz uno “sfarfallio” (flickers) che
risulta leggermente visibile e può risultare fastidioso. Nei ballast elettronici che operano a frequenze
più elevate il fenomeno risulta totalmente assente sia per la frequenza elevata appunto, ma anche
perché in pratica il gas non riesce a de ionizzarsi completamente e la fluorescenza del convertitore
assorbe bene le poche variazioni dell’emissione fotonica del mercurio.
Altri tipi di lampade a scarica e analisi degli spettri di emissione

Le lampade che abbiamo visto fino ad ora sono a bassissima pressione, in realtà esistono anche
lampade ad alta pressione (tipicamente tra 1 e 10 atmosfere). In queste condizioni il mercurio, che
emette fotoni su 185 e 254 nm (entrambi nell’ultravioletto) riassorbe parte dell’energia e la riemette
su lunghezze d’onda che ricadono anche nel visibile. In figura
1.15 è riportata la struttura tipica, mentre in figura 1.19 si può
vedere lo spettro di emissione della lampada sia con il
convertitore fluorescente, sia senza. Il convertitore viene
aggiunto alcune volte per allargare un po’ lo spettro di
emissione che altrimenti risulterebbe praticamente
quadricromatico con la completa assenza del rosso. Il
funzionamento è semplice: Ci sono tre elettrodi, due per la
scarica e uno ausiliario per l’innesco, che attraverso una
resistenza inizia la ionizzazione del gas. Una volta partita la
scarica e vaporizzatto il mercurio la lampada emette luce come
detto in precedenza. Anni fa questo tipo di lampade era molto
utilizzato per l’illuminazione pubblica prima di essere sostituite
da quelle a vapori di sodio perché molto più efficienti.
Fig. 1.15 structure of high pressure Hg lamp

Un altro tipo di lampada a scarica molto interessante è quella a bassa pressione di sodio. L’interesse
deriva dal fatto che è attualmente il tipo di lampada più efficiente; infatti il rendimento si aggira
intorno al 98% , ma ha come contro che la radiazione emessa è monocromatica (intorno a 589 nm
⇒ giallo-arancio). Sono largamente utilizzate nella pubblica illuminazione per il loro alto
rendimento, piccolo ingombro e semplicità di funzionamento
(ovviamente richiedono sempre un ballast come tutte le lampade
a scarica), e difficilmente potranno essere sostituite in questa
applicazione, almeno fino a che le nuove tecnologie delle
lampade a led a piramidi invertite non decolleranno
definitivamente. Nella figura 1.18 è riportato lo spettro di
emissione di queste lampade, dal quale si capisce bene perché il
rendimento risulta così elevato: Tutta la potenza è concentrata in
un'unica riga, e anche quella poca che viene emessa su altre
frequenze, ricade comunque nel visibile (450-700 nm).

Fig. 1.16 Low pressure sodium lamp


Vediamo in questa pagina gli spettri di emissione di alcuni tipi di lampade:

Fig. 1.17 Incandescent lamp spectral output

Fig. 1.18 Low pressure sodium spectral output

Fig. 1.20 Fluorescent lamp spectral output

Fig. 1.19 high press mercury vapour spectral output Fig. 1.21 Uman eyes sensibility
L’occhio umano si comporta sostanzialmente come un filtro per le radiazioni elettromagnetiche; la
curva della sensibilità è riportata in figura 1.21 e come si vede il range di frequenza visibili si
estende da 450 a 700 nm (range in cui la sensibilità non scende sotto il 5 %). Fatta questa premessa
possiamo fare alcune considerazione sugli spettri di emissione delle lampade considerate. Avevamo
accennato in precedenza quanto fosse scarso il rendimento di una lampada ad incandescenza, ma
guardando il suo spettro si capisce molto bene il perché: questo infatti risulta spostato verso gli
infrarossi. Praticamente a 700 nm l’emissione fotonica è quasi massima, mentre il nostro occhio
quasi non vede più, mentre intorno al verde (dove il nostro occhio presenta la massima sensibilità),
l’emissione luminosa è modesta se paragonata alla potenza radiata sull’infrarosso. La lampada al
vapore di sodio è quella che presenta il rendimento più alto (per i motivi già discussi), ma anche le
lampade fluorescenti presentano poco spettro fuori dalla curva delle frequenze visibili, ed inoltre è
anche abbastanza continuo nel visibile (se nello spettro di emissione mancano alcuni colori, la
visione degli stessi appare distorta). Infine le lampade a vapore di mercurio ad alta pressione, pur
non presentando spettro continuo, avrebbero un buon rendimento se non fosse per il picco di
emissione fotonica appena sotto i 400 nm, che rappresenta una non trascurabile percentuale della
potenza luminosa totale, ma che non è visibile. Tipicamente questo tipo di lampada presenta una
luminosità di 40 lumen/Watt e attualmente risulta un po’ superata.
Ballast elettronici

Perché scegliere un ballast elettronico

Ad una analisi superficiale sembrerebbe che l’unico beneficio di un ballast elettronico rispetto ad
uno tradizionale sia unicamente il peso e l’ingombro. Queste sono si caratteristiche importanti che
hanno reso possibile lo sviluppo di C.F.L. commerciali (vedi foto 2.1), ma sono poca cosa rispetto
ai grandi vantaggi che il controllo di lampade fluorescenti con queste apparecchiature comporta.

Fig. 2.2 Flo lamp efficiency vs operating frequency


Fig. 2.1 Commercial C.F.L.

La prima cosa da notare è che l’efficienza delle lampade fluorescenti, soprattutto per quanto
riguarda il convertitore, dipende molto dalla frequenza operativa. Come visibile in figura 2.2
all’aumentare della frequenza l’efficienza sale notevolmente, soprattutto fra 500 Hz e 30-40 kHz.
Ciò vuol dire che, pur pilotando il tubo con la stessa potenza attiva, la luminosità prodotta risulta
più elevata utilizzando un ballast operante intorno ai 40 kHz invece del comune ballast
elettromagnetico a 50 Hz. Questo incremento ovviamente dipende molto dal tipo di lampada, ma si
può stimare approssimativamente in un 10% - 15%; ciò vuol dire che posso, impiegando la stessa
lampada, utilizzare tipicamente il 10% in meno di energia elettrica per ottenere la stessa
illuminazione. L’incremento è dovuto, oltre all’aumento dell’efficienza, anche alle minori perdite
che ci sono nei ballast elettromagnetici. Infatti, nonostante la presenza di componenti a
semiconduttore, delle alte frequenze operative, e di IC di controllo, questi ballast presentano
solitamente perdite minori dei grossi ballast elettromagnetici. Ciò è dovuto alla grossa induttanza di
questi ultimi, che essendo realizzata con numerose spire, presenta una notevole resistenza parassita
(toccando un ballast elettromagnetico inserito si nota subito che ha una temperatura sui 40°c).
Scegliendo quindi opportunamente i componenti elettronici e le topologie (tipo utilizzando mosfet
con ron molto basse ecc.) e soprattutto curando la realizzazione dell’induttore che limita la corrente
realizzandolo con filo di rame smaltato di tipo Liz invece che a filo unico, non è difficile ottenere
rendimenti migliori rispetto ai ballast elettromagnetici. Tenendo presente tutto questo
nell’ingineering dei ballast elettronici, in particolare la profondità di penetrazione del campo
elettromagnetico nei conduttori che costituiscono l’induttore, e quindi le resistenze parassite (vedi
figura 2.3), operando intorno alla frequenza di 40kHz (buon compromesso fra perdite nei
semiconduttori e incremento del rendimento della lampada) ed utilizzando tubi fluorescenti di
ultima generazione ad alta luminosità, non è una esagerazione affermare che si può impiegare il
25% di potenza elettrica in meno per avere la stessa illuminazione di un TL standard con ballast
elettromagnetico.

l
R=ρ•
2πrδ − πδ 2
ρ
δ=
µπf
ρ = 1,8 • 10 −8 Ω / m, µ = 1 _ for _ Cu

Fig. 2.3 Copper wire resistance vs frequency

La tabella 2.1 mette in evidenza quanto sopra affermato:

Tab. 2.1 Energy saving with ele ballast & advantage T8 lamps
Considerando la prima parte della tabella si nota (1° riga) che già utilizzando un ballast elettronico
si riesce a portare all’emissione luminosa nominale un tubo da 32 Watt con 29 Watt, passando alla
versione ad alta efficienza (2° riga) si riesce ad ottenere una luminosità compatibile con il TL
standard con soli 26 Watt. Si noti che nella comparazione non sono state prese in considerazione le
minori perdite che normalmente caratterizzano i ballast elettronici (se ben progettati) rispetto a
quelli elettromagnetici.
Altro aspetto molto importate è l’assenza di “sfarfallio” della sorgente luminosa che invece si ha
utilizzando ballast elettromagnetici. Esaminando la figura 2.4 si nota che, nei ballast
elettromagnetici, l’arco nella lampada si estingue praticamente due volte in un periodo (nota anche
che l’estinzione avviene prima che si annulli la corrente), ciò provoca un tremolio della luce con

