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IMMUNOLOGIA

CAPITOLO 1: CARATTERISTICHE GENERALI DELLE RISPOSTE IMMUNITARIE

Il termine immunità deriva dal latino immunitas; immunità significa protezione dalla malattia e, più
specificamente, dalla malattia infettiva. Le cellule e le molecole responsabili dell’immunità costituiscono il
sistema immunitario e la loro risposta coordinata verso le sostanze estranee è chiamata risposta
immunitaria. La funzione fisiologica del sistema immunitario è proprio la difesa da agenti infettivi; tuttavia,
possono suscitare una risposta immunitaria anche sostanze estranee di natura non infettiva. È opportuno
inoltre sottolineare che, delle volte, i meccanismi immunitari possono causare danno tissutale e malattia,
quindi per una definizione più completa si potrebbe dire che l’immunità è la risposta a componenti
microbiche e a macromolecole indipendentemente dalle conseguenze fisiologiche e patologiche di tale
risposta. In alcune circostanze, anche le molecole self possono indurre una risposta immunitaria (risposta
autoimmune). Oltre alla difesa, il sistema immunitario è anche implicato nell’eliminazione delle cellule
danneggiate o infette, nonché di quelle trasformate (prevenzione della comparsa dei tumori). Il sistema
immunitario è anche coinvolto nel rigetto dei trapianti.

La difesa contro i microbi è assicurata dalle reazioni precoci dell’immunità innata e da quelle più tardive
dell’immunità adattiva. L’immunità innata, detta anche naturale o nativa, consiste nei meccanismi di difesa
cellulare e biochimici preesistenti all’infezione e pronti a reagire con rapidità. Questi meccanismi
rispondono ai prodotti dei microbi e alle cellule danneggiate e reagiscono sostanzialmente in modo identico
alle ripetute esposizioni. Quindi, i meccanismi dell’immunità innata riconoscono strutture comuni a gruppi
di microbi correlati e possono non distinguere differenze sottili tra i microbi. I principali componenti
dell’immunità innata sono:

• Barriere fisiche e chimiche (epiteli, sostanze antimicrobiche)


• Cellule fagocitiche (neutrofili e macrofagi)
• Cellule dendritiche e NK (natural killer), insieme ad altre cellule linfoidi innate
• Proteine del sangue (fattori, sistema del complemento, mediatori della flogosi)

L’immunità specifica, o adattiva, aumenta l’ampiezza e la capacità difensiva ad ogni successiva esposizione
all’antigene; è detta adattiva proprio perché si sviluppa e si adatta in risposta all’infezione stessa. Il sistema
immunitario adattivo è in grado di riconoscere un elevato numero di sostanze, microbiche e non, e di
reagire in risposta ad esse. La sua caratteristica principale è proprio la specificità, ossia la capacità di
distinguere le diverse risposte, e la capacità di rispondere con maggiore vigore a esposizioni ripetute ad uno
stesso microbo (memoria). I principali componenti dell’immunità adattiva sono cellule chiamate linfociti e i
loro prodotti di secrezione gli anticorpi. Le sostanze estranee che inducono una risposta immunitaria
specifica o che sono riconosciute da linfociti ed anticorpi vengono dette antigeni. Le citochine sono
un’ampia classe di proteine secrete che possiedono strutture e funzioni diverse; esse regolano e
coordinano le numerose attività delle cellule dell’immunità innata e adattiva. Tutte le cellule del sistema
immunitario secernono almeno alcune citochine ed esprimono specifici recettori che trasducono i segnali di
attivazione delle citochine. Tra le loro principali funzioni è importante ricordare:

• Crescita e differenziazione di tutte le cellule del sistema immunitario


• Attivazione delle funzioni effettrici di linfociti e fagociti
• Migrazione di linfociti e fagociti nel sangue
Esistono vari tipi di cellule che svolgono le funzioni dei due tipi di immunità, che derivano tutte da cellule
staminali del midollo osseo e vengono identificate in base all’espressione di determinate proteine di
membrana che sono state clusterizzate, ossia raggruppate; queste cellule staminali possiedono una
capacità di auto rinnovamento e vanno a differenziarsi lungo le 2 linee, quella mieloide (da cui originano i
granulociti neutrofili, basofili, acidofili, mastociti, monociti e cellule dendritiche) e quella linfoide (da cui
originano i linfociti T e B, coinvolti nell’immunità adattiva).

Nel corso di una normale infezione, avviene prima l’intervento del sistema immunitario innato che entro 4
giorni tenta di rimuovere il danno. Se ciò non è sufficiente, si attiva l’immunità adattiva, con l’azione di
cellule T e B. I due tipi di immunità sono fortemente correlati tra di loro, in quanto l’immunità innata
stimola e condiziona il tipo di risposta adattiva che seguirà. Quando i linfociti vengono attivati, possono
sfruttare alcuni meccanismi effettori dell’immunità innata che sono molto precisi nell’eliminare il pericolo.
Le cellule dendritiche rappresentano il legame tra i due tipi di immunità: esse presentano PRR e possono
eliminare il pericolo per degranulazione o secernendo dei mediatori, ma soprattutto possono catturare gli
antigeni e presentarli, in associazione a molecole MHC, ai linfociti T, attivandoli; per questo, le cellule
dendritiche sono delle APC.

L’ampio gruppo di citochine strutturalmente omologhe che regolano la migrazione ed il movimento


cellulare prende il nome di chemochine.

Dal momento che molti agenti patogeni si sono evoluti per resistere all’immunità innata, la loro
eliminazione richiede l’intervento dei potenti meccanismi dell’immunità adattiva; le risposte immunitarie
adattive funzionano spesso potenziando i meccanismi effettori dell’immunità innata, rendendoli più efficaci
nel combattere i microbi.

Esistono due tipi di risposte adattive, chiamati immunità umorale ed immunità cellulare; essi sono mediati
da componenti diverse del sistema immunitario ed hanno il compito di eliminare tipi diversi di microbi.

• IMMUNITA’ UMORALE: è mediata da molecole presenti nel sangue e nelle secrezioni mucosali,
chiamate anticorpi, che sono prodotti dalle cellule denominate linfociti B (o cellule B). Gli anticorpi
riconoscono gli antigeni microbici neutralizzandone l’infettività e identificandoli per la successiva
eliminazione da parte di vari meccanismi effettori. Questo tipo di immunità costituisce il principale
meccanismo di difesa contro i microbi extracellulari e le loro tossine, poiché gli anticorpi secreti
possono legarsi agevolandone l’eliminazione. Gli anticorpi possiedono diversi gradi di
specializzazione e, a seconda del tipo, possono attivare diversi meccanismi per combattere i
microbi (meccanismi effettori). Per esempio, diversi tipi di anticorpi promuovono l’ingestione dei
microrganismi da parte delle cellule dell’ospite (fagocitosi), si legano e scatenano il rilascio di
mediatori della flogosi da parte di alcuni leucociti o sono attivamente trasportati nel lume mucosale
di molti organi e anche attraverso la placenta, per fornire una difesa nei confronti di microbi inalati,
ingeriti e per proteggere il neonato.
• IMMUNITA’ CELLULARE, O CELLULO-MEDIATA: è determinata dai linfociti T (o cellule T). I microbi
intracellulari, come i virus o alcuni batteri, sopravvivono e proliferano all’interno dei fagociti e di
altri tipi cellulari, e diventano inaccessibili agli anticorpi circolanti. La difesa contro tali infezioni
dipende dall’immunità cellulare, che elimina i serbatoi di infezione attraverso l’eliminazione dei
microbi residenti nei fagociti e l’uccisione delle cellule infettate. Inoltre, i linfociti T possono anche
contribuire ad eradicare i microbi extracellulari reclutando altri tipi di leucociti , in grado di
eliminare questi patogeni e di aiutare i linfociti B a produrre anticorpi efficaci.
L’immunità che deriva dall’esposizione ad un antigene viene detta immunità attiva, poiché l’individuo
immunizzato ha un ruolo attivo nella risposta all’antigene. Individui che non hanno incontrato un
particolare antigeni sono detti naive, viceversa sono detti immuni. L’immunità può inoltre essere conferita
ad un individuo in contesti sperimentali mediante il trasferimento di siero o di linfociti da un soggetto
vaccinato (trasferimento adottivo); il ricevente diventa immune a quel particolare antigene senza mai
essere stato esposto ad esso. Pertanto, questa forma di immunità viene detta passiva ed è un sistema utile
per conferire rapidamente resistenza, senza aspettare che si sviluppi una risposta attiva. Un esempio di
immunità passiva è il trasferimento di anticorpi materni al feto attraverso la placenta, che consente ai
neonati di combattere le infezioni prima ancora di acquisire la capacità di produrre anticorpi.

Tutte le risposte immunitarie ad un antigene estraneo, umorali e cellulari, possiedono alcune


caratteristiche fondamentali che riflettono le proprietà dei linfociti responsabili di tali risposte:

• SPECIFICITA’ E DIVERSIFICAZIONE: le risposte immunitarie sono specifiche verso porzioni distinte di


una singola proteina complessa, di un polisaccaride o di altre macromolecole. Le porzioni di
antigeni, riconosciute in modo specifico dai linfociti, sono chiamante determinanti o epitopi.
Questa specificità esiste perché i singoli linfociti esprimono recettori di membrana in grado di
discriminare le sottili differenze presenti nella struttura dei diversi antigeni. Nei soggetti non
immunizzati sono presenti cloni linfocitari dotati di molteplici specificità, capaci di riconoscere
antigeni diversi e di rispondervi (selezione clonale). I linfociti di un individuo possiedono la capacità
di riconoscere un enorme numero di antigeni (repertorio linfocitario, tra 10^7 e 10^9 determinanti
antigenici). Questa proprietà del repertorio linfocitario è definita diversificazione ed è il risultato
della variabilità dei siti di legame dei recettori con l’antigene.
• MEMORIA: l’esposizione del sistema immunitario ad un antigene non self aumenta la sua futura
capacità di rispondere a quell’antigene. Le risposte alla seconda e alle successive esposizioni allo
stesso antigene (risposte secondarie) sono in genere più rapide, più potenti e spesso
qualitativamente diverse dalla primaria. La memoria immunologica si basa sul fatto che ad ogni
esposizione antigenica si generano cellule a lunga sopravvivenza specifiche per quel dato antigene.
Le cellule della memoria possiedono particolari caratteristiche che le rendono più efficienti dei
linfociti naive: per esempio, i linfociti B della memoria producono anticorpi che legano gli antigeni
con un’affinità più elevata di quanto non facciano le cellule B naive; in modo simile, i linfociti T della
memoria rispondono più rapidamente ed efficientemente agli antigeni di quanto non facciano i
linfociti T naive.
• ESPANSIONE CLONALE: quando i linfociti riconoscono l’antigene per cui sono specifici, vanno
incontro ad una proliferazione. Il termine espansione clonale si riferisce all’aumento del numero di
linfociti che esprimono un recettore identico per il medesimo antigene e quindi appartengono allo
stesso clone. L’espansione permette chiaramente di fronteggiare il rapido aumento degli antigeni
patogeni.
• SPECIALIZZAZIONE: la natura degli anticorpi o dei linfociti T varia in base alla classe di microbi
coinvolti.
• RISOLUZIONE E OMEOSTASI: normalmente, tutte le risposte immunitarie si esauriscono nel periodo
successivo alla stimolazione antigenica, permettendo al sistema immunitario di tornare allo stadio
di riposo (omeostasi). Tutti i linfociti, esclusi quella della memoria, una volta privati dell’opportuna
stimolazione, vanno incontro a morte per apoptosi.
• NON REATTIVITA’ VERSO IL SELF: una delle principali proprietà del sistema immunitario di un
individuo sano è la capacità di riconoscere gli antigeni estranei dall’organismo (non self), senza
reagire pericolosamente agli antigeni propri dell’individuo (self). La non responsività immunologia è
anche detta tolleranza; essa viene preservata grazie a molti meccanismi, come l’inattivazione dei
linfociti autoreattivi e l’azione di cellule soppressive. Le alterazioni nell’induzione o nel
mantenimento della tolleranza determinano risposte contro gli antigeni self, che possono sfociare
in patologie dette autoimmuni.

La specificità e la memoria consentono di potenziare le risposte nei confronti di stimoli antigenici


persistenti o ricorrenti, combattendo così infezioni prolungate e ricorrenti. La diversificazione è essenziale
per fronteggiare i numerosi e potenziali patogeni ambientali. La specializzazione consente all’ospite di
modulare le risposte per meglio combattere i diversi tipi di microbi. L’autolimitazione della risposta
permette al sistema immunitario di tornare ad uno stato di riposo dopo avere eliminato ogni antigene
estraneo e di preparasi alla risposta ad altri antigeni. La tolleranza al self è fondamentale per prevenire
gravi reazioni contro cellule o tessuti autologhi, pur mantenendo un ampio repertorio di linfociti specifici
per gli antigeni non self. La risposta immunitaria è regolata da meccanismi di feedback positivo, deputati ad
amplificare le reazioni, e da meccanismi che prevengono le risposte inappropriate o patologiche. I
meccanismi di feedback positivo sono importanti perché permettono ai pochi linfociti dotati di specificità
utile di attivarsi e di eradicare l’infezione. In parallelo, vengono anche avviate strategie di controllo
preposte a prevenire l’eccessiva attivazione dei linfociti, che potrebbe causare un danno ai tessuti
circostanti, e a impedire la risposta nei confronti di antigeni self. La risposta immunitaria rappresenta quindi
un delicato equilibrio tra segnali attivatori ed inibitori.

Le principali cellule del sistema immunitario adattivo sono i linfociti, le cellule accessorie e le cellule
effettrici. I linfociti sono le cellule che riconoscono e rispondono in modo specifico agli antigeni estranei e
quindi rappresentano i mediatori dell’immunità umorale e cellulare. Esistono sottopopolazioni distinti di
linfociti che differiscono per le modalità di riconoscimento dell’antigene e le funzioni effettrici.

• LINFOCITI B: sono le cellule in grado di produrre anticorpi; essi riconoscono gli antigeni
extracellulari solubili e quelli presenti sulla superficie cellulare, e si differenziano in cellule
secernenti anticorpi, svolgendo pertanto il ruolo di mediatori dell’immunità umorale.
• LINFOCITI T: le cellule dell’immunità cellulare, riconoscono gli antigeni dei microbi intracellulari. I
linfociti T agiscono sia aiutando le cellule fagocitiche ad eliminare i microbi, o uccidendo loro stessi
le cellule infettate. I linfociti T non producono anticorpi; il loro recettore per l’antigene è costituito
da molecole di membrana diverse dagli anticorpi, ma a loro strutturalmente correlate. Hanno una
specificità ristretta nei confronti degli antigeni; riconoscono infatti solo antigeni peptidici associati
ad alcune proteine codificate dai geni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), espresse
sulla superficie delle cellule dell’ospite. Ne consegue che i linfociti T riconoscono e rispondono agli
antigeni associati alla superficie cellulare, ma non a quelli solubili. Comprendono due popolazioni
distinte:
- LINFOCITI T HELPER (TH): secernono citochine responsabili di molte risposte dell’immunità
innata e adattiva, funzionando dunque come messaggeri del sistema immunitario. Le citochine
stimolano la proliferazione e la differenziazione degli stessi linfociti T, nonché dei linfociti B, dei
macrofagi e di altri leucociti.
- LINFOCITI H CITOLITICI O CITOTOSSICI (CTL): uccidono le cellule che presentano antigeni
estranei non self.
Ancora esiste un’altra classe di linfociti, quella dei linfociti T regolatori, che svolgono
principalmente il ruolo di inibire le risposte immunitarie. Ancora un’altra classe è quella dei linfociti
NKT, che possiedono nella membrana marker caratteristici delle cellule NK.

L’inizio e lo sviluppo delle risposte immunitarie adattive richiedono che l’antigene sia catturato e
presentato ai linfociti specifici. Le cellule che svolgono questo ruolo sono chiamate cellule accessorie o
cellule che presentano l’antigene (APC). Le APC più specializzate in questa funzione sono le cellule
dendritiche, che catturano antigeni microbici presenti nell’ambiente circostante. Gli antigeni vengono
quindi portati agli organi linfoidi e presentati ai linfociti T naive, per dare inizio alla risposta immunitaria
umorale e cellulare. L’attivazione dei linfociti in seguito al riconoscimento dell’antigene innesca molteplici
meccanismi volti all’eliminazione dell’antigene. Spesso, l’eliminazione dell’antigene richiede la
partecipazione di cellule effettrici che mediano l’effetto finale della risposta immunitaria.

I linfociti e le APC sono concentrati in organi linfoidi anatomicamente definiti, all’interno dei quali
interagiscono per dare inizio alla risposta immunitaria. I linfociti sono anche presenti nel sangue, dal quale
possono circolare ai tessuti linfoidi e raggiungere i tessuti periferici dove sono presenti gli antigeni da
eliminare. Ricordiamo ancora una volta che l’interazione tra i leucociti tra loro e con altre cellule dell’ospite
sono mediate dall’azione delle citochine.

RISPOSTE DELL’IMMUNITA’ INNATA

Il sistema immunitario innato ha il compito di impedire l’ingresso e di annullare o almeno limitare la


crescita dei microrganismi che stanno colonizzando un tessuto. Le principali aree che costituiscono
un’interfaccia con l’ambiente (cute, polmoni, ecc) sono rivestite da uno strato uniforme di epitelio che
svolge il ruolo di barriera; quando i microrganismi riescono a superare tale barriera, vengono intercettati da
altre cellule dell’immunità innata. La risposta è rappresentata da due principali strategie:

- L’INFIAMMAZIONE: consiste nel richiamo delle proteine plasmatiche e dei leucociti circolanti
nei tessuti, dove vengono attivati per eliminare i microbi. Molte di queste reazioni richiedono
l’azione di citochine prodotte da cellule dendiritiche, macrofagi e altri tipi cellulari. Neutrofili
(che hanno scarsa sopravvivenza nei tessuti) e monociti (che si differenziano in macrofagi
tissutali) costituiscono i principali tipi leucocitari reclutati durante la risposta infiammatoria. I
fagociti ingeriscono microbi e cellule morte, distruggendoli nelle vescicole intracellulari.
- DIFESE ANTIVIRALI: si basano sull’azione di alcune citochine che conferiscono alla cellula la
resistenza all’infezione e attivano le cellule specializzate del sistema immunitario innato, le
cellule NK, ad uccidere le cellule infettate.

I microbi in grado di resistere a questi meccanismi di difesa, entrano in circolo dove vengono riconosciuti
dalle proteine dell’immunità innata, tra cui quelle del sistema del complemento: quando le proteine del
sistema del complemento sono attivate in seguito al contatto con le superfici microbiche, vengono tagliate
e attivano diverse risposte infiammatorie; inoltre, possono rivestire le superfici (opsonizzare) dei microbi,
favorendone la fagocitosi e la lisi. Durante la risposta infiammatoria, altre proteine plasmatiche si
accumulano nel sito di infezione e aiutano a combattere i microbi presenti. Dunque, l’immunità innata è
particolarmente efficace nel controllo e nell’eliminazione di molti tipi di infezione. Quando gli organismi
sono così evoluti da resistere a tutte queste strategie, è necessario l’intervento dell’immunità specifica.

RISPOSTE DELL’IMMUNITA’ ADATTIVA

L’immunità adattiva utilizza tre principali strategie:


- ANTICORPI: legano microrganismi extracellulari e ne impediscono l’interazione con cellule
dell’ospite, promuovendo anche la loro ingestione e uccisione da parte dei fagociti.
- FAGOCITOSI: le cellule fagocitiche ingeriscono e uccidono i microbi con l’aiuto dei linfociti T
helper e degli anticorpi, che ne aumentano il potenziale microbicida.
- UCCISIONE CELLULARE: i CTL uccidono le cellule infettate, in cui i microrganismi non sono
accessibili all’azione degli anticorpi e ai meccanismi litici dei fagociti.

L’obiettivo dell’immunità specifica è proprio quello di attivare uno o più meccanismi di difesa nei confronti
di microbi che si localizzano in diversi distretti anatomici. L’immunità adattiva prevede diverse fasi:

1. CATTURA E PRESENTAZIONE DELL’ANTIGENE: il numero dei linfociti T naive specifici per un dato
antigene è estremamente limitato (10^5 circa linfociti) e la quantità dell’antigene stesso può essere
limitata, per questo motivo sono necessari meccanismi particolari che catturino i microrganismi, li
concentrino in siti appropriati e presentino i loro antigeni ai linfociti specifici. Le cellule dendritiche
degli epiteli e dei connettivi catturano i microrganismi e digeriscono le loro proteine in frammenti,
che vengono poi espressi sulla membrana in associazione alle molecole MHC, che sono proteine
dell’immunità adattiva specializzate nella presentazione dei peptidi antigenici. Le cellule
dendritiche trasportano gli antigeni ai linfonodi drenanti dove i linfociti T naive ricircolano in
continuazione; di conseguenza, la probabilità che un linfocita T dotato del recettore per un
particolare antigene trovi quell’antigene è considerevolmente aumentata attraverso la
concentrazione degli antigeni e dei linfociti T nella stessa sede anatomica. I microrganismi che
raggiungono intatti i linfonodi o la milza sono riconosciuti in loco nella loro forma nativa da linfociti
B specifici e, inoltre, possono anche essere presentati ai linfociti B da certe APC presenti negli
organi linfoidi.
2. RICONOSCIMENTO DELL’ANTIGENE DA PARTE DEI LINFOCITI: linfociti specifici per un vasto numero
di antigeni sono normalmente presenti prima dell’esposizione all’antigene e, quando un antigene
penetra in un organo linfoide secondario, esso si lega (ossia seleziona) alle cellule specifiche per
quell’antigene, attivandole (IPOTESI DELLA SELEZIONE CLONALE): i cloni dei linfociti antigene-
specifici si sviluppano prima e indipendentemente dall’incontro con l’antigene. Per clone, si intende
un linfocita dotato di una singola specificità e la sua progenie. Il sistema immunitario produce una
vasta quantità di cloni durante il processo di maturazione linfocitaria, aumentando così la
possibilità di riconoscere microbi diversi. L’attivazione di linfociti T naive richiede il riconoscimento
da parte del complesso peptide-MHC presentato dalle cellule dendritiche. Poiché i recettori dei
linfociti T sono specifici per peptidi associati a MHC, questi linfociti interagiscono solo con antigeni
che sono associati ad una cellula (poiché le MHC sono proteine di membrana) e non con antigeni
liberi. Per rispondere, quindi, i linfociti T hanno bisogno di riconoscere non solo gli antigeni, ma
anche altre molecole, dette costimolatorie, che sono espresse dalle APC stimolate dagli antigeni
microbici. Questo riconoscimento determina la specificità della risposta immunitaria, mentre la
necessità di molecole costimolatorie assicura che i linfociti T rispondano ai microrganismi e non a
sostanze innocue. I linfociti B usano i loro recettori per l’antigene (anticorpi di membrana), per
riconoscere antigeni di diversa natura chimica. L’attivazione dei recettori, insieme ad altri segnali,
promuove la proliferazione e la differenziazione dei linfociti.
3. ATTIVAZIONE DEI LINFOCITI T ED ELIMINAZIONE DEI MICRORGANISMI INTRACELLULARI
(IMMUNITA’ CELLULARE): l’attivazione dei linfociti T-helper CD4+ determina la loro proliferazione e
differenziazione in cellule effettrici, dotate della capacità di produrre citochine. Quando i linfociti T
CD4+ naive sono attivati dall’antigene, secernono la citochina interleuchina-2 (IL-2), che è un
fattore di crescita che stimola la proliferazione delle cellule specifiche per quell’antigene. Parte dei
linfociti attivati si differenzia in cellule effettrici in grado di produrre diversi tipi di citochine e quindi
di svolgere funzioni diverse. Molte cellule effettrici abbandonano gli organi linfoidi in cui è avvenuta
la differenziazione e migrano ai siti di infezione e di infiammazione. Quando i linfociti T effettori
incontrano nuovamente cellule infettate, svolgono le funzioni effettrici più opportune al fine di
eliminare i microrganismi. Alcuni dei linfociti T helper CD4+ producono citochine che reclutano altri
leucociti e attivano la produzione di sostanze microbicide nei fagociti. Quindi, questi linfociti T
aiutano i fagociti ad uccidere i microbi patogeni. Altri linfociti T helper CD4+ producono citochine
che aiutano i linfociti B a produrre un tipo di anticorpi chiamati immunoglobuline E (IgE), in grado di
attivare gli eosinofili che uccidono i parassiti di grandi dimensioni che non potrebbero essere
fagocitati. I linfociti T helper CD4+ stimolano anche la produzione dei linfociti B.
I linfociti CD8+ attivati proliferano e si differenziano in CTL che uccidono le cellule che ospitano
microrganismi intracellulari, che possono essere virus oppure batteri che, pur essendo stati
fagocitati dai macrofagi, hanno imparato a fuoriuscire nel citoplasma dalle vescicole fagocitiche.
L’uccisione delle cellule infettate da parte dei CTL ha lo scopo di eliminare i focolai infettivi.
4. ATTIVAZIONE DEI LINFOCITI B ED ELIMINAZIONE DEI MICRORGANISMI EXTRACELLULARI
(IMMUNITA’ UMORALE): l’attivazione da parte dell’antigene dei linfociti B comporta la
proliferazione e la differenziazione in cellule in grado di produrre classi diverse di anticorpi dotati di
funzioni distinte. La risposta dei linfociti B agli antigeni proteici richiede l’intervento (help) dei
linfociti T helper CD4+; i linfociti B possono rispondere a molti antigeni di origine non proteica in
assenza dell’intervento dei linfociti T helper. Parte della progenie dei linfociti B attivati si differenzia
in plasmacellule che producono anticorpi; ogni plasmacellula produce anticorpi dotati di un’unica
specificità antigenica simile a quella degli anticorpi sulla superficie (recettori dei linfociti B) della
cellula che inizialmente ha riconosciuto l’antigene. Gli antigeni lipidici stimolano principalmente la
produzione di IgM; gli antigeni proteici stimolano principalmente la produzione di IgG, IgA e IgE. La
produzione di classi anticorpali con diverse funzioni viene definita scambio isotopico e richiede
l’intervento dei linfociti T helper, che stimolano anche la produzione di anticorpi dotati di una
migliore affinità per l’antigene (maturazione dell’affinità). L’immunità umorale combatte i
microrganismi attraverso molteplici strategie: gli anticorpi, legandosi ai microbi, li neutralizzano,
bloccando le infezioni prima ancora che queste abbiano luogo. Le IgG, rivestendo i microrganismi, li
rendono più facili da fagocitare, poiché le cellule fagocitiche esprimono recettori per alcune
porzioni di IgG. Inoltre, esse, insieme alle IgM attivano la via del complemento che produce
componenti in grado di promuovere la fagocitosi e l’eliminazione dei microbi. Le IgA sono secrete
dagli epiteli delle mucose e neutralizzano i microbi presenti nei tessuti mucosi (respiratorio,
gastrointestinale). Le IgG materne sono attivamente trasportate attraverso la placenta e
proteggono il nascituro fino a quando il suo sistema immunitario raggiunge la maturità. La maggior
parte degli anticorpi ha un’emivita di pochi giorni, ma la maggior parte delle IgG raggiunge anche le
3 settimane. Alcune plasmacellule, migrando al midollo osseo, sopravvivono per anni continuando
a produrre bassi livelli di anticorpi che forniscono una protezione immediata nei confronti di una
successiva infezione da parte dello stesso microbo.
5. MEMORIA IMMUNOLOGICA: l’attivazione iniziale dei linfociti genera cellule di memoria a lunga
sopravvivenza, che possono sopravvivere anche per anni dopo l’infezione. Esse sono più efficaci dei
linfociti naive perché costituiscono una popolazione espansa di linfociti antigene-specifici e sono
più veloci ed efficaci a rispondere all’antigene rispetto alle cellule naive.
CAPITOLO 2: CELLULE E TESSUTI DEL SISTEMA IMMUNITARIO

Nelle risposte protettive contro gli agenti infettivi, il sistema immunitario deve fare fronte a molteplici
situazioni:

• Deve essere in grado di rispondere ad un numero limitato di microbi rispetto alla miriade di
antigeni che possono penetrare in qualsiasi distretto anatomico;
• Solo un numero ristretto di linfociti naive è in grado di riconoscere e rispondere in modo specifico
ai singoli antigeni;
• I meccanismi effettori del sistema immunitario adattivo devono poter localizzare ed eliminare i
microbi in siti lontani dalla sede iniziale della risposta.

Vediamo ora quali sono le principali cellule che costituiscono il sistema immunitario:

FAGOCITI: fagociti, macrofagi e neutrofili sono cellule la cui funzione primaria è quella di ingerire ed
eliminare i microrganismi e i tessuti danneggiati. Dopo il reclutamento attivo delle cellule nei siti
dell’infezione ed il riconoscimento dei microbi, procedono all’uccisione di questi ultimi e
comunicano con altre cellule per favorire la risposta immunitaria.
1. NEUTROFILI: detti anche leucociti polimorfonucleati, costituiscono la popolazione cellulare
più abbondante (valore medio: 4400/microlitro; intervallo normale: 1800-7700/microlitro)
e sono responsabili della prima fase della risposta infiammatoria. Circolano sottoforma di
cellule tondeggianti con numerose estroflessioni di membrana; il suo nucleo è segmentato
in 3-5 lobi e il citoplasma contiene due tipi di granuli: la maggior parte di essi (granuli
specifici) contiene enzimi come il lisozima e l’elastasi e non si colora né con coloranti basici
né con coloranti acidi; il resto del granuli (granuli azzurrofili) è costituito da lisosomi che
contengono enzimi e altre sostanze microbicide, come le defensine. I neutrofili vengono
prodotti dal midollo osseo e derivano dai precursori che danno inoltre origine ai fagociti
mononucleati. Un individuo adulto produce al giorno circa 10^11 neutrofili, ognuno dei
quali resta in circolo per circa 6 ore o pochi giorni; arrivano al sito di infezione in alcune ore
e rimangono attivi solo per 1 o 2 giorni.
2. FAGOCITI MONONUCLEATI: si tratta di cellule circolanti (monociti) e cellule presenti nei
tessuti (macrofagi). I macrofagi svolgono un ruolo fondamentale sia nell’immunità innata
che in quella adattiva; molti tessuti presentano macrofagi longevi che derivano da
precursori presenti nel sacco vitellino e nel fegato fetale (es. cellule del Kupffer o macrofagi
alveolari o ancora le cellule microgliali del cervello). Negli adulti, le cellule della linea
macrofagica derivano da cellule specifiche preesistenti nel midollo osseo, stimolate dalla
citochina M-CSF. Questi precursori danno origine ai monociti che entrano nel circolo
ematico e, una volta raggiunti i tessuti, subiscono un’ulteriore maturazione diventando
macrofagi. I monociti hanno nuclei con una caratteristica forma a fagiolo e con granulazioni
citoplasmatiche fini, contenenti lisosomi e vacuoli fagocitici. Si distinguono diverse
sottoclassi di monociti, a seconda del marcatore presente sulla loro superficie cellulare. I
monociti più numerosi producono mediatori infiammatori in maniera abbondante e si
dirigono rapidamente verso il sito di infezione o di danno tissutale: nell’uomo, questi
monociti sono identificati da un’espressione elevata sulla membrana plasmatica di CD14 e
dalla mancanza di CD16 (CD14++, CD16-). I monociti non classici (minoranza dei monociti
ematici) sono CD14+CD16++ e contribuiscono alla riparazione tissutale conseguente al al
danno, rotolando lungo la superficie delle cellule endoteliali (patrolling). I macrofagi
tissutali svolgono molte funzioni:
- Ingeriscono ed uccidono i microbi;
- Contribuiscono a risolvere il processo infiammatorio, degradando le cellule morte dell’ospite ed
i neutrofili che si accumulano nei siti di flogosi (pulizia successiva alle infezioni);
- Riconoscono e fagocitano le cellule apoptotiche prima che queste possano attivare risposte
infiammatorie;
- Una volta attivati, secernono numerosi citochine presenti sulle cellule endoteliali,
incrementando il numero di monociti e altri leucociti del sangue reclutati e quindi amplificando
la risposta immunitaria;
- Sono cellule presentanti antigeni che quindi attivano i linfociti T;
- Contribuiscono alla riparazione dei tessuti danneggiati stimolando angiogenesi e fibrosi (sintesi
di collagene), mediante la produzione di citochine.
L’attivazione delle diverse funzioni macrofagiche avviene in seguito al riconoscimento di
svariate strutture microbiche e di molecole prodotte dall’ospite in risposta ad esse: le molecole
attivatorie si legano a recettori specifici (sulla superficie dei macrofagi o al loro interno) in
grado di attivare cascate di trasduzione del segnale. I macrofagi si possono attivare anche in
seguito al riconoscimento delle opsonine presenti sulla superficie dei microbi. Inoltre, a
seconda degli stimoli cui sono sottoposti, i macrofagi possono acquisire capacità funzionali
distinte: ad esempio, alcune citochine prodotte da sottopopolazioni diverse di linfociti T
attivano i macrofagi ad uccidere i microbi in maniera più efficiente e questo processo viene
detto attivazione classica; altre citochine li attivano invece a favorire il rimodellamento e il
riparo tissutale (attivazione alternativa).
Infine, dobbiamo ricordare che i macrofagi rispondono rapidamente ai microrganismi quasi
quanto i neutrofili, ma persistono per un tempo molto più lungo nella sede della flogosi;
sopravvivono più a lungo e, a differenza dei neutrofili, non sono completamente differenziati e
possono andare incontro a divisione cellulare nel sito infiammatorio. Di conseguenza, i
macrofagi sono le principali cellule effettrici delle fasi più tardive della risposta innata e
possono persistere anche diversi giorni dopo l’inizio dell’infezione.
MASTOCITI: sono cellule di origine midollare localizzate nella cute e negli epiteli delle mucose e che
contengono un elevato numero di granuli plasmatici infarciti di istamina e altri mediatori. In
condizioni normali, non sono riscontrabili mastociti maturi circolanti, che sono invece presenti nei
tessuti, generalmente localizzati in prossimità di piccoli vasi o di nervi. Il loro citoplasma contiene
numerose granulazioni di proteoglicani acidi (che legano coloranti basici). Esprimono recettori di
membrana caratterizzati da un’elevata affinità per le IgE, delle quali sono generalmente rivestiti. Il
legame di un antigene con l’anticorpo provoca l’attivazione della cellula ed il conseguente rilascio
del contenuto granulare nello spazio extracellulare. I mastociti sono dunque delle sentinelle nei
tessuti, dove riconoscono i prodotti microbici e rispondono producendo citochine e altri mediatori
che inducono flogosi. Queste cellule forniscono una difesa contro gli elminti e altri microbi, ma
sono anche responsabili dell’insorgenza della risposta allergica.
BASOFILI: i basofili sono granulociti del circolo ematico caratterizzati da analogie strutturali e
funzionali con i mastociti; come gli altri granulociti, anche i basofili derivano da progenitori
midollari, maturano nel midollo osseo e poi circolano nel sangue. Costituiscono meno dell’1% dei
leucociti ematici e, sebbene non siano presenti nei tessuti, possono essere reclutati in alcune sedi
infiammatorie. Anche questi contengono granuli che legano gruppi basici, esprimono recettori di
membrana per le IgE, legano le IgE e possono essere attivati in seguito al legame dell’antigene da
parte delle IgE stesse.
EOSINOFILI: sono granulociti presenti nel sangue dotati di granuli citoplasmatici contenenti enzimi
che danneggiano la parete cellulare dei parassiti, ma che possono danneggiare anche i tessuti
dell’ospite. Contengono proteine basiche che quindi legano coloranti acidi (es. eosina) e anch’essi
derivano dal midollo osseo. La loro maturazione è promossa dalla citochina GM-CSF e dalle
interleuchine IL-3 ed IL-5. Alcuni eosinofili sono normalmente presenti nei tessuti periferici (es.
mucose respiratoria e gastrointestinale), in cui il loro numero tende ad aumentare contestualmente
al loro richiamo durante il processo infiammatorio.
APC: le cellule che presentano l’antigene (APC), o cellule accessorie, catturano i microbi e altri
antigeni e li presentano ai linfociti, fornendo segnali in grado di stimolare la proliferazione e la
differenziazione dei linfociti stessi (N.B. generalmente il termine APC viene utilizzato per indicare
una cellula che presenta l’antigene ai linfociti T).
- CELLULE DENDRITICHE: sono le più importanti APC per l’attivazione dei linfociti T naive;
svolgono anche un ruolo importante nelle risposte innate alle infezioni e nel collegare
l’immunità innata a quella adattiva. Sono caratterizzate da lunghe protrusioni della membrana
e da una spiccata capacità fagocitaria e sono ampiamente distribuite nei tessuti linfoidi,
nell’epitelio delle mucose e nel parenchima degli organi. La maggior parte di esse appartiene
alla linea mieloide e deriva da precursori midollari che possono differenziarsi anche in monociti,
ma non in granulociti. Il loro precursore è l’interleuchina Flt3. Come i macrofagi, possiedono
recettori che riconoscono molecole espresse in modo specifico dai batteri e rispondono
secernendo citochine. Le cellule dendritiche classiche (o convenzionali) rispondono ai microbi
migrando verso i linfonodi, per presentare gli antigeni proteici ai linfociti T; le cellule
dendritiche plasmacitodi sono specializzate nella risposta contro le infezioni virali,
riconoscendo gli acidi nucleici dei virus e producendo proteine solubili dette interferoni di tipo
I.
Le cellule dendritiche immature presentano solo la capacità di fagocitare l’antigene; quelle
mature possono anche migrare agli organi linfoidi e presentare l’antigene ai linfociti T.
- CELLULE DENDRITICHE FOLLICOLARI (FDC): sono cellule dotate di prolungamenti della
membrana che si trovano disperse in raggruppamenti di linfociti B attivati localizzati nei follicoli
linfoidi dei linfonodi, della milza e dei tessuti linfoidi associati alle mucose. È importante
sottolineare che NON derivano da precursori midollari e non sono correlate alle cellule
dendritiche che presentano l’antigene ai linfociti T: hanno il compito di captare gli antigeni
legati agli anticorpi o ai prodotti del complemento e di esporre tali antigeni sulla loro superficie
per il riconoscimento da parte dei linfociti B, che quindi vengono selezionati in base alla loro
affinità per l’antigene.
- ALTRE CELLULE APC: oltre alle cellule dendritiche, i macrofagi ed i linfociti B sono importanti
APC, che presentano l’antigene ai linfociti T CD4+ helper. I macrofagi presentano l’antigene
direttamente ai linfociti T nel sito di infezione e li attivano a produrre molecole in grado di
attivarli ulteriormente (questo processo è molto importante per l’eradicazione dei microbi che,
pur essendo stati fagocitati, risultano resistenti all’uccisione). I linfociti B presentano l’antigene
ai linfociti T helper, moderando la comunicazione tra i linfociti T helper e quelli B nella risposta
anticorpale. I linfociti T citotossici CD8+ uccidono ogni tipo di cellula nucleata che presenti sulla
sua superficie l’antigene per il quale sono specifici; pertanto ogni cellula nucleata può fungere
da APC per i CTL.
LINFOCITI: i linfociti sono le cellule effettrici dell’immunità adattiva , le uniche ad esprimere in
modo clonale i recettori per l’antigene, ognuno con una diversa specificità antigenica. Ogni clone di
linfociti T e B esprime recettori per l’antigene, ognuno dotato di una singola specificità, che è
differente dalle specificità dei recettori specifici presenti in tutti gli altri cloni. I geni che codificano
per i recettori dell’antigene dei linfociti si formano per ricombinazione genetica durante la
maturazione, tramite eventi del tutto casuali che permettono di ottenere milioni di geni dotati di
specificità molto differenti tra i diversi cloni linfocitari. Il numero totale di linfociti in un individuo
adulto sano è circa 5x10^11, di cui il 2% circolante nel sangue, il 10% nel midollo osseo, il 15% nei
tessuti linfoidi associati alle mucose ed il 65% negli organi linfoidi (prevalentemente milza e
linfonodi).
I linfociti sono costituiti da sottopopolazioni che si differenziano tra di loro in base al tipo di
proteine prodotte e alla funzionalità:
- LINFOCITI B: producono anticorpi e hanno questo nome in quanto negli uccelli maturano in un
organo denominato Borsa di Fabrizio. Nei mammiferi non esiste l’equivalente anatomico di
quest’organo e le fasi della maturazione dei linfociti B hanno luogo nel midollo osseo. Il termine
linfociti B si riferisce dunque a cellule che derivano dal midollo osseo. Le principali sottoclassi
sono:
1. CELLULE FOLLICOLARI B: esprimono un repertorio di anticorpi altamente diversificato
che agiscono sia come recettori dell’antigene che come molecole secrete effettrici
dell’immunità umorale adattiva.
2. CELLULE B MARGINALI: producono anticorpi dotati di una diversificazione più limitata.
3. CELLULE B-1: producono anticorpi dotati di una diversificazione più limitata.