Fig. 2.5 Faraday dark space


Fig. 2.4 V-I charatteristic of flo tube

una frequenza approssimativa di 100/120 Hz ( a seconda che il ballast lavori a 50 o 60 Hz). Ma


questo non è tutto; infatti il tubo non si illumina completamente ma esiste una zona attorno al
catodo (inteso proprio come terminale a potenziale negativo) oscura, chiamata Faraday dark space,
come visibile in figura 2.5. Ovviamente dato che catodo e anodo si invertono in ogni periodo e
considerando anche la fluorescenza del convertitore, non vedo questa zona oscura, tuttavia
contribuisce a accentuare il tremolio delle sorgente luminosa. La presenza della regione di Faraday
è infatti dimostrata dal fatto che il tremolio del tubo fluorescente è più evidente attorno ai catodi
perché in questa zona si sommano gli effetti della deionizzazione del gas e della presenza della
regione di Faraday appunto. Nei ballast elettronici questi fenomeni, che possono essere molto
fastidiosi soprattutto perché tendono a stancare la vista, sono totalmente assenti. Infatti operando a
frequenze elevate il gas non riesce a deionizzarsi e la lampada quindi non riesce proprio a spegnersi
nelle inversioni della corrente. Il risultato è una emissione praticamente continua del flusso
luminoso particolarmente importante in molti ambienti operativi quali uffici, ambienti residenziali,
teatri e soprattutto in tutte quelle applicazioni in cui effetti stroboscopici delle fonti luminose
possono generare malfunzionamenti in particolari apparecchiature (ad esempio dispositivi conta
pezzi ecc.). Tuttavia in una buona progettazione di un ballast elettronico è opportuno tenere
presente alcune cose: E’ da evitare che la frequenza operativa ricada nella banda di alcuni sistemi
di trasmissione ottici (come telecomandi per TV, VCR, Hi-Fi ecc), al fine di prevenire possibili
saturazioni degli stadi dei ricevitori; inoltre è bene filtrare opportunamente la tensione di linea, per
evitare che un eccessivo ripple a 100 o 120 Hz possa ripercuotersi sul funzionamento della lampada.
I ballast elettronici inoltre non producono rumore durante il funzionamento. Infatti i grossi induttori
che operano a frequenze di rete tendono a produrre rumore per le vibrazioni che si instaurano nei
lamierini e nelle spire dell’avvolgimento. Nei ballast elettromagnetici più moderni si è cercato di
ovviare a questo problema, che in alcuni ambienti operativi, come abitazioni residenziali, può
risultare più fastidioso dello stesso tremolio, utilizzando nuclei particolari, e soprattutto
“bloccando” spire e lamierini con apposite resine. Tuttavia queste sono tecniche che limitano il
rumore, per arrivare ad una eliminazione completa si deve ricorrere appunto ai ballast elettronici,
che operando ben al disopra delle frequenze udibili, risultano totalmente silenziosi. Ovviamente, se
la progettazione non è stata fatta in maniera corretta, si può avere la generazione di molte
armoniche nel campo delle frequenze audio, con la conseguenza quindi di produrre rumore. Questo
comunque non è un fattore critico; per arrivare al punto che le armoniche generano rumore bisogna
che la progettazione sia veramente pessima o che il ballast sia andato incontro ad una avaria (la più
frequente di questo tipo, cioè che si manifesta inizialmente con la generazione di disturbi udibili, è
il diterioramento del condensatore di filtro del main rectifier). Altro aspetto molto interessante
dell’utilizzo dei ballast elettronici è senza dubbio l’incremento della vita media delle lampade e in
generale la migliore gestione della lampada. Infatti in un ballast di questo tipo il controllo sul tempo
di preheat, e soprattutto sull’ignition, ha come risultato un minore stress per il tubo fluorescente, che
si traduce in una vita media maggiore. Anche in caso di malfunzionamenti della lampada non si
corre il rischio di mandare in avaria l’induttore del ballast o lo starter come avviene per quelli
elettromagnetici, o più banalmente non vediamo più i lampi di un tubo che inutilmente tenta di
innescarsi; è infatti molto semplice e poco costoso implementare protezioni che bloccano il
funzionamento del ballast elettronico qualora sia riscontrata una avaria sulla lampada. Utilizzando
IC dedicati al controllo di lampade fluorescenti, monitoraggio e pilotaggio risultano ottimizzati,
tanto che si arriva ad avere un controllo quasi assoluto su tutte e tre le fasi di funzionamento.
Addirittura i chip UBA2014 della Philips operano anche il controllo della corrente che circola nella
lampada (e quindi della potenza luminosa emessa), regolando la frequenza dell’oscillatore per
mantenere la potenza della lampada sempre sotto controllo. Da un punto di vista estetico il controllo
che i ballast elettronici hanno nella fase di start fa si che l’accensione sia praticamente immediata
(salvo un tempo di preheat che si aggira, nei ballast ben progettati, intorno agli 0,8 secondi). Questo
aspetto risulta particolarmente apprezzabile soprattutto nell’utilizzo residenziale; in queste
applicazioni infatti risultano molto fastidiosi i flash allo start delle lampade dotate di ballast
elettromagnetico, dato l’elevato numero di accensioni tipiche dei sistemi di illuminazione
residenziali. Ma la caratteristica più interessante dal punto di vista ingegneristico, quasi mai
sfruttata nelle applicazioni, è la facilità con cui è possibile regolare la luminosità delle lampade
dotate di ballast elettronico. Il dimming infatti può essere fatto semplicemente variando la frequenza
dell’oscillatore, ciò consente di variare la potenza della lampada in base alle condizioni della luce
ambientale, oppure in base agli orari lavorativi, o ancora più semplicemente in base all’estetica
voluta.
Topologie più comuni

Lo schema concettuale di un ballast elettronico è il seguente:

Quello che cambia nelle varie topologie è sostanzialmente il tipo di convertitore DC-AC.
Vediamone alcuni:

Voltage fed and current fed push pull topology

Fig. 2.6 Voltage fed push poll Fig. 2.7 Current fed resonant push poll

Queste due topologie sono delle configurazioni push-poll. La caratteristica fondamentale che
presentano è sicuramente l’isolamento galvanico che si viene a creare tra la parte del circuito
alimentato dalla tensione di rete rettificata e la lampada. Alcune volte tale caratteristica si rivela
essenziale per motivi di sicurezza e può essere chiesta anche in fase di specifiche. Infatti entrando a
contatto con la tensione continua proveniente dal main rectifier si genera una scarica verso terra che
la linea vede come una serie di impulsi e non come una sinusoide; un normale interruttore
differenziale può venir saturato da queste correnti, non riuscendo ad interrompere il circuito e
determinando la folgorazione dell’individuo. Negli ultimi anni sono stati sviluppati interruttori in
grado di rilevare anche correnti di tipo impulsivo, costruiti con nuclei che presentano correnti di
saturazione più alte (la Bticino identifica questi differenziali con la dicitura “Tipo A”), ciò per la
grande diffusione che anno avuto gli alimentatori a commutazione. Continuando nella descrizione
dei ballast in configurazione push-poll bisogna dire che il problema più grande è rappresentato dalla
tensione che devono sopportare gli elementi attivi. Infatti si nota che tale tensione è circa Vdc•2, ciò
vuol dire che, per una Vlinea=230V gli elementi attivi devono sopportare una tensione di
2•230•√2•1,15=750V. Per questo motivo la configurazione in questione è molto usata in paesi con
tensioni di linea di 110V, mentre è poco usata nei paesi in cui le tensioni delle linee elettriche
risultano più elevate. Ma c’è una applicazione in cui la configurazione push-poll è praticamente
insostituibile (o quasi): l’alimentazione a basse tensioni, quasi sempre continue, di lampade
fluorescenti. Infatti giocando sul rapporto spire del trasformatore (che ovviamente deve essere in
ferrite, perché lavora ad alta frequenza), possiamo ottenere le tensioni a cui normalmente lavorano
le lampade partendo anche da tensioni molto più basse. Altre caratteristiche positive di questo tipo
di convertitore sono la protezione intrinseca per i semiconduttori a seguito di un cortocircuito sul
carico (il trasformatore eroga, e quindi assorbe, al massimo la corrente di cortocircuito) e la
configurazione ad emettitore comune, o source comune, degli elementi attivi. Tale configurazione,
come noto, è quella che permette di avere le perdite minori. Negli schemi delle figure 2.6 e 2.7 i
dispositivi attivi vengono pilotati attraverso due avvolgimenti ausiliari del trasformatore principale,
in questo modo il circuito risulta self oscillant, nulla vieta però di controllare i dispositivi con un IC
dedicato. Per finire la descrizione sommaria dei ballast con topologia push poll resta da chiarire la
differenza fra le due configurazioni di figura 2.6 e 2.7, rispettivamente voltage fed e current fed
parallel resonant. Della configurazione voltage fed c’è poco da dire dato che si tratta di un push poll
classico; è opportuno ricordare che l’uscita ha una forma d’onda che si avvicina molto ad un’onda
quadra, e la tensione di uscita dipende ovviamente dalla tensione continua di alimentazione, ma
soprattutto, in una configurazione self oscillant come quella di figura 2.6, anche la fequenza
dipende sia da Vcc sia dal carico. Nel circuito risonante di figura 2.7 le cose funzionano molto
diversamente. Il condensatore C forma un circuito risonante con l’induttanza del primario del
trasformatore T1, grazie a questo accorgimento, e soprattutto alla presenza del grosso induttore L
che in pratica si comporta come un generatore di corrente costante, la forma d’onda di uscita è
abbastanza vicina ad una sinusoide.

Fig. 2.8 Equiuvalent circuit of fig. 2.6 Fig. 2.9 Typical resonant push poll waveforms
Lo schema semplificato di questo convertitore è riportato in figura 2.8, mentre in figura 2.9 sono
riportate le forme d’onda indicative. In realtà infatti la forma d’onda non è perfettamente
sinusoidale come sembrerebbe, ma è molto più distorta, comunque è sufficientemente vicina alla
fondamentale per poter affermare che l’uscita è praticamente sinusoidale. Il maggior vantaggi di
questa configurazione è sicuramente il rendimento. Infatti l’interdizione dei dispositivi attivi
avviene a tensione praticamente nulla, ciò rende le perdite di commutazione (chiaramente quelle di
conduzione rimangono inalterate) veramente molto basse, consentendo di operare a frequenze molto
elevate. Oltre a questo, un altro aspetto molto importante è che l’uscita è praticamente indipendente
dal carico, così posso mettere anche più lampade in parallelo senza che l’eventuale avaria di una
pregiudichi il funzionamento delle altre; inoltre per l’impedenza che limita la corrente nella
lampada (il ballast vero e proprio) posso utilizzare un semplice condensatore, dato il basso
contenuto in armoniche della forma d’onda. Ovviamente ha anche gli altri vantaggi, ma anche
svantaggi, della configurazione push poll classica, tuttavia dove le tensioni di linea non sono molto
alte, la configurazione risonante è molto utilizzata.

Half bridge topology

Questa è sicuramente la configurazione più diffusa, soprattutto dove la tensione di linea risulta
elevata (oltre i 200 V), e vedremo tra poco il perché, inoltre è una configurazione molto semplice, e
se il circuito è self oscillant, come nello schema di figura 2.10, i componenti richiesti sono
veramente pochi; ciò si traduce in un bassissimo costo di produzione, tanto che i ballast elettronici
delle C.F.L. sono quasi sempre di questo tipo.

Fig. 2.10 Hal bridge topology Fig. 2.11 Half bridge topology variation

Come è evidente dalle figure 2.10 e 2.11 questa topologia è veramente molto semplice dal punto di
vista circuitale, tuttavia ha il grosso inconveniente di non isolare la lampada dall’alimentazione,
anche se la topologia half bridge classica di figura 2.10 offre, grazie alla presenza dei due
condensatori di partizione della Vcc, una sicurezza minima accettabile. Oltre alla semplicità, la
caratteristica che rende molto interessante questa topologia è la tensione a cui sono sottoposti gli
elementi attivi del semiponte. Infatti analizzando il sistema si nota che tale tensione è pari circa alla
Vcc, quindi gli elementi attivi possono essere scelti con una V di breack down pari a
230•√2•1,15=374 Volt. Questo è uno dei motivi per cui tale configurazione, o configurazioni
riconducibili a questa come quella di figura 2.11, sono molto diffuse in paesi come il nostro, in cui
la tensione delle linee e di 230 Volt. Altri problemi di questa topologia sono la configurazione
common collector ( o common drain) dell’upper side del convertitore, che determina perdite
maggiori su questo dispositivo, e il fenomeno della cross conducion. Questo fenomeno si verifica
quando entrambi gli elementi si trovano nello stato di conduzione (ciò è dovuto quasi sempre alla
diversità tra Ton di un dispositivo e il Toff dell’altro, così che uno entra in conduzione prima che
l’altro ne sia uscito completamente), ciò genera un percorso a bassissima resistenza per la Vcc che si
traduce in una corrente molto elevata che attraversa i dispositivi, determinandone la distruzione. Il
fenomeno si può eliminare utilizzando due dispositivi uguali. In realtà la configurazione self
oscillant offre già intrinsecamente una buona protezione per questo evento, e vedremo più avanti
perché, mentre per i ballast half bridge controllati da un IC dedicato, è necessario che il chip
presenti anche una rete interna (normalmente è una rete di ritardo) atta a prevenire una conduzione
simultanea. Nello schema di figura 2.11 è visibile una variazione della configurazione half bridge
classica, il condensatore ha l’importante funzione di togliere la componente continua, che altrimenti
danneggerebbe la lampada, e il suo valore dovrà essere sufficientemente elevato da poter essere
considerato un cortocircuito alla frequenza operativa del ballast, condizione che ovviamente devono
rispettare anche i due condensatori della configurazione classica.

Convertitori controllati da IC dedicati

Chips dedicati per questa applicazione ce ne sono diversi, alcuni, più semplici, sono
sostanzialmente poco più che oscillatori programmabili adattati per questo utilizzo, altri sono dei
VLSI che implementano la gestione completa della lampada comprese protezioni varie.
Riprenderemo questo argomento alla fine della trattazione, in questo capitolo ci limitiamo ad una
descrizione sommaria. Quasi sempre questi IC sono realizzati per essere impiegati in configurazioni
half bridge, come si vede in figura 2.12 (in figura 2.13 è riportato lo schema interno
dell’UBA2014), e da un punto di vista funzionale non c’è differenza fra configurazione self
oscillant e IC controlled, tuttavia le cose cambiano molto da un punto di vista progettuale.

Fig. 2.12 Typical IC controlled ballast

L’uso di un IC dedicato rende la progettazione del ballast molto più semplice, in quanto è possibile
controllare molto bene la frequenza dell’oscillatore, addirittura nei chips UBA2014 della Philips
posso praticamente fissare la frequenza per preheat, ignition e burn. Nelle configurazioni senza IC
invece, la frequenza a cui oscilla il circuito dipende molto dalle condizioni di carico, per cui non è
molto facile determinare a quale frequenza andrà a oscillare nella fase di ignition e a quale nella
fase di burn, e questi sono parametri fondamentali per la progettazione sia dell’induttore che limita
la corrente, sia della rete risonante che realizza l’ignition della lampada. Per questi motivi progettare
utilizzando IC dedicati risulta molto più semplice, anche se chiaramente i costi di produzione di
ballast con chips sono molto maggiori di quelli self oscillant. Per i dispositivi del’IRF è disponibile
un software free were che, in pochi semplici passaggi, esegue automaticamente una progettazione
del ballast quasi definitiva. Ovviamente gli IC dedicata hanno anche il vantaggio, come detto, di
garantire un controllo della lampada fluorescente nettamente superiore, inoltre implementano molte
protezioni che altrimenti dovrebbero essere realizzate con circuiterie apposite. Per questo motivo
l’uso di questi dispositivi è giustificato qualora sia prevista la realizzazione di pochi pezzi, per
lampade con potenze elevate (tipicamente maggiore di 30 Watt), o qualora si vogliano gestire più
lampade con uno stesso convertitore, o ancora quando si voglia rendere massimi i rendimenti del
sistema (ad esempio prevedendo anche una regolazione automatica della luminosità emessa).

Fig. 2.13 Block schematic diagram UBA2014


Implementazione delle fasi di preheat ed ignition (start up)
Abbiamo visto la realizzazione di vari tipi di convertitori, ma non abbiamo detto niente riguardo a
come vengano realizzate le fasi di preheat e ignition nei ballast elettronici.

Fig. 2.14 Typical current mode conf.

In figura 2.14 possiamo vedere una tipica configurazione current mode. Per realizzare lo start si
procede in un modo relativamente semplice: L’induttanza Lp, che limita la corrente nel tubo, forma
un circuito risonante con il condensatore Cp, la frequenza di burn deve ovviamente essere minore di
quella di risonanza, ciò è ottenuto o controllando la frequenza dell’oscillatore se si utilizzano IC
dedicati, oppure fruttando la variazione della resistenza della lampada. In figura 2.15 sono visibili le
due curve riferite ai due modi operativi della lampada. Prima che l’arco si addeschi la lampada
presenta una impedenza molto elevata, quindi la curva è quella tipica di un circuito L-C risonante,
una volta però che è avvenuta l’ignition, l’impedenza della lampada decresce (varia in base al tipo e
alla potenza del tubo, ma tipicamente ha un valore di qualche centinaio di ohm), e il punto di lavoro
passa sull’altra curva. La figura 2.15 mostra molto bene come avvengono le due fasi di preheat e
ignition. In realtà il grafico si riferisce ad una C.F.L. controllata da un IC dedicato (nel caso
specifico un UBA2021), per le configurazioni self oscillant o controllati da IC più semplici (che non
implementano al loro interno uno shift per l’oscillatore) le cose funzionano in modo leggermente
diverso, ma ci ritorneremo sopra nel prossimo capitolo. Come si vede lo start avviene a frequenze
abbastanza elevate, così da avere correnti limitate e consentire al chip di controllare la presenza di
eventuali anomalie circuitali (cortocircuiti ecc.). La frequenza viene quindi diminuita fino a portarsi
al preheat a cui rimane per il tempo programmato (tipicamente 0,8 secondi), e quindi viene ancora
diminuita avvicinandosi alla frequenza di risonanza. In queste condizioni l’impedenza della serie L-
C diviene molto bassa, in realtà non arriva proprio alla risonanza, ma si può ipotizzare che
praticamente il circuito sia puramente resistivo, con resistenza uguale alla somma della resistenza
parassita dell’induttore più quelle dei catodi (che tipicamente è 4- 5 Ω). Si intuisce che la corrente
in questa fase è molto elevata, ed è necessario quindi prestare attenzione a questi fattori:

1) Dimensionare opportunamente i dispositivi attivi.


2) Dimensionare opportunamente il nucleo dell’induttore Lp per impedire che vada in saturazione
durante questa fase.
3) Prevedere una opportuna circuiteria (negli IC più evoluti è integrata) che disattivi il convertitore
qualora la lampada non riesca ad innescarsi (lampada esaurita)
Fig. 2.15 C.F.L. 13W with UBA2021 LC & LCR curves

La corrente erogata dal convertitore e la tensione che abbiamo sulla lampada in questa fase, (che
deve essere maggiore della Vstrike tipica della lampada per garantire l’innesco), sono valutabili
come:

Vcc
I=
∑ R par
V = Vcc • Q

Dove ∑Rpar rappresenta la sommatoria delle resistenze parassite, mentre Q è il fattore di qualità
dell’induttore. Si noti che l’unico parametro sul quale posso intervenire per far in modo che
Vcc•Q>Vstrike tipica del tubo è proprio Q, dato che Lp e Cp sono vincolati alla VL, IL e alla
frequenza di risonanza. Continuando l’analisi si vede che praticamente salgo la curva LC fino a che
la tensione supera quella di ignition della lampada, a questo punto il circuito diviene LCR e il punto
di lavoro si sposta sulla curva corrispondente e alla frequenza tipica di burn.
Nella configurazione current mode il preheat viene fatto facendo scorrere la corrente nei catodi
della lampada. Questo può causare problemi perché quando arrivo nella fase di ignition la corrente
che scorre nel circuito, e quindi anche nei catodi, è molto elevata, e anche se questa fase è
veramente molto breve, soprattutto se il sistema è controllato da un IC, posso avere una
diminuizione della vita media della lampada. Per questo motivo spesso si ricorre ad una
configurazione alternativa, detta voltage mode, in cui i catodi sono connessi a due avvolgimenti
ausiliari dell’induttore Lp. In questo modo posso controllare molto meglio la corrente che scorre nei
catodi, perché essi in pratica hanno una alimentazione indipendente, in tensione, prelevata dagli
avvolgimenti ausiliari. La figura 2.16 mostra appunto questo tipo di configurazione, si noti che non
è un half bridge standard, ma la variante illustrata in figura 2.11, inoltre si vede bene come in questo