Ognuna di queste sottoclassi risiede in una precisa sede anatomica.

- LINFOCITI T: sono i mediatori dell’immunità cellulare; di origine midollare, migrano e maturano


nel timo (il termine T si riferisce infatti proprio alla maturazione timica). Le due
sottopopolazioni principali sono:
1. LINFOCITI T CD4+ HELPER: esprimono recettori per l’antigene detti recettori T (TCR) o
αβ; funzionano come mediatori dell’immunità cellulare.
2. LINFOCITI CTL CD8+: esprimono recettori per l’antigene detti recettori T (TCR) o αβ;
funzionano come mediatori dell’immunità cellulare.
3. LINFOCITI CD4+ REGOLATORI: esprimono i recettori αβ; inibiscono la risposta
immunitaria.
4. CELLULE NKT E LINFOCITI T γδ: sono due sottopopolazioni numericamente inferiori che
esprimono un TCR dotato di una diversificazione più limitata.
CLASSE FUNZIONI RECETTORE MARKERS PERCENTUALE PERCENTUALE PERCENTUALE
PER FENOTIPICI NEL SANGUE NEI NELLA MILZA
L’ANTIGENE LINFONODI
CD4+ HELPER Differenziazione Eterodimerici CD3+, 35-60 50-60 50-60
delle cellule B Diverse CD4+, CD8-
(immunità specificità
umorale), per l’MHC II.
attivazione dei
macrofagi
(immunità cellulo-
mediata),
stimolazione
dell’infiammazione
CD8+ Uccisione delle Eterodimerici CD3+, CD4- 15-40 15-20 10-15
CITOTOSSICI cellule infette da Diverse , CD8+
virus o batteri specificità
intracellulari per l’MHC I.

L’espressione di varie proteine sulla membrana cellulare può essere un criterio


classificativo: per esempio, la maggior parte dei linfociti T helper esprime una proteina
chiamata CD4, mentre la maggior parte dei CTL esprime un’altra proteina detta CD8.
Queste proteine vengono spesso dette marcatori e sono anche strutture funzionalmente
attive, specifiche della cellula che le esprime. L’espressione di un marcatore di membrana
viene di solito studiata tramite l’utilizzo di anticorpi specifici. La nomenclatura CD è
universalmente usata per classificare le molecole di superficie che identificano un
particolare stipite cellulare o un determinato stadio di differenziazione; esse hanno una
struttura definita e sono riconosciute da un gruppo (cluster) di anticorpi monoclonali.

- CLASSIFICAZIONE IN BASE ALLA PRECEDENTE ESPOSIZIONE AD ANTIGENI: i linfociti naive che


fuoriescono dal midollo osseo o dal timo, migrano agli organi linfoidi secondari, dove sono
attivati dagli antigeni e vengono indotti a proliferare e differenziarsi in cellule effettrici e della
memoria; successivamente, alcune di queste cellule migreranno nei tessuti periferici.
L’attivazione dei linfociti inizia con la sintesi di nuove proteine, come le citochine e i loro
recettori, che inducono i linfociti naive a proliferare per espandere i cloni specifici per
l’antigene (espansione clonale, necessaria per far fronte alla capacità dei microbi di proliferare
velocemente). Contemporaneamente all’espansione clonale, i linfociti T stimolati dall’antigene
si differenziano in cellule effettrici capaci di eliminare l’antigene. Altri linfociti B e T si
differenziano in cellule della memoria, dotate di lunga sopravvivenza e in grado di garantire
risposte rapide ed efficaci in caso di un successivo incontro con lo stesso antigene (risposta
secondaria).
- LINFOCITI NAIVE (VERGINI): sono linfociti T o B, presenti in circolo e negli organi linfoidi
secondari, che non hanno mai incontrato l’antigene. In assenza del riconoscimento
dell’antigene stesso, essi muoiono nell’arco di 1-3 mesi. Così come quelli della memoria, anche
questi linfociti sono detti “a riposo”, poiché non proliferano e non svolgono funzioni effettrici. I
linfociti T e B naive sono distinguibili morfologicamente e sono spesso chiamati linfociti piccoli.
Prima di essere stimolati si trovano in fase G°; in seguito a stimolazione passano allo stadio G1
del ciclo cellulare, per poi dividersi. I linfociti attivati sono più grandi e contengono
un’aumentata quantità di RNA citoplasmatico (linfociti grandi o linfoblasti). La sopravvivenza
dei linfociti naive dipende da segnali che si originano in seguito alla stimolazione del recettore
per l’antigene e alla presenza di citochine. Per quanto riguarda le citochine, in particolare, le
più importanti per la sopravvivenza dei linfociti naive sono l’IL-7 (sopravvivenza e forse anche
lenta replicazione) e il BAFF (fattore di attivazione dei linfociti B), una citochina appartenente
alla famiglia del TNF (tumor necrosis factor), necessario per la loro sopravvivenza. In condizioni
fisiologiche, il pool di linfociti naive resta numericamente costante; una sua diminuzione induce
una proliferazione di quelli rimasti e il loro rilascio dagli organi linfoidi primari. Se i linfociti
naive vengono trasferiti in un ospite privo di linfociti, essi cominciano a proliferare finché
raggiungono il numero presente negli animali normali. Questo processo si verifica in clinica nel
trapianto di cellule staminali emopoietiche per il trattamento di alcuni tipi di neoplasie maligne
e di malattie genetiche.
- LINFOCITI EFFETTORI: quando i linfociti naive si attivano, aumentano di dimensione e
cominciano a proliferare. Alcune di queste cellule si differenziano in linfociti T effettori, in grado
di produrre molecole che eliminano gli antigeni. I linfociti T effettori includono i linfociti T
helper e i CTL, mentre i linfociti B effettori sono cellule che producono gli anticorpi
(plasmacellule). I linfociti T helper (CD4+) esprimono molecole come il ligando CD40 e
secernono citochine che si legano ai recettori espressi dai macrofagi e dai linfociti B. i CTL
presentano nel citoplasma granuli contenenti proteine che vengono rilasciate per uccidere
cellule infettate da virus e cellule tumorali. Le cellule effettrici, sia quelle CD4+ che CD8+,
esprimono sulla loro superficie molecole che indicano una loro attivazione recente, come il
CD25. La maggior parte dei linfociti T effettori differenziati ha una vita breve e non si replica.
Molti linfociti B che secernono anticorpi sono morfologicamente identificabili come
plasmacellule, che hanno un nucleo localizzato in posizione eccentrica, abbondante citoplasma
rugoso, che è il luogo dove vengono prodotti gli anticorpi, e un apparato di Golgi ben definito,
dove gli anticorpi vengono preparati nella loro forma finale e assemblati per la secrezione. È
stimato che ogni singola plasmacellula possa secernere migliaia di anticorpi al secondo. Esse si
sviluppano negli organi linfoidi e nei siti dove si attivano le risposte immunitarie per poi migrare
nel midollo osseo, dove possono sopravvivere per lunghi periodi anche quando la risposta
immunitaria è terminata e l’antigene è stato eliminato.
- LINFOCITI DELLA MEMORIA: le cellule della memoria possono sopravvivere in uno stato di
quiescenza o replicarsi molto lentamente per molti anni, anche dopo che l’antigene è stato
eliminato. Queste cellule possono essere identificate in base all’espressione di proteine di
membrana che le distinguono dai linfociti naive e dai linfociti effettori; i linfociti T della
memoria e i naive, ma non gli effettori, esprimono livelli elevati del recettore per l’IL-7. I
linfociti della memoria esprimono anche molecole di superficie che permettono la loro
migrazione nei siti dell’infezione. Questi linfociti possono esprimere diverse classi di Ig di
membrana, come le IgG, le IgE o le IgA, come conseguenza della mutazione isotipica, laddove le
cellule naive esprimono soltanto IgM e IgD. Le caratteristiche che distinguono i linfociti naive,
effettori e della memoria dipendono dai differenti programmi di espressione genica, regolati da
fattori di trascrizione e da modifiche epigenetiche stabili, come la metilazione e l’acetilazione
dell’istone o il rimodellamento della cromatina.
CELLULE LINFOIDI INNATE (ILC): includono numerose sottopopolazioni di cellule che derivano dal
midollo osseo e sono correlate dal punto di vista dello sviluppo; esse presentano una morfologia
cellulare e funzioni effettrici simili a quelle dei linfociti T, ma non esprimono il recettore per
l’antigene caratteristico dei linfociti T. Le loro funzioni principali sono quelle di agire come prima
linea di difesa contro gli agenti infettivi patogeni, di riconoscere ed eliminare le cellule dell’ospite
stressate o danneggiate e di influenzare la natura delle risposte adattive. Esempi di queste cellule
sono le NK (natural killer), che uccidono le cellule infettate e danneggiate e secernono la citochina
IFNγ. Le cellule induttrici del tessuto linfoide sono una sottopopolazione di ILC che produce
citochine, come la linfotossina, essenziali per la formazione del tessuto linfoide secondario
organizzato.

ANATOMIA E FUNZIONI DEI TESSUTI LINFOIDI

I tessuti linfoidi vengono classificati in organi linfoidi generativi (o primari o centrali), dove i linfociti
acquisiscono la capacità di esprimere i recettori per l’antigene e raggiungono la maturità fenotipica e
funzionale, e in organi linfoidi secondari (periferici), in cui hanno inizio e si sviluppano le risposte agli
antigeni.

Gli organi linfoidi primari dei mammiferi hanno in comune la funzione di fornire fattori di crescita e altri
segnali necessari alla maturazione dei linfociti, nonché quella di presentare loro gli antigeni self per il
riconoscimento e la selezione dei linfociti in corso di maturazione. Gli organi primari sono:

1. MIDOLLO OSSEO: è l’organo in cui viene prodotta la maggior parte delle cellule che circolano nel
sangue, compresi i globuli rossi, i granulociti e i monociti, e in cui avvengono i primi stadi di
maturazione dei linfociti B. Durante lo sviluppo fetale, l’emopoiesi avviene inizialmente nelle isole
ematiche del sacco vitellino e nel mesenchima paraortico, successivamente nel fegato ed infine nel
midollo osseo. Alla nascita, l’emopoiesi avviene prevalentemente nelle ossa, specialmente nel
midollo osseo delle ossa piatte, mentre nella pubertà avviene principalmente a livello dello sterno,
nelle vertebre, nelle ossa iliache e nelle costole. Il midollo rosso consiste proprio in un’intelaiatura
reticolare spugnosa localizzata tra lunghe trabecole ossee; gli spazi di tale intelaiatura contengono
una rete di vasi sanguigni sinusoidi, all’esterno dei quali si trovano aggregati di precursori ematici
che maturano e migrano attraverso la membrana basale dei sinusoidi stessi per entrare nel circolo
sanguigno. In presenza di una lesione del midollo oppure di un fabbisogno eccezionale di nuove
cellule ematiche, il fegato e la milza possono diventare sede di emopoiesi extramidollare. Globuli
rossi, granulociti, monociti, cellule dendritiche, piastrine, linfociti B e T e cellule NK originano tutte
da una cellula staminale emopoietica comune midollare: le cellule staminali emopoietiche (HSC)
sono cellule pluripotenti, in grado cioè di generare ogni tipo di cellula matura del sangue; hanno
anche la capacità di auto rinnovarsi e possono essere identificate grazie alla presenza di marcatori
di superficie, come le proteine CD34. Sono localizzate in microscopiche nicchie specializzate del
midollo osseo, dove le cellule stromali non emopoietiche forniscono segnali necessari per
mantenere il ciclo replicativo delle HSC. Le HSC danno origine a due tipi di progenitori cellulari multi
potenti, uno che genera cellule linfoidi e alcune cellule mieloidi ed un altro che produce cellule
mieloidi, piastrine ed eritrociti. Il progenitore mieloide-linfoide comune dà origine a precursori
specifici dei linfociti T e B o appartenenti alla linea germinale delle cellule linfoidi innate; i
progenitori comuni mieloidi-megacariocitici-eritroidi danno invece origine a precursori della linea
eritroide, megacariocitica, granulocitica e monocitica.
La proliferazione e la maturazione dei precursori midollari sono stimolate dall’azione delle
citochine, che generalmente prendono il nome di fattori di stimolazione della crescita delle colonie
(CSF). Nel midollo, le citochine sono prodotte da cellule stromali e dai macrofagi, nonché da linfociti
T stimolati dall’antigene e da macrofagi attivati da citochine o microbi, garantendo il rifornimento
di leucociti atto a ripristinare le perdite che possono avvenire durante le reazioni immunitarie.
Il midollo contiene anche plasmacellule a lunga sopravvivenza che si sono generate nei tessuti
linfoidi secondari in seguito alla stimolazione dei linfociti B e sono successivamente migrate nel
midollo. Sono inoltre presenti linfociti T follicolari e alcuni linfociti T della memoria a lunga
sopravvivenza.
2. TIMO: il timo è la sede dove avviene la maturazione dei linfociti T. E’ un organo bilobato situato nel
mediastino anteriore e ogni lobo è suddiviso in molteplici lobuli da setti fibrosi ed ogni lobulo è
formato da una regione corticale esterna ed una midollare interna. La regione corticale contiene un
denso agglomerato di linfociti T, mentre quella midollare ne è meno densamente popolata.
Macrofagi e cellule dendritiche si trovano principalmente nella regione midollare. Disseminate in
tutto il timo ci sono delle cellule non linfoidi di tipo epiteliale (cellule epiteliali della corticale
timica), che producono l’IL-7, citochina necessaria per lo sviluppo iniziale dei linfociti T. Nella
regione midollare si trova una sottopopolazione di cellule epiteliali specializzate, le cellule epiteliali
midollari timiche (MTEC), che hanno un ruolo speciale nella presentazione degli antigeni self ai
linfociti T in corso di maturazione nell’ambito dei processi di selezione: in questo modo viene
assicurato che il sistema immunitario sia tollerante agli antigeni self. Nella regione midollare si
trovano inoltre i corpuscoli di Hassal, strutture spirali di cellule epiteliali, probabilmente residui di
cellule in via di degenerazione. Il timo possiede una ricca rete vascolare e vasi linfatici efferenti che
confluiscono nei linfonodi mediastinici. La componente epiteliale del timo deriva dalle tasche
branchiali (ectoderma).
Gli individui affetti dalla sindrome DiGeorge presentano un deficit di linfociti T dovuto ad una
delezione cromosomica che elimina i geni necessari per o sviluppo del timo.
I linfociti presenti nel timo, detti anche timociti, si trovano a vari stadi della maturazione: le cellule
più immature penetrano nel timo e il loro processo di maturazione ha inizio nella regione corticale;
la successiva maturazione inizia nella regione corticale e, man mano che i timociti maturano, si
spostano nella midollare; solo i linfociti T maturi escono dal timo ed entrano nel sangue e nei
tessuti linfoidi secondari.
3. SISTEMA LINFATICO: è essenziale per l’omeostasi dei fluidi tissutali e per le risposte immunitarie.
Consiste di vasi che drenano i liquidi dai tessuti ai linfonodi e dai linfonodi al sangue. Il fluido
interstiziale si forma costantemente in tutti i tessuti vascolarizzati dal plasma che filtra i capillari; i
capillari linfatici sono a fondo cieco e consentono che il liquido interstiziale entri liberamente nel
vaso stesso e la sovrapposizione delle cellule endoteliali, insieme alle valvole interne, ne
impediscono il reflusso. Una volta assorbito, il fluido, chiamato ora linfa, scorre nei capillari linfatici,
convergendo in vasi progressivamente più ampi, per effetto della contrazione delle cellule
muscolari lisce perilinfatiche; questi vasi confluiscono nei vasi linfatici afferenti, che portano ai
linfonodi la linfa, la quale esce per mezzo dei vasi efferenti. I vasi linfatici collegano tra loro una
serie di linfonodi successivi; alla fine della catena di linfonodi, il vaso linfatico efferente si unisce ad
altri vasi linfatici che poi confluiscono in un vaso linfatico di grosse dimensioni, il dotto toracico. Dal
dotto toracico, la linfa si riversa nella vena cava superiore, ritornando così al torrente circolatorio. I
vasi linfatici della parte destra del tronco, del braccio destro e della parte destra della testa si
riversano nel dotto linfatico di destra, che si riversa anch’esso nella cava superiore. Ogni giorno
rientrano in circolo circa 2 litri di linfa. Ricordiamo che il malfunzionamento del sistema linfatico
dovuto alla presenza di tumori o ad alcune infezioni parassitarie può portare alla formazione di
gravi edemi tissutali.
La funzione fondamentale del sistema linfatico è quella di raccogliere gli antigeni microbici dal loro
sito di ingresso nell’organismo e portarli ai linfonodi, dove possono attivare la risposta immunitaria
adattiva. Inoltre, nei vasi linfatici entrano anche i mediatori solubili dell’infiammazione prodotti nei
siti di infezione, come le chemochine. I linfonodi agiscono poi come filtri che controllano gli
antigeni solubili e quelli associati alle cellule presenti nella linfa prima che questa raggiunga il
sangue.
4. LINFONODI: sono organi linfoidi secondari, capsulati e vascolarizzati con caratteristiche anatomiche
tali da facilitare l’inizio delle risposte adattive. Sono localizzati lungo canali linfatici che corrono in
tutto l’organismo; ne sono presenti circa 500. Il linfonodo è circondato da una capsula fibrosa al di
sotto della quale si trovano i seni linfonodali, tappezzati dalle cellule reticolari e occupati dalla linfa,
dai macrofagi e dalle cellule dendritiche. I capillari afferenti arrivano nel seno sottocapsulare
(marginale) in modo che la linfa possa riversarsi direttamente nel seno midollare, per poi uscire dal
linfonodo tramite i vasi efferenti. Al di sotto della regione più interna del seno sottocapsulare, si
trova la regione corticale ricca di linfociti; in particolare, la regione corticale più esterna contiene
degli aggregati cellulari, detti follicoli, che contengono aree centrali (centri germinativi); ogni centro
germinativo consiste in una zona scura, infiltrata da linfociti B in proliferazione chiamati
centroblasti, ed una zona chiara, che contiene cellule chiamate centrociti, che hanno smesso di
proliferare e sono state selezionate per sopravvivere e differenziarsi ulteriormente. I follicoli senza
centri germinativi sono detti follicoli primari, mentre quelli che presentano centri germinativi sono
detti follicoli secondari. La corticale che circonda i follicoli prende il nome di regione corticale
parafollicolare o paracorticale ed è organizzata in cordoni.
- ORGANIZZAZIONE ANATOMICA DEI LINFOCITI T E B: i linfociti B e T sono segregati in zone
distinte della regione corticale dei linfonodi, ognuna organizzata con un’architettura specifica
definita da fibre reticolari e da cellule stromali. I linfociti B (sia maturi che naive) si localizzano
prevalentemente nei follicoli primari; i linfociti T si localizzano prevalentemente nella regione
corticale, sottostante e tra i follicoli. Queste aree ricche di linfociti T, spesso chiamate
paracorteccia, contengono una rete di fibroblasti reticolari (FRC), molti dei quali organizzati in
trabecole che contengono collagene e fibrillina; queste trabecole, dette condotti FRC, iniziano
nel seno sottocapsulare e arrivano fino ai vasi linfatici del seno midollare e ai vasi sanguigni
della corticale, chiamati “venule a endotelio alto” (HEV). I linfociti T naive, una volta entrati
nelle aree T tramite le HEV, si localizzano nella regione corticale attorno a questi condotti. La
maggior dei linfociti è T helper CD4+, inframmezzati ad un numero limitato di CD8+
(ovviamente, queste proporzioni possono notevolmente cambiare in corso di infezione,
durante la quale si verifica un aumento dei CD8+).
La segregazione anatomica dei linfociti T e B in aree distinte del linfonodo dipende dalla
produzione di citochine da parte delle cellule stromali, che indirizzano la migrazione dei linfociti
(queste particolari citochine sono dette chemochine e si legano a recettori per le chemochine
presenti sui linfociti stessi): i linfociti T naive esprimono il recettore CCR7 per le chemochine
CCL19 e CCL21; i linfociti B naive esprimono bassi livelli di CCR7 e livelli più elevati di di CXCR5,
che riconosce la chemochina CXCL13. Anche i linfociti B penetrano nei linfonodi tramite le HEV
e successivamente migrano ai follicoli.
Lo sviluppo dei linfonodi dipende da cellule che inducono il tessuto linfoide e dall’azione
coordinata di numerose citochine, chemochine e fattori di trascrizione (ricordiamo anche
l’importanza delle linfotossine α e β). La segregazione anatomica dei linfociti T e B assicura che
ogni popolazione linfocitaria sia in stretto contatto con appropriate cellule accessorie, cioè i
linfociti B con le FDC e i linfociti T con le cellule dendritiche. I linfociti T attivati migrano verso i
follicoli per aiutare i linfociti B oppure fuoriescono dal linfonodo per entrare in circolo; i linfociti
B attivati migrano nei centri germinativi e, dopo la differenziazione in plasmacellule, escono per
andare a risiedere nel midollo.
- TRASPORTO DELL’ANTIGENE ATTRAVERSO I LINFONODI: le sostanze presenti nella linfa entrano
nel seno sottocapsulare del linfonodo, dove sono selezionate in base al peso molecolare e
indirizzate ai differenti tipi cellulari per attivare le diverse risposte immunitarie. La struttura del
seno sottocapsulare permette alle cellule di prendere contatto o di migrare nella regione
corticale sottostante, ma non consente il libero passaggio delle molecole solubili. Microbi e
antigeni ad elevato peso molecolare vengono catturati dai macrofagi del seno e presentati ai
linfociti B della corticale al di sotto del seno stesso; gli antigeni a basso peso molecolare escono
dal seno attraverso i condotti FRC e arrivano alle cellule dendritiche della corticale, in grado di
catturare per pinocitosi gli antigeni solubili. Nella linfa vengono trasportati anche i mediatori
solubili dell’infiammazione.
5. MILZA: la milza è un organo fortemente vascolarizzato la cui funzione è quella di rimuovere dal
circolo i globuli rossi senescenti o danneggiati e le particelle come gli immunocomplessi e i microbi
opsonizzati, oltre che dare inizio alle risposte adattive contro gli antigeni presenti nel sangue.
Presenta un parenchima suddiviso in polpa rossa, composta prevalentemente da sinusoidi vascolari
pieni di sangue, e polpa bianca, ricca di linfociti. Il sangue entra nella milza tramite l’arteria
splenica, che penetra nella capsula tramite l’ilo e si divide in rami di calibro minore, alcuni dei quali
terminano in estesi sinusoidi vascolari, ripieni di globuli rossi, macrofagi e altre cellule. I sinusoidi
terminano a loro volte in venule che confluiscono nella vena splenica, che porta il sangue dalla
milza al circolo portale. I macrofagi della polpa rossa funzionano da filtro, rimuovendo i microbi, le
cellule danneggiate e i microbi osponizzati. Infatti, i pazienti splenectomizzati sono molto più
suscettibili alle infezioni disseminate da parte di batteri capsulati come gli pneumococchi e i
meningococchi. La polpa bianca contiene le cellule responsabili delle risposte nei confronti degli
antigeni presenti nel sangue; contiene linfociti densamente ammassati, organizzati intorno alle
arterie centrali (diramazioni della splenica). Diramazioni di dimensioni minori di ogni arteria
centrale passano attraverso l’area ricca di linfociti e sboccano nel seno marginale. Un’area di cellule
specializzate che circondano il seno marginale, detta zona marginale, fa da confine tra zona rossa e
zona bianca. L’architettura della polpa bianca è molto simile a quella dei linfonodi, con zone
distinte di linfociti T e B (manicotti linfoidi periarteriolari): i follicoli ricchi di linfociti B occupano lo
spazio tra il seno marginale e il manicotto periarteriolare; le aree T contengono una rete complessa
di condotti. La zona marginale, all’esterno del seno marginale, contiene linfociti B e macrofagi; in
particolare, i linfociti B, detti marginali, sono diversi da quelli follicolari e hanno un repertorio
limitato di specificità per l’antigene.
La localizzazione anatomica delle APC, dei linfociti T e di quelli B della polpa bianca favorisce le
interazioni necessarie per l’attivazione delle risposte umorali. Anche nella milza, la segregazione dei
linfociti è regolata da specifiche chemochine: la chemochina CXCL13 ed il suo recettore CXCR5 sono
necessarie per la migrazione dei linfociti B nei follicoli, mentre la CCL19 e CCL21 ed il loro recettore
CCR7 sono necessari per la migrazione dei linfociti T naive nei manicotti periarteriolari. La
linfotossina stimola la produzione di queste chemochine da parte delle cellule stromali non
linfonodali.
6. STRUTTURE LINFOIDI DEI DISTRETTI PERIFERICI: tutte le principali barriere epiteliali dell’organismo,
comprese la cute, la mucosa gastroenterica e la mucosa brochiale, hanno un sistema di linfonodi,
strutture linfoidi non capsulate e sistemi cellulari proprio che lavorano in modo coordinato per
produrre sostanze specializzate contro i patogeni che hanno superato la barriera. I componenti del
sistema immunitario associato alle mucose (MALT) partecipano alle risposte contro gli antigeni
inferiti e inalati e contro i microbi. La cute e il MALT contengono numerose cellule dell’immunità
innata e adattiva.
CAPITOLO 3: RECLUTAMENTO DEI LEUCOCITI NEI TESSUTI

Una delle più importanti caratteristiche del sistema immunitario sta nel fatto che le sue cellule sono
costantemente in movimento, passando dal sangue ai tessuti e spesso ritornando in circolo. Questo
movimento assolve a tre funzioni fondamentali:

1. Indirizzamento dei leucociti della linea differenziativa mieloide dal circolo ematico ai focolai
infettivi, rimuovendo i detriti cellulari e riparando i danni tissutali;
2. Indirizzamento dei linfociti dai loro siti di maturazione agli organi linfoidi secondari, dove
riconoscono antigeni e si differenziano in linfociti effettori;
3. Indirizzamento dei linfociti effettori dagli organi linfoidi secondari ai siti di infezione nei tessuti
periferici.

La migrazione di un leucocita verso un particolare tessuto viene indicata come homing leucocitario, mentre
il movimento dei leucociti dal sangue ai tessuti viene denominato migrazione o reclutamento. La capacità
dei linfociti di migrare ripetutamente e poi tornare nel sangue prende il nome di ricircolazione. I processi di
homing e reclutamento tissutale sono regolati da alcuni principi comuni:

1. I linfociti naive migrano di continuo principalmente in tessuti linfoidi secondari, e non in altri
tessuti, indipendentemente dalla presenza o meno di infezione, mentre i linfociti
precedentemente attivati dall’antigene e le cellule mieloidi migrano nei tessuti sede di processi
infettivi o danno;
2. I processi di homing e reclutamento richiedono la temporanea adesione dei leucociti all’endotelio
vascolare;
3. Le cellule endoteliali presenti nel sito di infezione e di danno tissutale sono attivate da citochine
secrete dai macrofagi e da altre cellule presenti in questi siti, con conseguente aumento
dell’espressione delle molecole di adesione e delle chemochine. Questo determina un aumento
dell’adesività delle cellule endoteliali per le cellule mieloidi circolanti e per i linfociti effettori.

I leucociti migrano attraverso l’endotelio solo quando è necessario, in seguito al riconoscimento di microbi
e tessuti necrotici che costituiscono gli stimoli più comuni all’attivazione di questo processo. Dopo
l’adesione alla superficie luminale delle cellule endoteliali che rivestono le venule postcapillari, i leucociti
migrano attraverso la barriera endoteliale e la parete vascolare per raggiungere il tessuto extravascolare.

L’adesione dei leucociti circolanti è mediata da due classi di molecole, le selectine e le integrine, nonché dai
loro ligandi.

1. SELECTINE E LORO LIGANDI: le selectine sono molecole di adesione localizzate nella membrana
plasmatica in grado di legare i carboidrati. Sono responsabili delle interazioni a bassa affinità che
caratterizzano le fasi iniziali dell’adesione dei leucociti circolanti alle cellule endoteliali che
rivestono le venule postcapillari. Le cellule endoteliali esprimono due tipi di selectine, la P-selectina
(rilasciata in risposta alle citochine, all’istamina ed alla trombina) e la E-selectina (espressa sulla
superficie endoteliale entro 1-2 ore in seguito a stimolazione da parte di citochine come l’IL-1). I
leucociti esprimono molecole che legano la E- e la P-selectina: si tratta di carboidrati presenti su
svariate glicoproteine espresse dai granulociti, monociti e alcuni linfociti T effettori e della
memoria. Il ligando della P-selectina è una glicoproteina leucocitaria di membrana (PSGL-1), che
deve essere modificata per poter esporre il carboidrato responsabile del legame con la P-selectina.
Diverse molecole possono contenere i residui carboidrati riconosciuti dalla E-selectina, quali PSGL-
1, il ligando-1 della E-selectina e altri glicolipidi.
Una terza selectina è la L-selectina, espressa dai leucociti e non dalle cellule endoteliali. I ligandi per
la L-selectina sono sialomucine presenti sulla superficie endoteliale, la cui espressione è aumentata
dall’attivazione di citochine. Nell’ambito dell’immunità adattiva, la L-selectina è importante
nell’indirizzare i linfociti T e B naive ai linfonodi attraverso le HEV; i legandi per le sialomucine
espressi dalle HEV che legano la L-selectina sono definiti addressine dei linfonodi periferici (PNAd).

2. INTEGRINE E LORO LIGANDI: le integrine sono proteine di membrana eterodimeriche composte da


due catene polipeptidiche, legate in modo non covalente, che sono responsabili dell’adesione
intercellulare o delle cellule alla matrice extracellulare, attraverso il legame con i relativi ligandi. La
porzione extracellulare di ogni catena forma una testa globulare che contribuisce al legame tra le
due catene e all’interazione con il ligando; la porzione citoplasmatica interagisce con le componenti
nel citoscheletro. Nel sistema immunitario, due sono le integrine maggiormente espresse dai
leucociti: l’antigene leucocitario associato alla funzione (LFA-1) e l’antigene assai tardivo (VLA-4).
Uno dei principali ligandi della LFA-1 è la molecola di adesione intercellulare-1 (ICAM-1),
glicoproteina espressa dalle cellule endoteliali attivate. L’interazione LFA-1/ICAM-1 costituisce un
evento fondamentale per l’interazione leucocita-endotelio e nell’interazione dei linfociti T con
cellule che presentano l’antigene. Due altri ligandi di LFA-1 sono ICAM-2 e ICAM-3.
L’integrina VLA-4 lega la molecola di adesione vascolare-1 (VCAM-1), proteina della superfamiglia
delle Ig espressa dalle cellule endoteliali attivate.
Un aspetto importante delle integrine consiste nella loro capacità di aumentare rapidamente
l’affinità per il loro ligando in risposta a segnali intracellulari. Questo processo prende il nome di
attivazione dell’integrina e ha luogo in tutti i leucociti in risposta al legame delle chemochine con i
loro recettori e nei linfociti T in seguito all’ingaggio del recettore per l’antigene. Nello stato di bassa
affinità, i domini extracellulari di ogni subunità integrinica sono ripiegati e presentano teste
globulari che interagiscono con il ligando, vicino alla membrana. In risposta alle alterazioni della
coda citoplasmatica, gli steli si estendono allontanando le teste globulari della membrana e
posizionandole in una conformazione ottimale per l’interazione con i ligandi. Le chemochine
inducono anche l’aggregazione delle integrine sulla membrana e questo determina un incremento
della forza di legame dei leucociti all’endotelio.
Vediamo ora cosa sono le CHEMOCHINE: si tratta di una grande famiglia di citochine strutturalmente
omologhe, in grado di stimolare il movimento dei leucociti direzionandone la migrazione dal circolo ai
tessuti. Nell’uomo sono state identificate finora 50 chemochine, tutte strutturalmente simili, contenenti 2
ponti disolfuro. Possono essere classificate in quattro classi sulla base del numero e della posizione dei
residui di cisteina N-terminali responsabili dei ponti disolfuro. Le due principali famiglie sono le chemochine
CC (β), in cui i due residui di cisteina sono adiacenti, e le CXC (α), in cui gli stessi residui sono separati da un
aminoacido. Un numero limitato di chemochine possiede o un solo residuo di cisteina (famiglia C) oppure
due residui, ma separati da tre aminoacidi (CX3C). Nonostante alcune eccezioni, il processo di reclutamento
dei neutrofili è mediato dalle chemochine CXC, quello dei monociti in larga parte dalle chemochine CC,
mentre quello dei linfociti sia da chemochina CXC che CC.

Le chemochine delle sottofamiglie CC e CXC sono prodotte dai leucociti e da diversi tipi cellulari, come
cellule endoteliali o fibroblasti; la loro produzione è innescata dal riconoscimento di microrganismi
attraverso l’attivazione di vari recettori espressi dalle cellule dell’immunità innata. Inoltre, le chemochine
vengono prodotte anche in risposta a citochine infiammatorie, come l’IL-1 o il TNF, e numerose
chemochine CC vengono anche prodotte dai linfociti T.

I recettori per le chemochine appartengono alla superfamiglia dei recettori GCPR a 7 domini trans
membrana associati alle proteine che legano il guanosintrifosfato, note come proteine G. In seguito al
legame con le chemochine, l’espressione dei recettori per esse viene rapidamente ridotta, meccanismo
veloce di controllo della risposta biologica. I recettori delle chemochine sono espressi in combinazioni
diverse nelle varie sottopopolazioni leucocitarie, determinando un profilo di migrazione unico per i vari tipi
cellulari. I recettori per le chemochine sono espressi su tutti i tipi cellulari; i linfociti T presentano il più
ampio e variegato spettro di espressione rispetto alle altre cellule. La specificità della risposta cellulare è
determinata più che altro dal profilo di espressione dei recettori. Alcuni recettori per le chemochine
agiscono anche da corecettori per il virus dell’HIV.