Fig. 2.16 Voltage mode conf.

caso l’elevata corrente della fase di ignition non circola nei catodi della lampada, evitando quindi di
sottoporre a stress questi che sono i componenti più delicati del tubo fluorescente. Dobbiamo però
ricordare che la configurazione voltage mode non si adatta molto bene ai ballast self oscillant, sarà
chiaro in seguito perchè, nelle quali si preferisce il current mode. In pratica questa configurazione è
molto valida qualora si utilizzino IC dedicati, soprattutto se si prevede di non utilizzare induttanze
standard già presenti sul mercato, in quanto gli avvolgimenti ausiliari sono in genere costituiti da
poche spire ( tipicamente da 5 a 10 massimo ), e non è un problema realizzarli in fase di
avvolgimento dell'induttore principale, soprattutto perché non richiedono di rispettare alcuna fase.
Armoniche introdotte in rete

Un grosso problema dei ballast elettronici, comune praticamente a tutti gli alimentatori a
commutazione (quindi PC, monitors, TVC, VCR ecc.), è l’introduzione di armoniche nella rete
elettrica. Infatti i picchi di carica del condensatore di filtro del main rectifier provocano una
notevole distorsione della corrente di ingresso e quindi, per le impedenze parassite, anche della
tensione. In figura 2.17 è visibile appunto la tensione e la corrente di ingresso di un alimentatore a
commutazione privo di qualunque filtro EMI.

Fig. 2.17 Input V & I in PWM converter Fig. 2.18 Input current in 50 Hz & HF ballast

Come si vede la distorsione della corrente è molto evidente, ma si nota anche la distorsione della
tensione. Tipicamente, se non è presente nessun filtro, la distorsione di questi sistemi si aggira
intorno al 100%, quando sarebbe opportuno non superare il 10% per le armoniche immesse in rete.
La figura 2.18 mostra la corrente di ingresso di un ballast elettromagnetico, sopra, e di uno
elettronico, sempre non dotato di nessun filtro di soppressione, sotto. Anche per i ballast
elettromagnetici si hanno problemi di distorsione, dovuti sia alla tensione della lampada, che come
visto a 50 Hz risulta molto distorta, sia alle correnti di magnetizzazione del ballast (è opportuno
ricordare la non linearità della curva di magnetizzazione di un nucleo ferromagnetico). Tuttavia,
come è anche evidente dalla figura, la distorsione è limitata, e per i ballast elettromagnetici il
fenomeno è trascurabile; inoltre la presenza del condensatore di rifasamento costituisce un filtro
elementare che limita, seppure modestamente, la distorsione della corrente assorbita dalla linea
(alcune volte si inserisce, oltre al condensatore di rifasamento, anche un condensatore con capacità
molto piccola che serve proprio per migliorare il filtraggio delle armoniche). Il problema delle
armoniche introdotte in linea non è da sottovalutare, infatti esse possono generare svariati problemi
tra cui deterioramento dei condensatori, generazione di sovratensioni a volte molto pericolose,
aumento delle perdite nei conduttori per le maggiori correnti che circolano, e introduzioni di errori
nei misuratori di potenza attiva elettromagnetici. Ma è con lo sviluppo delle nuove tecnologie di
telecomunicazioni che il problema si è fatto sentire prepotentemente. Infatti attualmente sono
disponibile servizi di comunicazioni attraverso la rete elettrica come telelettura dei contatori,
trasmissioni di dati, comunicazioni vocali ecc. e molte altre sono nella fase conclusiva della
sperimentazione o in fase di studio. Si capisce quindi che, anche se le moderne tecniche di
trasmissione digitale riescono a offrire una buona immunità a tutto ciò che per la comunicazione è
rumore, è indispensabile fissare limiti precisi alle armoniche immesse nella rete elettrica. Non
trattiamo oltre questo argomento, e rimandiamo alle pubblicazioni IEEE per eventuali
approfondimenti e consultazione delle attuali normative per le armoniche immesse nella rete.
Il blocco delle armoniche può essere fatto essenzialmente in due modi: o con filtri passivi, o con
dispositivi attivi, veri e propri convertitori step-up, che funzionano però in modo discontinuo.

Fig. 2.19 EMI filter

In figura 2.19 è visibile un filtro passivo, i componenti L1, L2,C2,C1 servono per bloccare i disturbi
di modo differenziale, mentre C3, C4, C5, C6 e le induttanze L3, L4 avvolte sullo stesso nucleo e
con le fasi come in figura, servono per bloccare i disturbi di modo comune. Sostanzialmente per
impedire che le armoniche siano immesse nella rete si deve dimensionare il filtro in modo tale che
esse vedano una alta impedenza verso la rete, offrendogli un percorso a bassa impedenza sul quale
richiudersi. Questo filtro è praticamente uno standard per la totalità degli alimentatori a
commutazione (a volte gli induttori L1 e L2 non sono presenti), ma, soprattutto se le potenze gestite
sono rilevanti, le dimensioni possono essere notevoli; comunque se risulta ben progettato,
costituisce un discreto blocco per le armoniche prodotte dagli alimentatori. E’ interessante notare
che quasi tutte le C.F.L. commerciali sono prive di dispositivi, sia attivi che passivi, atti a limitare le
armoniche introdotte in rete; al massimo è presente una resistenza posta in serie (da qualche decina
di Ω) che serve, più che per limitare le armoniche, per limitare il picco di corrente dovuto alla
carica del condensatore di filtro quando viene alimentato il circuito. Altro sistema per ridurre
drasticamente le armoniche è quello di utilizzare dispositivi attivi che normalmente vengono
indicati con il nome di P.F.C.

Fig. 2.20 Active power factor correction preconverter


Fig. 2.21 175W PFC with MC34262

Nella figura 2.20 è visibile appunto lo schema di un convertitore dotato di P.F.C., è evidente che il
P.F.C. è un vero e proprio convertitore, tuttavia funziona in modo un po’ particolare, come visibile
in figura 2.22. La frequenza prima di tutto deve risultare molto maggiore di quella di linea, e
bisogna sincronizzare il funzionamento con gli attraversamenti di zero della sinusoide, inoltre si
vede che il funzionamento risulta discontinuo, quindi il duty cycle varia seguendo la sinusoide della
tensione di alimentazione. In questo particolare modo di funzionamento, inserendo solo un piccolo
condensatore di filtro (vedi C5 in figura 2.21) data la frequenza elevata a cui funziona il P.F.C.,
ottengo una corrente media prelevata dalla linea che ha praticamente andamento sinusoidale. Si
riescono ad ottenere così fattori di potenza estremamente elevati, in genere superiori a 0,99, e
l’immissione di armoniche in rete è particolarmente limitata (in genere si ha una THD che varia fra
il 2% e il 4%). La figura 2.23 è particolarmente significativa, in essa si può vedere l’andamento
temporale della tensione e della corrente di ingresso relativa al circuito di figura 2.21, si nota subito
che la fase fra tensione e corrente non è valutabile, tanto che sembra che il carico sia puramente
resistivo, inoltre la forma d’onda della corrente, la più soggetta a distorsione, non mostra nessun
segno visibile di alterazione, tutto ciò è quasi stupefacente se si pensa che la potenza gestita è di 175
Watt. Altro vantaggio non indifferente dei P.F.C. è che essi si prestano bene a funzionare con
tensioni di rete molto diverse, offrendo in uscita una tensione continua stabile rispetto anche a
grandi variazioni della tensione di ingresso e leggermente maggiore di quella che sarebbe possibile
ottenere solamente filtrando la tensione di rete raddrizzata, che ovviamente varia durante il
funzionamento perché non è stabilizzata (tipicamente i P.F.C. lavorano con una uscita di 400 Volt
contro i 325 Volt massimi ottenibili con un rettificatore classico). Il fatto di funzionare con un range
molto ampio di tensioni di ingresso consente anche un altro vantaggio, infatti è possibile far
funzionare il circuito con reti di alimentazione anche molto diverse, senza bisogno di un intervento
da parte dell’utente per impostare il tipo di alimentazione. Quindi lo stesso dispositivo può
funzionare indifferentemente negli Stati Uniti o in Europa senza bisogno di impostare il tipo di rete
a cui risulta connesso e soprattutto fornendo praticamente le stesse performance.

Fig. 2.22 PFC waveforms

Fig. 2.23 PFC input waveforms


Ballast half bridge self oscillant:
Analisi e progetto

Fig. 3.1 Typical Half Bridge topology

Nella figura 3.1 è visibile la tipica configurazione half bridge self oscillant. Sommariamente
abbiamo già analizzato questo circuito, in questa sede ne faremo una analisi più approfondita e
vedremo come eseguire una progettazione. In ingresso abbiamo il filtro EMI e il power rectifier
assieme al condensatore di filtro C6, di questi componenti abbiamo già ampiamente parlato nel
capitolo precedente, per cui ci sembra superfluo rifarlo. Ugualmente dicasi per l’induttore Lp e il
condensatore Cp, ma su questi componenti ci ritorneremo a fine capitolo per vedere come si
determinano i loro valori. Quello che invece analizzeremo è la parte centrale, costituita dal
trasformatore saturabile, cuore dell’oscillatore, e dalla rete di start up. L’auto oscillazione si ottiene
appunto grazie all’impiego di un trasformatore con nucleo ferromagnetico saturabile. La figura 3.2
mostra la curva di magnetizzazione che deve avere il nucleo del trasformatore, si noti che
praticamente la zona lineare (o meglio la zona con andamento quasi lineare) non esiste, se questa
condizione non è rispettata, l’andamento della forma d’onda in uscita si discosta in modo eccessivo
dall’onda quadra, o peggio, se non si riesce a portare il nucleo in saturazione non si instaura
l’oscillazione; si capisce quindi che il picco della corrente nominale deve essere sufficiente per
saturare il nucleo. La cosa è invece opposta per quanto riguarda l’induttore Lp, in questo caso si
deve fare in modo che il nucleo non vada mai in saturazione, neppure con la corrente elevata che si
ha nella fase di ignition. La curva tipica di magnetizzazione per questo nucleo è visibile anch’essa
nella figura 3.2. Il funzionamento dell’oscillatore a trasformatore saturabile è molto semplice,
almeno teoricamente. Supponiamo che il transistor Q2 vada in conduzione, allora la corrente entra
dal lato identificato con il pallino del primario del trasformatore T1, quindi sul secondario la
corrente esce dal lato dei pallini, esaminando lo schema si vede però che mentre Q2 è mantenuto in
conduzione dalla corrente di uno degli avvolgimenti secondari di T1, Q1 non può andare in
conduzione perché si trova contropolarizzato. La corrente sul primario continua a crescere (si
ricordi che il circuito è leggermente induttivo per la presenza di Lp) fino a che non raggiungo la
Fig. 3.2 Typical B/H curves of T1 & Lp

saturazione del nucleo, quando ciò avviene non ho più variazione di flusso, quindi non ho più
corrente nei secondari e Q2 si interdice. A questo punto però ho una inversione della derivata della
corrente nel primario che provoca l’inversione della tensione sui secondari. Adesso risulta Q2
contropolarizzato e Q1 in conduzione (vedi orientamento degli avvolgimenti), quindi il ciclo si
ripete per Q1. In realtà l’andamento non è proprio ON-OFF come descritto, è si vede bene
guardando la forma d’onda di uscita, che non è assolutamente quadra; in pratica quando Q2 inizia
ad uscire dalla conduzione la derivata del flusso magnetico comincia a invertirsi e Q1 comincia ad
entrare in conduzione. E’ da notare come un ruolo rilevante lo giochi anche lo storage time dei
transistors, infatti il meccanismo di turn OFF descritto prima dura in media 4 µs, che come si vede

Fig. 3.3 Base current waveform

anche dalla figura 3.3, è paragonabile allo storage time (è circa uguale). Ciò ci fa capire che lo
storage time non può essere trascurato in fase di progetto, e ansi si rivelerà un parametro importante
nella scelta dei dispositivi. A questo livello si capisce anche perché i due dispositivi attivi dell’half
bridge devono essere uguali; dispositivi uguali infatti garantiscono hFE molto simili, ma anche tsi
molto simili, il risultato dell’uso di dispositivi non uguali è una forte asimmetria della forma d’onda
di uscita, e al limite, il mancato innesco dell’oscillazione. Tornando allo storage time, cerchiamo di
precisare un po’ meglio questo argomento. Supponiamo ad esempio che, per le caratteristiche del
nucleo di T1 e della corrente di carico, il tempo che intercorre fra le inversioni del flusso magnetico
sia di circa 4 µs (i transistors conducono per 4 µs), allora avrei un TON, e coseguentemente un TOFF,
di 4µs, ma i transistors non riusciranno ad andare in interdizione dopo 4 µs, dato che devono
smaltire le cariche immagazzinate nella base, ciò richiede un tempo aggiuntivo pari a tsi. Il TON
quindi diviene pari a 4 µs + tsi, e uguale sarà anche il TOFF. Di tutto questo bisogna tenerne conto in
fase di progetto; infatti ne discuteremo più approfonditamente allora. Altro punto da descrivere è lo
start. Ovviamente l’oscillatore non partirebbe mai da solo, infatti nessuno dei due transistors può
andare in conduzione fino a che non c’è una variazione di flusso nel trasformatore T1. Per
innescarlo basta provocare questa variazione; i componenti R1, C1, D4, R4 servono proprio a
questo scopo. Una volta alimentato il circuito infatti il condensatore C1 si carica esponenzialmente
fino a raggiungere la tensione di soglia del diodo diac D4, la scarica del condensatore attraverso D4
manda in conduzione Q2 che una volta entrato in questa fase vi viene mantenuto da uno dei
secondari di T1 e il ciclo di funzionamento comincia. Il diodo D1 ha l’importante funzione di
disabilitare la rete di start una volta che l’oscillatore è partito. Ovviamente, affinché funzioni in
modo corretto, la costante di carica della rete R1, C1 deve risultare più grande di T/2 dell’oscillatore
(normalmente si fa in modo che τ≈10•T/2). Si noti che qualora questa rete non venga disattivata, il
circuito va fuori sincronia, o cessa di oscillare. Infine i diodi D2 e D3 servono per tagliare eventuali
spike di tensione sui dispositivi attivi (diodi di clamping), e ovviamente, dato che dV/dt può
risultare molto elevato, devono essere di tipo Fast. L’importanza di questi diodi non deve essere
sottovalutata, una loro omissione o avaria, provoca serie conseguenze sulla vita media dei
dispositivi, perché il circuito del carico ha una bassa componente induttiva (dato che Lp non
presenta mai grossi valori); se il circuito fosse fortemente induttivo, la non operatività di un diodo
di ricircolo, provocherebbe la distruzione quasi immediata del dispositivo attivo. Se si esamina il
circuito si capisce perché questi spike vengono generati. Supponiamo che sia in conduzione Q2, e
che vi stia uscendo, l’induttanza si oppone alla variazione di corrente e si può avere una
sovratensione ai suoi capi, a meno che non si offra un percorso alternativo alla corrente (in questo
caso D2). La figura 3.4 mostra la Ic su Q1, il picco di corrente negativo che si ha poco prima che
Q1 entri in conduzione è proprio il picco provocato dall’uscita dalla conduzione di Q2. Tale
corrente ovviamente non passa sul transistor (dato che è negativa) ma passa attraverso il diodo di
ricircolo D2. Ovviamente se il diodo non fosse stato presente, la corrente non avrebbe potuto

Fig. 3.4 Ic current on Q1

circolare e di conseguenza la tensione ai capi di Q1 si sarebbe innalzata, provocando un


deterioramento del dispositivo (dato che si ripete ciclicamente ad ogni commutazione), o l’innesco
del Breakdown se fosse stata superata la tensione massima sopportabile. L’importanza di questi
diodi è tale che molti dispositivi a semiconduttore, soprattutto i MOSFET, li montano già integrati.
In realtà però la diffusione di questi diodi integrati è stata favorita, soprattutto per i BJT, dalla
particolare configurazione dei circuiti di deflessione orizzontale per i CRT.

Fig. 3.5 C.R.T. defletion circuit and waveform

In questo caso la corrente dell’induttore si trasferisce sul condensatore quando il BJT va in


interdizione, e quindi è il condensatore che evita l’interruzione della IL, ma praticamente si forma
un circuito oscillante, che tuttavia non può compiere una sinusoide completa per la presenza del
diodo. In questo modo, sincronizzando opportunamente il circuito, posso mandare in ON il BJT con
VCE=0, diminuendo le perdite. Nota che ovviamente il diodo deve essere di tipo fast, ma anche il
condensatore deve essere del tipo idoneo a lavorare ad alte frequenze, quindi con induttanze
parassite minime.
Sostanzialmente l’analisi della configurazione proposta è così completa, nel prossimo paragrafo
vedremo come procedere nella progettazione di tale configurazione, con una particolare attenzione
ai problemi che abbiamo incontrato.
Progettazione del ballast

L’analisi vista ha messo in evidenza quanto è semplice questa configurazione, in realtà è si


semplice, ma non è altrettanto semplice farla funzionare. I parametri incogniti, la non linearità di
alcuni componenti, e il fatto che la frequenza dell’oscillatore dipenda da troppi fattori, alcuni dei
quali non controllabili completamente, rendono la progettazione abbastanza complessa. L’uso di
simulatori quali Spice è si di aiuto, anche se noi non li abbiamo utilizzati, ma non è “risolutiva” dal
punto di vista della progettazione, data la complessità, intesa come complessità del modello
matematico, di alcuni componenti, quali ad esempio il trasformatore saturabile. Prima di
intraprendere la progettazione dobbiamo riprendere un argomento già accennato in precedenza. A
frequenze di rete (50-60 Hz) abbiamo visto che, a causa della forte distorsione della tensione sulla
lampada, non è possibile considerare VL e IL in fase, ma dobbiamo inserire un certo angolo di fase
che tiene conto di questo fenomeno, per cui nel circuito equivalente, visto nella progettazione del
ballast elettromagnetico, non possiamo modellare la lampada semplicemente come una resistenza.
Le cose cambiano operando a frequenze più elevate. Come visibile infatti dalla figura 3.6 la
tensione sulla lampada (traccia superiore) e la corrente sono praticamente in fase, ma soprattutto la
tensione

Fig. 3.6 VL & IL in HF ballast

sulla lampada risulta molto meno distorta rispetto al caso di ballast elettromagnetico. Ciò rende
possibile considerare la lampada come una semplice resistenza nella progettazione, il cui valore è
pari proprio a VL2/PLAMP . Naturalmente quindi i dati di lampada utilizzati per la progettazione del
ballast elettromagnetico (tabella 1.3 per intendersi) non sono più validi per la progettazione del
ballast elettronico. Solitamente però i costruttori forniscono potenza, tensione e corrente di lampada
per una frequenza di 50-60 Hz, solo raramente sono disponibili corrente e tensione di lampada
anche per frequenze HF. Se ci troviamo in questa condizione si procede in modo empirico. Si
considera che la VL rimanga uguale a quella data per 50 Hz, mentre si ricava il nuovo valore di IL
dalla potenza del tubo, precisamente:
Vl HF = Vl50 Hz
Il HF = Pl / Vl50Hz
Riassumiamo nella tabella 3.1 i dati, a 50 Hz e in HF, di due lampade fluorescenti, TL-D 36/840 e
PL-S 11/840/2P, dove per il TL-D i dati in HF sono stati ricavati utilizzando il metodo visto
precedentemente.