CLASSE CHEMOCHINA PRODOTTA RECETTORE CELLULE PRINCIPALI EFFETTI


DA ATTRATTE
CXC CXCL 8 (IL-8) Macrofagi CXCR1 Neutrofili Mobilitazione,
Monociti CXCR2 Cellule T naive attivazione e de
Fibroblasti granulazione dei
Cheratinociti neutrofili
Cellule Angiogenesi
endoteliali
CXCL7 (PBP, β- Piastrine CXCR2 Neutrofili Attivazione dei
TG, NAP-2) neutrofili,
angiogenesi e
riassorbimento del
coagulo
CXCL 1(GROα) Monociti CXCR2 Neutrofili Attivazione dei
CXCL 2 (GROβ) Fibroblasti Cellule T naive neutrofili
CXCL3 (GROγ) Endotelio Fibroblasti Fibroplasia
Angiogenesi
CXCL 10 (IP-10) Cheratinociti CXCR 3 NK Immunostimolazione
Monociti Monociti Anti-angiogenesi
Cellule T Cellule T Sviluppo delle cellule
Fibroblasti Th1
Endotelio
CXCL 12 (SDF-1) Cellule CXCR 4 Cellule T naive Sviluppo dei linfociti
stromali Progenitori B
(CD34+) dei Homing dei linfociti
linfociti B Compete con HIV-1
CXCL 13 (BLC) Cellule CXCR 5 Cellule B Homing dei linfociti
stromali
CC CCL3 (MIP-1α) Monociti CCR 1, 3, 5 Monociti Compete con HIV-1
Cellule T NK Difesa antivirale
Mastociti Cellule T Promuove la
Fibroblasti Basofili maturazione dei Th1
Cellule
dendritiche
CCL4 (MIP-1β) Monociti CCR 1, 3, 5 Monociti Compete con HIV-1
Macrofagi CCR5 NK
Neutrofili Cellule T
Endotelio Cellule
dendritiche
CCL2 (MCP-1) Monociti CCR 2 B Monociti Attivazione dei
Macrofagi NK macrofagi
Fibroblasti Linfociti T Rilascio di istamina
Cheratinociti Basofili da parte dei basofili
Cellule Sviluppo dei Th2
dendritiche
CCL 5 (RANTES) Cellule T CCR 1, 3, 5 Monociti De granulazione dei
Endotelio NK basofili
Piastrine Cellule T Attivazione delle
Basofili cellule T
Eosinofili Infiammazione
Cellule cronica
dendritiche
CCL 11 Endotelio CCR 3 Eosinofili Reazione allergica
(EOTAXIN) Monociti Monociti
Epitelio Cellule T
Cellule T
CCL 18 (DC-CK) Cellule ? Cellule T naive Attivazione dei
dendritiche linfociti T naive
C XCL 1 Cellule T CXCR 1 Timociti Traffico e sviluppo
(FRACTALCHINA) CD8>CD4 Cellule dei linfociti
dendritiche
NK
CXXXC CX3 CL 1 Monociti CX3CR1 Monociti Adesione
Endotelio Cellule T leucociti/endotelio
Cellule della Infiammazione
microglia cerebrale

Le chemochine svolgono importanti attività biologiche:

1. Svolgono un ruolo essenziale nel reclutamento dei leucociti circolanti ai siti extravascolari. Diverse
chemochine agiscono su cellule diverse e, in associazione con i diversi tipi di molecole di adesione,
controllano la natura dell’infiltrato infiammatorio. Assolvono a due funzioni fondamentali:
a. Aumentata adesione dei leucociti all’endotelio: le chemochine prodotte a livello tissutale si
legano agli eparansolfati proteoglicani presenti sulla superficie delle cellule endoteliali delle
venule postcapillari, venendo così esposte per il riconoscimento da parte dei leucociti.
L’attivazione dei recettori per le chemochine provoca l’aumento dell’affinità delle integrine e
l’adesione salda dei leucociti, fase critica nel processo di estravasazione e reclutamento
tissutale.
b. Migrazione dei leucociti sul sito di infezione o di danno tissutale: le chemochine prodotte nei
tessuti extravascolari agiscono sui leucociti che hanno abbandonato il circolo e stimolano il
movimento dei leucociti lungo il gradiente di concentrazione verso il sito di produzione
(chemiotassi).
2. Sono coinvolte nello sviluppo degli organi linfoidi tramite la loro capacità di indirizzare la
localizzazione dei leucociti e di altre cellule in aree diverse degli organi linfoidi secondari.
3. Sono cruciali per la migrazione delle cellule dendritiche dai focolai di infezione ai linfonodi drenanti.
Le cellule dendritiche sono attivate da organismi microbici nei tessuti periferici e successivamente
migrano nei linfonodi per “informare” i linfociti T della presenza dell’infezione. Questa migrazione
dipende dall’espressione del CCR7, recettore che lega una chemochina prodotta dall’endotelio
linfatico, promuovendo il movimento della cellula dendritica verso i linfonodi. Una volta raggiunti,
le cellule dendritiche sono indirizzate nelle aree interfollicolari, dove migrano anche i linfociti T
naive. Questo spiega perché le cellule dendritiche ed i linfociti T naive co-localizzano nelle stesse
aree linfonodali favorendo la presentazione dell’antigene ai linfociti T.

Selectine, integrine e chemochine funzionano in concerto per regolare le interazioni tra leucociti e cellule
endoteliali, necessarie per la migrazione dei leucociti nei tessuti. Vediamo la sequenza di eventi che
caratterizzano il reclutamento dei leucociti:

1. ROLLING DEI LEUCOCITI SULL’ENDOTELIO MEDIATO DALLE SELECTINE: i focolai infiammatori sono
caratterizzati da vasodilatazione e rallentamento del flusso ematico. Di conseguenza, i leucociti, di
dimensioni maggiori rispetto agli eritrociti, tendono a spostarsi verso il rivestimento vascolare
(processo di marginazione). Questo consente ai ligandi della E-selectina e della P-selectina espressi
sui microvilli dei leucociti di interagire con le selectine espresse dalle cellule endoteliali, però con
una bassa affinità. Perciò, i leucociti si distaccheranno e si legheranno ripetutamente, iniziando a
rotolare sulla superficie dell’endotelio.
2. AUMENTO DELL’AFFINITA’ DELLE INTEGRINE AD OPERA DELLE CHEMOCHINE: durante il processo di
rolling, le chemochine espresse dalle cellule endoteliali delle venule post-capillari presenti nei siti di
infezione si legano ai rispettivi recettori espressi dai leucociti, rafforzando il legame dei leucociti alla
superficie endoteliale.
3. ADESIONE STABILE DEI LEUCOCITI ALL’ENDOTELIO MEDIATA DALLE INTEGRINE: le citochine
infiammatorie e i microbi presenti nel sito dell’infezione aumentano l’espressione dei relativi
ligandi, tra cui VCAM-1 e ICAM-1. Questo processo permette un appiattimento dei leucociti
all’endotelio e la riorganizzazione del loro citoscheletro.
4. TRANSMIGRAZIONE DEI LEUCOCITI ATTRAVERSO L’ENDOTELIO: spesso i leucociti transmigrano
attraverso gli spazi di giunzione delle cellule endoteliali, grazie alle integrine leucocitarie e ai loro
ligandi. Questo processo richiede l’interruzione temporanea e transitoria delle giunzioni tra le
cellule endoteliali che sono costituite principalmente dai complessi di VE-caderina. Alcune protein-
chinasi fosforilano le code citoplasmatiche della VE-caderina con la conseguente alterazione della
struttura adesiva.

È opportuno sottolineare che neutrofili e monociti, nonché diverse popolazioni di linfociti, si distinguono
per il tessuto in cui migrano e la loro cinetica di migrazione. Malattie legate a difetti di adesione leucocitaria
sono:

a. Sindrome da deficit di adesione leucocitaria-1: immunodeficienza autosomica recessiva a carico del


gene CD18 che codifica per la subunità β di LFA-1 e Mac-1, causando infezioni batteriche e fungine
ricorrenti.
b. Sindrome da deficit di adesione leucocitaria-2: presente in soggetti privi del trasportatore del
fucosio, necessario per sintetizzare i carboidrati che legano la E- e la P-selectina.

• MIGRAZIONE DEI NEUTROFILI E MONOCITI


I neutrofili ed i monociti circolanti sono reclutati nei tessuti sede di infezioni e di danno attraverso un
processo che coinvolge in modo sequenziale l’azione delle selectine, delle integrine e delle chemochine. I
neutrofili sono la prima popolazione leucocitaria ad essere reclutata nei focolai infiammatori. Il
reclutamento dei monociti avviene nelle ore successive e continua anche nei giorni successivi; inoltre, in
alcuni tessuti i neutrofili non sono reclutati e si riscontrano soltanto i monociti. I neutrofili esprimono
CXCR1 e CXCR2, che legano chemochine tra cui l’IL-8 (CXCL8). I monociti classici, invece, esprimono CCR2,
che lega diverse chemochine, di cui la più importante è CCL2 (MPC-1). I monociti non classici esprimono
CX3CR1.

• MIGRAZIONE E RICIRCOLAZIONE DEI LINFOCITI T

I linfociti migrano in continuazione tra il torrente ematico, i vasi linfatici, i tessuti linfoidi secondari ed i
tessuti non linfoidi periferici. Popolazioni di linfociti distinte si muovono tra questi luoghi con vie di
circolazione differenti. Quando un linfocita T naive fuoriesce dal timo ed entra nel circolo ematico, viene
indirizzato nei linfonodi, nella milza o nel tessuto linfoide associato alle mucose, localizzandosi nelle aree T.
In caso di mancato riconoscimento dell’antigene, il linfocita T lascia il linfonodo o il tessuto mucosale,
attraverso il circolo linfatico, per ritornare nel circolo ematico, dove ripete nuovamente il processo di
homing ai tessuti linfoidi secondari. Questo processo è noto come ricircolazione linfocitaria.

1. Ricircolazione dei linfociti T naive tra il sangue e gli organi linfoidi secondari:
a. Migrazione dei linfociti T naive ai linfonodi: l’afflusso di linfociti ai linfonodi raggiunge le
25x10^9 cellule al giorno, per cui ogni linfocita attraversa ogni singolo linfonodo in media una
volta al giorno. L’homing dei linfociti T nei linfonodi e nei tessuti linfoidi associati alle mucose
avviene a livello delle HEV, localizzate nelle aree T dei linfonodi. Le HEV sono anche presenti nei
tessuti linfoidi associati alle mucose, come le placche di Peyer nell’intestino, ma sono assenti
nella milza. Lo sviluppo delle caratteristiche morfologiche delle HEV dipende dalla presenza di
citochine, come la linfotossina; in realtà, le HEV si possono sviluppare anche in siti di
infiammazione cronica extralinfoidi, dove vengano prodotte in modo persistente le citochine
necessarie per lo sviluppo. La migrazione dei linfociti T naive dal sangue, attraverso le HEV, al
parenchima dei linfonodi consiste in vari passaggi:
- Il rolling dei linfociti T naive sulle HEV degli organi linfoidi secondari è mediato dalla L-selectina
dei linfociti, che lega sulle HEV il carboidrato PNAd;
- La fase successiva al rolling consiste nell’adesione salda dei linfociti T alle HEV ed è mediata
dalle integrine, soprattutto dalla LFA-1;
- Le chemochine che attivano l’affinità delle integrine dei linfociti T naive sono CCL19 e CCL21,
che sono responsabili dell’homing leucocitario nelle aree T dei tessuti linfoidi ed espresse sulla
superficie delle HEV. Entrambe si legano al recettore CCR7, assicurando l’aumento dell’avidità
delle integrine e l’adesione salda alle HEV dei linfociti T naive.
b. Egressione dei linfociti T dai linfonodi: i linfociti T naive che non riconoscono l’antigene a livello
linfonodale non si attivano e ritornano in circolo tramite i vasi linfatici efferenti, completando il
percorso della ricircolazione e dando la possibilità ai linfociti T naive di cercare nuovamente
l’antigene in altri linfonodi. La fuoriuscita dei linfociti T naive dai linfonodi dipende da un
chemoattraente lipidico chiamato sfingosina-1-fosfato (S1P), che lega un recettore specifico
detto S1PR1, espresso dai linfociti T. La S1P è presente in concentrazioni più elevate nel sangue
e nella linfa, rispetto ad altri tessuti; questo gradiente viene mantenuto grazie ad un enzima
che degrada la S1P, espresso nei tessuti in modo che la concentrazione di S1P sia mantenuta
inferiore a quella del circolo ematico e linfatico. I segnali generati nei linfociti in seguito al
legame S1P/S1PR1 stimolano la migrazione direzionale dei linfociti lungo un gradiente di
concentrazione, facendoli uscire dal parenchima del linfonodo. Il linfocita T naive che entra in
un linfonodo troverà una bassa concentrazione di S1P, che favorisce nelle ore successive la
riespressione in membrana di S1PR1; in questo lasso di tempo, il linfocita può interagire con le
APC; in seguito all’espressione sulla membrana di S1PR1, il linfocita abbandona il linfonodo
seguendo il gradiente di concentrazione della S1P presente nel reticolo linfatico efferente.
Se un linfocita naive si attiva in seguito all’incontro con un antigene, la riespressione di S1PR1
viene inibita per diversi giorni, aumentando il tempo di permanenza del linfocita nel tessuto
linfoide. Questa inibizione è dovuta in parte ad interferoni di tipo I, che causano l’espressione
della proteina CD69, che si lega a S1PR1 riducendone l’espressione sulla superficie cellulare. In
questo modo, il linfocita T attivato diventa temporaneamente insensibile al gradiente della S1P,
consentendogli di rimanere nell’organo linfoide e andare incontro a espansione clonale,
divenendo maturi. Quando la maturazione è completata, le cellule perdono CD69, riesprimono
S1PR1, determinando il gradiente di S1P che ne causa la fuoriuscita dal linfonodo.
Ricordiamo che S1P e S1PR1 sono anche responsabili dell’egressione dei linfociti maturi dal
timo e nella fuoriuscita dei linfociti B attivati secernenti anticorpi dagli organi linfoidi secondari.
2. Ricircolazione dei linfociti T attraverso gli altri organi linfoidi: il processo di homing dei linfociti T
naive nei tessuti linfoidi associati all’intestino, come le placche di Peyer, è fondamentalmente
simile a quello dei linfonodi e si basa sull’interazione dei linfociti T con le HEV, con la caratteristica
peculiare che sulle HEV è espressa una molecola appartenente alla superfamiglia delle Ig
(MadCAM-1) .
La migrazione dei linfociti T naive nella milza non è così finemente regolata come nei linfonodi; la
milza non ha strutture come le HEV e probabilmente i linfociti T naive si inseriscono nei seni della
zona marginale e nella polpa rossa, attraverso meccanismi che non coinvolgono selectine, integrine
e chemochine.
3. Migrazione dei linfociti T effettori verso i siti di infiammazione: i linfociti T effettori devono essere
in grado di abbandonare gli organi linfoidi. Essi tengono a localizzarsi principalmente nei tessuti
periferici sede di processi infettivi piuttosto che nei tessuti linfoidi, a causa del loro repertorio di
molecole di adesione e di recettori per le chemochine. Anche questi linfociti esprimono ligandi per
selectine, integrine e chemochine. L’attivazione dei linfociti T effettori da parte degli antigeni
presenti nei tessuti infiammati e la continua presenza di chemochine mantengono le integrine in
uno stato di alta affinità e ciò favorisce la ritenzione dei linfociti T in questi tessuti. Alcune cellule
effettrici migrano preferenzialmente in determinati tessuti, dove possono meglio esplicare le loro
funzioni di difesa contro le infezioni.
4. Migrazione dei linfociti T della memoria: i linfociti T della memoria hanno un’eterogenea modalità
di espressione delle molecole di adesione e dei recettori per le chemochine ed una diversa
predisposizione a migrare nei tessuti periferici. Nell’uomo, le cellule della memoria centrale son
presenti nel sangue come cellule CD45RO+, che esprimono bassi livelli di CCR7 e di L-selectina, ma
esprimono recettori che riconoscono le chemochine infiammatorie. In generale, i linfociti T effettori
della memoria, che sono localizzati nei tessuti periferici, rispondono alla stimolazione da parte
dell’antigene producendo velocemente citochine effettrici, mentre quelli centrali, localizzati nei
tessuti linfoidi, tendono a proliferare dando origine ad una riserva di cellule per le risposte
secondarie.
• HOMING DEI LINFOCITI B

Per localizzarsi negli organi linfoidi secondari, i linfociti B naive utilizzano gli stessi meccanismi dei linfociti T
naive. La disseminazione dei linfociti B nell’organismo favorisce il riconoscimento degli antigeni microbici
presenti in luoghi diversi e la risposta ad essi. I linfociti B immaturi lasciano il midollo osseo passando per il
circolo ematico, entrano nella polpa rossa della milza e migrano nelle zone periferiche della polpa bianca.
Maturando ulteriormente, esprimono il recettore CXCR5, che ne promuove la migrazione nella polpa bianca
in risposta alla chemochina CXCL13. Una volta completata la maturazione nella polpa bianca, i linfociti B
naive follicolari rientrano in circolo e si localizzano nei linfonodi e nei tessuti linfoidi associati alle mucose.
La migrazione nel sangue richiede interazioni particolari con le HEV, similmente a quanto accade per i
linfociti T. La migrazione nei follicoli è guidata dalla chemochina CXCL13 (espressa dalle cellule reticolari
fibroblastiche nelle aree T e dalle cellule dendritiche follicolari), che lega CXCR5 sui linfociti B. L’homing
nelle placche d Peyer necessita invece di CXCR5. La fuoriuscita dei linfociti B dagli organi linfoidi secondari è
controllata da S1P. Sottopopolazioni di linfociti B che esprimono tipi specifici di anticorpi sono indirizzate in
tessuti specifici.

CAPITOLO 4: IMMUNITA’ INNATA

L’immunità innata assolve a tre funzioni essenziali che ci proteggono dai microbi e dalle lesioni tissutali:
1. È la risposta iniziale nei confronti di microrganismi patogeni e previene, controlla ed elimina le
infezioni. Diversi microbi hanno sviluppato strategie volte a resistere all’immunità innata , che sono
fondamentali per la virulenza. Le risposte innate possono tenere sotto controllo l’infezione fino
all’attivazione di risposte immunitarie adattive spesso più potenti e specializzate.
2. Elimina le cellule danneggiate e avvia il processo di riparazione tissutale.
3. Stimola ed influenza la natura delle risposte adattive al fine di ottimizzare l’efficacia contro diversi
tipi di microbi. L’immunità innata invia anche segnali di pericolo che mettono il sistema
immunitario adattivo in allerta.

I due principali tipi di risposta immunitaria innata responsabili della protezione dei confronti dei microbi
sono l’INFIAMMAZIONE e la RISPOSTA ANTIVIRALE: l’infiammazione è il processo attraverso il quale i
leucociti in circolo e le proteine plasmatiche si accumulano nei siti di infezione tissutale dove vengono
attivati per uccidere ed eliminare i patogeni; la difesa antivirale consiste nei cambiamenti cellulari atti a
prevenire la replicazione virale e ad aumentare la suscettibilità delle cellule infettate all’uccisione da parte
dei linfociti, eliminando i siti di replicazione virale. L’infiammazione, o FLOGOSI, è un processo benefico
quindi, perché fa parte di una risposta protettiva che è l’infiammazione acuta, attivata in seguito all’azione
dannosa dovuta a diversi patogeni, agenti fisici, chimici, ustioni, traumi, sostanze irritanti. L’obiettivo finale
della flogosi è infatti quello di eliminare la causa che ha generato il danno cellulare o tissutale e avviare il
processo riparativo. I segni cardinali di un’infiammazione sono:

• Calor -> calore


• Rubor -> arrosamento
• Tumor -> gonfiore
• Dolor -> dolore
• Functio laesa -> perdita di funzione

Se non è possibile riparare completamente il tessuto danneggiato, si va incontro ad una fibrosi, ossia ad
una sostituzione delle cellule dell’organo con perdita delle funzioni originali; questo accade di solito in caso
di lesione molto estesa ed è un processo pericoloso qualora coinvolta tessuti cruciali come il polmonare, il
cardiaco o il nervoso.

Oltre a questi due meccanismi, l’immunità innata comprende anche meccanismi di difesa fisica e chimica
operati dalle barriere epiteliali come la cute o la mucosa dei tratti gastrointestinale e respiratorio, la cui
funzione è quella di bloccare ogni tentativo di ingresso da parte da parte dei microbi.

Vediamo quali sono le principali differenze tra immunità innata ed immunità adattiva:

1. Le risposte innate sono IMMEDIATE e non richiedono una pregressa esposizione all’antigene stesso,
ma sono già perfettamente funzionanti prima dell’infezione oppure vengono attivate in breve
tempo in modo da prevenire, controllare o eliminare le infezioni. Viceversa, le risposte adattive si
sviluppano nell’arco di diversi giorni dall’infezione, quando cloni di linfociti si espandono e si
differenziano in cellule effettrici.
2. In caso delle risposte innate, la memoria immunitaria è scarsa o completamente assente. Al
contrario, l’esposizione ripetuta ad un microbo migliora la rapidità, l’entità e l’efficacia
dell’immunità adattiva.
3. La risposta innata dal riconoscimento di un numero limitato di sostanze microbiche o espresse da
cellule morte/danneggiate. Viceversa, l’immunità adattiva è in grado di riconoscere milioni di
diverse strutture microbiche, antigeni ambientali non microbici e antigeni self che sono
normalmente presenti nei tessuti sani.

Ripetiamo ancora che l’immunità innata costituisce la PRIMA LINEA DI DIFESA contro le infezioni
rappresenta la componente più antica dal punto di vista filogenetico. Essa si è evoluta insieme a patogeni,
con lo scopo di proteggere gli organismi pluricellulari dalle infezioni. La maggior parte dei meccanismi di
difesa innati sono comparsi nella scala evolutiva subito dopo lo sviluppo degli organismi pluricellulari
complessi. Al contrario, è possibile identificare con certezza l’immunità adattiva soltanto nei vertebrati.

L’immunità innata riconosce strutture molecolari prodotte dai patogeni; tali strutture sono spesso
condivise da diverse classi di microbi e sono chiamate profili molecolari associati ai patogeni (PAMP). Classi
diverse di microbi, come virus, batter gram-negativ o ancora funghi, esprimono PAMP differenti. Esempi di
PAMP differenti sono gli acidi nucleici caratteristici dei microrganismi quali l’RNA a doppia catena, di origine
virale, ed il DNA ricco di sequenze CpG non metilate, tipico dei batteri. Vediamo alcuni esempi:

PAMP TIPO DI MICROBO


ACIDI NUCLEICI ssRNA Virus
dsRNA Virus
CpG Virus, batteri
PROTEINE Pilina Batteri
Flagellina Batteri
LIPIDI DELLA PARETE CELLULARE LPS Batteri gram+
Acido lipoteicoico Batteri gram-
CARBOIDRATI Mannano Fughi e batteri
Glucani Funghi

L’immunità innata riconosce spesso prodotti microbici che sono indispensabili per la sopravvivenza del
microbo stesso. Questo è fondamentale perché garantisce che tali molecole bersaglio non possano essere
modificate dai microbi nel tentativo di sfuggire al riconoscimento da parte dell’ospite. Al contrario, i
microbi possono mutare o perdere molti degli antigeni riconosciuti dall’immunità adattiva, riuscendo in
questo modo ad eludere le difese dell’ospite senza compromettere la propria sopravvivenza.

L’immunità innata è anche in grado di riconoscere molecole endogene prodotte o rilasciate dalle cellule
danneggiate o morte. Queste sostanze sono chiamate profili molecolari associati al danno (DAMP); essi
possono essere il risultato di un danno cellulare di origine infettiva o non infettiva, per esempio di natura
ambientale (tossine) o ischemico. Le cellule apoptotiche non rilasciano DAMP: in questo caso, le cellule
sane del sistema immunitario vengono stimolate a produrre DAMP, detti allarmine, con lo scopo di
potenziare la risposta innata alle infezioni.

DAMP
PROTEINE INDOTTE DA STRESS CELLULARE HSP
CRISTALLI Urato monosodico
PROTEINE CELLULARI HMGB1

L’immunità innata riconosce i PAMP e i DAMP utilizzando sia recettori cellulari, distribuiti in diversi
compartimenti cellulari, sia molecole solubili presenti nel sangue e nelle secrezioni mucose. I recettori
cellulari sono espressi da fagociti, cellule dendritiche, cellule epiteliali e molti altri tipi di cellule e sono noti
come recettori che riconoscono profili molecolari (PRR): essi sono espressi sulla membrana plasmatica nelle
vescicole fagocitiche e nel citosol. Quando i PRR cellulari legano i PAMP o i DAMP, attivano vie di
trasduzione del segnale che promuovono le funzioni antimicrobiche e pro infiammatorie della cellula. Oltre
a questi PRR, esistono molte proteine solubili presenti nel sangue e nei fluidi extracellulari, in grado di
riconoscere i PAMP, facilitando l’eliminazione dei microbi attraverso fagocitosi e l’attivazione di meccanismi
microbicidi. I recettori dell’immunità innata sono codificati da geni ereditari (linea germinale), mentre i
recettori dell’immunità adattiva sono generati da ricombinazione somatica di segmenti genici durante la
maturazione dei precursori dei linfociti; proprio a ciò si deve la capacità dell’immunità adattiva di
riconoscere antigeni differenti di uno stesso microrganismo, mentre l’immunità innata può solo distinguere
le diverse classi di microrganismi o le cellule danneggiate rispetto a quelle sane, ma non la specie microbica
ed il tipo cellulare.

L’immunità innata non reagisce contro cellule e tessuti normali non danneggiati e ciò è essenziale per il
mantenimento dell’integrità dell’organismo. Il mancato riconoscimento del self è dovuto a tre meccanismi
principali:

1. Le cellule normali non producono ligandi per recettori dell’immunità innata;


2. Tali recettori si trovano in compartimenti cellulari che non vengono a contatto con le molecole
dell’ospite;
3. Le cellule normali possiedono proteine che impediscono l’attivazione delle diverse componenti
dell’immunità innata.

Procediamo ora a descrivere le caratteristiche delle varie classi di PRR:

1. RECETTORI TOLL-LIKE

I recettori Toll-Like rappresentano un’importante famiglia di PRR espressi da molti tipi cellulari. Si trovano
nella membrana plasmatica e nella membrana endosomiale di vari tipi cellulari immunocompetenti, tra cui
cellule dendritiche, fagociti, linfociti B, cellule endoteliali, ecc. Sono conservati filogeneticamente e sono in
grado di riconoscere i prodotti di una grande varietà di microbi e molecole espresse o rilasciate da cellule
danneggiate e morte. Nell’uomo esistono 9 diversi TLR funzionanti, denominati TLR1-TLR9. Si tratta di
glicoproteine integrali di membrana contenenti, nella regione extracellulare, ripetizione di residui ricchi in
leucina fiancheggiati da caratteristici motivi ricchi in cisteina responsabili del riconoscimento del ligando. Le
loro code citoplasmatiche contengono un dominio di omologia denominato TIR (Toll-IL-1 Receptor),
essenziale per l’attivazione cellulare. Nei mammiferi i TLR sono responsabili della risposta ad un’ampia
varietà di molecole espresse dalle cellule microbiche ma non dalle cellule normali. I ligandi riconosciuti dai
differenti TLR sono strutturalmente diversi e includono prodotti di tutte le classi di microrganismi. Esempi
di prodotti batterici che legano i TLR sono l’LPS e l’acido lipoteicoico, nonché la flagellino, subunità proteica
che compone il flagello dei batteri mobili. Esempi di acidi nucleici ligandi dei TLR sono l’RNA a doppia elica
virale e nucleotidi CpG non metilati.

I TLR sono anche coinvolti nella risposta a molecole endogene la cui espressione indica danno cellulare. Tra
queste, ricordiamo le proteine da shock, indotte in risposta a segnali di stress cellulare, e l’HMGB-1,
proteina abbondantemente espressa che lega il DNA. La base strutturale della specificità dei TLR risiede nei
moduli extracellulari ripetuti ricchi di residui di leucina che legano i PAMP direttamente o attraverso
molecole adattrici. Nei TRL sono presenti 16-28 moduli ricchi di residui di leucina, ciascuno composto da 20-
30 aminoacidi organizzati in motivi conservati LxxLxLxxN. Il legame dei microbi ai domini ricchi di leucina
causa l’interazione fisica e la dimerizzazione dei TLR, che possono anche eventualmente eterodimerizzare,
ampliando ulteriormente la gamma di specificità per i PAMP. Le specificità dei TLR sono influenzate anche
da molecole accessorie, ampliando ulteriormente la gamma di prodotti microbici in grado di attivare la
risposta immunitaria innata. I TLR si trovano sia sulla superficie cellulare sia sulle membrane intercellulari e
possono riconoscere microbi localizzati in diversi compartimenti cellulari.

TLR COSA RICONOSCE


TLR 1 Lipopeptidi batterici
TLR 2 Domini peptidoglicanici dei batteri
Acido lipoteicoico (batteri gram+)
TLR 3 RNA a doppio filamento
TLR 4 Lipopolisaccaride (componente principale della
parete dei batteri gram-)
TLR 5 Flagellina batterica
TLR 6 Si associa a TLR 2 per il riconoscimento dei
lipopeptidi batterici
(Per questo riconoscimento, si possono associare
TLR1-TLR2 oppure TLR2- TLR6)
TLR 7 RNA a singolo filamento
TLR 8
TLR 9 DNA

I TLR 1, 2, 4, 5 e 6 sono espressi sulla membrana citoplasmatica, dove riconoscono i PAMP presenti
nell’ambiente extracellulare. Alcuni tra questi PAMP sono tra i più potenti stimolatori della risposta
immunitaria innata, come ad esempio l’LPS o l’acido lipoteico, che sono riconosciuti da TLR4 e TLR2. Al
contrario, i TLR 3, 7, 8 e 9 sono intracellulari, essendo espressi prevalentemente nel reticolo
endoplasmatico e sulle membrane endosomiali, dove riconoscono acidi nucleici che sono tipici dei microbi
ma non dei mammiferi, tra cui l’RNA a doppio filamento (TLR3) e motivi CpG non metilati (TLR9); TLR7 e TLR
8 riconoscono l’RNA a singola o doppia elica. I TLR endosomici possono discriminare tra gli acidi nucleici di
cellule normali e quelli mcirobici, sulla base della loro localizzazione cellulare: infatti, l’RNA e il DNA della
cellula ospite non sono normalmente presenti negli endosomi, mentre quelli microbici vi si accumulano in
seguito ai processi di fagocitosi da parte dei neutrofili, macrofagi o cellule dendritiche. Sia la corretta
localizzazione negli endosomi che il corretto funzionamento dei TLR 3, 7, 8 e 9 necessitano di una proteina
presente nel reticolo endoplasmatico detta UNC-93B; in caso di un suo deficit genetico, si determina una
maggiore suscettibilità alle infezioni virali, in modo particolare all’encefalite da virus dell’herpes simplex.

Quando i TLR riconoscono i propri ligandi, innescano diverse cascate di trasduzione del segnale che portano
all’attivazione di fattori di trascrizione, i quali inducono l’espressione di geni fondamentali per le risposte
infiammatoria e antivirale. Queste vie di trasduzione iniziano con la dimerizzazione ligando-dipendente dei
TLR, causata dal legame con il PAMP sulla superficie cellulare, nel reticolo endoplasmatico o negli
endosomi, che porta i due domini T1R in stretto contatto. A ciò segue il reclutamento delle proteine
adattrici contenenti il dominio T1R, che facilitano il reclutamento e l’attivazione di diverse proteine chinasi,
che attivano a loro volta fattori di trascrizione. I principali fattori di trascrizione attivati dai TLR sono il
fattore nucleare kB, la proteina di attivazione 1 (AP-1), il fattore di risposta all’interferone 3 (IRF3) e l’IRF7.

La risposta infiammatoria innescata dai fattori codificati dai geni trascritti prevede la sintesi di citochine
pro-infiammatorie formate da IL-1, IL-6 e TNF-α, che formano una vera e propria TRIADE INFIAMMATORIA;
anche l’IL-12 fa parte delle citochine che agiscono nell’immunità innata.
I recettori espressi in membrana plasmatica, come TLR 1-2-4-5-6, consentono il reclutamento di un’altra
proteina chiamata MyD88, che attiva l’NF-kB stimolando la sintesi delle sostanze pro-infiammatorie, come
le citochine IL-1 e IL-6 e altre chemochine per consentire di avere mediatori di infiammazione e molecole
co-stimolatorie dell’immunità. Deficit di MyD88 portano a infezioni gravi ricorrenti da batteri piogeni, come
lo Streptococcus penumoniae o lo Staphylococcus Aureus.

2. RECETTORI CITOSOLICI PER I PAMP E I DAMP

Le cellule dell’immunità innata esprimono anche PRR e loro ligandi a livello citosolico. Questa possibilità di
riconoscere gli agenti infettivi nel citosol è importante, perché qui si svolgono fasi cruciali del ciclo vitale di
alcuni microbi (es. traduzione dei geni e assemblaggio proteine) e, inoltre, alcuni patogeni riescono a
sfuggire dalle vescicole fagocitiche, producendo tossine. Le principali classi di recettori citosolici sono tre:

• RECETTORI DI TIPO NOD: costituiscono una famiglia che comprende più di 20 proteine citosoliche,
alcune della quali riconoscono i PAMP e i DAMP citoplasmatici e assemblano complessi di
trasduzione del segnale che promuovono l’infezione. L’acronimo NOD significa che queste proteine
contengono un dominio di oligomerizzazione nucleotidica. Un tipico NOD (NRL- NOD-Like-Receptor)
è composto per lo meno da tre diversi domini con struttura e funzioni caratteristiche: uno
contenente residui ripetuti di leucina, uno (NAHCT) responsabile dell’oligomerizzazione e l’ultimo
che recluta altre proteine per la trasduzione del segnale. NOD1 e NOD2, membri della sottofamiglia
contenente il dominio CARD, sono espressi nel citosol di diversi tipi cellulari e rispondono ai
proteoglicani della parete batterica; NOD2 è espresso particolarmente nelle cellule del Paneth
dell’intestino, dove stimola l’espressione delle defensine. NOD1 riconosce l’acido diaminopimelico
(DAP) derivato prevalentemente dai batteri gram-negativi, mentre NOD2 riconosce la muramil-
dipeptide, derivata dall’acido diaminopimelico dei batteri sia gram-negativi che gram-positivi.
Quando gli oligomeri di NOD riconoscono il proprio ligando, avviene un cambiamento
conformazionale che permette ai domini CARD di reclutare numerose copie della chinasi RIP2,
formano un complesso attivatorio detto “segnalosoma di NOD”. Le chinasi attivano NF-kB, che
promuove l’espressione di geni infiammatori. Sia NOD1 che NOD2 sono molto importanti nella
risposta innata a patogeni batterici del tratto gastrointestinale, come l’helicobacter pylori. Grande
interesse clinico ha il fatto che polimorfismi del gene NOD2 aumentino il rischio di contrarre il
morbo di Crohn, malattie infiammatoria dell’intestino crasso.
La sottofamiglia di recettori di tipo NOD denominata NLRP risponde ai PAMP e ai DAMP citosolici
formando complessi attivatori detti inflammasomi, che generano forme attive delle citochine
infiammatorie IL-1 e IL-18; esistono 14 NLRP. L’inflammasoma può essere attivato da una grande
varietà di stimoli citoplasmatici associati a infezioni o stress cellulare tra cui prodotti microbici,
cristalli ambientali (es. urato monosodico che, se depositato, causa una malattia infiammatoria
dolorosa chiamata gotta) o endogeni e riduzione della concentrazione citosolica di ioni potassio. La
diversità strutturale degli antigeni in grado di attivare l’inflammasoma suggerisce che essi non si
leghino direttamente alle proteine NLRP, ma che agiscano inducendo simili cambiamenti
citoplasmatici che a loro volta attiverebbero gli NLRP. Gli inflammasomi possono anche essere
attivati da cristalli di colesterolo: in corso di aterosclerosi, ad esempio, c’è il contributo della
formazione dell’inflammasoma alla produzione di IL-1β, che contribuisce alla patogenesi.
Prendiamo come esempio il recettore NLPR3: molti recettori di questa famiglia interagiscono per
formare un oligomero all’interno del quale ciascuno lega un adattatore (ASC); gli adattatori legano
l’enzima caspasi-1. Le caspasi son proteasi che si attivano soltanto dopo reclutamento dal
complesso dell’inflammasoma; la caspasi-1, in particolare, serve per attivare i precursori di due
citochine omologhe chiamate IL-1β e IL-18.
L’attivazione della caspasi-1 e dell’inflammasoma può dar luogo ad una forma di morte cellulare
programmata detta piroptosi, caratterizzata da edema, perdita di integrità della membrana
plasmatica e rilascio di mediatori infiammatori, come l’IL-1β e l’IL-18. La conseguenza della
piroptosi è la morte dei microbi che hanno avuto accesso al citosol.
L’attivazione non controllata dell’inflammasoma dovuta a mutazioni autosomiche delle proteine
costituenti, determina un’attivazione inopportuna e un’eccessiva produzione di IL-1, con
manifestazione di attacchi febbrili e risposte infiammatorie ricorrenti, che vanno sotto il nome
generale di sindromi autoinfiammatorie: tali patologie differiscono dalle malattie autoimmuni, che
sono causate da alterazioni del sistema immunitario adattivo dovute alla presenza di
anticorpi/linfociti T reattivi. Tali patologie vanno sotto il nome di CAPS (criopirinopatie).
Nel caso di febbre mediterranea familiare, si ha una mutazione non del dominio ossidrilico del
NRMP3, ma di altri domini pirinici, che portano ad una incontrollata produzione di IL-1β, con
infiammazione cronica.
Oltre alla famiglia dei NLRP, esistono altre 3 famiglie principali: NLRA, NLRB, NLRC. Insieme, a NLRP,
svolgono alcune funzioni principali:
1. Trasducono il segnale con attivazione dei NF-kB o AP-1, che promuove l’infiammazione tramite
la sintesi di citochine pro-infiammatorie per consentire il reclutamento di altri leucociti.
2. Attivazione la trascrizione tramite C2TA, della famiglia NLRA, consentendo di attivare la
trascrizione delle molecole del complesso MHC di classe II. La struttura di questi NLR presenta
una parte di residui di leucina che sono necessari al riconoscimento, un dominio di
oligomerizzazione chiamato NAC e un dominio effettore diverso per le 4 famiglie. In questo
caso, il C2TA ha un dominio del reclutamento delle caspasi, ma anche un dominio che consente
la trans attivazione e quindi l’aumento della trascrizione delle molecole di MHC II. Il deficit di
C2TA porta ad un’immunodeficienza grave detta “sindrome del linfocita nudo”, dove non
vengono espresse le molecole MHC II.
• RECETTORI DI TIPO RIG: i RLR (RIG-like-receptors) sono sensori citosolici dell’RNA virale cui
rispondono attivando la produzione di IFN di tipo I con funzione antivirale. Riconoscono RNA a
doppia elica, nonché etero-duplex DNA-RNA. I due RLR meglio caratterizzati sono RIG-I e MDA-5:
entrambi contengono due domini N-terminali responsabili del reclutamento delle caspasi e altri
due domini, una RNA elicasi e uno C-terminale, coinvolti nel riconoscimento dell’RNA. Gli RLR
possono anche distinguere l’RNA virale a singola catena dai normali trascritti cellulari. Inoltre, essi
sono espressi da un’ampia varietà di tipi cellulari, inclusi i leucociti e molte cellule tissutali. Dopo
aver legato l’RNA virale, gli RLR iniziano eventi di trasduzione del segnale che danno luogo a
fosforilazione e attivazione di IRF3, IRF7 e NF-kB, che inducono la produzione di interferoni di tipo I.
• SENSORI DI DNA CITOSOLICO E TRASDUZIONE DEL SEGNALE MEDIATA DA STING: i sensori di DNA
citosolico (CDS) sono molecole che rilevano la presenza di DNA nel citosol e attivano vie di
trasduzione che avviano le risposte antimicrobiche, fra cui produzione di interferone di tipo I
autofagia. Il DNA può essere rilasciato nel citosol da vari microbi intracellulari in funzione di vari
meccanismi:
- Via di Sting (Stimulator of IFN Genes): principale meccanismo di attivazione delle risposte
mediate da interferone di tipo 1 da parte del DNA. Sting è una proteina trans membrana
localizzata nel reticolo endoplasmatico ed è attivata indirettamente dal DNA microbico
presente nel citosol. Il DNA citosolico si lega ad un enzima detto GMP-AMP ciclico sintasi, che
produce il cGMP, il quale interagisce con STING e induce la fosforilazione di IRF3. L’IRF3
fosforilato a sua volta trasloca nel nucleo e induce l’espressione dei geni dell’interferone di tipo
I. STING stimola l’autofagia, meccanismo che serve a indirizzare i microbi dal citosol ai lisosomi,
dove vengono uccisi ad opera di enzimi proteolitici.
- L’attivatore DNA-dipendente dei fattori regolatori dell’IFN si lega al DNA microbico e attiva
IRF3, avviando la produzione di IFN di tipo I, nonché la via di NF-kB.
- L’RNA polimerasi 3 si lega al DNA microbico, lo trascrive e l’RNA che ne deriva attiva la via di
RIG, portando all’espressione dell’interferone di tipo I.
- AIM2 è un altro CDS che riconosce il DNA citosolico a doppia elica e forma un inflammasoma,
contenente caspasi-1.