TAB 3.1 PL-S 11/840 & TL-D36/840 HF & 50 Hz frequency


PL-S 11/840 PL-S 11/840 HF TL-D36/840 50Hz TL-D36/840 HF
50Hz
VLAMP 91 V 75 V 103 V 103 V
ILAMP 0,16 A 0,15 A 0,44 A 0,35 A
PLAMP 11 W 11 W 36 W 36 W

Come accennato, per la progettazione non abbiamo fatto ricorso a nessun simulatore, tuttavia il
design di dispositivi elettronici di potenza senza ricorrere a modelli può risultare molto complesso.
Infatti con l’elettronica di potenza non posso fare come per i circuiti a piccoli segnali, in cui è
possibile aggiustare i parametri direttamente sul prototipo fino a che il circuito non funziona nel
modo voluto. In questi circuiti sbagliare nella progettazione non vuol dire non veder funzionare il
prototipo, ma il più delle volte vuol dire distruggere gli switch a semiconduttore o addirittura tutto il
circuito. Per questo la nostra progettazione si articola in tre fasi:

1) Progettazione dell’oscillatore
2) Realizzazione di un prototipo dell’oscillatore con tensioni e resistenze di carico scalate di un
fattore 10 (notare che in questo modo le correnti rimangono le stesse, altrimenti l’oscillatore non
funzionerebbe, mentre le potenze sono scalate di un fattore 10)
3) Adattamento della rete di start up alla tensione di linea e progetto della rete L-C risonante
discussa nei capitoli precedenti

Il passaggio attraverso un prototipo che funziona con potenze scalate, ci consente di verificare il
funzionamento dell’oscillatore, che è una delle parti più critiche, ed eventualmente correggere
alcuni parametri nel caso in cui questo non funzioni propriamente, senza il rischio di distruggere i
componenti a semiconduttore, dato che le potenze in gioco sono sufficientemente basse.
La prima fase della progettazione è quella di decidere se includere oppure no l’induttanza di
limitazione della corrente nel trasformatore saturabile (ciò si realizza imponendo il valore
dell’induttanza al primario del trasformatore uguale al valore richiesto per l’induttore di
limitazione). Abbiamo preferito tenerle separate sia perché così la progettazione risulta più facile,
sia perché così possiamo utilizzare un nucleo toroidale per realizzare il trasformatore, dato che,
come abbiamo accennato, questa è una parte molto critica del circuito. Per la realizzazione del
prototipo è stato scelto uno dei tanti nuclei toroidali disponibili in laboratorio, di cui però non erano
note tutte le caratteristiche. Questo ci ha portato a usare un metodo di progettazione non molto
ortodosso, ma comunque efficace. La lampada fluorescente che si vuol pilotare presenta queste
caratteristiche:

VL _ RMS = 103V
I L _ RMS = 0,18 A
PL = 18W
Si determina per primo il numero di spire da avvolgere sul primario del trasformatore per avere la
saturazione del nucleo tramite la relazione:

Np • Ip
Hs SAT =
Ie

Dove:
Np = numero di spire del primario
Ip = corrente nel primario (A)
Ie = perimetro effettivo del nucleo (cm)

Assumiamo Ip pari a |IL|/2 per essere sicuri di avere saturazione in ogni condizione, mentre Ie è un
parametro caratteristico del nucleo, e nel nostro caso vale circa 2 cm. Ottengo quindi:

Ie • Hs SAT 2 • 0,4
Np = = ≈6
Ip 0,127

Per la scelta degli elementi attivi dobbiamo considerare sostanzialmente due parametri: La corrente
di collettore (sia quella nominale, sia quella di picco che si ha nella fase di ignition), e la tensione
che devono essere in grado di sopportare. Avevamo già visto che in una configurazione half bridge
come questa, i dispositivi attivi devono presentare una tensione minima di breakdown pari a:

Vce BR = 230 • 2 • 1,15 = 374V

Dove il fattore 1,15 inserisce il margine di sicurezza. Questa è la minima tensione VCE che i
transistors devono essere in grado di sopportare, ma non è facile individuare il dispositivo idoneo
leggendo i datasheet. Per capire come scegliere i dispositivi dobbiamo fare un po’ di chiarezza sulle
tensioni di breakdown nei BJT. Non dobbiamo dimenticare che nel BJT vi sono due giunzioni, e
diversi modi di collegare il terminale non interessato dalla tensione applicata. Dalla figura 3.7 si
possono vedere le varie tensioni massime sopportate da un transistors in diverse configurazioni; ad
esempio la VCBO si riferisce alla massima tensione applicabile tra collettore e base, con il terminale
di emettitore floating, mentre VCES si riferisce alla massima tensione tra collettore ed emettitore con
la base cortocircuitata sull’emettitore. Normalmente i datasheet dei dispositivi forniscono sempre la
VCBO, quasi sempre la VCEO, ma praticamente mai le altre tensioni. Tuttavia vedremo che queste due
tensioni sono sufficienti per la scelta dei dispositivi. Prima di tutto bisogna capire a quale
“categoria” appartiene la VCEBR calcolata prima (374V), questo dipende ovviamente dalla

Fig. 3.7 Breakdown voltage in BJT

configurazione assunta dai transistors nel circuito e dalla rete di polarizzazione degli stessi.
Normalmente la tensione alla quale si fa riferimento nei convertitori half bridge è la VCES, ma nel
nostro caso sarebbe addirittura la VCEX (vedi tensione di polarizzazione inversa sul TR non in
conduzione). Comunque supponendo per semplicità di prendere la VCES (perché è praticamente a
metà fra la VCEO e la VCBO), si vede che per il BUT11A tale tensione risulta circa uguale a (vedi
datasheet):

 1000 − 450 
VCES _ BUT 11 A ≅ 450 +   ≅ 725V
 2 

che è molto superiore ai 374V richiesti per questa applicazione (notare che anche il BUT11 avrebbe
soddisfatto ampiamente le specifiche). Ovviamente dovremmo prendere in considerazione più BJT,
non lo facciamo perché questa pubblicazione ha carattere esclusivamente didattico, e sappiamo già
o priori che il BUT11A è il BJT scelto per questa applicazione.

Fig. 3.9 Vceo,Vces,Vcer measure


Fig. 3.8 Vcex measure
Altro parametro molto importante nella scelta dei BJT è la corrente di collettore. Assumendo la Ic
nominale pari a IL, risulta una Ic di picco:

Ip = 0,18 • 2 = 0,25 A

Allo start invece il convertitore vedrà un circuito L-C risonante serie, e la corrente sarà
notevolmente più elevata, assumendo un Q dell’induttore di risonanza pari a 4 ottengo una Ic di
picco allo start pari a:

Ip START = Ip • Q = 0,25 • 4 = 1A

Un BJT che ha una Ic nominale di 0,5-1A e sopporta picchi di 1-2 A è quindi sufficiente per questa
applicazione. Il BUT11A scelto risulta quindi più che sufficiente dato che ha una Ic max di 5A, e
una Icp di 10A. La potenza dissipata dai transistors a corrente nominale può essere stimata in prima
approssimazione tramite la relazione:

1 1
PSW = • Ip • 230 • 2 • (tON + tOFF ) • f SW ≅ • 0,25 • 325 • 5 • 10 −6 • 45 • 10 3 ≅ 10W
2 2

Quindi i 100W del BUT11A sono più che sufficienti. L’ultimo parametro che rimane da considerare
per la scelta dei BJT è lo storage time. Come abbiamo già visto questo è un parametro molto
importante, che influirà molto sulla frequenza dell’oscillatore per i motivi già discussi; è bene
quindi scegliere dispositivi che abbiano un tSTG il più basso possibile. Per il BUT11A abbiamo un
tSTG=4µs, che non è proprio ottimo per una applicazione di questo tipo (ad esempio il BUL45
presenta un tSTG=3,2µs e con IB= ±0,4A contro i ±0,5A del BUT11), tuttavia è sempre accettabile. In
realtà per la realizzazione del prototipo sono stati utilizzati i BUT12A al posto dei BUT11A per
ragioni di disponibilità, comunque i due transistors sono perfettamente identici, fatta eccezione per
la maggiore corrente di collettore sopportata dai BUT12 (8 A contro i 5 A dei BUT11). La
progettazione dovrebbe continuare con la determinazione della frequenza dell’oscillatore e con il
calcolo delle spire al secondario del trasformatore, tramite le seguenti relazioni:

Vp • 10 4
f '=
4 • Np • Bs • Ae

Dove:
Vp =tensione sul primario del trasformatore (volt)
Np =numero spire primario
Bs =flusso di saturazione del nucleo (Tesla)
Ae =area della sezione del nucleo (cm2)
Per il calcolo della frequenza vera è propria dell’oscillatore interviene lo storage time, come visto,
secondo la relazione:
1
f =
T' 
2 + t STG 
2 

dove risulta:

1
T'=
f'

Mentre il numero delle spire al secondario è facilmente determinabile tramite la relazione:

Np • Ip = Ns • Is

Noi però non seguiremo questa strada analitica, anche se in realtà questo sarebbe il modo più
corretto di procedere, ma utilizzeremo un metodo più sperimentale, dato che non conosciamo molti
parametri importanti del nucleo toroidale utilizzato per il trasformatore saturabile. In pratica
costruiremo un modello dell’oscillatore che lavora con tensioni e resistenze scalate di un fattore 10
(vedi figura 3.10), partendo con un trasformatore così fatto:

Np=6 spire
Ns=12 spire

e aggiustando gli avvolgimenti, aggiungendo o togliendo spire, fino a raggiungere prima l’innesco
dell’oscillazione, e poi la frequenza voluta.