3. ALTRI RECETTORI CELLULARI


• RECETTORI PER CARBOIDRATI: facilitano la fagocitosi e la secrezione di citochine che
promuovono le successive risposte dell’immunità adattiva. Appartengono alla famiglia delle
lectine di di tipo C che riconoscono zuccheri caratteristici della parete cellulare dei
microrganismi e assenti sulle cellule del mammifero.
- Recettori del mannosio: CD206 è il recettore del mannosio, che riconosce particolari zuccheri
terminali come il D-mannosio, L-fucosio e l’N-acetil-d-glucosamina. Non possiede alcuna
funzione attivatoria intrinseca e sembra che il suo ruolo sia quello di legare i microbi per
renderne possibile l’ingestione da parte dei macrofagi.
- DECTINE: importanti nel riconoscimento dei funghi. Infatti, la dectin-1 lega il β-glucano, che è il
principale componente della forma lievito della Candida Albicans; la dectin-2 riconosce gli
oligosaccaridi ricchi di mannosio della forma ifale.
- Altri esempi: la langherina CD207, principalmente espressa a livello delle cellule di Langerhans,
e il DC-SIGN (CD209), hanno un ruolo importante nella patogenesi dell’infezione da HIV-1,
facilitando l’infezione dei linfociti T.
• RECETTORI SCAVENGER: comprendono un insieme di proteine di membrana che si distinguono
dal punto di vista strutturale e funzionale. Esempio è il CD36, che funziona come corecettore
nell’ambito della risposta agli acidi lipoteicoici e ai lipopeptidi diacetilati.
• RECETTORI PER I PEPTIDI FORMILATI (FPR): il recettore FPR1 è espresso dai leucociti e
riconosce peptidi batterici contenenti residui di N-formilmetionina, permettendo ai fagociti di
identificare e rispondere preferenzialmente alle proteine batteriche.
Le cellule dell’immunità innata fungono proprio da sentinelle per l’identificazione della presenza di microbi
e di cellule danneggiate. Vediamo quali sono e più importanti e che funzioni svolgono:

1. BARRIERE EPITELIALI: le superfici epiteliali integre costituiscono una barriera fisica tra i patogeni
presenti nell’ambiente e i tessuti dell’ospite, producendo inoltre sostanze antimicrobiche che
contrastano ulteriormente con l’ingresso dei patogeni. Le principali barriere sono la cute e le
mucose dei tratti gastrointestinale, respiratorio e genitourinario. Sono rivestite da strati di cellule
epiteliali specializzate che svolgono molte funzioni fisiologiche, tra cui proprio l’inibizione
dell’ingresso dei microbi. Se l’integrità delle barriere viene meno, l’individuo diviene più suscettibile
alle infezioni. Le strette connessioni tra le cellule epiteliali rendono difficoltoso il passaggio dei
patogeni e, inoltre, lo strato esterno di cheratina che si forma in seguito alla morte dei cheratinociti
contribuisce a bloccare la penetrazione dei microbi negli strati più profondi dell’epidermide. Infine,
il muco, una secrezione viscosa di glicoproteine dette mucine, prodotto dalle cellule epiteliali del
tratto respiratorio, gastroenterico e urogenitale, impedisce fisicamente l’invasione di questi
distretti. La funzione di tutte queste barriere è potenziate dalle ciglia nell’albero bronchiale e dalla
peristalsi dell’intestino. Inoltre, le cellule epiteliali e alcuni leucociti producono peptidi antimicrobici
che sono:
• DEFENSINE: distinte in due famiglie, α e β, si distinguono per la popolazione dei legami
disolforici intracatena. Sono prodotte dalle cellule epiteliali delle mucose, dai leucociti
polimorfo nucleati neutrofili, dalle cellule NK e dai linfociti T citotossici. Il principale
produttore di defensine α è rappresentato dalle cellule di Paneth, che servono a limitare la
quantità di microbi presenti nel lume intestinale. Le defensine possono anche originare
nelle cellule della mucosa respiratoria o nella cute e la loro produzione viene generalmente
aumentata dalle citochine e dai prodotti microbici. Uccidono i microbi tramite diversi
meccanismi, molti dei quali dipendono dalla capacità di inserirsi e alterare le funzioni delle
membrane microbiche.
• CATELICIDINE: sono prodotte dai neutrofili, dalle cellule epiteliali della cute e dalle cellule
della mucosa gastrointestinale e dal tratto respiratorio. Sono costituite da due domini che
vengono poi tagliati proteoliticamene in due peptidi, ognuno dotato di funzioni protettive.
Proteggono dalle infezioni tramite meccanismi multipli, tra cui la tossicità diretta verso
un’ampia gamma di microrganismi e l’attivazione di svariate risposte da parte dei leucociti
e di altri tipi cellulari, che promuovono l’eradicazione dei microbi.

Le barriere epiteliali contengono alcuni tipi di linfociti, tra cui i linfociti T intraepiteliali, che
riconoscono i microrganismi più comuni e rispondono ad essi. Alcuni di essi esprimono la forma
convenzionale αβ del TCR; altri esprimono una forma del recettore l’antigene detta TCR γδ, che
riconosce agenti specifici peptidici e non peptidici. Si pensa che i linfociti T intraepitaliali
riconoscano un numero limitato di strutture microbiche ampiamente distribuite, contribuendo
alla difesa dell’ospite attraverso la secrezione di citochine, l’attivazione dei fagociti e l’uccisione
delle cellule infette.

Vediamo degli esempi di barriere nei vari distretti anatomici:

BARRIERA CUTE INTESTINO POLMONI OCCHI/NASO


MECCANICA Cellule epiteliali Cellule epiteliali Cellule epiteliali Cellule epiteliali
unite da unite da giunzioni unite da giunzioni unite da giunzioni
giunzioni salde salde salde salde
Flusso Flusso Movimento di Lacrime e ciglia
longitudinale di longitudinale di muco mediato da nasali
aria o fluidi aria o fluidi ciglia
CHIMICA Acidi grassi Basso pH Surfactante Enzimi lacrimali
Beta-defensine Enzimi (pepsina) polmonare (lisozima)
Corpi lamellari Alfa-defensine Alfa-defensine Istatine (prodotte
Catelicidine (crptidine) Catelicidine dalle ghiandole
Reg III (lecticidine) parotidi,
Catelicidine sottolinguare e
sottomandibolare)
Beta-defensine
MICROBIOLOGICA Flora normale Flora normale Flora normale Flora normale
La flora normale, detta anche microbiotica, è costituita da batteri commensali che contribuiscono alla
difesa nei vari distretti (dai lactobacilli vaginali a tutti i batteri che popolano l’intestino). La cute ha una
superficie di 2 m^2; l’intestino copre una superficie di 200 m^2, paragonabile ad un campo da tennis. È
colmo di microrganismi di varie specie: basti pensare che il microbioma intestinale pesa circa 1 kg ed è
composto da 100mila miliardi di batteri, dieci volte di più del numero di cellule nucleate. Il loro contributo
alla difesa consiste nella stimolazione delle cellule epiteliali alla secrezione di peptici antimicrobici. Difetti
genetici di alcuni componenti del sistema immunitario fanno sì che avvenga una risposta errata nei
confronti di questi batteri, provocando una flogosi cronica dell’intestino: è il caso del morbo di Crohn, che
fa parte delle IBD (malattie croniche dell’intestino).

2. CELLULE FAGOCITICHE: sono rappresentate principalmente dai macrofagi e dai neutrofili e


rappresentano la prima linea di difesa contro i microbi che oltrepassano la barriera epiteliale.
3. CELLULE DENDRITICHE: hanno funzioni di riconoscimento ed effettrici essenziali per l’immunità
innata. Sono presenti negli epiteli e nella maggior parte dei tessuti ed esprimono la più vasta
gamma di TLR e PRR citoplasmatici. Le cellule dendritiche plasmocitoidi sono le principali
produttrici di IFN di tipo I, in risposta alle infezioni virali. Inoltre, le cellule dendritiche hanno la
capacità esclusiva di attivare e indirizzare le risposte immunitarie adattive dei linfociti T, inglobando
e trasportando ai linfonodi antigeni microbici proteici. L’attivazione dei TLR induce nelle cellule
dendritiche l’espressione di molecole costimolatorie e di citochine.
4. CELLULE NK: le cellule linfoidi innate (ILC) sono cellule di origine midollare dotate di morfologia
linfoide, che svolgono funzioni effettrici senza la necessità dell’espansione clonale e
differenziazione. Si avvalgono di diversi meccanismi effettori condivisi con i linfociti T, ma non
riarrangiano i geni e non esprimono TCR. Esistono tre sottopopolazioni principali di cellule linfoidi
innate:
- ILC 1: producono IFN-γ, difesa contro virus
- ILC 2: producono IL-5 e IL-13, infiammazione allergica
- ILC 3: producono IL-17 e IL-22, funzione di barriera intestinale (organogenesi linfoide)

Un sottotipo particolare i ILC 1 sono le CELLULE NATURAL KILLER: esse svolgono un ruolo
importante nell’uccidere le cellule infettate, analogamente ai linfociti T citotossici. Tuttavia, esse
svolgono questa funzione senza il bisogno di subire alcuna ulteriore differenziazione. Costituiscono
il 5-15% delle cellule mononucleate presenti nel sangue e nella linfa, mentre negli altri organi
linfoidi sono rare. In circolo appaiono come grandi linfociti con numerosi granuli ma, a differenze
dei linfociti T e B, non esprimono recettori per l’antigene distribuiti clonalmente; per distinguere le
cellule normali da quelle infettate utilizzano recettori codificati dal DNA della linea germinativa.
Nell’uomo, la maggior parte delle NK esprime CD16 e CD56.
Le principali funzioni delle NK sono l’uccisione delle cellule infettate e la produzione di IFN-γ, una
citochina che attiva le funzioni microbicide dei macrofagi nei confronti dei microbi fagocitati. I
meccanismi che utilizzano sono sostanzialmente analoghi a quelli dei linfociti CD8+ citotossici. Così
come i CTL, anche le NK contengono granuli di proteine responsabili dell’uccisione dei microbi: in
particolare, la perforina agevola l’ingresso di altre proteine contenute nei granuli, i granzimi, nel
citosol delle cellule bersaglio. I granzimi sono degli enzimi che avviano una sequenza di eventi di
attivazione che causano la morte per apoptosi delle cellule bersaglio. In questo modo, le NK
eliminano i serbatoi dei microbi infettivi. Nella fase iniziale di un’infezione virale, le citochine IL-12 e
IL-15 inducono l’espansione e l’attivazione delle NK e l’uccisione delle cellule infettate, precedendo
l’attivazione dei linfociti CTL. Più avanti, nel corso dell’infezione, le NK uccidono le cellule infettate
che sono sfuggite all’attacco dei CTL. L’IFNγ prodotto dalle cellule NK aumenta la capacità dei
macrofagi di uccidere i batteri fagocitati, analogamente all’IFNγ prodotto dai linfociti T; esso inoltre
può indirizzare la differenziazione dei linfociti T naive in cellule TH1. Ovviamente, la deplezione
delle NK produce un aumento della suscettibilità a virus e batteri intracellulari.

Le cellule NK sono in grado di distinguere le cellule infettate e alterate da quelle sane. Le loro
funzioni dipendono dall’equilibrio tra i segnali generati dai recettori attivatori e inibitori. Questi
recettori riconoscono molecole espresse da altre cellule e generano segnali che promuovono o
inibiscono le risposte delle NK. I recettori attivatori stimolano le proteinchinasi che trasducono il
segnale mediante fosforilazione dei substrati, mentre i recettori inibitori stimolano le fosfatasi che
contrastano l’azione delle chinasi. In sostanza, i recettori attivatori riconoscono ligandi sulle cellule
infettate o danneggiate che devono essere eliminate, mentre i recettori inibitori riconoscono
ligandi sulle cellule sane che devono essere preservate. I recettori attivatori riconoscono un gruppo
eterogeneo di ligandi, alcuni dei quali possono essere espressi da cellule normali mentre altri
principalmente da cellule che hanno subito danni, infettate o trasformate. Molti dei recettori
attivatori sono chiamati recettori KIR (Killer cell Immunoglobulin-like-receptors), poiché
contengono un dominio strutturale Ig, inizialmente identificato negli anticorpi. Un secondo
importante gruppo di recettori NK attivatori appartiene alla famiglia delle lectine di tipo C, alcuni
dei quali riconoscono le molecole di MHC di classe I. Ancora, un altro recettore di tipo attivatorio è
CD16, a bassa affinità per le IgG; esso si lega ai frammenti Fc degli anticorpi IgG1 e IgG3 e genera
segnali che attivano le cellule NK a uccidere le cellule che sono state rivestite dagli anticorpi
(citotossicità cellulare-anticorpo-dipendente).

La maggior parte delle cellule NK esprime recettori inibitori che riconoscono molecole del
complesso maggiore di istocompatibilità di classe I, proteine di membrana normalmente espresse
da tutte le cellule nucleate, la cui principale funzione è quella di esporre sulla membrana peptidi
che derivano da proteine citoplasmatiche endogene o microbiche, in modo che possano essere
riconosciute dai linfociti T. Le NK sono quindi in grado di discriminare le cellule normali, che
esprimono le molecole MHC di classe I, da quelle infettate o alterate che tendono a perdere tale
espressione; quindi, le NK saranno inibite da cellule sane ma non riceveranno segnali inibitori da
cellule infette o alterate; questa capacità di essere attivate da cellule self che non esprimono le
molecole MHC di classe I viene definita “riconoscimento del self mancante” (missing self). La
principale classe di recettori inibitori delle NK sono i KIR, che legano ad una varietà di molecole
MHCI. Altri recettori inibitori sono i recettori lectinici e i LIR (Leukocyte-Ig-like receptors), composti
da membri della super famiglia delle Ig che si legano alle molecole di MHC di classe I, anche se con
minore affinità rispetto ai KIR e sono maggiormente espressi dai linfociti B rispetto alle cellule NK.
I recettori attivatori e inibitori contengono motivi strutturali nelle code citoplasmatiche che
innescano meccanismi di trasduzione del segnale che promuovono o inibiscono l’uccisione delle
cellule bersaglio e la secrezione delle citochine. I recettori attivatori presentano motivi ITAM che
contengono residui di tirosina che, in seguito all’attivazione del recettore, vengono fosforilati da
parte di chinasi citoplasmatiche. I recettori inibitori presentano un motivo strutturale comune
detto ITIM, il quale ingaggia molecole che bloccano le vie di trasduzione dei recettori attivatori;
anche questi contengono residui di tirosina che vengono fosforilati in seguito al riconoscimento del
ligando, attivando delle fosfatasi che, rimuovendo i fosfati dalle proteine e dai lipidi attivati dai
recettori attivatori, bloccano i segnali trasmessi dai recettori attivatori stessi. I geni KIR sono
polimorfi, ossia ne esistono diverse varianti alleliche.

Le citochine possono potenziare le risposte delle cellule NK , tra cui IL-12 e IL15 (fattori di crescita
delle NK), IL-18 e gli interferoni di tipo I.
5. ALTRE CELLULE LINFOIDI INNATE: le tre sottopopolazioni di cellule linfoidi innate, gruppo 1 (che
comprende le NK), gruppo 2 e gruppo 3, producono diversi tipi di citochine e partecipano sia alla
difesa dell’ospite contro diversi patogeni sia alla patogenesi di diverse malattie infiammatorie.
• ILC DI GRUPPO 1: producono IFN-γ e comprendono le NK citotossiche e non citotossiche.
• ILC DI GRUPPO 2: come i linfociti CD4+ Th2, secernono IL-5, IL-9 e IL-13, proteggendo da
infezioni elmintiche e contribuendo allo sviluppo delle malattie allergiche.
• ILC DI GRUPPO 3: producono IL-22 e IL-17, si trovano nei siti mucosali e prendono parte al
processo di difesa nei confronti dei batteri extracellulari e al mantenimento dell’integrità
delle barriere epiteliali.
6. LINFOCITI T E B DOTATI DI RECETTORI POCO DIVERSIFICATI: i linfociti T e B son perlopiù
componenti dell’immunità adattiva; tuttavia, certe piccole popolazioni di linfociti esprimono
recettori per gli antigeni che sono strutturalmente uguali a quelli dei linfociti T e B, ma presentano
una diversificazione molto limitata. Sembra che queste popolazioni possano riconoscere strutture
conservate di specie microbiche comuni. I linfociti T a limitata diversificazione del recettore per
l’antigene includono le cellule NKT (Invariant Natural Killer T cells), i linfociti T γδ e i linfociti T αβ
intraepiteliali. Le popolazioni B che producono anticorpi a specificità limitata includono i linfociti
splenici della zona marginale e i linfociti B-1.
7. MASTOCITI: sono presenti nella cute e nell’epitelio delle mucose e, in risposta alle infezioni e ad
altri stimoli, secernono rapidamente citochine pro infiammatorie e mediatori lipidici. Ricordiamo
che contengono granuli, contenenti amine vasoattive (come l’istamina, che determina
vasodilatazione e aumento della permeabilità capillare) ed enzimi proteolitici, che possono
uccidere batteri o inattivare le tossine microbiche. I mastociti sintetizzano e secernono anche
mediatori lipidici, come le prostaglandine e il TNF. La loro degranulazione determina rapidi
cambiamenti vascolari che promuovono la risposta infiammatoria acuta. Esprimono TLR, i cui
ligandi possono indurre la degranulazione. Le sostanze prodotte dai mastociti conferiscono una
difesa contro gli elminti e sono responsabili della sintomatologia delle malattie allergiche.

Nel sangue e nei fluidi extracellulari sono disperse molecole in grado di riconoscere microbi e promuovere
la risposta innata, che funzionano in due modi:

• Legandosi ai microbi funzionano come opsonine, cioè favoriscono la fagocitosi da parte di


macrofagi, neutrofili e cellule dendritiche. Infatti, i fagociti esprimono specifici recettori di
membrana per le opsonine che permettono l’internalizzazione del complesso opsonina-microbo.
• Dopo aver legato i microbi, promuovono risposte infiammatorie che attirano nuovi fagociti nel
tessuto infettato, potendo anche provocare la morte dei microbi stessi.

L e molecole effettrici solubili rappresentano il ramo umorale dell’immunità innata, così come gli anticopi
rappresentano il ramo umorale dell’immunità adattiva. Vediamo ora quali sono i principali componenti
dell’immunità innata umorale:

1. SISTEMA DEL COMPLEMENTO: comprende numerose proteine plasmatiche che collaborano tra
loro con il triplice scopo di osponizzare i microbi, promuovere il reclutamento dei fagociti e, in
alcuni casi, uccidere direttamente il microbo.
Le tre funzioni principali del complemento sono l’opsonizzazione (attivare la fagocitosi), la
promozione dell’infiammazione e la citolisi. Di fatto esso consiste in una cascata proteolitica di
più di 30 proteine, denominate C1, C2, C3, ecc. L’attivazione del complemento consiste in una
cascata proteolitica nella quale un precursore enzimatico inattivo, detto zimogeno, viene
modificato per diventare una proteasi attiva che taglia la proteina successiva della cascata
inducendone l’attività proteolitica. L’evento fondamentale è il taglio proteolitico di C3,
abbastanza abbondante nel plasma, che genera un piccolo frammento C3a ed un frammento
più grande C3b, che fungerà da opsonina. La cascata enzimatica determina una straordinaria
amplificazione della quantità di prodotti proteolitici che vengono generati, che svolgono le
funzioni effettrici del sistema del complemento. Oltre al sistema del complemento, altre
cascate proteolitiche clinicamente importanti sono la coagulazione ed il sistema chinina-
callicreina, che regola la permeabilità vascolare.
La prima fase nell’attivazione del sistema del complemento è il riconoscimento di molecole
sulle superfici microbiche, le quali sono però assenti sulle cellule dell’ospite. Ciò può avvenire in
tre modi:
• Via CLASSICA: utilizza una proteina plasmatica chiamata C1q, per identificare anticorpi
legati alla superficie microbica o ad altre cellule. Quando C1q si lega alla porzione Fc
degli anticorpi, due serinproteasi ad essa associate, dette C1r e C1s, si attivano e
iniziano una cascata proteolitica. La via classica rappresenta uno dei principali effettori
del ramo umorale della risposta adattiva.
• Via ALTERNATIVA: inizia quando una proteina del complemento chiamata C3 riconosce
direttamente determinate strutture microbiche di superficie, quali per esempio l’LPS
batterico. Inoltre, C3 può attivarsi costitutivamente a bassi livelli, ma la sua deposizione
sulle cellule self è inibita dalla presenza di proteine inibitorie. Dal momento che i
microbi non esprimono tali proteine, l’attivazione spontanea tende ad amplificarsi sulla
loro superficie.
• Via LECTINICA: inizia con una proteina plasmatica detta “lectina legante il mannosio”
(MBL) che riconosce i residui terminali di mannosio su glicoproteine e glicolipidi
microbici. Appartiene alla famiglia delle collectine e possiede una struttura esamerica
simile a quella della C1q. In seguito al legame della MBL ai microbi, due zimogeni, detti
MASP1 (Mannose-Associated Serine Protease 1) e MASP2, si associano ad essa e
iniziano una cascata proteolitica identica alla via classica.
Il riconoscimento dei microbi da parte di una qualsiasi delle tre vie del complemento porta al
reclutamento sequenziale e all’assemblaggio di ulteriori proteine del complemento, per
formare complessi ad attività protesica. Un esempio è il complesso C3 convertasi, che taglia la
proteina centrale del complemento C3, spezzandola in due trammenti C3a e C3b; il C3b si lega
covalentemente alla superficie microbica, fungendo da osponina e promuovendo la fagocitosi.
Il frammento C3a, più piccolo, viene rilasciato e stimola l’infiammazione, agendo come fattore
chemiotattico per i neutrofili. Il frammento C3b lega altre proteine del complemento , che sono
il Fattore B ed il fattore D: C3b si lega al frammento Bb (componente attiva della C3 convertasi),
tagliato a sua volta dal Fattore D (serin-proteasi). Questo processo viene innescato solo in
presenza di un patogeno, dando origine a C3bBb; questa attivazione del complemento è
regolata dalla properdina (o Fattore P), un regolatore positivo che stabilizza la C3-convertasi-
C3bBb, una volta che C3b si è legato al patogeno. Il fattore P si lega sia al patogeno che al C3b,
consentendo la stabilizzazione e l’amplificazione. Una volta tagliato, il C3b può formare un
complesso protesico chiamato C5 convertasi, che scinde la proteina C5 in C5a e C5b; anche in
questo caso, il frammento C5b si lega alla membrana cellulare del microrganismo e C5a svolge
funzioni chemotattiche. Il frammento C5b innesca la formazione di un complesso di proteine
costituito da C6, C7, C8 e C9, chiamato complesso di attacco alla membrana (MAC), che
formano un poro sulla membrana plasmatica che causa la lisi delle cellule su cui è stato attivato
il complemento.
I pazienti con immunodeficienze di C3 sono altamente suscettibili a contrarre infezioni
batteriche ricorrenti e spesso letali; le alterazioni genetiche nella formazione del MAC
determinano l’aumento della suscettibilità ad un numero limitato di microbi.
Il sistema del complemento è un’arma estremamente potente che necessita di essere
finemente controllata. Per questo motivo, le cellule esprimono una serie di proteine regolatrici,
che limitano o impediscono l’azione del complemento:
- Inibitore del C1: impedisce l’associazione delle serin-proteasi al primo frammento C1, cosicchè
C1r e C1s non si leghino a C1. Può anche prevenire l’associazione delle MASP alla lectina o alle
ficoline, inibendo quindi l’attivazione di ogni via.
- DAF, CR1 (Recettore di C1), C4BP E MCP: impediscono la formazione delle C3 convertasi.
Possono legarsi al C3b, prevenendo la formazione della C3 convertasi. CR1 può anche inibire
l’espressione di C5 convertasi, impedendo il legame tra C3b e C3-covertasi e frammentando
C3b in diversi frammenti inattivi.
- CD59: impedisce la formazione del MAC, impedendo il legame tra C8 e C9.

Un’altra fondamentale funzione del complemento è quella di eliminare gli immuno-complessi,


frammentati grazie alla presenza di CR1 espresso sulla membrana degli eritrociti. Gli immuno-
complessi raggiungono la milza o il fegato, dove i macrofagi li eliminano senza che gli eritrociti
vengano in alcun modo danneggiati o distrutti. I fagociti possono esprimere anche altre recettori:
CR3 e CR4 sono integrine, importanti per l’adesione e la migrazione cellulare durante
l’infiammazione; CR3 e CR5 sono espressi da cellule endoteliali, fagociti e mastociti e aumentano la
permeabilità vascolare, consentendo il reclutamento di altre cellule e molecole, nonché il rilascio di
istamina o citochine; CR2 è anche detto CD21, è espresso dalle cellule B, di cui potenzia
l’attivazione; ancora, CR1, CR2 e CR3 sono espressi dalle cellule dendritiche follicolari, consentendo,
a livello germinativo, la selezione dei cloni B migliori, ovvero che hanno l’affinità migliore verso
l’antigene, durante le mutazioni iper-somatiche. Vediamo cosa accade in caso di deficit a carico di
queste importanti molecole:

- DEFICIT DEL C1 INIBITORE: angioedema ereditario, causato da un’eccessiva attivazione del


complemento che comporta la formazione di vari edemi; quello più pericoloso colpisce le vie
aree, inducendo soffocamento.
- DEFICIT DI DAF O CD59: emoglobinuria parossistica notturna, che si manifesta con anemia
emolitica, che può essere trattata con trasfusioni di sangue o con trapianto di midollo.
- DEFICIT DI MCP: sindrome emolitico-uremica, promuove la formazione eccessiva di C3-
covertasi, con danni a carico di piastrine e globuli rossi.
2. PENTRASSINE: molte proteine plasmatiche che riconoscono strutture microbiche e partecipano
all’immunità innata; appartengono alla famiglia delle pentrassine, proteine pentameriche che
comprendono le pentrassine corte, tra cui la proteina C reattiva (PCR) e la sieroamiloide P
(SAP), e le pentrassine lunghe, come la PTX3. Sia PCR che SAP si legano a molte specie di funghi
e batteri; PCR, SAP e PTX3 attivano tutte il complemento, legandosi a C1q e iniziando la via
classica. Le concentrazioni plasmatiche di PCR sono molto basse negli individui sani, ma
possono aumentare fino a 1000 volte durante le infezioni e in risposta ad altri stimoli
infiammatori; questo aumento è dovuto alla sintesi a livello epatico, attivata dalle citochine IL-6
e IL-1, inducendo aumento dei livelli plasmatici di SAP e di altre proteine non strettamente
collegate con le pentrassine e dette, nel loro insieme, “proteine di fase acuta”, poiché sono
presenti a livelli elevati nel sangue solo in corso di reazioni infiammatorie. PTX3 non è una
proteina di fase acuta; viene accumulata nei granuli dei neutrofili e rilasciata quando essi
muoiono ed è in grado di riconoscere diverse molecole espresse da funghi, batteri gram-positivi
e gram-negativi, virus e cellule apoptotche; sembra anche essere responsabile della risposta
protettiva contro il virus dell’influenza.
3. COLLECTINE: sono una famiglia di proteine trimeriche o esameriche, in cui ciascuna subunità
contiene un dominio simile al collagene collegato ad una regione colletto ad un dominio
lectinico. Tre membri di questa famiglia fungono da molecole effettrici solubili per il
riconoscimento dei PAMP:
• LECTINA LEGANTE IL MANNOSIO (MBL): può funzionare da opsonina legandosi ai
microbi e facilitandone la fagocitosi. Il recettore responsabile dell’interazione dei
microbi opsonizzati con MBL è C1q. Il gene che codifica la MBL è polimorfo e alcuni
alleli sono associati ad una ridotta formazione di esameri e bassi livelli ematici; questa
condizione è associata ad una maggiore suscettibilità a varie infezioni, soprattutto se in
combinazione con altre immunodeficienze.
• SP-A (Surfactant Proteine A) e SP-D: sono collectine con proprietà lipofiliche comuni ad
altri surfactanti e si trovano negli alveoli polmonari. Le loro funzioni principali sono il
mantenimento della capacità di espansione polmonare e le risposte immunitarie innate
locali; fungono da opsonine, facilitando l’ingestione da parte dei macrofagi alveolari.
Possono direttamente inibire la crescita batterica attraverso l’attivazione dei
macrofagi.
4. FICOLINE: sono proteine plasmatiche strutturalmente simili alle collectine, ma al posto del
dominio lectinico hanno un dominio di riconoscimento di carboidrati fibrinogeno-simile. Esse
legano e opsonizzano tipi batterici diversi e attivano il complemento in modo simile alla MBL.

Per combattere l’infezione e il danno tissutale, l’immunità innata utilizza anzitutto l’INFIAMMAZIONE,
grazie alla quale si ottiene l’accumulo di leucociti, proteine e fluidi di derivazione ematica nel tessuto
infettato o danneggiato. I neutrofili rappresentano senza dubbio il tipo leucocitario più abbondante nei
tessuti infiammatori, tuttavia i monociti possono prevalere nelle fasi più tardive o in alcuni tipi particolari di
reazione. Le principali proteine che si accumulano nei siti infiammatori sono quelle del complemento, gli
anticorpi e le proteine di fase acuta. L’afflusso al sito infiammatorio dipende da tre fattori fondamentali:

1. Dilatazione arteriolare e conseguente aumento del flusso sanguigno;


2. Aumentata adesività dei leucociti circolanti all’endotelio delle venule;
3. Aumentata permeabilità dei capillari e delle venule.

Questi cambiamenti sono provocati da citochine in risposta alla stimolazione da parte di PAMP e DAMP.
L’infiammazione acuta si sviluppa nell’arco di minuti oppure ore e persiste per giorni; se l’infezione non
viene eradicata, l’infiammazione evolve in infiammazione cronica, che si manifesta spesso con angiogenesi
e fibrosi dei tessuti coinvolti.

La prima risposta dell’immunità innata all’infezione e al danno tissutale è la secrezione di citochine con le
seguenti caratteristiche:

• Sono prodotte principalmente dai macrofagi tissutali e dalle cellule dendritiche, nonché da cellule
epiteliali ed endoteliali.
• La maggioranza di esse agisce su cellule vicine alla cellula produttrice (azione PARACRINA). Alcune
gravi infezioni, tuttavia, possono determinare un’enorme produzione di citochine tale da farle
entrare in circolo e raggiunge anche territori distanti (azione ENDOCRINA).
• Citochine diverse svolgono azioni simili e sovrapponibili, oppure sono uniche dal punto di vista
funzionale.
• Le citochine dell’immunità innata svolgono diverse funzioni: induzione dell’infiammazione,
inibizione della replicazione virale, promozione delle risposte dei linfociti T e inibizione delle
risposte immunitarie innate.

Le citochine vengono raggruppate in due gruppi principali:

- Citochine dell’immunità innata o naturale, che intervengono per generare processi


infiammatori
- Citochine dell’immunità specifica o adattiva, responsabili della risposta immunitaria vera e
propria, intervenendo per allertare tutto il nostro sistema immunitario ed andare in maniera
diretta contro quel determinato patogeno.

I meccanismi di azione possono essere diversi:

- Azione AUTOCRINA: è la tipologia più comune tra le citochine e coinvolge una cellula che
produce una citochina, la quale agisce sulla stessa cellula che l’ha prodotta.
- Azione PARACRINA: comprende la maggior parte delle citochine, che intervengono nelle
vicinanze del patogeno, creando un ambiente attorno al quale si sviluppa la risposta
immunitaria.
- Azione ENDOCRINE: molto rara, è tipica del TNF che entra nel torrente ematico e raggiunge
distretti anche molto lontani.

Le citochine possono essere prodotte tramite due meccanismi principali:

1. ATTIVAZIONE DEL GENE CHE PRODUCE UNA DERERMINATA CITOCHINA: è il meccanismo più
utilizzato e consiste in una trascrizione genica (es. interferoni di tipo 1, IL-2, IL-4, ecc.)
2. Se le citochine sono già immagazzinate nel citoplasma in forma inattiva, restano “intrappolate”
nella cellula fino a quando questo prodotto inattivo VIENE TAGLIATO DA ENZIMI SPECIFICI
(PROTEASI) che, rilasciando un fattore inibitorio, permettono l’esporto della citochina all’esterno
della cellula.

Tutto ciò avviene in tempi rapidissimi. I recettori per le citochine si trovano di solito sulla membrana
citoplasmatica. Si genera una serie di segnali dall’esterno verso l’interno della cellula, globalmente
denominati “trasduzione del segnale”, grazie alla quale la cellula interpreta il segnale all’esterno. La
presenza di un determinato antigene in contatto con linfociti T o B induce l’espressione di particolari
recettori delle citochine, permettendo ai linfociti di generare una risposta molto più potente nei confronti
di quell’antigene; allo stesso modo, la presenza di una citochina può indurre la produzione del suo stesso
recettore per generare un processo di amplificazione.

Caratteristica dei recettori delle citochine è l’affinità. Nel momento in cui il recettore lega la sua citochina,
si generano delle cascate enzimatiche che generano un segnale sempre più forte, in modo che la cellula
traduca geni di risposta a quella citochina. Vediamo nel dettaglio questa serie di eventi:
1. FASE DI MEMBRANA: eventi molecolari vicini al recettore della citochina. Permette al recettore di
passare dalla fase inattiva a quella attiva, tramite un cambio di conformazione, oppure tramite
l’avvicinamento di due molecole di recettore l’una con l’altra.
2. FASE CITOSOLICA: dopo l’attivazione del recettore, all’interno della cellula alcuni enzimi innescano
delle cascate enzimatiche, specifiche per ogni citochina coinvolta. Queste cascate rappresentano
una sorta di “effetto domino”, perché un primo enzima ne attiva altri due a cascata, poi altri dieci,
altri cento, e così via. Tali enzimi comprendono le protein-chinasi, le fosfatasi e le proteasi.
3. FASE NUCLEARE: coinvolge l’attivazione di specifici enzimi che servono per l’espressione genica
(fattori di trascrizione). Siamo giunti all’evento finale che permette alla cellula di produrre altre
molecole (es. una citochina, un enzima litico, una chemochina, ecc.)

I recettori delle citochine, di tipo I e di tipo II, hanno in comune la caratteristica di utilizzare il processo di
trasduzione del segnale detto “JAK-STAT” (JAK e STAT sono due degli enzimi principali che vengono attivati
nel citoplasma a seguito del contatto con i recettori).

- RECETTORI DI TIPO I: sono tra i più diffusi.


- RECETTORI DI TIPO II: comprendono gli interferoni di tipo I (IFN α e β) e di tipo II (IFN γ)
- SUPERFAMIGLIA DEI RECETTORI DEL TNF: racchiude recettori che rispondono a citochine a
doppia faccia, ossia che hanno due funzioni alternative: una è quella di stimolare il processo
infiammatorio (es. TNF), mentre l’altra è quella di indurre le cellule, in conidzioni di stress,
all’apoptosi.
- RECETTORI PER LE IL-1 E IL-18: hanno una sruttura ed un segnale di trasduzione molto
singolare, basato su una chinasi detta ILAK.
- RECETTORI PER LE CHEMOCHINE: sono recettori a sette domini di membrana collegati a
proteine G, che permettono la migrazione leucocitaria durante i processi infiammatori proprio
grazie all’accoppiamento delle chemochine che attraggono le cellule sul sito d’infezione.

Tutte le citochine presentano delle caratteristiche comuni:

1. PLEIOTROPISMO: citochine con effetto pleiotropico sono in grado di svolgere differenti funzioni
nell’ambito delle risposte immunitarie, per cui alcune possono avere più di un effetto differente.
Per esempio, l’IL-4, prodotta dai Th2, ha un effetto multiplo in quanto, entrando in contatto con un
linfocita B, ne induce la produzione di anticorpi di una determinata categoria, per esempio le IgE,
tipiche della risposta ai Th2. Se invece l’IL-4 venisse in contatto con una cellula diversa da un
linfocita B, come ad esempio un CD4 non ancora differenziato, lo spingerebbe a differenziare in un
linfocita Th2.
2. RIDONDANZA: esistono citochine differenti che hanno la stessa funzione. Per esempio, IL-2 e IL-4,
prodotte entrambe dai linfociti CD4, inducono lo stesso effetto in un linfocita B.
3. SINERGIA: se una certa citochina induce una risposta x ed un’altra citochina induce una risposta y,
nel momento in cui queste due citochine lavorano in maniera sinergica, l’effetto non è
semplicemente dato da x+y, ma si ottiene un risultato molto più amplificato. Ad esempio, TNF e
IFN-γ incontrano contemporaneamente una cellula dendritica, possono essere prodotte fino a
10mila molecole di MHC-1.
4. ANTAGONISMO: una citochina amplifica o inibisce l’effetto di un’altra. Un classico esempio di
antagonismo è dato da IFN –γ e IL-10, il primo con azione pro-infiammatoria e il secondo con azione
anti-infiammatoria.

Dunque, le principali azioni biologiche delle citochine sono:


- Attivazione trascrizionale di specifici geni
- Chemiotassi
- Induzione di apoptosi: per esempio, attraverso il recettore Fas, presente sui linfociti T
citotossici, si può indurre la morte di molti patogeni, principalmente virus.

Vediamo quali sono le più importanti citochine pro infiammatorie:

1. FATTORE DI NECROSI TUMORALE (TNF): è un mediatore della risposta infiammatoria acuta a


batteri e ad altri patogeni. È in grado di causare la necrosi dei tumori, grazie all’infiammazione e alla
trombosi dei vasi ematici tumorali. Viene anche chiamato TNFα, per distinguerlo dal TNFβ, detto
anche linfotossina. Il TNF è prodotto dai macrofagi, cellule dendritiche e altri tipi cellulari; nei
macrofagi, in particolare, viene sintetizzato come proteina di membrana di tipo II non glicosilata ed
espresso come omotrimero in grado di legare un tipo di recettore del TNF. Il clivaggio di questa
forma di membrana determina il rilascio di un frammento polipeptidico: tre di questi frammenti
polimerizzano a formare una proteina a piramide triangolare che rappresenta il TNF circolante.
Esistono due diversi tipi di recettori per il TNF, detti di tipo I e di tipo II. L’affinità del TNF per i suoi
recettori è di norma bassa. Entrambi questi recettori sono espressi sulla superficie di quasi tutti i
tipi cellulari e fanno parte di una grande famiglia di proteine, chiamata superfamiglia dei recettori
del TNF. L’interazione del ligando con alcuni membri della famiglia dei recettori del TNF determina
l’associazione della porzione citoplasmatica del recettore con proteine definite TRAF, che inducono
a loro volta la trascrizione come NF-kB e AP-1. I diversi membri della famiglia possono anche
indurre trascrizione genica, apoptosi o entrambi i processi. La produzione di TNF è stimolata da
numerosi DAMP e PAMP e, una volta prodotta, è in grado di combattere infezioni da batteri gram-
negativi e gram-positivi, che esprimono i ligandi dei TLR. Lo shock settico è mediato in larga parte
dal TNF.
I macrofagi, essendo le prime cellule coinvolte nella risposta immunitaria innata, devono avere un
meccanismo diretto di riconoscimento del patogeno; ciò avviene mediante PAMP che indicano che
al sistema immunitario la presenza di un organismo anomalo. I TLR associati ai macrofagi, quando
entrano in contatto con l’LPS, fanno sì che il macrofago recepisca questo segnale e cominci a
produrre TNF. Esso può anche essere prodotto in maniera indiretta: quando è presente una
risposta infiammatoria già avanzata, il sistema immunitario specifico attua la sua funzione sempre
con il supporto delle cellule dell’immunità innata. Una citohina responsabile di questo è proprio
l’IFN-γ che stimola i macrofagi a produrre TNF, in quanto non è stata ancora eradicata l’infezione.
Ricordiamo che il TNF viene prodotto come un trimero in forma inattiva; nel momento in cui il
macrofago riceve il segnale, si attiva il meccanismo di secrezione veloce dei TNF mediante il quale
un enzima all’interno del macrofago taglia la parte del TNF che lo tiene ancorato alla membrana,
rendendolo libero di uscire dalla membrana stessa. Questo è un sistema molto veloce, che si risolve
nell’arco di pochi secondi. Il recettore del TNF appartiene ad una famiglia molto grande di proteine
costituta da tre polipeptidi; è un recettore ubiquitario che rende ogni cellula in grado di rispondere
al TNF per generare una risposta infiammatoria.
Il TNF è in grado di generare due segnali molto differenti tra loro, per attivare l’infiammazione o
indurre apoptosi. Il recettore per questi due effetti è lo stesso. I recettori esercitano la loro azione
attraverso delle proteine adattatrici; nel caso specifico, la proteina adattatrice che segnala il
messaggio è detta TRADD e serve a legare un tipo di enzima o un altro per scegliere una delle due
vie. Se la TRADD si lega a due proteine dette TRAF e RIP, si attiva l’NF-kB e viene alimentato il
processo infiammatorio, insieme alla produzione di altre citochine infiammatorie, molecole di
adesione o chemochine. Se invece alla TRADD si lega un’altra proteina, detta FADD, il destino della
cellule è completamente diverso, perché viene avviata una cascata enzimatica diversa, che nel caso
specifico prende il nome di “cascata delle caspasi”, coinvolta nella morte cellulare. In questo caso,
si tratterà di un processo irreversibile che determinerà la scomparsa della cellula che è entrata in
contatto con il TNF.
Il TNF è in grado di far giungere il maggior numero possibile di leucociti nel punto in cui il TNF si sta
producendo. Ciò viene mediato dall’endotelio coinvolto nell’infiammazione e dai fagociti; la
presenza di TNF fa sì che le cellule endoteliali coinvolte, vicine al punto di contatto con il patogeno,
producano selectine che, insieme ai ligandi delle integrine, stimolano il processo di adesione
precoce.
2. INTERLEUCHINA-1 (IL-1): anche questa è un mediatore della risposta infiammatoria acuta e
condivide con il TNF molte funzioni. La sua principale fonte cellulare sono i fagociti mononucleati
attivati. A differenza del TNF, però, l’IL-1 viene prodotta anche da molti altri tipi cellulari, come
neutrofili, cheratinociti e cellule endoteliali. Esistono due forme di IL-1, IL-1α e IL-1β (forma
biologicamente più attiva). La produzione di IL-1 richiede di norma due segnali distinti: il primo per
attivare la trascrizione genica del pro-IL-1β e il secondo per attivare l’inflammasoma, il quale a sua
volta taglia proteoliticamente il precursore generando la forma matura di IL-1β. L’IL-1 viene secreta
attraverso una via definita “non classica”, dal momento che né l’IL-1α né l’IL-1β posseggono una
sequenza segnale idrofobica in grado di condurre il polipeptide nascente verso la membrana del
reticolo endoplasmatico. Alcuni batteri patogeni inducono sia il processamento dell’IL-1β e dell’IL-
18, da parte dell’inflammasoma, sia un tipo di morte cellulare attivata dalla caspasi-1 o dalla
caspasi11, detta piroptosi. Anche il TNF stimola la produzione di IL-1 da parte dei macrofagi.
L’IL-1 induce i suoi effetti biologici interagendo con un recettore di membrana detto recettore di
tipo I, espresso da molti tipi cellulari; questo recettore è una proteina integrale di membrana
contenente un dominio immunoglobulinico extracellulare che lega l’IL-1 e un dominio nella regione
citoplasmatica detto TIR, responsabile della trasduzione del segnale. Gli eventi di attivazione
intracellulare che susseguono al legame dell’IL-1 al recettore di tipo I sono simili a quelli descritti
per i TLR e determinano l’attivazione dei fattori trascrizionali NF-kB e AP-1. È un recettore di tipo
regolatorio, che tende a sequestrare l’IL-1 per impedire le risposte in determinate situazioni,
oppure può anche essere indotto da alcuni patogeni, per “raggirare” le cellule e renderle insensibili
all’IL-1, rendendole innocue al patogeno stesso. Il recettore per l’IL-1 di tipo II, invece, non è in
grado di innescare alcuna cacata di trasduzione del segnale intracellulare, in quanto è un recettore
“esca”, in cui solo la parte esterna entra in contatto con l’IL-1, ma è troncato nella parte interna.
3. INTERLEUCHINA 6 (IL-6): è implicata nelle risposte infiammatorie acute sia locali che sistemiche.
Induce la sintesi di una grande varietà di altri mediatori infiammatori a livello epatico, stimola la
produzione di neutrofili nel midollo osseo e promuove la differenziazione di linfociti T helper in
cellule che producono l’IL-17. Viene sintetizzata dai fagociti mononucleati, dalle cellule
dell’endotelio vascolare, dai fibroblasti e da altre cellule in risposta a PAMP, IL-1 e TNF. Il recettore
per l’IL-6 consiste in una catena polipeptidica che lega la citochina e in una subunità che trasduce il
segnale. Si induce una cascata di reazioni che porta all’attivazione del fattore di trascrizione STAT3.
Il recettore nella forma inattiva è quindi un dimero, mentre nella forma attiva viene aggregato alla
citochina e a due dimeri, formando un etero dimero.
Quando la citochina prende contatto con una catena da una parte e con una catena dall’altra
(dimero), le molecole del recettore si avvicinano tra loro, permettendo l’attivazione del primo
enzima che si trova subito sotto la membrana citoplasmatica. Nel nostro caso specifico, l’enzima
JAK è una tirosina chinasi; la tirosina ha la funzione di fosforilare le proteine, per cui la JAK fosforila
una proteina bersaglio, che in prima istanza è il recettore stesso. Il recettore fosforilato funziona
come una “calamita” per una seconda proteina, implicata in questo processo, che è il fattore di
trascrizione STAT. Quindi, quando il recettore viene fosforilato, viene attirato verso il recettore
stesso, che nella sua parte citoplasmatica si troverà in vicinanza fisica con il fattore di trascrizione
STAT, presente nel citoplasma. JAK, ancora attivo, fosforila il fattore trascrizionale STAT,
convertendolo nella forma attiva. Questo avviene perché STAT fosforilato è indotto a dimerizzare e
questa nuova forma dimerica è in grado di traslocare dal citoplasma al nucleo. Quando STAT arriva
nel nucleo, può raggiungere il gene che codifica per una certa citochina, oppure una certa selectina,
oppure ancora una citochina infiammatoria, e da lì la cellula è in grado di svolgere la sua funzione.
Ricordiamo che IL-6 si deve sempre “contestualizzare” dove già è presente TNF e IL-1 (TRIADE
INFIAMMATORIA).
L’IL-6 può attivare risposte mediate dai linfociti T pro-infiammattori, come i TH17 ed è inoltre in
grado di inibire una particolare categoria di linfociti T, quelli regolatori, permettendo di mantenere
un livello sostenibile di infiammazione.

4. ALTRE CITOCHINE DELL’IMMUNITA’ INNATA:


• IL-12: è secreta dalle cellule dendritiche e dai macrofagi e stimola la produzione di IFN-γ da
parte delle NK e dei linfociti T; promuove la citotossicità dei linfociti CD8 e CD8+ delle NK e
la differenziazione delle cellule Th1. Sembra che questa citochina sia anche importante per
la resistenza dell’ospite ai batteri intracellulari e ad alcuni virus. Infatti, pazienti con
mutazioni delle subunità β1 del recettore per l’IL-12 sono altamente sensibili a infezioni da
parte di batteri intracellulari e, più precisamente, Salmonella e micobatteri atipici. Inoltre,
l’IL-12 secreta dalle cellule dendritiche durante la presentazione dell’antigene ai linfociti T
CD4+ naive promuove la loro differenziazione in cellule Th1, importanti per la difesa dalle
infezioni intracellulari (questo è il meccanismo fondamentale con cui l’immunità innata
plasma le risposte immunitarie adattive).
In conclusione, prima della produzione degli IL-12 abbiamo la triade infiammatoria,
processo infiammatorio di reclutamento leucocitario. Dopo la produzione di IL-12, viene
prodotto l’Interferone γ, aumentando l’attività citotossica.
• IL-18: attiva le funzioni delle NK e la sua produzione dipende dall’inflammasoma, così come
accade per IL-1.
• IL-15: svolge importanti funzioni di stimolazione della crescita e della sopravvivenza delle
cellule NK e dei linfociti T. Può essere espressa sulla superficie cellulare legata alla catena α
del suo recettore e, in questa forma, può essere presentata alle cellule limitrofe che
esprimono un recettore composto dalle catene β e γ. L’IL-15 promuove la produzione di
IFN-γ e funge inoltre da fattore di sopravvivenza per le NK e i linfociti T CD8+ della
memoria.

Durante l’infiammazione acuta, un elevato numero di neutrofili e successivamente anche di monociti


abbandona il torrente ematico per accumularsi nei tessuti. Sia il TNF che l’IL-1 inducono l’espressione di E-
selectina e aumentano quella di ICAM-1 e VCAM-1, i ligandi delle integrine leucocitarie espressi
dall’endotelio delle venule post-capillari. Questi cambiamenti sono il risultato dell’attivazione di fattori
trascrizionali (come NF-kB) che attivano la trascrizione dei geni per queste molecole. Anche l’espressione di
P-selectina risulta aumentata, ma ciò è in larga parte dovuto all’azione dell’istamina e della trombina, che
stimolano la rapida mobilizzazione verso la superficie cellulare della P-selectina che normalmente è
conservata all’interno dei granuli delle cellule endoteliali. Il TNF e l’IL-1 stimolano anche la produzione di
chemochine quali CXCL1 e CCL2, che legando i rispettivi recettori su neutrofili e monociti, stimolano
l’affinità delle integrine leucocitarie per i propri ligandi. In questo modo, viene aumentata l’adesione di
neutrofili e monociti alle cellule endoteliali e la loro transmigrazione attraverso la parete dei vasi. I leucociti
si accumulano nei tessuti, formando l’infiltrato infiammatorio. Le azioni del TNF sull’endotelio e sui leucociti
sono fondamentali per sviluppare un’adeguata risposta locale ai microbi. Infine, TNF, IL-1 e IL-6 prodotti nei
siti infiammatori possono entrare in circolo ed essere trasportati al midollo osseo, dove incrementano la
produzione di neutrofili a partire da progenitori midollari, normalmente agendo in concerto con i fattori di
stimolazione delle colonie. In questo modo, le citochine pro infiammatorie aumentano la disponibilità di
cellule infiammatorie che possono essere reclutate ai siti di infezione.

I neutrofili e i macrofagi reclutati nei siti di infezione inglobano i microbi all’interno di vescicole attraverso
la fagocitosi e successivamente li eliminano. La fagocitosi è un processo attivo che porta a consumo
energetico; le vescicole fagocitiche si fondono con i lisosomi, dove le particelle integre vengono degradate;
in questo modo, i meccanismi di uccisione, che sarebbero potenzialmente in grado di danneggiare il
fagocita stesso, rimangono isolati dal resto della cellula. I neutrofili ed i macrofagi esprimono recettori in
grado di riconoscere in modo specifico i microbi e il legame dei microbi a tali recettori rappresenta l’inizio
del processo di fagocitosi. Alcuni di questi recettori sono PRR, che contribuiscono esclusivamente alla
fagocitosi dei microrganismi che esprimono particolari profili molecolari, come il mannosio. I fagociti
esprimono anche recettori ad alta affinità per alcune opsonine, come gli anticorpi, le proteine del
complemento e le lectine. Gli anticorpi rappresentano una delle opsonine più efficienti: i fagociti esprimono
FcγRI, un recettore ad alta affinità per il frammento Fc delle IgG; per cui, in corso di un’infezione che
coinvolge la produzione di IgG, queste ultime, legandosi all’antigene, vengono riconosciute attraverso i
recettori FcγRI espressi dai fagociti; questo riconoscimento promuove la fagocitosi dei microbi.

Non appena un microbo o un suo frammento legano a un recettore fagocitico, la regione della membrana
plasmatica in cui si trova il recettore comincia a riarrangiarsi per formare una protrusione che si espanderà
fino a raggiungere le dimensioni necessarie a racchiudere la particella e a richiudersi, formando una
vescicola intracellulare (FAGOSOMA). I recettori di membrana che riconoscono il patogeno inviano anche
segnali di attivazione che stimolano le attività microbicide dei fagociti.

Neutrofili e macrofagi attivati uccidono i microrganismi fagocitati attraverso la produzione di molecole


microbicide nei fagolisosomi. Le tre principali molecole microbicide sono:

1. SPECIE REATTIVE ALL’OSSIGENO: macrofagi e neutrofili attivati convertono l’ossigeno molecolare in


specie reattive dell’ossigeno (ROS), agenti ossidanti ad alta reattività che distruggono i microbi. Il
principale sistema per generare radicali liberi è quello dell’ossidasi fagocitica che riduce l’ossigeno
molecolare in ROS su stimolazione dell’IFNγ e degli attivatori dei TLR. Tra i ROS prodotti c’è anche il
radicolare superossido, dismutato in perossido di idrogeno, usato dall’enzima mieloperossidasi per
convertire composti alogeni, normalmente non reattivi, in acidi ipoalogenati tossici. Questo
processo è detto BURST (ESPLOSIONE) RESPIRATORIO. L’ossidasi fagocitica, inoltre, produce
all’interno delle vescicole fagocitiche le condizioni adatte affinchè enzimi proteolitici possano
svolgere la loro azione, generando un gradiente elettrochimico e un movimento di ioni all’interno
del vacuolo, facendo così diminuire il pH, condizione necessaria per l’attivazione dell’elastasi e della
catepsina G. Nella malattia granulomatosa cronica, si ha un deficit di ossidasi fagocitica che
compromette la capacità battericida dei neutrofili.
2. MONOSSIDO DI AZOTO (NO): viene prodotto dai macrofagi a partire dall’iNOS, enzima
citoplasmatico indotto in risposta a prodotti microbici. Esso catalizza la reazione da arginina a
citrullina, con rilascio di NO, gas liberamente diffusibile. All’interno dei fagolisosomi, il NO può
combinarsi con il perossido o con il superossido di idrogeno per produrre il perossinitrito, un
radicale altamente reattivo in grado di uccidere i microbi.
3. ENZIMI PROTEOLITICI: nei neutrofili, uno dei più importanti enzimi proteolitici è dato dall’elastasi,
una serinproteasi ad ampio spettro, necessaria per l’uccisione di molte specie batteriche. Un altro
enzima proteolitico è la catepsina G.

I neutrofili uccidono i microbi anche con estrusione del DNA e del contenuto dei granuli, noto come
“trappola extracellulare” o NET. La NET è costituita da filamenti di DNA e istoni, ai quali sono legate elevate
concentrazioni di molecole antimicrobiche contenute nei granuli, tra cui lisozima, elastasi e defensine. Le
NET si formano quando i neutrofili si legano alla matrice tissutale mediante l’integrina Mac-1 e sono attivati
dai prodotti microbici. L’estrusione del contenuto nucleare in corso di formazione dei NET porta alla morte
dei neutrofili.

Oltre alla capacità di uccidere i microbi fagocitati, i macrofagi producono anche fattori di crescita per
fibroblasti e cellule endoteliali che partecipano al rimodellamento dei tessuti danneggiati dall’infezione.

Le citochine svolgono anche effetti sistemici che contribuiscono alla difesa dell’ospite:

1. Il TNF, l’IL-1 e IL-6 agiscono sull’IPOTALAMO per indurre un aumento della pressione corporea
(febbre), attraverso la sintesi di prostaglandine nelle cellule ipotalamiche. Il ruolo dell’innalzamento
della temperatura è correlata all’aumento del metabolismo delle cellule del sistema immunitario,
alla diminuzione di quello microbico e a modificazione del comportamento del’ospite che riducono
i rischi di peggiorare l’infezione e il danno.
2. L’IL-1 e l’IL-6 inducono gli epatociti a produrre e immettere in circolo proteine di fase acuta quali
PCR, SAP e fibrinogeno. Nella pratica clinica, livelli elevati di proteine di fase acuta sono considerati
segnali di infezione o della presenza di processi infiammatori.

Nelle infezioni gravi, il TNF può essere prodotto in grandi quantità e determinare anomalie sistemiche:

1. Inibisce la contrattilità del miocardio e il tono della muscolatura dei vasi, causando caduta della
pressione arteriosa e shock.
2. Può causare trombosi intravascolare determinando una compromissione delle normali proprietà
anticoagulanti delle superficie endoteliali. Il TNF, infatti, stimola in queste cellule la sintesi del
fattore tissutale, un potente attivatore della coagulazione; contemporaneamente, il TNF inibisce
l’espressione della trombomodulina, un potente inibitore del processo di coagulazione. Queste
alterazioni sono accentuate dalla concomitante attivazione dei neutrofili che causano l’ostruzione
dei capillari.
3. La persistente produzione di TNF causa un danno al tessuto muscolare e adiposo, definito come
cachessia. Tale fenomeno, caratterizzato da evidente deperimento fisico, è causato principalmente
dalla soppressione dell’appetito.

Una sindrome definita SHOCK SETTICO, causata dall’LPS dei batteri gram-negativi (shock endotossico)
oppure dall’acido lipoteicoico rilasciato dai batteri gram-positivi, costituisce una complicanza delle sepsi
batteriche gravi. Comporta collasso cardiocircolatorio, coagulazione intravascolare disseminata e gravi
alterazioni metaboliche. Esso è dovuto all’attivazione dei TLR da parte dell’LPS o dell’acido lipoteicoico, che
comporta un’abnorme produzione di TNF e altre citochine, come IL-2, IL-1, ecc. Nei pazienti con sepsi, non
si sono ottenuti risultati apprezzabili né utilizzando anticorpi anti-TNF né impiegando recettori solubili per
questa citochina. Una sindrome simile allo shock settico può verificarsi per complicanza di malattie non
infettive, come ustioni gravi, trauma, pancreatite e altre condizioni severe. Si tratta della cosiddetta
“sindrome da risposta infiammatoria sistemica”.

L’infiammazione acuta può essere causata da un danno tissutale, poiché i meccanismi effettori utilizzati dai
fagociti per uccidere i microbi sono tossici anche per i tessuti dell’ospite.

Vediamo ora di comprendere come l’immunità innata reagisce alle INFEZIONI VIRALI: il meccanismo
principale è la produzione di IFN di tipo I, la cui azione principale è l’inibizione della replicazione virale. Con
il termine di IFN di tipo I si intende una vasta famiglia di citochine correlate dal punto di vista strutturale e
funzionale, che mediano la risposta immunitaria innata alle infezioni virali. Il termine “interferone” descrive
la capacità di queste citochine di interferire con lo sviluppo dell’infezione virale. Esistono diversi tipi di IFN
di tipo I, strutturalmente omologhi e codificati da un cluster di geni presenti sul cromosoma 9. I più
importanti per le difese antivirali sono gli IFN-α (13 diverse proteine) e l’IFN-β. Le cellule dendritiche
plasmacitoidi sono la principale fonte di IFN-α, prodotto anche dai fagociti mononucleati; invece, l’IFN-β
viene prodotto da svariati tipi cellulari. Gli acidi nucleici virali sono il principale stimolo che ne induce la
produzione. Sia l’IFN-α che l’IFN-β legano un unico recettore eterodimerico denominato “recettore per gli
IFN di tipo I”, espresso in maniera ubiquitaria. Questo recettore:

• Conferisce il cosiddetto “stato antivirale” alle cellule bersaglio, ovvero resistenza alle infezioni
virali. Questa azione si esplica principalmente a livello paracrino in cui la cellula infettata secerne
IFN che agiscono sulle cellule limitrofe, non ancora infettate, rendendole resistenti. Gli effetti degli
IFN di tipo I non sono specifici per i virus e parte della capacità di bloccare la diffusione
dell’infezione è ascrivibile alla loro tossicità per le cellule dell’ospite poste nelle vicinanze delle
cellule infette. L’IFN può anche agire in modo autocrino, inibendo la replicazione virale nella cellula
che l’ha prodotto.
• Segrega i linfociti nei linfonodi , per massimizzare l’opportunità di incontro con l’antigene. Ciò
avviene grazie all’espressione della proteina CD69.
• Aumenta la citotossicità delle NK e dei linfociti CD8+ citotossici e differenzia i linfociti T naive in
cellule effettrici Th1, stimolando sia la risposta innata che quella adattiva.
• Aumenta l’espressione di molecole MHC di classe I, per aumentare la probabilità che le cellule
infettate siano riconosciute e uccise dai linfociti CD8+ citotossici.

L’IFN-α viene usato in clinica in alcune forme di epatite virale; inoltre, probabilmente perché stimola
l’attività dei linfociti T CD8 citotossici o inibisce la proliferazione cellulare, si è dimostrato efficace per il
trattamento di alcuni tumori. L’IFN-β è usato come terapia per la sclerosi multipla.

La protezione contro i virus si esercita anche mediante l’attivazione di meccanismi apoptotici intrinseci e
l’aumento della sensibilità a stimoli apoptotici estrinseci nelle cellule infettate. Le proteine virali sintetizzate
nelle cellule infettate possono avere una conformazione terziaria non corretta e il loro accumulo può
culminare nell’apoptosi della cellula stessa. Inoltre, le cellule infettate da virus sono particolarmente
sensibili all’apoptosi causata da TNF. Quindi, il recettore di tipo I per il TNF attiva sia vie proinfiammatorie
che vie proapoptotiche.
Gli acidi nucleici virali vengono riconosciuti da molecole sensore dette SIGH, oppure da recettori che si
trovano negli endosomi. Anche in questo caso, il recettore è basato sul sistema JAK-STAT.

Nella cellula in cui viene prodotto l’interferone contro l’infezione virale, viene prodotta la protein chinasi R,
che blocca in maniera specifica il processo di traduzione delle proteine del virus. Poiché il virus per
replicarsi ha bisogno dell’apparato cellulare della cellula infetta, la cellula in presenza di interferone α è in
grado di bloccare il processo di replicazione del virus. Un’altra azione importante è quella svolta dalla 2’-5’-
oligosintetasi, enzima in grado di degradare in maniera specifica l’RNA virale, impedendo allo stesso modo
la replicazione del virus; inoltre, viene attivato un altro enzima ancora che blocca l’assemblaggio fisico delle
particelle virali, impedendo la diffusione virale all’esterno della cellula infetta.

Vediamo ora come viene attivata l’immunità adattiva. L’immunità innata fornisce segnali che agiscono di
concerto con l’antigene per stimolare la proliferazione e il differenziamento di linfociti T e B specifici,
attivando quindi la risposta adattiva specifica. La stimolazione dei linfociti richiede due segnali distinti: il
primo è il riconoscimento dell’antigene, mentre il secondo è rappresentato da molecole prodotte
dall’immunità innata contro microbi e cellule danneggiate. Questo modello viene definito “ipotesi del
doppio segnale” per l’attivazione linfocitaria: la presenza dell’antigene (segnale 1) assicura che la risposta
sia specifica, mentre gli stimoli forniti dal riconoscimento microbico o dalle reazioni innate contro i microbi
(segnale 2) assicura che ci sia attivazione solo in presenza di infezione e non quando i linfociti riconoscono
antigeni non pericolosi, quali i self. Tra le molecole dell’immunità innata coinvolte ricordiamo le proteine
costimolatorie per i linfociti T, le citochine per linfociti T e B e prodotti di degradazione del complemento
per i linfociti B.

I segnali generati durante le risposte immunitarie innate anti-microbiche non solo amplificano l’entità della
risposta adattiva, ma ne influenzano anche la natura. Un’importante funzione dell’immunità cellulare è
quella di attivare i macrofagi a uccidere i microrganismi intracellulari e a indurre robuste risposte
infiammatorie; per cui, la risposta innata dei macrofagi ai microbi stimola la risposta adattiva dei linfociti T
che è efficace contro tali microbi. Viceversa, numerosi microbi extracellulari che entrano nel sangue
attivano la via del complemento, che promuove la produzione di anticorpi da parte dei linfociti B; questi
anticorpi opsonizzano i microbi, promuovendone la fagocitosi o l’uccisione.

Le citochine prodotte dalle cellule dell’immunità innata stimolano la proliferazione e il differenziamento dei
linfociti:

• L’IL-12 stimola il differenziamento dei linfociti T CD4+ naive in cellule effettrici Th1;
• L’IL-1, l’IL-6 e l’IL-23 stimolano il differenziamento dei linfociti T CD4+ naive in cellule effettrici
Th17;
• L’IL-15 favorisce la sopravvivenza dei linfociti T CD8+ della memoria;
• L’IL-6 promuove la produzione di anticorpi da parte di linfociti B attivati.

Gli adiuvanti, sostanze che vengono somministrate insieme agli antigeni proteici purificati per poter
stimolare in modo ottimale una risposta T, hanno proprio il compito di stimolare le risposte innate nel sito
di esposizione all’antigene; essi sono implicati nella produzione dei vaccini e nell’immunologia
sperimentale. Gli effetti degli adiuvanti, tra cui il più utilizzato è l’idrossido di alluminio, sono quelli di
aumentare l’espressione di molecole MHC, di molecole costimolatorie e di citochine necessarie per
l’attivazione dei linfociti T e per la loro migrazione verso i linfonodi.
È opportuno sottolineare che l’entità e la durata delle risposte innate dipendono da meccanismi inibitori
che sono importanti per limitare il danno tissutale. L’IL-10, ad esempio, è proprio una citochina che,
prodotta da macrofagi e cellule dendritiche, ne inibisce l’attivazione. Essa inibisce la produzione di diverse
citochine pro infiammatorie quali l’IL-1, il TNF e l’IL-12. Essendo prodotta dalle stesse cellule che ne
rappresentano il bersaglio finale, agisce tramite un meccanismo di feedback negativo. I fagociti
mononucleati producono un antagonista naturale dell’IL-1, a essa strutturalmente omologo ma
biologicamente inattivo, il quale agisce perciò da inibitore competitivo: esso è infatti chiamato “antagonista
recettoriale dell’IL-1” (IL-1RA). La produzione di IL-1RA è attivata dalla maggior parte degli stimoli che
inducono anche l’IL-1 e la sua espressione è fondamentale per impedire l’insorgenza di malattie
infiammatorie delle articolazioni e di altri tessuti.

La secrezione di citochine infiammatorie nei diversi tipi cellulari può essere regolata dai prodotti dei geni
dell’autofagia. È stato osservato che mutazioni dei geni coinvolti nel processo autofagico predispongano
allo sviluppo di malattie intestinali.

Infine, esistono numerose vie di trasduzione inibitorie che bloccano i segnali attivatori generati dai PRR e
dalle citochine pro infiammatorie, tra cui le SOCS (proteine soppressorie del segnale citochimico).

CAPITOLO 5: ANTICORPI E ANTIGENI

Gli anticorpi sono proteine circolanti prodotte in seguito all’esposizione ad agenti estranei, chiamati
antigeni. Essi sono incredibilmente diversi e specifici nel riconoscere strutture molecolari estranee e sono i
mediatori dell’immunità umorale nei confronti di un ampio spettro di microbi. Anticorpi, complesso
maggiore di istocompatibilità e recettori per l’antigene dei linfociti T sono le tre classi di molecole usate
dall’immunità adattiva per legare l’antigene; di queste tre classi, gli anticorpi rappresentano quella in grado
di legare il maggior numero di antigeni, che ha la maggiore capacità di discriminare tra antigeni diversi e,
infine, che ha la maggior forza di legame con l’antigene stesso.

Gli anticorpi sono prodotti esclusivamente dai linfociti B in due distinte forme:

• Anticorpi associati alla superficie dei linfociti B, dove agiscono come recettori per l’antigene
• Anticorpi secreti, che neutralizzano le tossine, prevengono l’entrata e la proliferazione dei
patogeni nell’ospite ed eliminano i microbi stessi. Possono localizzarsi nel plasma, nelle
secrezioni mucose e nel fluido interstiziale. Nella fase effettrice, questi anticorpi si legano agli
antigeni, innescando meccanismi effettori.

Il riconoscimento dell’antigene da parte degli anticorpi presenti sulla membrana dei linfociti B naive induce
l’attivazione e l’inizio della risposta umorale. Una volta attivati, i linfociti B si differenziano in plasmacellule
che secernono anticorpi dotati della stessa specificità del recettore per l’antigene.

L’eliminazione dell’antigene richiede spesso l’interazione tra anticorpo e altre componenti dell’immunità
innata, tra cui le proteine del complemento e alcuni tipi cellulari, come i fagociti e gli eosinofili. Le funzioni
effettrici anticorpo-mediate comprendono:

1. La neutralizzazione dei microbi e delle loro tossine: previene l’ingresso non solo di batteri, ma
anche dei virus. Gli anticorpi neutralizzati sono un’ottima difesa prima dell’ingresso dei virus.
Quando un virus infetta la cellula, devono essere reclutate le NK e i linfociti T citotossici. Gli
anticorpi possono comunque essere in grado di prevenire un’infezione virale, tant’è che è proprio
su questo meccanismo che si basano i vaccini: la somministrazione di virus inattivati consente la
produzione di anticorpi neutralizzati IgG e IgA che proteggeranno nel caso in cui ci fosse
un’infezione futura da tali virus. Questi anticorpi hanno anche la funzione di limitare la diffusione
dell’infezione che prevengono, potendo neutralizzare anche le tossine batteriche. Tanti batteri
svolgono le loro funzioni letali tramite la produzione di tossine, come nel caso del tetano o della
difterite; durante la vaccinazione, viene iniettata una forma inattiva della tossina, chiamata
tossoide; nonostante l’inattività, la tossoide è comunque in grado di generare una risposta
immunitaria che consente lo sviluppo di anticorpi specializzati.
2. L’attivazione del complemento: avviene grazie alle IgM e alle IgG, che mediano la via classica.
Anche le IgE, grazie alla loro conformazione pentamerica, sono in grado di attivare il complemento.
3. L’opsonizzazione degli antigeni per facilitarne la fagocitosi: esistono vari recettori, come quelli FC,
che consentono di legare gli anticorpi tramite le loro porzione costante e di simulare la fagocitosi.
Le IgG sono ottime opsonine. Per il vaccino Haemophilus influenzae o per il batterio Neisseria
meningitidis, gli anticorpi IgG e IgM sono in grado di stimolare la fagocitosi.
4. La citotossicità mediata dagli anticorpi, attraverso cui le cellule dell’immunità innata riconoscono
ed eliminano le cellule infettate opsonizzate. Le IgE sono in grado di uccidere alcuni tipi di parassiti,
come gli elminti, perché in seguito all’interazione con i recettori FC, vengono reclutati eosinofili
che, rilasciando il loro contenuto granulare enzimatico, uccidono quei parassiti che sono troppo
grandi per essere fagocitati.
5. L’attivazione degli eosinofili per eliminare elminti e parassiti.