T1C
R2 Q1
R1 C2
BUT12A D2
56k 1 100n
FR105

Vcc D1 T1A Rc
32Vdc
1N4007 27
D4 R4

10
DIAC 30V
T1B R3 Q2
C3
C1 BUT12A D3
1 100n
470n FR105

Fig. 3.10 Ballast oscillator (Low voltage model)


Per la ricerca della frequenza di oscillazione bisogna però stare attenti. Infatti nel modello a bassa
tensione l’induttanza di carico del convertitore è minima (dovuta essenzialmente al primario del
trasformatore e alle induttanze parassite), ma quando il circuito si troverà a funzionare con la
lampada fluorescente il convertitore vedrà un circuito L-R che limiterà di/dt, quindi la frequenza
dell’oscillatore, quando la lampada si innesca, sarà notevolmente più bassa rispetto a quella del
modello. La differenza fra le due frequenze è notevole, infatti la frequenza di burn sarà circa la metà
di quella del modello. Invece allo start la lampada è in alta impedenza, e il convertitore vede un
circuito L-C risonante, con una induttanza quindi molto piccola, come nel caso del modello a
tensioni scalate. Possiamo quindi assumere che la frequenza di ignition sarà circa uguale a quella
del modello, mentre la frequenza di burn sarà circa la metà. Aggiustando le spire sul trasformatore
si trova che per Np=5 e Ns=10 si ha una frequenza di 78 kHz, che corrisponderà ad una frequenza
di burn intorno ai 40 kHz. Adesso l’oscillatore è pronto, resta solo da calcolare la rete L-C risonante
e il ballast sarà terminato. Per fare ciò bisogna determinare il valore efficace della tensione in uscita
al convertitore; come detto tale tensione è molto lontana dall’essere un onda quadra perfetta, quindi
si utilizza l’approssimazione della prima armonica, ottenendo:

2
VHB = • 318 ≅ 143V
π

Si noti che abbiamo preso la tensione di DC-BUS a 318 volt invece di 325 volt (230•√2) perché il
condensatore di filtro non riuscirà a stabilizzare la tensione proprio sul valore di picco, data la
corrente non trascurabile assorbita dal ballast durante il funzionamento. Lp e Cp invece devono
soddisfare queste equazioni:

Vlamp Rlamp
H = =
VHB (R
lamp − ω B • Lp • Cp • Rlamp ) + (ω B • Lp )
2 2

1
= f ign
2π Lp • Cp

Con:
2
Vlamp
Rlamp =
Plamp

ω B = 2π • f BURN
In realtà il sistema di 2 equazioni proposto per determinare Lp e Cp non deve essere risolto con
rigore matematico. Infatti è importante che Lp e Cp verifichino la funzione di trasferimento H,
mentre per la frequenza di risonanza è sufficiente che quella tipica del circuito, nel nostro caso circa
78 kHz, non si discosti molto da quella naturale data da Lp e Cp. Anzi, per essere più precisi, è bene
che la frequenza naturale sia leggermente maggiore di 78 kHz, per ragioni che saranno più chiare in
seguito, quando spiegheremo come viene realizzato il preheat in questa configurazione.
Naturalmente i valori restituiti dal calcolo analitico di Lp e Cp sono solo un punto di partenza, è
necessario, mediante prove sul prototipo, aggiustarli (in pratica si agisce quasi sempre su Lp in
questa fase) fino ad avere una Plamp = Plamp nominale. Infatti nei ballast half bridge self oscillant è
praticamente impossibile controllare analiticamente tutti i parametri, ad esempio la frequenza di
burn varia in funzione dell’induttanza di carico vista dal convertitore e la stessa Rlamp varia in
funzione della corrente di lampada. Assumendo una frequenza di burn per il calcolo analitico pari a
45 kHz, e dopo l’aggiustamento sul prototipo, abbiamo ottenuto i seguenti valori per Lp e Cp:

Lp=2,3 mH
Cp=4,7 nF

La figura 3.11 mostra lo schema elettrico definitivo del ballast, la regione delimitata dal tratteggio
verde rappresenta la lampada fluorescente, qui schematizzata con un semplice modello circuitale.

T1C
R2 Q1
R1 C2
BUT12A D2
D5 330k 1 100n
FR105
Lpf cA
BRIDGE Lamp
+
D1 T1A Lp Model
+ C4
1N4007
47u Rk1 Rlamp Rk2
Cpf c Cpf c D4 R4
- 4 4
10n Lpf cB 10n
10
DIAC 30V Cp
T1B R3 Q2
C3
C1 BUT12A D3 R8 C5
1
100n
470n FR105
10n
F1
PTC 235 ohm
1A H

J1

2 1

230V IN

Fig. 3.11 Half bridge ballast schematic


Come si è visto la progettazione non è affatto banale, dato che i parametri del circuito non risultano
svincolati gli uni da gli altri, ma risultano tutti, più o meno, dipendenti. Per questo motivo utilizzare
IC dedicati rende molto più facile la progettazione, in quanto è possibile rendere i parametri più
indipendenti, e quindi avere un controllo migliore. Infatti anche i chips più semplici, quelli che
integrano praticamente solo un oscillatore e un driver ad alta tensione per intendersi, riescono a
rendere indipendente la frequenza di burn dall’induttanza di carico, che è forse una delle
dipendenze con cui risulta più difficile fare i conti in fase di progetto. Passando ad IC più
complessi, come gli UBA2014 della Philips, anche la scelta di Lp e Cp non è per niente critica;
infatti non è più necessario aggiustare Lp per ottenere l’esatta Plamp voluta. In questi IC è presente
un feedback che, agendo sulla frequenza di burn, regola la Plamp, e tramite un trimmer è quindi
possibile ricercare finemente la Plamp voluta, che l’IC provvede a mantenere automaticamente.
Per terminare resta da spiegare come viene realizzato il preheat dei catodi. Questa funzione, molto
importante per la vita della lampada come già specificato, è ottenuta mediante il PTC. Allo start il
PTC freddo presenta una resistenza bassa, paragonabile a quella della lampada innescata, quindi il
convertitore inizia ad oscillare ad una frequenza prossima a quella di burn (per essere precisi ad una
frequenza leggermente superiore); la corrente scorre attraversa i catodi e li riscalda, ma la corrente
riscalda anche il PTC, che quindi aumenta la sua resistenza. Così facendo però il circuito visto dal
convertitore tende a trasformarsi da L-C-R a L-C, quindi la frequenza sale verso quella di risonanza
(a causa del diminuire dell’induttanza equivalente di carico), ed anche la tensione sul tubo sale, in
accordo con quanto detto a suo tempo, fino a che non ho l’innesco della lampada. Avvenuto
l’innesco il circuito torna ad essere L-C-R e il convertitore si riporta sulla frequenza di burn.
Reti di protezione per ballast elettronici
Se per un qualsiasi motivo la lampada non riesce ad innescarsi, il convertitore rimane bloccato nella
fase di ignition, in cui le correnti erogate sono notevoli perché il carico è un circuito L-C risonante.
Ciò produce un notevole innalzamento delle perdite nei transistors e conseguentemente la
temperatura di giunzione degli stessi sale fino a superare la Tj max; questa condizione di
funzionamento porta alla distruzione dei dispositivi in uno, massimo due minuti. Ovviamente se la
lampada è inserita ed efficiente non ci sono problemi, perché la fase di ignition è estremamente
rapida, il problema sorge nel caso in cui la lampada venga rimossa o non riesca ad innescarsi perché
esaurita. E’ opportuno quindi prevedere reti elettriche dedicate a questo scopo, che interrompono il
funzionamento dell’oscillatore in caso di anomalie di questo tipo. Il prototipo realizzato non
implementa nessuna rete di protezione, tuttavia ha intrinseca la protezione per la rimozione della
lampada. Infatti qualora essa venga rimossa durante il funzionamento o prima dell’accensione, il
convertitore smette semplicemente di funzionare o non parte. Questo è dovuto al fatto che i due
avvolgimenti dei catodi della lampada si trovano in serie al circuito risonante L-C, quindi di fatto
scollegando la lampada il circuito si apre (si noti che questa particolarità è comune a tutte le
configurazioni “current mode preheat”). Vediamo di seguito alcune reti atte ad interrompere il
funzionamento del convertitore qualora la lampada non riesca ad innescarsi.

Lamp. Volt. Feed.

Fig. 3.12 Lamp voltage sensing

Per prima cosa vediamo come viene prelevata la tensione sulla lampada. Ovviamente nella fase di
ignition le tensioni sulla lampada saranno molto elevate, dell’ordine del migliaio di volt, non posso
quindi prelevare direttamente la Vlamp, sia perché questa risulta troppo elevata, sia per non caricare
eccessivamente la rete risonante L-C. Ricorro quindi ad un partitore di tensione, nella figura 3.12
questo è rappresentato dalla rete R16-R17, che mi consente di prelevare solo una frazione della
Vlamp. La tensione così prelevata caricherà C10 mediante D11 (che serve per togliere la componente
negativa), e si genererà un impulso non appena supero i 10 volt sul condensatore (il diodo zener
funge da comparatore). La funzione di C10 è essenzialmente quella di inserire una rete di ritardo;
infatti se la lampada si innesca la Vlamp cala e non è più possibile raggiungere i 10 volt, altrimenti il
condensatore si carica esponenzialmente in un tempo dato dalla sua costante di carica fino a
raggiungere i 10 volt e generare quindi l’impulso che bloccherà il convertitore. Chiaramente il
tempo di carica di C10 è il tempo massimo che può durare la fase di ignition, dopo di che il
convertitore viene disattivato. Notare che il carico apportato da questa rete è minimo, infatti anche
durante l’ignition non arriva ad assorbire più di 1 mA. Vista la rete di sensing, vediamo le varie
metodologie per spegnere il convertitore e mantenerlo in tale stato.