Quando il sangue o il plasma formano un coagulo, gli anticorpi restano nella fase fluida (siero); il siero non
contiene fattori di coagulazione, ma possiede tutte le proteine del plasma. Il siero con un numero rilevabile
di anticorpi specifici per un determinato antigene prende comunemente il nome di “antisiero”. Un adulto
sano di 70 kg produce ogni giorno circa 2-3 g di anticorpi, due terzi dei quali costituiti da IgA, prodotti dai
linfociti B attivati e dalle plasmacellule presenti a livello delle mucose del tratto gastrointestinale e
respiratorio e attivamente trasportati attraverso le cellule epiteliali nel lume di questi tratti.

Le proteine plasmatiche o sieriche possono essere fisicamente separate in base alla loro solubilità in
albumine e globuline e possono essere ulteriormente distinte in basa alla loro capacità di migrare in un
campo elettrico (elettroforesi). A seconda della diversa velocità di migrazione elettroforetica le globuline
sono separate in vari gruppi; la maggior parte degli anticorpi migra nelle globuline che costituiscono il terzo
gruppo (gamma-globuline). L’elettroforesi siero proteica viene detta “protidogramma” e permette di
distinguere le proteine del siero in cinque frazioni principali: l’albumina, la globulina α1, la globulina α2, la
globulina β e la globulina γ. Un altro termine utilizzato frequentemente per indicare gli anticorpi è quello di
immunoglobuline, poiché gli anticorpi sono la frazione delle gamma-globuline che conferisce l’immunità. Le
proteine totali circolanti hanno un certo valore ben preciso; quando questo valore si abbassa, siamo in
presenza di un’alterazione a livello epatico o di metabolismo alterato a livello gastrointestinale
(malnutrizione o celiachia); invece, valori alti sono indice di uno stato di infiammazione, infezione o processi
neoplasici. Generalmente, quando la frazione γ aumenta, è in corso un’infezione; quando diminuisce, si può
essere in presenze di malattie genetiche a carico del sistema immunitario (immunodeficienze secondarie),
di formazioni tumorali (mieloma multiplo) o macroglobulinemia (sindrome linfoproliferativa dei linfociti B).
L’agamma-globulinemia è presente in quei pazienti che non sono in grado di produrre anticorpi.
PROTEINA VALORE NORMALE (%)
Albumina 55-68
Alpha 1 2-4.5
Alpha 2 6-12
Beta 7-14
Gamma 9-20

Rivediamo le 5 classi principali di anticorpi sottolineandone le funzioni:

IgM: è una molecola pentamerica di 900kDa, presente nel siero, tenuta insieme da ponti sidolfuro e
dalla catena J, con 4 domini Ch. È la PRIMA ad essere prodotta durante una risposta immunitaria
primaria, quindi livelli elevati di IgM sono indice di una recente esposizione all’antigene. È, inoltre,
la prima immunoglobulina ad essere prodotta dal feto, infatti livelli elevati di IgM alla nascita sono
indice di un’infezione intrauterina. Inizialmente, le IgM si trovano in forma monomerica sulla
membrana plasmatica dei linfociti B maturi, assieme alle IgD, costituendo il recettore per
l’antigene. Hanno funzione agglutinante (isoemoagglutinine, anticorpi naturali della classe IgM
diretti contro gli antigeni A e B degli eritrociti). Sono inoltre in grado di attivare il complemento per
la loro struttura pentamerica e sono molto efficienti come prima linea di difesa contro le infezioni
batteriche, meno contro tossine e virus.
IgG: struttura monomerica di 150 kDa, sono le più numerose nel siero. Ne esistono 4 sotto classi (1,
2, 3, 4), la cui dimensione dipende dalla regione cerniera. Nel siero, la sottoclasse più numerosa è
quella delle IgG1. Sono ottime opsnonine, attivano il complemento tramite la via classica (tranne le
IgG4), neutralizzano bene virus e tossine batteriche e mediano la citotossicità cellulare anticorpo-
dipendente da cellule NK e macrofagi. Svolgono perciò tutte e quattro le funzioni anticorpali. IgG è
l’unico anticorpo che passa attraverso la placenta, conferendo un’immunità al feto e al neonato,
che avrà IgG materno in circolo. Questo è possibile grazie al recettore FCRN che aumenta l’emivita
delle IgG; il passaggio alla placenta avviene tramite transcitosi e acquisizione neonatale.
IgE: struttura monomerica di 200 kDa, presenta 4 domini globulinici Ch che compongono la regione
costante delle catene pesanti. Sono attive nella difesa contro elminti e sono presenti nel siero in
bassissime concentrazioni, poiché la maggioranza di esse sono si trova legata a recettori Fcξ ad alta
affinità, sulla superficie di eosinofili e mastociti. Quando le IgE attivano i mastociti, ci troviamo in
presenza di una condizione patologica: infatti, le IgE possono contribuire alla sintomatologia delle
reazioni allergiche proprio attivando i mastociti.
IgA: sono dimeri presenti soprattutto nelle secrezioni; possono trovarsi anche in forma
monomerica nel siero, ma con funzioni meno rilevanti. Sono ottimi anticorpi neutralizzanti e
possono attraversare le cellule epiteliali grazie al recettore poli-Ig che si lega alla catena J. Sono
rilasciate nel lume delle mucose in seguito a taglio proteolitico. Il componente del recettore che
rimane legato alle IgA viene detto componente secretorio e si lega al muco tramite residui
carboidrati, conferendo una protezione maggiore per le IgA, difendendole dalle proteasi batteriche
intestinali. Le IgA1 sono predominanti nel siero, nelle secrezioni nasali, nelle lacrime, nella saliva e
nel latte; le IgA2 predominano nel colon.
IgD: struttura monomerica a 180 kDa, coespressa con le IgM sulla superficie delle cellule B. Funge
da recettore per l’antigene. Nel siero è presente solo una piccola quantità abbastanza suscettibile
alla degradazione.

Le immunoglobuline svolgono una duplice funzione:


1. Legame con l’antigene
2. Reclutare le molecole/cellule effettrici

Tutti gli anticorpi condividono le stesse caratteristiche di base, ma mostrano una notevole variabilità nelle
regioni che legano l’antigene. La variabilità dei domini che riconoscono l’antigene spiega la capacità dei
diversi anticorpi di legarsi ad un enorme numero di antigeni strutturalmente diversi. Ogni individuo
possiede milioni di differenti cloni di linfociti B, ognuno dei quali in grado di produrre anticorpi con un sito
di legame per l’antigene unico e che quindi ne identifica la specificità per quell’antigene. Le funzioni
effettrici e le proprietà chimico-fisiche degli anticorpi, invece, dipendono dalle porzioni che non legano
l’antigene e sono relativamente costanti. Una molecole anticorpale ha una struttura SIMMETRICA,
composta da due catene leggere e due catene pesanti identiche. Sia le catene leggere che quelle pesanti
contengono una serie di unità omologhe ripetute, ciascuna delle quali di circa 110 aminoacidi, che si
ripiegano a formare una struttura globulare definita DOMINIO Ig; un dominio Ig è formato da due foglietti
β-planari, ciascuno composto da 3-5 “nastri” polipeptidici ad andamento antiparallelo. I due foglietti sono
tenuti insieme da ponti disolfuro e i nastri adiacenti di ogni foglietto β sono connessi da brevi anse, la cui
struttura aminoacidica può essere critica per il riconoscimento dell’antigene. Sia le catene pesanti che
quelle leggere presentano regioni variabili (V) aminoterminali, che partecipano al riconoscimento
dell’antigene, sia regioni costanti (C) carbossiterminali; le regioni C delle catene pesanti sono responsabili
delle funzioni effettrici degli anticorpi. Nelle catene pesanti, la regione V è composta da 1 dominio Ig,
mentre la regione C è composta da 3 o 4 domini Ig. Ciascuna catena leggera è costituita da una regione V
con un singolo dominio Ig e da una regione C con un singolo dominio Ig. Le regioni variabili sono così
chiamate perché le loro sequenze aminoacidiche variano tra gli anticorpi prodotti dai differenti cloni di
linfociti B; la regione V di una catena pesante (VH) e la regione V della adiacente di una catena leggera (VL)
formano il SITO DI LEGAME PER L’ANTIGENE. Poiché ciascuna molecole anticorpale possiede 2 catene
pesanti e 2 catene leggere, ogni anticorpi possiede almeno 2 siti di legame per l’antigene. I domini Ig della
regione costante sono distanti dal sito di legame per l’antigene e non partecipano al riconoscimento. Le
regioni C della catena pesante interagiscono con molecole e cellule effettrici del sistema immunitario
responsabili della maggior parte delle funzioni biologiche svolte dagli anticorpi; inoltre, ci sono due forme di
catene pesanti che sono diverse a livello della loro estremità carbossiterminale: una àncora gli anticorpi alla
membrana plasmatica dei linfociti B, l’altra guida la secrezione degli anticorpi stessi. La regioni C delle
catene leggere non partecipano alle funzioni effettrici degli anticorpi e nemmeno al loro ancoraggio alla
membrana cellulare. Catene leggere e pesanti sono legate tra loro mediante ponti disolfuro, formati tra
residui di cisteina della parte carbossiterminale della catena leggera e il dominio CH1 della catena pesante.
Anche le associazioni non covalenti tra i domini VL e VH e i domini CL e CH1 contribuiscono all’associazione
delle catene pesanti e leggere. In modo analogo, anche le due catene pesanti sono legate da ponti
disolfuro.
Nelle molecole di IgG, la regione cerniera non ripiegata tra i domini CH1 e CH2 della catena pesante,
costituisce il segmento più sensibile all’azione degli enzimi proteolitici. Quando le IgG vengono trattate con
papaina in condizioni di proteolisi limitata, l’enzima agisce a livello della regione cerniera e taglia la IgG in
tre pezzi separati. Due di questi pezzi sono identici tra loro e sono costituiti dalle catene leggere intere (VL e
CL) associate al frammento VH-CH1 della catena pesante. Questi frammenti mantengono la capacità di
legare l’antigene perché contengono i domini VL e VH appaiati e vengono chiamati “frammento con il sito
di legame per l’antigene” (Fab). Il terzo pezzo è composto da due polipeptidi identici legati da ponti
disolfuro, ognuno contenente i domini CH2 e CH3 della catena pesante. Questi frammenti di IgG tendono
ad aggregarsi tra loro e a cristallizzare formando un reticolo; sono perciò chiamati “frammenti
cristallizzabili” (Fc). Quando invece della papaina si utilizza la pepsina, la proteolisi avviene in un punto
distale rispetto alla regione cerniera, dando origine ad un frammento F(ab’)2, dotato di due identici siti di
legame all’antiene e che mantiene infatti la regione cerniera e i ponti disolfuro tra le catene.

Tutte le molecole che contengono domini simili alle Ig, con due foglietti β planari tenuti insieme da ponti
disolfuro, appartengono alla superfamiglia delle Ig. I domini Ig sono classificati come di tipo V o di tipo C: i
domini V sono formati da un polipeptide di lunghezza maggiore rispetto ai domini C e contengono due
ulteriore foglietti β. vediamo alcuni esempi di proteine della superfamiglia Ig:
Le maggiori differenze nella sequenza e nella variabilità degli anticorpi si concentrano in tre brevi segmenti
della regione VH e in tre brevi segmenti della regione VL. Questi segmenti dotati di maggior diversità sono
definiti regioni ipervariabili e corrispondono alle tre anse che fuoriescono dalla struttura e che connettono i
nastri adiacenti dei foglietti β che costituiscono i domini V delle catene pesanti e leggere delle Ig. Le regioni
ipervariabili hanno una lunghezza di circa 10 aminoacidi e sono tenute assieme da un’intelaiatura
altamente conservata, che costituisce il dominio Ig della regione V. Le regioni ipervariabili si associano per
creare una struttura tridimensionale che costituisce il sito di legame con l’antigene; esse sono anche dette
“regioni che determinano la complementarietà” (CDR). Partendo dalle estremità aminoterminali dei domini
VL o VH, queste regioni sono chiamate rispettivamente CDR1, CDR2 e CDR3; le regioni CDR3 dei segmenti
VH e VL sono quelle che presentano il maggior grado di variabilità. È proprio la diversificazione delle
sequenze CDR presente nei vari anticorpi a generare strutture uniche, esposte sulla superficie delle anse,
che determinano la differente specificità dei diversi anticorpi. La capacità di una regione V di ripiegarsi a
formare un dominio Ig è determinata soprattutto dalle sequenze altamente conservate dei tratti adiacenti
alle regioni CDR. La capacità degli anticorpi di legare l’antigene dipende principalmente dalle regioni
ipervariabili di VH e VL. Il contatto con l’antigene più esteso avviene a livello della terza regione (CDR3), che
è anche quella col maggior grado di variabilità.

Gli anticorpi possono essere suddivisi in classi e sottoclassi sulla base di differenze presenti nella struttura
delle regioni C delle catene pesanti. Le classi anticorpali sono anche chiamate isotipi e sono denominate
IgA, IgD, IgE, IgG e IgM; le classi IgA e IgG possono essere ulteriormente suddivise in sottoclassi,
denominate IgA1, IgA2, IgG1, IgG2, IgG3 e IgG4. Le regioni C delle catene pesanti di tutti gli anticorpi di uno
stesso isotipo o sottotipo hanno essenzialmente LA STESSA SEQUENZA AMINOACIDICA. Questa sequenza è
diversa negli anticorpi di altri isotipi o sottotipi. Le catene pesanti vengono indicate con le lettere
dell’alfabeto greco corrispondenti all’isotopo dell’anticorpo: le IgA1 contengono le catene pesanti α1; le
IgA2 contengono le catene pesanti α2; le IgD le catene δ; le IgE le catene ξ; le IgG le catene γ; le IgM le
catene μ. Nelle IgM e nelle IgE umane, le regioni C contengono quattro domini Ig; le regioni C delle IgG, IgA
e IgD contengono invece solo tre domini Ig. I domini costanti delle catene peasnti sono chiamati CH e
numerati a partire dall’estremità amino terminale in direzione di quella carbossiterminale. Le diverse classi
e sottoclassi di anticorpi svolgono funzioni diverse, mediate dal legame delle regioni CH a recettori per il
frammento cristallizabile (FcR) presenti sui diversi tipi cellulari (fagociti, NK, mastociti).
Gli anticorpi sono molecole flessibili in grado di legarsi a diversi tipi di antigeni. Ogni molecola anticorpale
contiene almeno due siti di legame per l’antigene, ognuno formato da una coppia di domini VH e VL. Molte
Ig possono orientare questi siti in modo che due antigeni posti su una superficie piana possano essere legati
contemporaneamente. Questa flessibilità deriva principalmente dalla regione cerniera, situata tra i domini
CH1 e CH2 di alcuni isotipi. Essa ha dimensioni comprese tra i 10 e i 60 aminoacidi; le sue porzioni
assumono una forma non ripiegata e flessibile che permette una torsione tra le regioni CH1 e CH2. A questo
livello si concentrano alcune delle più importanti differenze tra le varie classi di Ig. Inoltre, la flessibilità
delle molecole anticorpali è dovuta alla capacità di ciascun dominio VH di ruotare rispetto al dominio CH1
adiacente.

Esistono due classi o isotipi di catene leggere, chiamate К e λ, che si differenziano per la regione C
carbossiterminale. Un anticorpo è costituito da due catene leggere К o da due catene leggere λ, ma mai da
una catena leggera di un tipo e una dell’altro. Nell’uomo, il 60% circa degli anticorpi è dotato di catene К,
mentre il 40% da catene λ (questi rapporti possono variare in corso di tumore delle cellule B). Gli anticorpi
possono essere espressi in forma secreta o associata alla membrana, in base alla sequenza di aminoacidi C-
terminale dell’ultimo dominio della regione CH. Nella forma secreta, che è presente nel sangue e nei fluidi
extracellulari, la porzione carbossiterminale è idrofila. La forma di membrana contiene una porzione
carbossiterminale che include due segmenti: una regione àncora transmembrana idrofobica ad α-elica,
seguita da una regione intracellulare composta da aminoacidi carichi positivamente che si legano alle teste
cariche negativamente dei fosfolipidi sul lato interno della membrana plasmatica, stabilizzando l’ancoraggio
della proteina. Questa parte citoplasmatica della catena pesante può essere corta (IgM e IgD) oppure lunga
(IgG e IgE). Le forme secrete di IgG e IgE sono monometriche; al contrario, le forme secrete di IgM e IgA
formano complessi multimerici, pentameri o esameri per le IgM e dimeri per le IgA. Questi complessi si
formano grazie alle interazioni tra regioni, definite sequenze di coda, posizionate all’estremità
carbossiterminale delle catene pesanti μ e α. I multimeri di IgA e IgM contengono anche un polipeptide
addizionale, denominato catena J, legato da ponti disolfuro e deputato alla stabilizzazione del complesso
stesso e al trasporto dei multimeri verso il versante luminale degli epiteli.

Anticorpi di specie diverse differiscono tra loro nelle regioni C e in quelle intorno alle regioni V; perciò,
quando gli anticorpi di una specie sono inoculati in un’altra, il ricevente li riconosce come estranei,
sviluppando una risposta immunitaria e producendo anticorpi soprattutto contro le regioni C degli anticorpi
estranei. Invece, anticorpi di individui che appartengono alla stessa specie presentano piccole differenze di
sequenza, dovute ai polimorfismi dei geni che codificano le regioni C delle catene pesanti e di quelle
leggere. Le varianti polimorfe degli individui di una specie che sono riconosciute da anticorpi vengono
chiamate allotipi e gli anticorpi che riconoscono determinanti allotipici sono detti anticorpi antiallotipo. Le
differenze tra le regioni variabili sono concentrate nelle CDR e costituiscono gli idiotipi degli anticorpi. Un
anticorpo che riconosce alcuni punti delle CDR di un altro anticorpi viene chiamato anticorpo anti-idiotipo,
che costituiscono un sistema di controllo della risposta immunologica di un individuo.

I tumori delle plasmacellule (mielomi e plasmocitomi) sono tumori monoclonali e producono quindi
anticorpi dotati di una singola specificità, in molti casi sconosciuta. La possibilità di creare anticorpi
monoclonali si basa sulla fusione di linfociti B provenienti da un animale immunizzato con una linea di
cellule di mieloma immortalizzate, coltivando le cellule in condizioni tali che le cellule normali e quelle
tumorali che non si sono fuse non possano sopravvivere. Le cellule che ne derivano sono chiamate
ibridomi, che producono un solo tipo di Ig che deriva da un singolo clone di linfociti B dell’animale
immunizzato. I prodotti di questi cloni sono gli anticorpi monoclonali, ognuno dei quali è specifico per un
epitopo (determinante antigenico) dell’antigene utilizzato per l’immunizzazione dell’animale e per
individuare i cloni di ibridomi immortalizzati secerenenti gli anticorpi.

Gli anticorpi monoclonali hanno molte applicazioni pratiche:

1. Identificazione di marcatori caratteristici di un particolare tipo cellulare.


2. Immunodiagnosi: molte infezioni e malattie sistemiche vengono oggi diagnosticate in base alla
presenza di particolari antigeni, oppure di anticorpi nel sangue, nelle urine o tessuti, mediante
l’utilizzo di anticorpi monoclonali specifici per un determinato marcatore diagnostico.
3. Tipizzazione dei tumori.
4. Terapia: grazie alla loro elevata specificità, gli anticorpi monoclonali permettono di colpire una
grande varietà di bersagli.
5. Analisi funzionale di molecole solubili o di membrana.

(Vedi focus a fine capitolo).

Le catene pesanti e leggere delle Ig sono sintetizzate sui ribosomi ancorati alla membrana del reticolo
endoplasmatico rugoso. La proteina trasloca poi nel reticolo endoplasmatico e le catene pesanti delle Ig e la
loro associazione con le catene leggere sono regolati da proteine localizzate nel RE dette chaperonine. Tali
proteine si legano ai polipeptidi delle Ig neo sintetizzate e determinano il loro trattenimento nel reticolo o
l’inizio della loro degradazione sulla base della loro struttura più o meno corretta. Anche l’assemblaggio
(creazione di ponti disolfuro) si verifica nel reticolo. Dopo l’assemblaggio, le molecole di Ig si staccano dalle
chaperonine, vengono convogliate alle cisterne dell’apparato di Golgi, in cui avviene la processazione dei
carboidrati, e gli anticorpi vengono poi trasportati all’interno di vescicole verso la membrana cellulare. Gli
anticorpi in forma di membrana sono ancorati alla membrana stessa, mentre quelli in forma secreta sono
trasportati all’esterno della cellula.

La maturazione dei linfociti B a partire dai precursori midollari è accompagnata da specifiche modificazioni
nell’espressione dei geni delle Ig, che determinano la produzione delle diverse classi anticorpali. Nella linea
differenziativa dei linfociti B, la prima cellula che produce polipeptidi delle Ig è chiamata cellula pre-B;
questa cellula sintetizza la forma di membrana della catena pesante μ. Le catene pesanti μ si associano con
proteine chiamate catene leggere surrogate, formando il recettore delle cellule pre-B; una piccola parte di
questo recettore viene espressa sulla superficie della cellule pre-B. I linfociti B maturi e immaturi
producono catene leggere К o λ, che si associano con le proteine μ per formare le molecole di IgM. I
linfociti B maturi esprimono in membrana le IgM e le IgD; queste Ig di membrana svolgono la funzione di
recettori per l’antigene e danno inizio al processo di attivazione dei linfociti B. I recettori per l’antigene dei
linfociti pre-B e B sono associati non covalentemente ad altre due proteine integrali di membrana, Igα e
Igβ, che trasducono il segnale all’interno della cellula e sono essenziali per l’espressione delle IgM e delle
IgD di superficie. Quando i linfociti B maturi vengono attivati dagli antigeni o da altri stimoli, le cellule si
differenziano in cellule secernenti anticorpi dette PLASMACELLULE. Questo processo è accompagnato
dall’aumento della produzione della forma secreta rispetto alla forma di membrana e dall’espressione di
isotipi della catena pesante diversi dalle IgM e dalle IgD (“switching isotipico delle catene pesanti”).

L’emivita degli anticorpi in circolo si misura come tempo medio necessario affinchè la concentrazione
ematica si riduca alla metà. L’emivita varia a seconda dell’isotipo: per le IgE è di circa 2 giorni, per le IgA è di
circa 3 giorni, per le IgM è di circa 4 giorni e per le IgG si aggira intorno ai 21-28 giorni. Probabilmente la
lunga emivita delle IgG è dovuta al fatto che esse legano un particolare FcR, detto recettore Fc neonatale
(FcRn), che è anche coinvolto nel trasporto delle IgG materne all’intestino del neonato attraverso la
placenta. FcRn impedisce alle IgG legate di dirigersi verso i lisosomi, riciclandole invece sulla superficie
cellulare dove le rilascia a pH neutro, restituendole al circolo. Di solito, le IgG1 e le IgG2 sono longeve e
dunque sono le più efficienti in termini di funzioni effettrici (questa loro caratteristica viene infatti sfruttata
anche per alcune tecniche terapeutiche. Un esempio è fornito dal TNFR-Ig, ottenuto attraverso la fusione
del dominio extracellulare del recettore di tipo II del TNF con un dominio Fc dell’IgG; questa proteine viene
utilizzata nella terapia di alcune patologie autoimmuni, come l’artrite reutomatoide e la psoriasi); le IgG3
hanno una vita relativamente breve, poiché si legano debolmente a FcRn.

Tutte le funzioni degli anticorpi dipendono dalla loro capacità di legare gli antigeni in modo specifico. Gli
anticorpi possono riconoscere come antigene praticamente qualsiasi tipo di molecola biologica: metaboliti,
zuccheri, lipidi, ormoni, carboidrati complessi, fosfolipidi, acidi nucleici e proteine; al contrario, i linfociti T
riconoscono soprattutto i peptidi. Anche se tutti gli antigeni sono riconosciuti da linfociti o da anticorpi
specifici, solo alcuni antigeni sono in grado di attivare i linfociti. Le molecole che innescano una risposta
immunitaria sono definite immunogeni. Di solito, le macromolecole riescono a stimolare efficacemente i
linfociti B ad iniziare una risposta umorale, mentre i composti chimici di più piccole dimensioni possono
legarsi agli anticorpi, ma non sono di per sé in grado di attivare le cellule B. La molecola chimica di piccole
dimensioni viene definita “aptene”, mentre la macromolecola è chiamata “carrier”. Il complesso aptene-
carrier può reagire come immunogeno. Generalmente, ciascun anticorpo si lega soltanto ad una porzione
della macromolecola, definita “determinante” o “epitopo”. Le macromolecole contengono generalmente
moltissimi determinanti, alcuni dei quali possono essere ripetuti e ognuno dei quali è in grado di legarsi ad
un anticorpo. La presenza di più determinanti identici in uno stesso antigene è definita “polivalenza” o
“multi valenza”. La maggior parte delle proteine globulari non contiene determinanti identici ripetuti,
mentre polisaccaridi e acidi nucleici possono contenere, a intervalli regolari, numerosi epitopi identici. La
disposizione spaziale dei vari epitopi di una singola molecola può influenzare in diversi modi il legame degli
anticorpi. Quando i determinanti sono ben separati, due o più molecole anticorpali possono legare ad uno
stesso antigene proteico senza influenzarsi a vicenda (determinanti non sovrapposti). Quando invece i due
determinanti sono vicini, il legame di un anticorpo al primo determinante può causare un’interferenza
sterica con il legame dell’altro anticorpo al secondo epitopo (determinanti sovrapposti). In caso più rari, il
legame del primo anticorpo può causare un cambiamento conformazionale nella struttura dell’antigene,
influenzando così il secondo legame (effetto allosterico).

Ogni forma o superficie disponibile su una molecola che può essere riconosciuta da un anticorpo costituisce
un determinante antigenico. I determinanti antigenici si possono trovare su qualsiasi composto e, nel caso
delle proteine, la formazione di alcuni determinanti dipende soltanto dalla struttura primaria. Gli epitopi
formati da una sequenza di residui aminoacidici sono chiamati determinanti lineari, accessibili agli anticorpi
se compaiono sulla superficie esterna dell’antigene o in una regione che si estende al di fuori della proteina
nativa ripiegata. In altri casi, i determinanti lineari sono inaccessibili nella conformazione nativa e appaiono
solo quando la proteina è denaturata. I determinanti conformazionali, invece, sono costituiti da residui
aminoacidici non disposti in sequenza e si formano per giustapposizione spaziale, dovuta al ripiegamento
della proteina, di regioni distanziate tra loro. Le modifiche a cui può andare incontro una proteina
(fosforilazione, glicosilazione, ecc) possono determinare la formazione di nuovi epitopi, detti determinanti
neoantigenici.

Nella maggior parte degli anticorpi, il sito di legame per l’antigene è costituito da una superficie planare che
può alloggiare gli epitopi conformazionali delle macromolecole. Il riconoscimento dell’antigene da parte
dell’anticorpo è costituito da legami non covalenti di tipo reversibile: si tratta di vari tipi di interazioni non
covalenti, come forze elettrostatiche, legami idrogeno, forze di Van der Waals. Il contribuito relativo di
ciascuna di queste interazioni dipende sia dalla struttura del singolo anticorpo sia da quella del
determinante antigenico. La forza di legame tra il sito combinatorio di un anticorpo e l’epitopo è detta
affinità dell’anticorpo, solitamente espressa come costante di dissociazione Kd: un valore basso di Kd indica
una maggiore affinità, poiché sarà necessaria una concentrazione minore di antigene e anticorpo per
formare il complesso. Poiché la regione cerniera conferisce agli anticorpi una certa flessibilità, una singola
molecola può legarsi ad un antigene polivalente con più di un sito combinatorio. Gli antigeni polivalenti
possiedono multipli determinanti antigenici; sebbene l’affinità di ciascun sito combinatorio sia uguale, la
forza di legame dell’anticorpo all’antigene deriva dal legame di tutti i siti combinatori con tutti gli epitopi
disponibili sull’antigene polivalente. Tale forza complessiva di legame prende il nome di avidità ed è
maggiore dell’affinità di un singolo sito combinatorio. Molte funzioni effettrici svolte dagli anticorpi
vengono innescate solo quando due o più molecole anticorpali sono strettamente ravvicinate in seguito al
legame di un antigene polivalente.
Se un antigene polivalente viene messo in una provetta con un anticorpo specifico, le due componenti si
associano a formare un immunocomplesso. Ad una data concentrazione (zona di equivalenza) l’antigene e
l’anticorpo formano un esteso e fittissimo reticolo molecolare, in cui la quasi totalità delle molecole di
antigene e di anticorpo è complessata. Gli immunocomplessi che restano intrappolati o che si formano a
livello di un tessuto, possono scatenare reazioni infiammatorie, definite malattie da immunocomplessi.

Vediamo ora quali sono le caratteristiche correlate al riconoscimento dell’antigene:

1. SPECIFICITA’: gli anticorpi sono estremamente specifici per gli antigeni, essendo in grado di
distinguere minime differenze nella loro struttura chimica; questa specificità si applica a tutte le
classi di molecole ed è necessaria per evitare che gli anticorpi generati verso alcune specie
microbiche reagiscono con molecole self strutturalmente simili o con antigeni di altre specie
microbiche. Alcuni anticorpi prodotti contro un determinato antigene possono tuttavia legarsi
anche ad un antigene diverso, strutturalmente correlato (CROSS-REATTIVITA’). Talvolta, anticorpi
prodotti in risposta ad un antigene microbico cross-reagiscono con antigeni autologhi e questo
fenomeno può causare l’insorgenza di malattie immunitarie.
2. DIVERSIFICAZIONE: è la presenza di un elevato numero di anticorpi che possono legarsi ad antigeni
differenti. L’insieme complessivo degli anticorpi con differenti specificità è detto repertorio
anticorpale e i meccanismi genetici che determinano un repertorio anticorpale così grande sono
operativi esclusivamente nei linfociti. Il meccanismo genetico si basa sulla ricombinazione casuale
di una serie limitata di sequenze di DNA presenti nella linea germinativa, per formare geni
funzionali che codifichino le regioni V delle catene pesanti e leggere, nonché sull’aggiunta di
sequenze nucleotidiche durante il processo di ricombinazione.
3. MATURAZIONE DELL’AFFINITA’: la capacità degli anticorpi di neutralizzare le tossine e i
microrganismi patogeni dipende dalla potenza di legame dell’anticorpo. Grazie a piccole modifiche
strutturali delle regioni V, si generano anticorpi ad elevata affinità; queste modificazioni avvengono
nei linfociti B stimolati dall’antigene mediante un processo di mutazione somatica. I linfociti B che
producono anticorpi ad alta affinità hanno un vantaggio selettivo e diventano la popolazione
dominante nelle successive esposizioni allo stesso antigene.

Vediamo ora quali sono le caratteristiche correlate alle funzioni effettrici. Molte funzioni effettrici delle Ig
sono mediate dalla porzione Fc e gli isotipi anticorpali che differiscono in tale regione svolgono funzioni
distinte. Le funzioni effettrici degli anticorpi sono innescate soltanto da Ig che hanno legato un antigene e
non dagli anticorpi liberi. Le modificazioni dell’isotipo degli anticorpi nel corso delle risposte umorali
condizionano il modo in cui l’antigene viene eliminato nell’ambito della risposta umorale. Un singolo clone
di linfociti B può produrre anticorpi di diverso isotipo, ma dotati degli stessi domini V e quindi di identica
specificità. I linfociti B naive esprimono contemporaneamente IgM e IgD: quando queste cellule vengono
attivate da antigeni, prevalentemente di origine microbica, possono andare incontro a switching isotopico
di classe, in cui varia la regione CH e quindi l’isotopo anticorpale espresso, mentre la regione V e quindi la
specificità non si modificano. Quindi, in seguito a scambio isotopico, la progenie del linfocita B che
originariamente esprimeva IgM e IgD può produrre altri isotipi e sottotipi di Ig più efficienti
nell’eliminazione dell’antigene. Le regioni C delle catene pesanti degli anticorpi condizionano anche la loro
distribuzione tissutale. Le IgA possono essere secrete efficacemente attraverso gli epiteli mucosali e sono
quindi la classe anticorpale maggiormente rappresentata a livello delle secrezioni mucose e del latte. I
neonati sono protetti dalle infezioni grazie alle IgG acquisite dalla madre attraverso la placenta durante le
gestazione e subito dopo la nascita attraverso l’intestino.

FOCUS: ANTICORPI MONOCLONALI

L’obiettivo della produzione di anticorpi monoclonali è quello di isolare in vitro linfociti B immunizzati
contro un antigene di interesse X, affinchè questo possa produrre grandi quantità di anticorpi specifici. Le
nostre plasmacellule, però, non sono in grado di vivere a lungo in coltura. La tecnica ci permette di rendere
immortali, ossia perenni, le plasmacellule. Gli splenociti (cellule B della milza) di un topo immunizzato con
un antigene X, vengono estratti e fusi con cellule perenni di mieloma, formando gli ibridomi. La fusione
avviene per mezzo di reagenti chimici che consentono la fusione delle membrane cellulari, ottenendo
cellule fuse e cellule non fuse. Le cellule vengono poste in un terreno di selezione, detto HAT, che contiene
ipoxantina, aminopterina e timidina. La selezione avviene tramite la duplicazione del DNA, che necessita
della presenza di nucleotidi; in particolare, per la selezione vengono utilizzate le due vie di sintesi delle
purine:

1. Sintesi ex-novo con tetraidrofolato


2. Via di salvataggio con l’enzima HGPRT (ipoxantina-guanina-fosforibosiltransferasi)

Le cellule del mieloma, che non hanno l’enzima HGPRT, devono utilizzare la sintesi ex novo. Tuttavia,
poiché in coltura si trova aminopterina, non si forma il tetraidrofolato, provocando un difetto nella
produzione di purine e una mancata duplicazione del DNA, per cui le cellule tumorali non sopravvivono. Gli
splenociti non sono in grado di sopravvivere a lungo in coltura e muoiono in breve tempo. Gli ibridomi,
invece, possiedono l’enzima HGPRT derivante dagli splenociti, per cui il mieloma riesce a proliferare. In
questo modo, abbiamo ottenuto una miscela di anticorpi policlonali, poiché sono presenti diversi ibridomi
(cloni) che producono diversi anticorpi. Un antigene, infatti, può avere diversi epitopi e quindi i linfociti
produrranno anticorpi specifici per ogni epitopo. Separando i diversi ibridomi in pozzetti e facendoli
espandere, otteniamo la produzione monoclonale degli anticorpi, testati in base alla loro capacità di legare
l’antigene.

Gli anticorpi monoclonali vengono utilizzati nell’ambito di diverse tecniche di screening:

1. ELISA enzyme-linked immunosorbent assay: consente la quantizzazione degli anticorpi. In


gravidanza, ad esempio, questa tecnica viene utilizzata per valutare la presenza di IgM e IgG
specifiche contro il toxoplasma, per capire se la donna è protetta contro questo protozoo o se è
necessario intervenire con terapia antibiotica per proteggere il bambino.
2. RIA (dosaggio radio-immunologico): utilizzata per dosare i composti immunogenici marcabili radio
attivamente.
3. Immunoperossidasi
4. Immunofluorescenza: usata per valutare l’espressione proteica dei tessuti e la loro localizzazione a
livello cellulare. Questa tecnica viene utilizzata per l’individuazione di tumori.
5. Analisi citofluorometrica
6. Western blotting: analisi dell’espressione proteica e variazione di quest’ultima dopo trattamento
farmacologico.
7. FACS (Fluorescence Activated Cell Sorting): utilizza un fascio di luce laser per la rilevazione, il
conteggio, la caratterizzazione e la separazione di cellule in sospensione.
8. Radio-immuno-scintigrafia: valuta la presenza di masse tumorali soprattutto del colon retto e della
regione pelvica.

Se prendiamo in considerazione gli anticorpi murini, esistono numerose limitazioni al loro utilizzo. Questi
anticorpi riconoscono un antigene umano, ma possono consentire lo sviluppo di anticorpi umani grazie alla
diversità della loro porzione variabile (reazione HAMA), rendendo inefficace e pericolosa la loro funzione
biologica. Gli anticorpi principalmente utilizzati oggi grazie alla bio-ingegneria sono:

Anticorpi CHIMERICI: hanno la regione variabile murina, ma che riconosce l’antigene umano
minimizzando lo sviluppo di reazioni avverse.
L’IMMUNIZZATO: è al 90% umano in quanto l’unica parte murina rimasta è quella ipervariabile.
Anticorpi COMPLETAMENTE IMMUNIZZATI: le sequenze sono al 100% umane.

Vediamone alcuni esempi:

RITUXIMAB: è un anticorpo chimerico che riconosce la proteina CD20 sulla superficie delle cellule
B. E’ in grado di eliminare cellule B maligne e per questo è utilizzato nella terapia dei linfomi di tipo
B, nonché per la leucemia linfatica e la leucemia cronica. Il CD20 bersaglia le cellule B marcandole
per l’eliminazione tramite complemento o NK, neutrofili, macrofagi, ecc. Purtroppo, il CD20
bersaglia non solo i linfociti maligni, ma anche quelli sani, che però possono essere prontamente
rimpiazzati grazie alla costante produzione di linfociti B da parte del midollo osseo.
ANTICORPI ASSOCIATI AL FARMACO (ADC): gli anticorpi monoclonali possono anche veicolare
direttamente o indirettamente un farmaco, nonché tossine, radioisotopi o addirittura farmaci
chemioterapici. L’anticorpo può essere coniugato direttamente con la molecole tossica oppure si
può utilizzare solo la sua porzione variabile per ridurre l’immunogenicità. Esistono dei limiti che
permettono all’anticorpo di coniugarsi in modo da consentire il rilascio del farmaco tossico solo
dentro la cellule tumorale, minimizzando la tossicità del sito dove è presente il tumore.
BiTEs: si tratta di anticorpi bi-specifici che reclutano le cellule T citotossiche per avvicinare la cellula
tumorale al linfocita T stesso.
FATTORE DI CRESCTIA HER2: viene utilizzato nel trattamento di recidive del tumore alla mammella.
È coniugato ad una molecola tossica (inibitore dei microtubuli), che inibisce la vitalità della cellula
che attacca, “disattivando” i microtubuli. La sostanza tossica viene rilasciata all’interno della cellula
tumorale.

Ovviamente esistono dei limiti al trattamento tumorale con anticorpi:

1. Se il tumore è troppo solido, gli anticorpi fanno fatica ad accedere al microambiente tumorale.
2. Esistono alcuni siti privilegiati di accesso: basti pensare alla barriera emato-encefalica. Tuttavia, la
scoperta recente dei vasi linfatici meningei ha evidenziato che c’è una possibilità di accesso al
linfocita al sistema nervoso centrale.
3. Se l’antigene è libero e circolante, viene ridotto l’effetto sulla cellula tumorale.
4. Le cellule tumorali vanno incontro a modulazione antigenica, selezionando varianti in modo tale da
tentare di eludere il sistema immunitario e l’azione dei linfociti T citotossici.
5. Alcuni anticorpi risultano comunque immunogenici e inducono una risposta anti-idiotipo, detta
risposta anti-farmaco (ADA).

Esistono comunque più di 70 anticorpi approvati in vari tipi di terapia, tra cui quella per tumori di tipo
linfoma o leucemie.
Un’altra tecnica utilizzata per la cura dei tumori è la stimolazione del sistema immunitario tramite anticorpi
monoclonali diretti contro molecole inibitorie. Le molecole inibitorie sono molecole in grado di contrastare
quelle stimolatorie che promuovono la maturazione e l’attivazione dei linfociti T. Le cellule tumorali
aumentano l’espressione di queste molecole inibitorie; la funzione degli anticorpi è proprio quella di
bloccare quest’aumento di espressione e quindi aumentare l’attivazione delle cellule T citotossiche,
favorendo l’uccisione delle cellule tumorali.

CAPITOLO 6: COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITA’ E PRESENTAZIONE DELL’ANTIGENE AI


LINFOCITI T

La principale funzione dei linfociti T è l’eliminazione dei microrganismi intracellulari e l’attivazione di altre
cellule, come macrofagi o linfociti B. Per svolgere queste funzioni, essi devono superare alcuni limiti:

1. Il numero dei linfociti naive specifici per un determinato antigene è estremamente ridotto e questo
poche cellule devono individuare l’antigene ed eliminarlo. I microbi e gli antigeni possono
potenzialmente trovarsi in ogni parte del corpo e questo rende impossibile per i pochi linfociti T il
controllo costante di tutti i tessuti. Per questo, è necessario un sistema specializzato che catturi
l’antigene e lo presenti ai linfociti T negli organi linfoidi, dove possono avere inizio le risposte. Le
cellule specializzate nella cattura e presentazione dell’antigene e nell’attivazione dei linfociti T sono
dette APC (cellule presentanti l’antigene).
2. Le funzioni della maggior parte dei linfociti richiedono che essi interagiscano con altre cellule
(cellule dendritiche, macrofagi, linfociti B, ecc). Per essere sicuri che i linfociti T interagiscano con
cellule e non con antigeni solubili, il recettore per l’antigene è strutturato in modo da permettere
l’interazione solo con gli antigeni legati a molecole presenti sulla superficie delle cellule e non
direttamente con gli antigeni presenti sulla superficie dei microbi, o quelli presenti in circolo.
Questa caratteristica differenzia i linfociti T da quelli B, che sono invece in grado di riconoscere
antigeni espressi sulla superficie dei microbi, antigeni solubili e antigeni associati alle cellule,
attraverso il recettore per l’antigene e gli anticorpi secreti. Il riconoscimento degli antigeni associati
alle cellule dell’ospite da parte dei linfociti T CD4+ e CD8+ avviene attraverso proteine specializzate
chiamate molecole del COMPLESSO MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITA’ (MHC).
3. I diversi tipi di linfociti T devono essere capaci di rispondere agli antigeni microbici presenti in
differenti compartimenti cellulari. Per esempio, la difesa contro i virus presenti in circolo è affidata
agli anticorpi sempre più efficienti; necessita dell’intervento dei linfociti T helper CD4+; tuttavia, se
lo stesso virus infetta cellule di un tessuto, il virus diventa inaccessibile agli anticorpi e per la sua
eliminazione è necessario l’intervento dei linfociti T CD8+ citotossici, che uccidono le cellule
infettate ed eliminano gli accumuli dell’agente infettante. Questa dicotomia deriva dal diverso
comportamento che le APC hanno nei confronti di antigeni che provengono da compartimenti
extracellulari o intracellulari e dalla presentazione di questi antigeni a diversi tipi di linfociti T. Le
molecole MHC svolgono un ruolo critico nel discriminare gli antigeni extracellulari da quelli
intracellulari e nel presentarli a differenti popolazioni di linfociti T.

La cattura e la presentazione dell’antigene ai linfociti T è un processo altamente specializzato ed essenziale


per dare il via al tipo di risposta ottimale dei linfociti T. Le modalità di riconoscimento degli antigeni da
parte dei linfociti T sono uniche:
CARATTERISTICHE DEGLI ANTIGENI RICONOSCIUTI SPIEGAZIONE
DA LINFOCITI T
La maggior parte dei linfociti T riconosce i peptidi e Solamente i peptidi si legano alle molecole MHC.
non altre molecole.
I linfociti T riconoscono solo peptidi lineari e non i I peptidi lineari si legano alle tasche delle molecole
determinanti conformazionali degli antigeni MHC e la conformazione delle proteine viene persa
proteici. durante la generazione di tali peptidi.
I linfociti T riconoscono gli antigeni associati alle La maggioranza dei recettori dei linfociti T riconosce
cellule e non gli antigeni solubili. solo complessi peptide-MHC, e le molecole MHC
sono proteine di membrana che esprimono sulla
superficie cellulare peptidi legati stabilmente.
I linfociti CD4+ e CD8+ riconoscono in modo Le vie di assemblaggio delle molecole MHC
preferenziale antigeni provenienti rispettivamente assicurano che le molecole MHC II presentino
dai compartimenti vescicolare e citosolico. preferenzialmente peptidi che derivano da proteine
extracellulari che sono state inglobate nelle
vescicole delle APC e che le molecole di classe I
presentino peptidi derivati da proteine
citolosoliche; le molecole CD4 e CD8 legano,
rispettivamente, regioni non polimorfe delle
molecole MHC di classe II e I.

La maggior parte dei linfociti T riconosce soltanto peptidi corti, mentre i linfociti B possono riconoscere
peptidi, proteine, acidi nucleici, carboidrati, lipidi e composti chimici di piccole dimensioni. Di conseguenza,
le risposte immunitarie mediate da linfociti T sono di solito attivate da antigeni non-self di natura proteica,
mentre le risposte immunitarie umorali vengono attivate da antigeni proteici e non. Alcuni linfociti T sono
specifici per piccoli apteni, che legano proteine self incluse le MHC, mentre i linfociti T riconoscono i peptidi
coniugati o con l’aptene o con le molecole MHC alterate. I linfociti CD4+ e CD8+ riconoscono di regola
antigeni peptidici. I recettori per l’antigene dei linfociti T CD4+ e CD8+ sono specifici per antigeni peptidici
che siano presentati dalle molecole MHC. Il TCR (recettore per le cellule T) si è evoluto per riconoscere in
modo specifico le MHC, la cui normale funzione è quella di presentare i peptidi. Inoltre, il riconoscimento
delle MHC è richiesto per la maturazione dei linfociti CD4+ e CD8+, garantendo che tutti i linfociti T maturi
siano “ristretti” al riconoscimento del complesso MHC-peptide. Le MHC possono legare e presentare
ESCLUSIVAMENTE I PEPTIDI e nessun’altra specie chimica: per questo motivo, la maggior parte dei linfociti
T riconosce i peptidi. Ogni singolo linfocita T riconosce uno specifico peptide presentato da una sola delle
numerose molecole MHC che possono esistere (RESTRIZIONE PER MHC).

Iniziamo a vedere le caratteristiche generali delle APC per i linfociti CD4+:

1. Diversi tipi di cellule possono funzionare da APC per l’attivazione dei linfociti T naive e delle cellule
T effettrici già differenziate.
TIPO CELLULARE ESPRESSIONE DI MHC ESPRESSIONE DI FUNZIONE
DI CLASSE II MOLECOLE PRINCIPALE
COSTIMOLATORIE
CELLULE DENDRITICHE Costitutiva; aumenta Costitutiva; aumentata Inizio delle risposte dei
con la maturazione; da TLR, IFN-γ e linfociti T agli antigeni
aumentata da INF-γ dall’interazione CD40- proteici (PRIMING)
CD40L
MACROFAGI Bassa o nulla; Aumentata da TLR, IFN- Fase effettrice delle
aumentata da IFN-γ γ e dall’interazione risposte immunitarie
CD40-CD40L cellulari
(potenziamento
dell’azione
microbicida)
LINFOCITI B Costitutiva; Aumentata dai linfociti Presentazione
aumentata da IL-4 T (interazione CD40- dell’antigene ai
CD40L) e dal cross- linfociti T helper CD4+
linking dei recettori per nelle risposte umorali
l’antigene (interazioni linfociti T-
helper-B)
CELLULE ENDOTELIALI Inducibile da IFN-γ; Bassa; forse inducibile Possono promuovere
VASCOLARI costitutiva nell’uomo nel topo l’attivazione dei
linfociti T antigene-
specifici nel sito di
esposizione
dell’antigene
CELLULE EPITELIALI E Inducibile da IFN-γ Probabilmente nessuna Nessuna funzione
MESENCHIMALI DI fisiologica nota;
VARIO TIPO possibile ruolo nelle
malattie infiammatorie

Le cellule dendritiche (DC) sono le APC più efficaci nell’attivare i linfociti T naive e nel dare inizio alle
risposte T (APC professionali).
2. Le APC espongono i complessi MHC-peptide in presenza di ulteriori stimoli necessari per la
completa attivazione dei linfociti T. Dal momento che l’antigene rappresenta il primo segnale,
questi stimoli addizionali vengono a volte chiamati secondi segnali, più importanti per l’attivazione
dei linfociti T naive, piuttosto che per le cellule effettrici e della memoria, già precedentemente
attivate. Le molecole di membrana delle APC che attivano i linfociti T sono chiamati
COSTIMOLATORI (o molecole costimolatorie) perché agiscono insieme all’antigene nella
stimolazione dei linfociti T. Le APC secernono anche citochine che svolgono un ruolo critico nella
differenziazione dei linfociti T in cellule effettrici.
3. La funzione di presentazione dell’antigene da parte delle APC è potenziata dalla concomitante
presenza di prodotti di origine microbica. Per questo motivo, il sistema immunitario risponde
meglio ai microbi rispetto ad altre sostanze di origine non microbica. Le DC e i macrofagi esprimono
i TLR e altri sensori che, dopo aver legato i microbi, inviano alla cellula segnali di attivazione ce
provocano l’aumento dell’espressione delle molecole MHC e delle molecole costimolatorie,
aumentando l’efficienza della presentazione dell’antigene; inoltre, l’ingaggio dei TLR attiva le APC
anche a produrre citochine che stimolano le risposte dei linfociti T. Le DC attivate dal
riconoscimento dei microbi iniziano a esprimere recettori per le chemochine, che ne inducono la
migrazione ai siti dove sono presenti i linfociti T. L’attivazione di una risposta T ottimale verso
antigeni proteici purificati richiede la concomitante somministrazione di sostanze definite
adiuvanti, ossia prodotti di origine microbica o sostanze che inducono l’aumento dell’espressione
delle molecole costimolatorie, delle citochine e delle funzioni di presentazione delle APC.
4. Le APC che presentano gli antigeni ai linfociti T ricevono, dai linfociti stessi, segnali che favoriscono
le loro funzioni. In particolare, i linfociti T CD4+ esprimono molecole di superficie, tra cui la CD40, e
secernono citochine come l’IFN-γ, che agisce sulle cellule che esprimono recettori specifici per
questa citochina, quali le APC. La combinazione dei segnali inviati attraverso CD40 e le citochine
attiva le APC, che potenziano la loro capacità di processare e presentare gli antigeni, aumentano
l’espressione delle molecole costimolatorie e la secrezione di citochine che attivano i linfociti T.

Le risposte primarie dei linfociti T naive iniziano negli organi linfoidi secondari, dove i microbi e gli antigeni
proteici vengono trasportati dopo essere stati captati nel punto in cui sono entrati nell’organismo. Le vie
principali di ingresso degli antigeni sono la cute e gli epiteli del sistema gastrointestinale e respiratorio.
Inoltre, gli antigeni microbici possono essere prodotti in tutti i tessuti infettati da microbi. La cute, gli epiteli
mucosi e gli organi parenchimatosi possiedono numerosi capillari linfatici, che drenano la linfa da questi siti
e convogliano gli antigeni verso i linfonodi regionali. Alcuni antigeni sono trasportati nella linfa dalle APC
(prevalentemente DC), mentre altri entrano nel torrente linfatico in forma libera. La linfa quindi contiene
un campionario degli antigeni solubili e particolari presenti nei tessuti di provenienza. Gli antigeni si
concentrano nei linfonodi che agiscono come dei filtri, setacciando la linfa prima che essa raggiunga il
sangue. Gli antigeni presenti nel circolo ematico possono essere “campionati” in modo analogo nella milza.

Le DC sono le cellule specializzate nella cattura, nel trasporto e nella presentazione degli antigeni ai linfociti
T. Queste cellule sono presenti nella maggior parte dei tessuti e sono particolarmente abbondanti negli
organi linfoidi e in quelli che si interfacciano con l’ambiente esterno. Si pensa che la maggioranza di esse
abbia origine da precursori midollari, ad eccezione delle cellule Langerhans della cute, che si sviluppano da
precursori embrionali. Esistono due popolazioni principali di cellule dendritiche:

1. DC CLASSICHE (o CONVENZIONALI): stimolano efficacemente le risposte dei linfociti T,


rappresentano il numero di cellule dendritiche più numeroso negli organi linfoidi. La maggior parte
di esse deriva da precursori mieloidi che migrano dal midollo osseo ai tessuti linfoidi e non linfoidi
per differenziarsi localmente. Campionano costantemente l’ambiente circostante. Nell’intestino,
per esempio, protrudono attraverso le cellule epiteliali e si proiettano nel lume, dove possono
catturare gli antigeni presenti. Le cellule di Langerhans sono le DC che popolano l’epidermide e
assolvono allo stesso compito nei confronti degli antigeni cutanei. In assenza di circostanze
infettive, le DC classiche catturano gli antigeni tissutali e li trasportano ai linfonodi drenanti senza
produrre le citochine e le molecole di membrana necessarie per attivare una risposta immunitaria:
così facendo, presentano gli antigeni self alle cellule T autoreattive, causando la loro inattivazione o
morte, oppure promuovono la formazione di linfociti T regolatori. Questi meccanismi permettono
di mantenere la tolleranza al self e prevenire le risposte autoimmuni.
Le DC classiche possono essere suddivise in due classi principali:
• Il primo tipo può essere identificato nell’uomo in base all’elevata espressione di BDCA-
1/CD1c; è particolarmente efficiente nel promuovere le risposte dei linfociti T CD4+.
• Il secondo può essere identificato nell’uomo sulla base dell’espressione di BDCA-3; è
particolarmente efficiente nel processo della cross-presentazione.

In alcune condizioni infiammatorie, le cellule dendritiche possono originare anche dai monociti.

2. DC PLASMACITOIDI: assomigliano morfologicamente alle plasmacellule, acquisendo morfologia e


funzioni tipiche delle cellule dendritiche solo dopo l’attivazione. Il loro precursore midollare è lo
stesso delle DC classiche. Sono principalmente presenti nel sangue e, in numero limitato, anche
negli organi linfoidi. Tuttavia, al contrario delle DC classiche, le plasmacitoidi sono scarsamente
fagocitiche e non campionano gli antigeni ambientali. La loro funzione principale è la secrezione di
grandi quantità di IFN di tipo I in risposta a infezioni virali. Durante un’infezione da virus, le DC
plasmacitoidi si differenziano in cellule che possiedono le caratteristiche delle DC classiche e sono
in grado di presentare gli antigeni virali ai linfociti T specifici.

Le DC resistenti nell’epitelio e nei tessuti catturano e trasportano gli antigeni proteici ai linfonodi drenanti.
Le cellule dendritiche tissutali quiescenti esprimono recettori di membrana, tra cui le lectine di tipo C,
attraverso cui catturano ed endocitano i microbi o loro prodotti microbici, per poi trasformare le proteine
ingerite in peptidi in grado di legarsi alle molecole MHC. Il legame con l’antigene può anche avvenire per
micro pinocitosi o macropinocitosi. Contemporaneamente alla cattura degli antigeni, i prodotti microbici
sono riconosciuti da recettori TLR e da altri recettori dell’immunità innata espressi dalle cellule dendritiche
e da altre cellule, dando origine anche a risposte immunitarie innate. Le DC vengono attivate da tutti questi
segnali, oltre che da citochine come il TNF; una volta attivate, iniziano ad esprimere un recettore per le
chemochine, chiamate CCR7, specifico per due chemochine (CCL19 e CCL21), prodotte dai vasi linfatici e
nelle aree T dei linfonodi. Queste chemochine indirizzano le DC cariche di antigeni microbici prima nei vasi
linfatici e poi nelle aree T dei linfonodi. Anche i linfociti T naive esprimono CCR7: per questo motivo, essi
migrano nelle stesse aree linfonodali dove si concentrano anche le DC cariche di antigeni, aumentando in
questo la probabilità che i linfociti T incontrino l’antigene per cui sono specifici. Inoltre, l’attivazione
trasforma le DC da cellule specializzate nella cattura dell’antigene a cellule in grado di attivare i linfociti T a
cui presentano l’antigene stesso; esse esprimono elevati livelli di molecole MHC a cui sono legati gli
antigeni peptidici ed elevati livelli di molecole costimolatorie necessarie per l’attivazione dei linfociti T. Le
DC arrivate nei linfonodi si trasformano in potenti APC in grado di attivare i linfociti T: i linfociti T naive che
ricircolano nei linfonodi incontrano queste APC e le cellule dotate di specificità per i complessi peptide-
MHC si attivano (primo stadio di attivazione delle risposte T agli antigeni proteici).

Gli antigeni possono essere trasportati ai linfonodi anche in forma solubile presenti nella linfa e nel sangue:
quando la linfa entra nel linfonodo attraverso i vasi linfatici afferenti, si riversa nel seno sottocapsulare e in
parte entra nei condotti generati dai fibroblasti reticolari che hanno origine nel seno e attraversano la
regione corticale; qui, gli antigeni a basso peso molecolare possono essere catturati dalle DC che si
insinuano tra i fibroblasti reticolari tramite processi citoplasmatici. Oltre alle DC, anche linfociti B e
macrofagi sono in grado di processare gli antigeni catturati e di presentarli ai linfociti T naive e ai linfociti T
effettori.
Le superfici mucose gastrointestinali e respiratorie sono drenate da una rete di capillari linfatici e
contengono strutture linfoidi secondarie specializzate in grado di campionare il contenuto del lume, alla
ricerca di materiale antigenico. Esempi di organi linfoidi mucosali sono le placche di Peyer dell’ileo e la
tonsilla faringea.

Le DC possiedono alcune caratteristiche che le rendono le più efficaci APC per l’attivazione delle risposte
primarie dei linfociti T:

• Sono localizzate strategicamente nei siti di ingresso degli antigeni e dei microrganismi (negli
epiteli), oltre che nei tessuti che possono essere colonizzati dai microbi.
• Esprimono recettori che permettono loro di captare e di rispondere agli antigeni.
• Migrano dagli epiteli e dai tessuti periferici attraverso i vasi linfatici preferenzialmente nelle aree T
dei linfonodi.
• Le DC mature esprimono sulla loro membrana un numero elevato di complessi peptide-MHC,
molecole costimolarie e citochine, tutte necessarie per l’attivazione dei linfociti T naive.

Le DC possono inglobare cellule infettate e presentarne gli antigeni ai linfociti T CD8+. Gli antigeni proteici
che questi linfociti riconoscono devono originare da proteine citoplasmatiche delle cellule dendritiche. Le
proteine virali vengono prodotte in qualsiasi tipo di cellula che sia stata infettata da virus, non
necessariamente solo da DC. Alcune DC specializzate hanno la capacità di ingerire cellule infettate o
frammenti cellulari e di trasportare le proteine virali nel citoplasma, consentendone la presentazione ai
linfociti T CD8+ (PRESENTAZIONE CROCIATA O STIMOLAZIONE CROCIATA, Cross-presentation o Cross-
priming).

Le DC hanno un ruolo critico nell’induzione della risposta primaria dei linfociti T:

• Nelle risposte cellulari, i macrofagi presentano gli antigeni dei microbi fagocitati ai linfociti T
effettori, che rispondono potenziando l’attività microbicida dei macrofagi stessi.
• Nelle risposte umorali, i linfociti B internalizzano gli antigeni proteici e presentano i rispettivi
peptidi ai linfociti T helper.
• Tutte le cellule nucleate possono presentare peptidi derivati da antigeni proteici citosolici ai CTL
CD8+.
• Altri tipi cellulari che esprimono molecole MHC di classe II e possono presentare gli antigeni ai
linfociti T includono le cellule endoteliali e alcune cellule epiteliali.

Dopo queste premesse, passiamo ora a comprendere caratteristiche e funzioni del COMPLESSO
MAGGIORE DI ISTOCOMPATIBILITA’ (MHC).

L’MHC umano fu scoperto nell’ambito della ricerca di molecole di superficie espresse da cellule che fossero
riconosciute come estranee dall’organismo. Questo fu possibile quando si scoprì che pazienti che avevano
ricevuto un trapianto di rene possedevano anticorpi che riconoscevano le cellule dei donatori degli organi
trapiantati. Le proteine riconosciute da questi anticorpi furono chiamate “antigeni leucocitari umani” (HLA):
antigeni perché le molecole venivano riconosciute dagli anticorpi, leucocitari perché gli anticorpi venivano
testati per la loro capacità di legarsi ai leucociti di altri individui.

Il locus MHC contiene due tipi di geni polimorfi, cioè i geni di classe I e di classe II, che codificano per due
gruppi di proteine strutturalmente distinte, ma omologhe tra loro, oltre ad altri geni non polimorfi i cui
prodotti sono coinvolti nella presentazione all’antigene. Le molecole MHC di classe I presentano i peptidi ai
linfociti T CD8+ dai quali vengono riconosciute; le molecole MHC di classe II presentano i peptidi ai linfociti
T CD4+. I geni MHC di classe I e II sono i geni più polimorfi presenti nel genoma di qualsiasi mammifero.
Nella popolazione, il numero totale di alleli HLA con sequenze aminoacidiche differenti è stimata in un
numero superiore a 5000; le differenze delle molecole MHC, responsabili del polimorfismo, derivano dalle
distinte sequenze di DNA ereditate e non dalla ricombinazione genica. I residui polimorfi di molecole MHC
determinano la specificità di legame dei peptidi e del riconoscimento da parte dei linfociti T. E’ probabile
che il polimorfismo delle molecole MHC si sia evoluto proprio per garantire che gli individui siano in grado
di affrontare la diversità dei microbi e che la popolazione sia sempre protetta da nuove infezioni. I geni
MHC sono espressi in modo codominante in ogni individuo, massimizzando il numero di molecole
disponibili al legame con i peptidi.

Nell’uomo, l’MHC è localizzato sul braccio corto del cromosoma 6, estendendosi per circa 3500 kb; eventi di
crossing-over si verificano con una frequenza di circa il 4% delle meiosi. Vi sono tre geni MHC di classe I,
detti HLA-A, HLA-B e HLA-C, che codificano per tre molecole MHC di classe I, chiamate in modo analogo. Vi
sono tre loci dei geni HLA di classe II, chiamati HLA-DP, HLA-DQ e HLA-DR. Ogni molecola MHC di classe II è
composta da etero dimeri di polipeptidi α e β, e i loci DP, DQ e DR contengono ognuno geni distinti
chiamati A o B, che codificano rispettivamente per le catene α o β, su ogni copia del cromosoma 6. Ogni
individuo possiede due geni HLA-DP, due geni HLA-DQα, un gene HLA-DQβ, un gene HLA-DRα e uno o due
geni HLA-DRβ. La serie degli alleli MHC presenti in ciascun cromosoma è detta aplotipo MHC.

Le molecole MHC sono necessarie per presentare l’antigene ai linfociti T. Le MHC di classe I sono espresse
su quasi tutte le cellule nucleate, mentre le molecole di classe II sono normalmente espresse solo su DC,
linfociti B, macrofagi e pochi altri tipi di cellule. L’espressione delle MHC è aumentata dalle citochine
prodotte durante le risposte immunitarie innate e specifiche. L’espressione delle MHC di classe I è
aumentata dall’IFN-α, dall’IFN-β e dall’IFN-γ; gli IFN sono citochine che vengono prodotte precocemente
durante la risposta immunitaria innata contro molti virus; la risposta immunitaria antivirale aumenta
pertanto l’espressione delle MHC che presentano gli antigeni virali ai linfociti T (stimolazione dell’immunità
specifica da parte dell’immunità innata). Anche l’espressione delle molecole di classe II è regolata; l’IFN-γ è
la citochina principale per stimolare l’espressione delle molecole di classe II sulle cellule che presentano
l’antigene, come le DC e i macrofagi, amplificando l’immunità specifica. I linfociti B esprimono
costitutivamente le molecole di classe II, ne aumentano l’espressione in risposta al riconoscimento degli
antigeni e alle citochine prodotte dai linfociti T helper. L’IFN-γ può aumentare l’espressione di molecole
MHC di classe II sulle cellule dell’endotelio vascolare e altri tipi di cellule estranee al sistema immunitario.
alcune cellule, come i neuroni, non esprimono molecole di classe II. La velocità di trascrizione genica
determina l’entità della sintesi delle molecole MHC e della loro espressione sulla superficie cellulare. Questi
effetti sono mediati dal legame dei fattori di trascrizione attivati dalle citochine alla sequenza del DNA nelle
regioni promotrici dei geni MHC. Diversi fattori di trascrizione vengono assemblati e legano una protein
chiamata “induttore di trascrizione della classe II”, che funziona come principale regolatore dell’espressione
dei geni di classe II. Mutazioni genetiche di questi fattori sono la causa di alcune immunodeficienze, come la
sindrome del linfocita nudo.
Vediamo ora quali sono le principali caratteristiche delle MHC di classe I e II:

CARATTERISTICA MHC DI CLASSE I MHC DI CLASSE II


Catene polipeptidiche α αeβ
β2-microglobulina
Localizzazione dei residui Domini α1 e α2 Domini α1 e β1
polimorfi
Sito di legame per il corecettore CD8 si lega principalmente al CD4 sis lega ad una tasca formata
dei linfociti T dominio α3 da porzioni di α2 e β2
Dimensioni della tasca di legame Alloggia peptidi di 8-11 Alloggia peptidi di 10-30
per il peptide aminoacidi aminoacidi o più
Nomenclatura nell’uomo HLA-A, HLA-B, HLA-C HLA-DR, HLA-DQ, HLA-DP

Tutte le MHC hanno in comune alcune caratteristiche fondamentali:

1. Ciascuna MHC contiene una tasca, o piega, extracellulare per legare i peptidi, seguita da una coppia
di domini Ig ancorati alla cellula da domini trans membrana e citoplasmatici: le molecole MHC di
classe I sono composte da una catena polipeptidica codificata nell’MHC e da una seconda catena
codificata al di fuori di questa regione; al contrario, le MHC di classe II sono formate da due
polipeptidiche entrambe codificate nell’MHC.
2. I residui aminoacidici polimorfi delle molecole MHC sono localizzati all’interno e in posizione
adiacente alla tasca per il legame del peptide. Questa tasca è formata dal ripiegamento delle
porzioni aminoterminali ed è composta da doppie α-eliche che formano le due pareti della fessura,
appoggiate su un pavimento costituito da un foglietto β a 8 filamenti. I residui polimorfi (aminoacidi
che variano tra i differenti alleli MHC) sono localizzati sul pavimento e sulle pareti della tasca. È
proprio questa parte di molecola che lega i peptidi per presentarli ai linfociti T e il recettore
l’antigene dei linfociti T interagisce con i peptidi esposti e con le α-eliche delle molecole MHC.
3. I domini non polimorfi di tipo Ig delle molecole MHC contengono siti di legame per i recettori CD4 e
CD8 espressi dai linfociti T. Il CD4 si lega selettivamente alle molecole MHC di classe II, mentre il
CD8 a quelle di classe I; questo spiega perché i linfociti T helper CD4+ riconoscano soltanto le
molecole MHC di classe II che presentano i peptidi, mentre i linfociti T citotossici CD8+ riconoscono
solo le molecole di classe I a cui sono legati i peptidi.

Vediamo le singole caratteristiche delle molecole di classe I e di classe II.

• MHC DI CLASSE I: sono formate da due catene polipeptidiche legate non covalentemente, una
catena α codificata dall’MHC (catena pesante) di 44-47 kD e una subunità non codificata dall’MHC
di 12 kD chiamata β2-microglobulina. Ciascuna catena α è orientata in modo tale che i tre quarti
circa del polipeptide siano extracellulari, un breve segmento idrofobico attraversi il citoplasma e il
terminale carbossilico sia localizzato all’interno della cellula. I segmenti aminoterminali α1 e α2,
ciascuno lungo approssimativamente 90 residui, contribuiscono a formare una piattaforma
costituita da un foglietto β di filamenti antiparalleli, che sostengono due nastri paralleli di α-elica,
costituendo la tasca di legame per i peptidi. Questa tasca presenta una larghezza tale da legare
circa 8-11 peptidi in una conformazione flessibile ed estesa e le sue estremità sono chiuse in modo
tale che non vi possano alloggiare peptidi più grandi. Le proteine native globulari devono perciò
essere convertite in frammenti abbastanza piccoli con una forma lineare tale da potersi legare alle
MHC ed essere poi riconosciuti dai linfociti T. I residui polimorfi delle molecole di classe I sono
confinati nei domini α1 e α2, dove contribuiscono alla variabilità dei diversi alleli di classe I. Il
segmento α3 contiene un’ansa che rappresenta il maggiore sito di legame per il CD8; alla sua
estremità carbossiterminale è presente una sequenza di circa 25 aminoacidi idrofobici, che
attraversano il doppio strato lipidico della membrana plasmatica. Nel citoplasma segue una
sequenza di 30 aminoacidi, che include un cluster di aminoacidi basici in grado di interagire con
gruppi fosfolipidici del foglietto interno della membrana, fissando le molecole MHC alla membrana
stessa. La β2-microglobulina (catena leggera) è codificata da un gene esterno alla regione dell’MHC
e interagisce in modo non covalente con il dominio α3. La molecola MHC di classe I completamente
assemblata è quindi un trimero (1 catena α e 1 catena β2-microglobulina che legano un peptide):
l’espressione stabile delle molecole di classe I richiede la presenza di tutte e tre le componenti
dell’eterotrimero.
La maggior parte degli individui è eterozigote per i geni MHC ed esprime in ciascuna cellula sei
differenti molecole MHC di classe I che contengono catene α derivate dai due alleli dei geni HLA-A,
HLA-B e HLA-C ereditate dei genitori.

• MHC DI CLASSE II: sono composte da due catene polipeptidiche associate in modo non covalente
ad una catena α di 32-34 kD e una catena β di 29-32 kD. Diversamente dalle molecole di classe I, i
geni che codificano per entrambe le catene sono polimorfi e localizzati nel locus MHC. I segmenti
aminoterminali α1 e β1 contribuiscono a formare la tasca per il legame del peptide,
strutturalmente simile a quella delle molecole di classe I. Quattro stringhe del pavimento della
tasca ed una delle α-eliche sono formate da α1, mentre le altre quattro stringhe e la seconda elica
sono formate dal segmento β1. I residui polimorfi sono localizzati in α1 e β1, all’interno e intorno
alla tasca per il legame al peptide. Nell’uomo, il polimorfismo si ha principalmente per le catene β.
Le estremità della tasca per il legame con il peptide sono aperte, in modo che possano alloggiarvi
peptidi di 30 residui o più. I segmenti α2 e β2 delle molecole di classe II sono ripiegati in domini Ig e
non sono polimorfi; entrambi contribuiscono alla formazione della concavità che accoglie una
protrusione della proteina CD4, rendendo possibile il legame. Le estremità carbossiterminali dei
segmenti α2 e β2 proseguono in piccole regioni di connessione seguite da segmenti di residui trans
membrana idrofobici, composti da circa 25 aminoacidi. In entrambe le catene, le regioni trans
membrana terminano con residui basici, seguiti da una breve coda citoplasmatica idrofila.
La molecola MHC di classe II completamente assemblata è un trimero, composto da una catena α,
una catena β e un peptide legato; l’espressione stabile delle molecole di classe II sulla superficie
cellulare richiede la presenza di tutte e tre le componenti del trimero.
L’uomo eredita da ogni genitore un gene DPA e un gene DPB per le catene α e β della molecola
HLA-DP, un gene funzionale DQA e DQB, un gene DRA e uno o due geni funzionali DRB. Così, ogni
individuo eterozigote eredita 6 o 8 alleli per l’MHC di classe II, 3 o 4 da ciascun genitore.

Le molecole MHC mostrano una certa promiscuità di legame, mentre la specificità del riconoscimento
dell’antigene risiede in massima parte nella selettività dei recettori dei linfociti. In altre parole, un singolo
allele MHC, ad esempio l’HLA-A2, può presentare uno o più peptidi diversi ai linfociti T, ma un linfocita T
riconoscerà soltanto uno dei numerosi complessi HLA-A2/peptide possibili.

1. Ogni molecola MHC di classe I o II possiede una singola tasca che lega un peptide alla volta, anche
se ogni molecola può legare più peptidi in tempi diversi.
2. I peptidi che si legano alle molecole MHC condividono caratteristiche strutturali che favoriscono
questa interazione, come ad esempio la dimensione del peptide. Inoltre, i peptidi che si legano ad
una particolare forma allelica di una molecola MHC contengono residui aminoacidici che
permettono interazioni complementari tra il peptide e la forma allelica della molecola MHC.
3. Le molecole MHC legano il peptide durante la loro sintesi e il loro assemblaggio avviene all’interno
della cellula. Perciò, le molecole MHC mostrano peptidi provenienti da microbi che sono all’interno
della cellula ospite e questo è il motivo per cui i linfociti T ristretti per MHC riconoscono i microbi
associati alle cellule e sono responsabili delle risposte immunitarie verso i microbi intracellulari. Alle
molecole MHC di classe I si associano peptidi provenienti principalmente da proteine citosoliche,
mentre a quelle di classe II si associano peptidi provenienti dalle proteine delle vescicole
intracellulari.
4. L’associazione tra peptidi e le molecole MHC è un’interazione saturabile, con una velocità di
dissociazione molto lenta. Nella cellula diverse chaperonine e diversi enzimi facilitano il legame tra
il peptide e la molecole MHC; una volta formati, i complessi peptide-MHC sono stabili e le costanti
di dissociazione indicano una lunga emivita del complesso, che va da alcune ore a molti giorni.
5. Quantità molto piccole di complessi peptide-MHC sono in grado di attivare i linfociti T specifici.
6. Le molecole MHC di un individuo non discriminano tra peptidi estranei (per esempio derivanti da
proteine microbiche) e peptidi che originano da proteine self. Così, le molecole MHC espongono sia
peptidi self che peptidi non self e saranno poi i linfociti T a discriminare il riconoscimento. I linfociti
T si attivano solo in risposta a peptidi non self perché sono estremamente sensibili e per la loro
attivazione è richiesta una piccolissima quantità di complessi MHC-peptide. Quindi, un nuovo
antigene introdotto nell’organismo può essere processato e ridotto a peptidi caricati in un numero
di molecole MHC sufficiente ad attivare linfociti T specifici per quell’antigene, nonostante il fatto
che la maggior parte delle molecole MHC sia occupata da peptidi self. Inoltre, un individuo non
sviluppa risposte contro gli antigeni self perché i linfociti T specifici per antigeni self vengono uccisi
o inattivati, impedendo lo sviluppo di risposte autoimmuni.