Fig. 3.13 Basic safety circuit

La figura 3.13 mostra come questa rete, nella sua versione più semplice, può essere realizzata.
Supponendo di avere a disposizione una sorgente di alimentazione ausiliaria a bassa tensione (tipo
l’eventuale alimentazione di un P.F.C. attivo), si realizza un avvolgimento ausiliario sul
trasformatore saturabile, in questo modo l’impulso proveniente dalla rete di sensing, e applicato sul
gate dell’SCR, manda in conduzione quest’ultimo, che vi rimane se si ha cura di fare in modo che
risulti IS > Ihold. La corrente continua Is satura così il nucleo del trasformatore, quindi l’oscillatore
smette di funzionare. Si noti che l’SCR mantiene memorizzato il fault; per resettare il circuito è
necessario togliere l’alimentazione. Tuttavia questa configurazione presenta l’inconveniente di non
bloccare la rete di start up, quindi gli impulsi continuano ad arrivare sulla base di Q3 (Q2 nello
schema circuitale del nostro prototipo), anche se chiaramente l’oscillatore non può innescarsi, dato
che il nucleo del trasformatore risulta saturato. La protezione comunque funziona benissimo
ugualmente, ma è possibile risolvere anche questo inconveniente semplicemente facendo una
piccola modifica. La figura 3.14 mostra questa nuova configurazione. Come si vede adesso l’SCR,
oltre a far circolare la Is per saturare il nucleo, provvede anche ad offrire un percorso verso massa
alla corrente della rete di start up. In questo modo la tensione sul condensatore C5 non riuscirà a
superare i 10 volt, e quindi il diodo diac non potrà innescarsi.
Fig. 3.14 Deactivation of the start up network

Entrambe le reti viste però prevedono la presenza di una alimentazione ausiliaria a bassa tensione;
nel nostro prototipo tali reti sarebbero difficilmente implementabili, data l’assenza di qualsiasi
alimentazione ausiliaria. E’ possibile utilizzare la tensione continua che alimenta il convertitore, ma
ha il problema di essere molto elevata (tipicamente 320 volt). La figura 3.15 mostra questa
soluzione appunto. Funziona come l’altra, ma richiede una resistenza di elevata potenza data
l’elevata tensione e dato che la rete di protezione deve poter rimanere attiva per un tempo
indefinito. Una alternativa efficiente all’utilizzo di alimentazioni ausiliarie è la configurazione di
figura 3.16. Quando l’SCR va in conduzione il condensatore Cs si carica, e l’impulso di carica è
sufficiente (in modulo e durata) per saturare il nucleo del trasformatore e spegnere l’oscillatore. Ma
l’SCR cortocircuita verso massa anche la corrente della rete di start up, impedendo così il re innesco
dell’oscillatore. Naturalmente deve risultare ISTART UP + IRh > Ihold affinché l’SCR rimanga in
conduzione (si ricordi che il condensatore dopo il transitorio di carica è un circuito aperto).

Fig. 3.15 High voltage driven safety circuit


Fig. 3.16 Improved high voltage driven safety circuit

In figura 3.17 è riportato lo schema elettrico di un ballast half bridge self oscillant (con P.F.C.
attivo) dotato di rete di protezione per la disattivazione del convertitore in caso di mancata ignition
della lampada. Per concludere aggiungiamo che tali reti sono praticamente indispensabili, ed è
assurdo non implementarle, dato anche il loro basso costo. Addirittura negli IC dedicati queste reti
sono direttamente implementate nel chip. Solo in una applicazione possono essere ignorate, e di
fatto lo sono sempre: nelle C.F.L. commerciali. In queste lampade infatti il ballast fa parte
praticamente del tubo fluorescente, quindi non importa se all’esaurirsi dello stesso anche il ballast
va in avaria, e il non inserire niente più dello stretto necessario consente di ridurre i costi.
Fig. 3.17 Typical safety circuit application
Ballast elettronici con IC dedicati

In questo ultimo capitolo analizzeremo, molto superficialmente, alcuni ballast elettronici controllati
da IC dedicati. Ovviamente questa è una soluzione molto più costosa rispetto al semplice ballast self
oscillant del prototipo, tuttavia costituisce un notevole miglioramento tecnologico. E’ probabile che
in futuro il costo di questi chips diminuirà molto, in previsione di un loro largo utilizzo, quindi i
ballast gestiti da IC, soprattutto da quelli più semplici, diverranno uno standard.

Philips UBA2014

Fig. 4.1 UBA2014 block diagram

Come si vede la complessità di questo IC è notevole, come pure il suo costo, ma il livello
tecnologico dei ballast che si riescono ad ottenere con questi chips è veramente molto buono. La
figura 4.1 mostra lo schema a blocchi di questo IC, non ci soffermeremo sul funzionamento di ogni
singolo blocco, ma daremo soltanto una breve descrizione di come questo integrato opera. Una
volta raggiunta una alimentazione “adeguata” (power good) viene eseguito il reset e il convertitore
viene forzato ad oscillare ad una frequenza abbastanza elevata, circa uguale a 2,5 volte quella
minima. In questo istante parte anche il timer per il preheat, viene caricata la capacità di bootstrap e
attivato il blocco ANT che provvede a garantire che i dispositivi attivi presentino lo stesso tON. La
frequenza viene quindi abbassata fino a che il pin 8 non rileva la tensione voluta per il preheat,
trascorso il tempo di preheat la frequenza viene nuovamente abbassata verso quella di risonanza. La
tensione sulla lampada sale; quando supera la Vlampfail parte il timer per l’ignition, se la lampada si
innesca la tensione cala sotto Vlampfail, la frequenza viene portata su quella di burn e viene attivato il
controllo sulla corrente di lampada (ACS). Se la lampada non si innesca la tensione di lampada
raggiunge la Vlampmax e il chips impedisce che salga ulteriormente. Trascorso il tempo massimo per
l’ignition il convertitore viene bloccato.

Fig. 4.3 Normal ignition


Fig. 4.2 Oscillator and driver signals

Fig. 4.4 Failure mode during ignition Fig. 4.5 Failure mode during burn
Nella tavola sopra è riportata la piedinatura del chip, con una breve descrizione della funzione di
ciascun pin. Lo schema elettrico di figura 4.6 mostra una tipica applicazione per questo IC. I
componenti sono dimensionati per un DC-BUS a 400 volt (si ipotizza quindi di utilizzare un P.F.C.
attivo), mentre la lampada utilizzata è un TL-D 36W, pilotato però con una potenza ridotta a 32
Watt per avere la stessa luminosità che il tubo avrebbe se utilizzato con ballast elettromagnetico
(vedi quanto discusso nei capitoli precedenti). Lo stesso circuito può essere adattato per funzionare
senza P.F.C. (DC-BUS = 320 volt), e con una Plamp uguale proprio a 36 Watt (quindi ottenendo
una luminosità superiore ai 3350 lumen dati per l’utilizzo con ballast elettromagnetico) utilizzando
un induttore di 1,5 mH (non riportiamo i calcoli). Di seguito riportiamo le equazioni utili al
progetto:

f min = 125 • 10 3 /( R12 • C14) _ [kHz ] f max = 2,5 • f min

t ph = 1,7 • 10 −4 • R12 • C12 _ [s ] tign = 3,1 • 10 −5 • R12 • C12

Le frequenze sono in kHz, i tempi in secondi, le resistenze in KΩ, C12 in nF e C14 in pF.
Le altre equazioni necessarie al progetto sono identiche a quelle già viste per il self oscillant. Per
eventuali approfondimenti vedi datasheet e note applicative degli UBA2014.
Fig. 4.6 UBA2014 application circuit
International rectifier IR21571-IR2166

Fig. 4.7 IR21571 block diagram

Fig. 4.8 Pin assignments


Il funzionamento di questi IC è molto simile all’UBA2014, le principali differenze sono
sostanzialmente il controllo della corrente di lampada assente nei chips della IRF, ma soprattutto il
P.F.C. controller integrato dell’IR2166. Nella figura 4.7 è riportato lo schema a blocchi del 21571,
nella 4.8 la piedinatura e di seguito il diagramma di flusso del funzionamento.
La cosa più interessante però è il software che la IRF mette a disposizione gratuitamente per
eseguire una semplice progettazione di ballast elettronici utilizzando questi IC. Inserendo pochi
dati, come configurazione della lampada, tipo di IC utilizzato, caratteristiche della tensione di linea
e lampada che si desidera utilizzare, fornisce il dimensionamento dei componenti necessari, lo
schema elettrico, e il calcolo degli elementi avvolti (compreso l’induttore del P.F.C. per le
configurazioni che ne fanno uso). Ovviamente non restituisce un progetto, per così dire, “pronto
all’uso”, ma costituisce una buona base di partenza per realizzare un prototipo sul quale “limare” i
valori dei componenti per ottenere il funzionamento desiderato.

Fig. 4.9 IRF design software (IR21571)

La figura 4.9 mostra la finestra principale del software, notare in alto la configurazione del sistema
scelta, e le curve relative al circuito L-C (in blu) e L-C-R per i componenti della rete risonante
“calcolati” dal software. La figura 4.10 mostra invece la stessa finestra, ma questa volta l’IC scelto
è un IR2166 (con P.F.C.), e sono visualizzate le grandezze di funzionamento fondamentali del
ballast invece delle curve. In figura 4.11 sono riportate le tabelle di calcolo degli elementi avvolti,
rispettivamente dell’induttore del P.F.C. dell’IR2166 (sopra), e dell’induttore risonante del circuito
con IR21571.
Fig 4.10 IRF design software (IR2166)
Fig. 4.11 Inductor specification

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