Il legame dei peptidi alle molecole MHC è un’interazione non covalente tra i residui presenti nei peptidi e
quelli contenuti nella tasca delle molecole MHC. Gli antigeni proteici vengono tagliati proteoliticamente
dalle cellule che presentano l’antigene per generare i peptidi che saranno legati ed esposti dalle molecole
MHC. Nel caso delle molecole di classe I, l’associazione di un peptide con il cleft dell’MHC dipende dalle
interazioni elettrostatiche della porzione amino-(N)-terminale del peptide, carica positivamente, con quella
carbossi-(C)- terminale, carica negativamente. Molte molecole MHC di classe I contengono una nicchia
idrofobica che riconosce il C-terminale del peptide di un aminoacido idrofobico, mentre altre molecole
preferiscono residui basici al C-terminale, come la lisina o l’arginina. Inoltre, altri residui aminoacidici
possono contenere catene laterali che si adattano perfettamente a nicchie specifiche e che si legano ad
aminoacidi complementari attraverso interazioni deboli: tali residui sono chiamati “residui àncora”,
generalmente presenti in numero di uno o due, aumentando ulteriormente la variabilità dei residui che
saranno riconosciti dai linfociti T specifici.

Dato che molti residui all’interno e intorno alla tasca dell’MHC sono polimorfi, alleli differenti favoriscono il
legame di diversi peptidi; solo gli individui che esprimono alleli MHC che possono legarsi ad un particolare
peptide e presentarlo ai linfociti T sono in grado di rispondere a questo peptide. I recettori per l’antigene
dei linfociti T riconoscono sia l’antigene peptidico che le molecole MHC; dai residui dei peptidi dipende la
specificità del riconoscimento e dai residui MHC dipende la restrizione MHC dei linfociti T. Una parte del
peptide legato viene esposta dall’apertura superiore della tasca delle molecole di MHC; le catene
aminoacidiche della parte esposta vengono riconosciute dai recettori per l’antigene di linfociti T specifici. Il
recettore del linfocita T interagisce con i residui polimorfi delle α-eliche della molecola MHC stessa. Si può
aumentare l’immunogenicità di un peptide tramite l’incorporazione di un residuo che rafforzi il suo legame
alle molecole MHC comunemente ereditate da una data popolazione. Dal momento che le MHC possono
legare solo peptidi, gli antigeni proteici vengono trasformati in peptidi tramite un processo noto come
PROCESSAZIONE DEGLI ANTIGENI PROTEICI. Le vie di pro cessazione di un antigene trasformano gli
antigeni proteici presenti nel citosol o internalizzati nell’ambiente extracellulare in peptidi e inseriscono
questi peptidi nelle molecole MHC per presentarli ai linfociti T. Gli antigeni proteici presenti nel citosol
danno origine a peptidi associati a MHC di classe I che vengono riconosciuti dai linfociti T CD8+; gli antigeni
provenienti dall’ambiente extracellulare che vengono internalizzati nelle vescicole delle APC generalmente
danno origine a peptidi associati alle molecole MHC di classe II e sono riconosciuti dai linfociti T CD4+. La
differenza principale tra le vie MHC di classe I e di classe II risiede principalmente nel sito della
degradazione dei peptidi: le proteine che si degradano nei proteasomi generano peptidi per le molecole
MHC di classe I; solo le proteine che sono degradate negli endo-lisosomi generano peptidi per le molecole
MHC di classe II. Vediamo nel dettaglio le principali differenze della processazione tra MHC I ed MHC II.
PROCESSAZIONE E PRESENTAZIONE DELLE PROTEINE CITOSOLICHE NELLE MHC DI CLASSE I

I peptidi associati all’MHC di classe I sono generati nei proteasomi attraverso la degradazione di proteine
citosoliche; questi peptidi sono poi trasportati nel RE dove si legano alle molecole MHC di classe I neo-
sintetizzate.

1. GENERAZIONE DI ANTIGENI PROTEICI NEL CITOSOL: molti antigeni proteici sono sintetizzati dalle
cellule, altri provengono da meccanismi di secrezione batterica e altri ancora sono fagocitati e
trasportati dai fagolisosomi al citosol. Gli antigeni possono derivare, oltre che virus, batteri e altri
microbi intracellulari, anche da antigeni particolari che sono internalizzati dai fagosomi e poi finiti
nel citosol tramite la creazione di pori sulla membrana dei fagosomi stessi (è il caso di ceppi
patogeni di Listeria monocytogenes).
Peptidi segnale originati caratteristici delle proteine di membrana e di quelle secrete sono
generalmente tagliati da parte di peptidasi e degradati proteoliticamente subito dopo la loro sintesi
e il trasferimento nel RE; questo processo genera peptidi in grado di legare MHC di classe I senza il
bisogno di alcuna ulteriore degradazione proteolitica. Inoltre, le proteine nucleari possono essere
processate da parte dei proteasomi nel nucleo o presentare in associazione di molecole MHC di
classe I.
2. DEGRADAZIONE PROTEOLITICA DELLE PROTEINE NEI PROTEASOMI: i proteasomi sono complessi
enzimatici multiproetici di grosse dimensioni, con un’attività proteolitica ad ampio spettro che si
trovano nel citoplasma della maggior parte delle cellule. Esso svolge generalmente una funzione di
manutenzione, degradando le proteine citoplasmatiche danneggiate o che non hanno assunto la
corretta conformazione. I polipeptidi neo-trascritti ma difettosi, così come le proteine che sono
danneggiate da stress cellulare, vengono degradati nei proteasomi, in seguito al legame covalente
di diverse copie di un piccolo polipeptide chiamato ubiquitina. Le proteine ubiquinate, in seguito al
riconoscimento da parte della testa del proteasoma, perdono la loro normale conformazione,
vengono liberate dall’ubiquitina, “tritate” e degradate a peptidi. Il proteasoma ha una specificità di
substrato molto ampia e può generare una grande varietà di peptidi. Il trattamento con IFN-γ
amplifica di molto la trascrizione e la sintesi di tre nuove subunità catalitiche dell’anello β del
proteasoma, provocando una modificazione nella specificità per il substrato, promuovendo la
presentazione dell’antigene e l’aumento dell’espressione delle molecole di classe II.
3. TRASPORTO DEI PEPTIDI DAL CITOSOL AL RE: i peptidi generati dai proteasomi sono trasportati a
uno speciale trasportatore nel RE, dove le molecole MHC di classe I neo-sintetizzate sono
disponibili per il legame. Il trasferimento dei peptidi dal citosol al RE è mediato da un dimero
proteico detto “trasportatore associato con la processazione dell’antigene” (TAP). La proteina TAP
è localizzata prevalentemente nel RE dove è responsabile del trasporto attivo ATP-dipendente dei
peptidi dal citosol al lume del RE. Sebbene abbia un’ampia specificità, trasporta in maniera ottimale
peptidi che oscillano tra 8 e 16 aminoacidi in lunghezza, contenenti in posizione C-terminale residui
basici o idrofobici. Sul lato interno della membrana del RE, la proteina TAP è associata ad una
proteina chiamata tapasina, anch’essa dotata di alta affinità per le molecole MHC I: essa porta il
trasportatore TAP dove sono localizzate le molecole di classe I in attesa di essere occupate dai
peptidi.
4. ASSEMBLAGGIO DEI COMPESSI PEPTIDE-MHC DI CLASSE I NEL RE: i peptidi trasportati all’interno del
RE si legano alle molecole MHC di classe I che sono legate l dimero TAP attraverso la tapasina. La
catena α di classe I e la β2-microglobulina sono sintetizzate nel RE. Il ripiegamento appropriato
delle catene α nascenti è favorito da varie chaperonine, come la calnexina e la calreticolina.
All’interno del RE, i dimeri neoformati, ancora “vuoti”, restano legati al complesso TAP. I peptidi
che entrano nel RE tramite TAP e i peptidi qui prodotti sono spesso sminuzzati dalle amino
peptidasi, permettendo al peptide di legarsi nella molecola della classe I. Una volta che le molecole
MHC di classe I sono caricate con il peptide, perdono la loro affinità per la tapasina, da cui si
staccano. I peptidi trasportati nel RE si legano preferenzialmente a molecole di classe I piuttosto
che a molecole di classe II, perché le molecole di classe I catturano più rapidamente i peptidi man
mano che questi vengono trasportati da TAP; inoltre, nel RE le tasche che legano i peptidi delle
molecole di nuova sintesi di classe II sono bloccate da una proteina chiamata catena invariate.
5. ESPRESSIONE DEI COMPLESSI PEPTIDE-MHC DI CLASSE I SULLA SUPERFICIE CELLULARE: le molecole
MHC di classe I con i peptidi legati sono strutturalmente stabili e sono espresse sulla superficie
cellulare. Essi migrano attraverso il complesso di Golgi e sono trasportati alla membrana cellulare
da vescicole esocitotiche. Una volta espressi sulla superficie cellulare, i complessi peptideMHC di
classe I possono essere riconosciuti dai linfociti T CD8+, con il corecettore CD8 che svolge un ruolo
essenziale, legandosi a regioni non polimorfiche del MHC.

PROCESSAZIONE E PRESENTAZIONE DELLE PROTEINE CONTENUTE NELLE VESCICOLE


ENDOCITOTICHE NELLE MHC DI CLASSE II

La generazione di peptidi associati a molecole di classe II a partire da antigeni endocitati presuppone la


degradazione proteolitica delle proteine internalizzate e il legame dei peptidi alle molecole MHC di classe II
all’interno delle vescicole.
1. GENERAZIONE DELLE PROTEINE NEI COMPARTIMENTI VESCICOLARI: la maggior parte dei peptidi
associati all’MHC di classe II deriva da antigeni proteici che sono stati catturati dall’ambiente
extracellulare e internalizzati negli endosomi da APC specializzate. La fase iniziale della
presentazione di un antigene proteico extracellulare prevede il legame dell’antigene nativo ad una
APC e la sua internalizzazione. Dopo la loro internalizzazione, gli antigeni proteici si ritrovano
localizzati in vescicole intracellulari rivestite da una membrana, denominate endosomi. Gli
endosomi sono vescicole a pH acido, contenenti enzimi proteolitici; la via endosomiale del traffico
delle proteine intracellulari comunica con i lisosomi. I microbi e il materiale corpuscolato vengono
internalizzati in vescicole chiamate fagosomi, che possono fondersi con i lisosomi producendo
vescicole chiamate fagolisosomi o lisosomi secondari. Alcuni microbi, come i micobatteri, possono
sopravvivere e persino replicarsi all’interno dei fagosomi o degli endosomi, generando una
sorgente persistente di antigeni all’interno dei compartimenti vescicolari. Alcune proteine destinate
alla secrezione possono finire nelle stesse vescicole e venire processate invece di essere secrete.
Più raramente, proteine citoplasmatiche e di membrana possono essere processate e presentate su
molecole MHC di classe II e questo può essere il risultato di un fenomeno noto come autofagia. I
peptidi generati tramite tale via vengono destinati allo stesso compartimento vescicolare che
contiene molecole di classe II. L’autofagia è prevalentemente un processo per degradare le
proteine cellulari e riutilizzarne i prodotti come fonte di nutrimento nei periodi di stress; essa
partecipa anche alla degradazione intracellulare di microbi e si può perciò prevedere che i peptidi
generati per autofagia siano presentati ai linfociti T per il ricoscimento. Alcuni peptidi che si
associano a MHC II possono derivare da proteine di membrana che possono così circolare
attraverso la stessa via endocitica esattamente come succede per le proteine extracellulari. Anche i
virus che si replicano nel citoplasma delle cellule infette, possono produrre proteine
citoplasmatiche e di membrana che vengono degradate in peptidi e che entrano nella via di
presentazione dell’antigene di classe II (attivazione dei linfociti T helper CD4+ da parte di antigeni
virali).
2. DIGESTIONE PROTEOLITICA DELLE PROTEINE PRESENTI NELLE VESCICOLE: le proteine internalizzate
vengono degradate enzimaticamente negli endosomi e nei lisosomi generando peptidi che sono in
grado di legarsi nelle tasche delle molecole MHC di classe II. Questo processo attivo è mediato da
proteasi che agiscono in modo ottimale a pH acido. Le proteasi maggiormente rappresentate negli
endosomi sono le catepsine, in grado di generare peptidi che entrano nella via della presentazione
di classe II. Studi recenti di immunomicroscopia hanno individuato un tipo di endosoma ricco di
molecole MHC di classe II, che svolge un ruolo molto importante nella presentazione dell’antigene.
Nei macrofagi e nei linfociti B, questo compartimento è detto compartimento MHC di classe II
(MIIC): ha un aspetto multi lamellare caratteristico ed è dotato di tutte le componenti necessarie
per l’associazione dei peptidi all’MHC II, compresi gli enzimi che degradano gli antigeni proteici, e di
due molecole coinvolte nel caricamento dei peptidi in classe II, che sono la catena invariante e
l’HLA-DM.
3. BIOSINTESI E TRASPORTO DELLE MHC II AGLI ENDOSOMI: le MHC II sono sintetizzate nel RE e
trasportate agli endosomi in forma associata ad una proteina denominata catena invariante, che
occupa la tasca di legame per il peptide delle molecole MHC II neo-sintetizzate. I dimeri nascenti di
MHC II sono strutturalmente instabili e il loro ripiegamento e assemblaggio vengono favoriti dalle
chaperonine. La catena invariante promuove il ripiegamento e l’assemblaggio delle molecole II e le
indirizza verso il compartimento vescicolare endosomiale e lisosomiale, dove le proteine
internalizzate sono state degradate proteoliticamente in peptidi. La catena invariante è un trimero,
ciascuna delle cui subunità si lega ad un eterodimero αβMHC II neo-sintetizzato, bloccando la tasca
di legame e impedendo che si leghino ad altri peptidi. Quindi, le molecole di classe II non possono
più legare peptidi presenti nel RE, che restano perciò disponibili al legame con le MHC di classe I. Le
MHC II sono trasportate sulla superficie cellulare nelle vescicole esocitiche e, fondendosi con quelle
endocitiche che contengono gli antigeni internalizzati, permettono l’incontro delle MHC II con i
peptidi antigenici.
4. ASSOCIAZIONE DEI PEPTIDI PROCESSATI CON LE MOLECOLE MHC II A LIVELLO DELLE VESCICOLE:
nelle vescicole endosomiali la catena invariante viene rimossa dalle MHC II per l’azione combinata
di enzimi proteolitici e della molecola HLA-DM e gli antigeni peptidici possono quindi legarsi alle
tasche ora disponibili. Gli stessi enzimi proteolitici che generano i peptidi dalle proteine endocitate
agiscono anche sulla catena invariante, degradandola e lasciando solo uno spezzone di 24
aminoacidi, denominato peptide invariante associato alla classi II (CLIP). Quest’ultimo deve poi
essere rimosso in modo che la tasca diventi accessibile agli antigeni: questa rimozione è mediata
dall’HLA-DM, colocalizzata insieme a MHC II nel MIIC. Al contrario delle MHC II, le molecole HLA-
DM non sono polimorfe e non sono espresse sulla superficie cellulare. L’HLA-DM agisce come uno
scambiatore di peptidi, facilitando la rimozione di CLIP e la sua sostizuione con gli antigeni peptidici.
La dimensione dei peptidi legati a molecole MHC II presenti sulla superficie cellulare è di solito
compresa tra 10 e 30 aminoacidi; molecole di dimensioni superiore vengono tagliate da enzimi
proteolitici sino a raggiungere una grandezza adeguata.
5. ESPRESSIONE DEI COMPLESSI PEPTIDE-MHC II SULLA SUPERFICIE CELLULARE: le MHC II sono
stabilizzate dal legame con il peptide e i relativi complessi sono trasportati alla membrana delle
APC, dove sono esposti per il riconoscimento da parte dei linfociti T CD4+. Il trasporto avviene per
fusione delle estensioni vescicolo-tubulari dei lisosomi con la membrana plasmatica, permettendo
l’arrivo sulla superficie cellulare dei complessi caricati con i peptidi. Una volta espressi sulla
membrana delle APC, i complessi peptide/MHC vengono riconosciuti dai linfociti T CD4+ specifici
per l’antigene peptidico, con il corecettore CD4 che ha la funzione di legarsi a regioni non polimorfe
della molecola II. Mentre le molecole II caricate con il peptide migrano verso la superficie cellulare,
altre molecole coinvolte nella presentazione dell’antigene, come le DM, restano nelle vescicole e
non vengono espresse sulla membrana; il meccanismo di questo traffico selettivo non è tuttavia
noto.

Alcune DC sono dotate della capacità di catturare e ingerire cellule infettate da virus o cellule tumorali e di
presentarne gli antigeni ai linfociti T CD8+ naive. In questo modo, gli antigeni ingeriti vengono trasportati
dalle vescicole endocitiche al citosol, da cui i peptidi possono avere accesso alla via di presentazione in
classe I. La maggior parte delle proteine ingerite non ha accesso alla via di presentazione di classe I; il
passaggio delle proteine dalle vescicole endosomiali al citoplasma costituisce una caratteristica unica delle
DC che al tempo stesso possono presentare questi antigeni attraverso la via dell’MHC II ai linfociti T helper
CD4+, che spesso sono necessari per indurre una risposta completa dei linfociti T CD8+. Questo processo
viene definito CROSS-PRESENTAZIONE (CROSS-PRIMING), per indicare che una determinata cellula (DC)
può presentare antigeni che derivano da un’altra cellula (cellula infettata da virus o tumorale) e innescare o
attivare i linfociti T specifici per questi antigeni. Nel cross-priming è necessaria la fusione del RE con i
fagosomi che contengono gli antigeni; le proteine ingerite saranno poi traslocate al citosol dove
normalmente avviene la proteolisi della via di classe I. Le proteine fagocitate subiscono quindi la
degradazione nei proteasomi e i peptidi derivati sono nuovamente trasportati da TAP e RE, dove vengono
assemblati con molecole MHC I appena sintetizzate, come accade nella via convenzionale di classe I.

La presentazione di proteine endosomiali e citosoliche rispettivamente da parte della via di classe II o di


classe I, determina quale sottopopolazione di linfociti T risponderà agli antigeni presenti nei due
compartimenti ed è strettamente legata alle funzioni di queste cellule. Gli antigeni sintetizzati
endogenamente, come le proteine virali o tumorali, sono localizzati nel citosol e riconosciuti dai CTL CD8+
ristretti per MHC I, che uccideranno le cellule che hanno prodotto gli antigeni intracellulari. Al contrario, gli
antigeni extracellulari finiscono spesso nel pool endosomiale e attivano i linfociti T CD4+ ristretti per MHC
II, poiché le proteine delle vescicole sono processate in peptidi che legano l’MHC II. I linfociti CD4+
funzionano come helper per stimolare i linfociti B a produrre anticorpi e i macrofagi ad aumentare la loro
funzione fagocitica. Il recettore per l’antigene dei linfociti T helper e dei CTL non è in grado di distinguere
tra microbi intra- o extra-cellulari: segregando i peptidi sulla base della localizzazione dei microbi, le MHC
determinano quale sottopopolazione di linfociti, CD4+ o CD8+, debba rispondere ad un dato patogeno,
assicurando la risposta immunitaria più adatta.

Le MHC determinano l’immunogenicità degli antigeni proteici in due modi:

• Gli epitopi delle proteine complesse maggiormente capaci di evocare risposte cellulari T sono
spesso quei peptidi che vengono generati per proteolisi nelle APC e che si legano con più avidità
alle MHC. Se un individuo viene immunizzato con un antigene proteico con molti determinanti
antigenici, la maggior parte dei linfociti T responsivi sarà specifica per una o poche sequenze
aminoacidiche lineari di quell’antigene (EPITOPI IMMUNODOMINANTI). Le proteasi coinvolte nella
processazione dell’antigene generano un’ampia varietà di peptidi, ma solo alcuni di questi
possiedono le caratteristiche che consentono loro di legarsi alle MHC di ogni individuo. La
conoscenza degli epitopi immunodominanti è alla base della progettazione di vaccini: una proteina
virale potrebbe essere analizzata per la presenza di sequenze aminoacidiche che formino epitopi
immunodominanti capaci di legarsi ad alta affinità con le MHC; i peptidi sintetici che contengono
tali epitopi possono essere vaccini efficaci per evocare una risposta T verso il peptide virale
espresso dalle cellule infettate.
• L’espressione di particolari alleli MHC II in un individuo determina la possibilità di questo individuo
di rispondere ad un determinato antigene. I geni MHC II influenzano la responsività immune in
quanto diverse forme alleliche differiscono nella loro capacità di legare i differenti antigeni e quindi
di stimolare i linfociti T helper specifici.

Infine, alcune rare popolazioni di linfociti T sono in grado di riconoscere antigeni non proteici in assenza del
coinvolgimento di MHC I o II. Queste cellule costituiscono un’eccezione alla regola che sancisce che i
linfociti T possano riconoscere solo peptidi associati a MHC. La popolazione meglio definita di queste cellule
è quella delle NKT e dei linfociti T γδ.

CAPITOLO 7: RECETTORI E VIE DI TRASDUZIONE DEL SISTEMA IMMUNITARIO

I recettori di membrana svolgono due funzioni principali: la trasduzione del segnale e l’adesione tra cellule
o alla matrice extracellulare. Il termine “trasduzione del segnale” indica l’insieme delle vie biochimiche
intracellulari attivate all’interno della cellula in seguito al legame dei ligandi con i recettori specifici. La
cascata di trasduzione del segnale attivata dai recettori inizia generalmente con una fase citosolica, nella
quale la porzione citoplasmatica del recettore stesso o delle proteine associate ad esso viene modificata
post-traduzionalmente, permettendo così l’attivazione o la traslocazione nucleare dei fattori trascrizionali.
A questa segue la fase nucleare, nella quale i fattori trascrizionali modulano la trascrizione dei geni
bersaglio.

La trasduzione del segnale viene generalmente iniziata da recettori costituiti da proteine integrali di
membrana i cui domini extracellulari riconoscono ligandi solubili oppure adesi alle cellule circostanti. I
recettori nucleari sono invece quelli costituiti da fattori trascrizionali intracellulari, che vengono attivati da
ligandi liposolubili che possono oltrepassare la membrana citoplasmatica. Per innescare la cascata di
trasduzione del segnale è generalmente necessario che i ligandi inducano l’aggregazione delle proteine
recettoriali (o cross-linking) oppure la modificazione conformazionale del recettore stesso; entrambe le
situazioni sono attivate dal riconoscimento dal ligando. Un evento iniziale comune che si verifica durante la
trasduzione del segnale è l’aggiunta, ad opera di un enzima, di un gruppo fosfato sulla catena laterale di
residui di tirosina, serina o treonina presenti nella porzione citosolica di un recettore o di una proteina
adattatrice. Gli enzimi responsabili di questa azione sono detti PROTEINE CHINASI. Nei linfociti, la maggior
parte degli eventi precoci dipendono da protein-chinasi che fosforilano residui di tirosina e sono perciò
dette proteine tirosin-chinasi. Altri enzimi fosforilano substrati lipidici e sono perciò detti chinasi lipidiche.
Per ciascun tipo di fosforilazione esiste una specifica fosfatasi, cioè un enzima che rimuove i gruppi fosfato,
modulando la trasduzione del segnale stesso. Oltre alla fosforilazione, molte altre modifiche post-
traduzionali possono regolare la trasduzione del segnale, come l’aggiunta di molecole di ubiquitina che
contrassegna le proteine destinate alla degradazione. Alcuni fattori di trascrizione subiscono modificazioni
funzionali mediante acetilazione e le code N-terminali degli istoni possono essere acetilate e metilate per
modulare l’espressione genica, la replicazione del DNA e la ricombinazione del DNA. I recettori sono
raggruppati nelle seguenti categorie, basate sul tipo di meccanismo di trasduzione del segnale e sulle vie
biochimiche che essi utilizzano:

• Recettori che utilizzano tirosin-chinasi non recettoriali. Le code citoplasmatiche non possiedono
attività enzimatica intrinseca e l’attivazione dei recettori dipende da una tirosina chinasi distinta,
detta tirosin-chinasi non recettoriale, che si occupa di fosforilare specifici residui del recettore
stesso o di altre proteine associate al recttore. Ne sono un esempio le integrine.
• Recettori tirosin-chinasici: sono proteine integrali di membrana che in seguito all’aggregazione
indotta da ligandi multivalenti, attivano uno o più domini tirosinchinasici, presenti nelle code
citoplasmatiche. Ne è un esempio il recettore c-Kit.
• Recettori nucleari: si trovano abitualmente nel nucleo o vi migrano per fungere da fattori di
trascrizione. Inducono o reprimono la trascrizione genica. Ne sono un esempio i recettori per gli
ormoni.
• Recettori accoppiati a proteine G (GPCR): sono recettori che agiscono attivando le proteine che
legano il GTP a loro associate. Sono polipeptidi che attraversano sette volte la membrana
plasmatica, ragion per cui sono talvolta chiamati recettori serpentinici. Il riconoscimento del
ligando provoca un cambiamento conformazionale che attiva una proteina G eterotrimerica,
scambiando il GDP legato con il GTP. Una volta attivata, la proteina G dà inizio a tutte le successive
vie di trasduzione. Ne sono esempi l’istamina e le prostaglandine.
• Altre classi recettoriali: Notch (coinvolte nello sviluppo embrionale) e Wnt (attiva recettori trans
membrana).

Le molecole coinvolte nella trasduzione del segnale sono spesso composte da moduli, ciascuno con una
specifica funzione di legame o dotato di attività catalitica. Le proteine adattatrici funzionano come dei siti di
attracco molecolari, permettendo di unire fisicamente enzimi diversi e promuovendo l’assemblaggio di
complessi di molecole coinvolte nella trasduzione del segnale. Possono essere proteine integrali di
membrana, come LAT (Linker for the activation of T cells) o citosoliche come BLNK (B cell linkers). Le
proteine adattatrici contengono spesso sequenze ricche di prolina e di tirosina che possono essere
fosforilati da tirosin-chinasi e che servono da siti di attacco per altre molecole di trasduzione. La
trasduzione del segnale può essere immaginata come una sorta di social-network: un segnale iniziale
(fosforilazione della tirosina) determina l’associazione di diverse proteine in corrispondenza di attracchi
molecolari (proteine adattatrici), portando all’attivazione di enzimi specifici che alla fine influenzano la
localizzazione nucleare o l’attività di specifici fattori trascrizionali, oppure inducono altri eventi cellulari
come la polimerizzazione dell’actina.

I recettori del sistema immunitario costituiscono una famiglia particolare di complessi recettoriali
tipicamente composti da proteine integrali di membrana appartenenti alla superfamiglia delle Ig che sono
responsabili del riconoscimento del ligando e sono associate con altre proteine trans membrana,
responsabili della trasduzione del segnale, dotate di code citoplasmatiche contenenti specifici motivi di
tirosina. Esistono tuttavia delle eccezioni rappresentate da recettori composti da una singola catena il cui
dominio extracellulare riconosce il legando, mentre la coda citoplasmatica contiene residui di tirosina che
trasducono il segnale. Le proteine che trasducono il segnale si trovano frequentemente in contatto con
tirosine chinasi non recettoriali, ancorate al foglietto interno della membrana citoplasmatica mediante
code N-terminali. Esse presentano motivi citoplasmatici contenenti tirosina, che sono generalmente di due
tipi:

• DOMINI ITAM (Immunoreceptor Tyrosine-based Activating Motifs): sono presenti in recettori


coinvolti nell’attivazione cellulare e sono caratterizzati dalle presenza di un residuo di tirosina, uno
di leucina, uno di isoleucina a un altro aminoacido qualunque. Quando il recettore viene attivato,
entrambe le tirosine possono essere fosforilate da chinasi della famiglia tirosin-chinasi non
recettoriali. Entrambi i residui di tirosina ITAM possono reclutare membri della famiglia Syk/ZAP-70,
che contengono due domini di SH2 in tandem, ciascuno dei quali lega uno dei due motivi
fosforilati. Il legame della chinasi Syk/ZAP-70 a ITAM causa un’alterazione della loro conformazione
che determina l’attivazione della loro attività di chinasi, determinando ulteriori eventi di
trasduzione nel processo di attivazione.
• DOMINI ITIM (Immunoreceptor Tyrosine-based Inhibitory Motifs): inibiscono le risposte cellulari e
sono caratterizzati da una sequenza ricca in valina. Gli ITIM fosforilati reclutano tirosine fosfatasi
che rimuovono gruppi fosfato dalle fosfotirosine contrastando l’attivazione causata dai domini
ITAM.

Esempi di membri di questa famiglia sono i recettori per l’antigene dei linfociti B e T, i recettori specifici per
gli Fc delle IgE espressi dai mastociti e i recettori per gli Fc, sia attivatori che inibitori, specifici per le IgG
espressi dalle cellule dell’immunità innata e dai linfociti B.

La trasduzione del segnale a valle dei recettori per l’antigene dei linfociti T e B è caratterizzata da una
sequenza di eventi simili:

1. Il riconoscimento del ligando, in genere multivalente, determina l’aggregazione di molti recettori,


cui segue l’attivazione di una chinasi della famiglia Src ad essi associata. Inoltre, tale evento può
anche indurre il dispiegamento della coda citoplasmatica di una catena polipeptidica del recettore.
Questo cambiamento conformazionale determina l’esposizione dei residui di tirosina di un motivo
ITAM, che possono essere fosforilati da chinasi.
2. La chinasi Src attivata fosforila le tirosine presenti sui domini ITAM del complesso recettoriale.
3. Ciascuna delle due tirosine fosforilate di ciascun ITAM è riconosciuta da uno dei due domini SH2 di
un tirosin-chinasi della famiglia Syk.
4. Il reclutamento della Syk determina anche l’attivazione e quindi la fosforilazione delle proteine
adattatrici e degli enzimi che attivano diverse vie di trasduzione del segnale a valle del recettore.

L’entità del segnale trasmesso dal TCR e dal recettore dei linfociti B (BCR) influenza le risposte dei linfociti in
via di sviluppo e attivazione: i linfociti sono in grado di modulare la loro attivazione sulla base del numero di
recettori attivati da un determinato antigene. Per esempio, nel corso di maturazione timica dei linfociti T,
un segnale debole viene interpretato come stimolo alla sopravvivenza, mentre un segnale forte può
determinare la morte del linfocita per apoptosi.

La trasduzione del segnale da parte dei recettori per l’antigene è finemente regolata da tre meccanismi che
sono unici di questa classe di recettori:

1. Utilizzo progressivo degli ITAM: i recettori per l’antigene riescono a generare un’intensità di
segnale variabile fosforilando un numero diverso di residui di tirosina nei motivi ITAM. Il complesso
del TCR possiede 6 catene deputate alla trasduzione del segnale e 10 domini ITAM; un numero
superiore di ITAM può essere fosforilato a seconda se il legame dell’antigene al TCR sia più forte o
più prolungato. Il BCR possiede solamente 2 domini ITAM, ma questo numero aumenta quando
diverse proteine recettoriali sono aggregate da antigeni multivalenti; in questo caso, il grado di
aggregazione influenza il numero di ITAM utilizzati e quindi genera risposte differenti ad antigeni
che possiedono diversa affinità e valenza.
2. Aumento dell’attività cellulare da parte dei corecettori: un corecettore è una proteina trans
membrana dei linfociti coinvolta nella trasduzione del segnale che, legandosi simultaneamente allo
stesso complesso riconosciuto dal recettore per l’antigene, ne facilita l’attivazione. Ciò è possibile
perché alla coda citoplasmatica dei recettori sono associati enzimi che partecipano alla
fosforilazione di ITAM e facilitano l’attivazione cellulare. I corecettori dei linfociti T sono il CD4 e il
CD8; il corecettore dei linfociti B è il recettore per il complemento di tipo 2 (CR2/CD21).
3. Modulazione del segnale da parte di recettori inibitori: i principali recettori inibitori dei linfociti T
sono CTLA-4 e PD-1, mentre per i linfociti B ricordiamo CD22.

In alcune circostanze, i segnali provenienti dal recettore per l’antigene possono cooperare con i segnali di
altre proteine chiamate recettori costimolatori, che aggiungono un ulteriore livello di controllo al processo
di attivazione linfocitaria. I recettori costimolatori forniscono ai linfociti T i secondi segnali, riconoscendo
ligandi diversi da quello del recettore per l’antigene; i loro segnali vengono integrati con quelli del recettore
per l’antigene e cooperano per attivare in maniera ottimale i linfociti. Esempio di recettore costimolatore
dei linfociti T è il CD28.

Vediamo ora nel particolare il complesso recettoriale dei linfociti T e B.

COMPLESSO RECETTORIALE DEI LINFOCITI T

Il TCR dei linfociti T helper CD4+ e dei linfociti T citotossici CD8+ ristretti per MHC è un etero dimero
composto da due catene polipeptidiche trans membrana, denominate α e β, unite covalentemente da un
ponte disolfuro tra cisteine extracellulari. Un secondo tipo di TCR meno comune è composto da catene γ e
δ. Sia la catena α che quella β sono formate da un dominio Ig variabile N-terminale, da un dominio Ig
costante, da una regione idrofobica trans membrana e da una breve sequenza intracitoplasmatica. Le
regioni variabili contengono brevi sequenze nelle quali si concentra la variabilità tra i diversi TCR; queste
regioni ipervariabili costituiscono le cosiddette “regioni che determinano la complementarietà” (CDR). Tre
CDR della catena α e tre della catena β costituiscono la porzione del TCR che riconosce in modo specifico il
complesso MHC-peptide. Il dominio variabile della catena β contiene una quarta regione ipervariabile che
non sembra partecipare al riconoscimento dell’antigene, ma rappresenta il sito di legame per prodotti
microbici (superantigeni). Le regioni C delle catene α e β si estendono in una breve regione cerniera, la
quale contiene residui ricchi di cisteina responsabili della formazione del ponte disolfuro che unisce le due
catene. La regione cerniera è seguita dalla porzione idrofobica trans membrana, che presenta residui di
aminoacidi carichi positivamente che interagiscono con i residui di segno opposto trans membrana di altre
proteine che fanno parte del TCR.

Le proteine CD3 e ζ sono associate in modo non covalente agli etero dimeri α e β, formando così il
complesso del TCR e sono deputate alla trasduzione del segnale generato dal riconoscimento dell’antigene.
Queste proteine sono deputate alla trasduzione del segnale e non al riconoscimento dell’antigene; le CD3
sono necessarie anche per l’espressione sulla membrana dei linfociti T del complesso recettoriale
completo. Il complesso CD3 è in realtà costituito da tre proteine, CD3 γ, δ e ξ, omologhe tra loro. Esse
contengono un dominio Ig nella regione N-terminale extracellulare e dunque appartengono alla
superfamiglia delle Ig. Tutte e tre le catene contengono nel segmento trans membrana dei residui di acido
aspartico carico negativamente, che interagisce con residui di segno opposto nei domini trans membrana
della catene α e β del TCR.

I domini citoplasmatici delle catene γ, δ ed ξ hanno una lunghezza compresa tra 44 e 81 aminoacidi e
presentano ciascuno un dominio ITAM. La catena ζ è costituita da una breve regione extracellulare di 9
aminoacidi, una regione trans membrana contenente un residuo di acido aspartico e un lungo dominio
citoplasmatico che contiene tre sequenze ITAM.
Quando il TCR lega il complesso MHC-peptide, i corecettori si aggregano al TCR, permettendo la
fosforilazione delle tirosine degli ITAM. Questa fosforilazione innesca la cascata di trasduzione del segnale e
l’attivazione a valle delle tirosin-chinasi, le quali a loro volta fosforilano residui di tirosina, presenti su altre
proteine adattatrici. Le fasi successive dipendono dal reclutamento specifico di alcuni enzimi chiave,
ciascuno dei quali dà inizio ad una distinta via di trasduzione. Si pensa che il TCR si attivi quando molte
catene vengono aggregate (cross-linking) in seguito al riconoscimento simultaneo degli epitopi antigenici
adiacenti. Il riconoscimento del complesso MHC-peptide potrebbe indurre cambiamenti conformazionali
nel TCR in grado di rendere gli ITAM associati alle catene CD3 o ζ accessibili alla fosforilazione della tirosina
da parte delle chinasi Src.

CD4 e CD8 sono corecettori espressi dai linfociti T che legano regioni non polimorfe delle MHC e facilitano
la trasduzione del segnale del TCR. I linfociti T αβ maturi esprimono il CD4 o il CD8, ma mai entrambi. CD4 e
CD8, interagendo rispettivamente con MHC di classe II e I, sono responsabili della restrizione per MHC delle
rispettive sottopopolazioni. CD4 e CD8 sono glicoproteine trans membrana appartenenti alla superfamiglia
delle Ig:

• CD4: è un monomero espresso dai linfociti T periferici e dai timociti ed è presente in quantità
inferiore anche sui fagociti mononucleati e su alcune cellule dendritiche. È utilizzato dal virus
dell’HIV per infettare i linfociti T. E’ costituito da quattro domini Ig extracellulari, una regione
idrofobica transmembrana ed una coda citoplasmatica altamente basica a 38 aminoacidi. I due
domini Ig N-terminali legano i domini non polimorfi α2 e β2 delle molecole MHC di classe II.
• CD8: è espresso nella maggior parte delle cellule come etero dimero costituito da due catene,
CD8α e CD8β, legate da ponti disolfuro. Sia la catena α che quella β hanno un singolo dominio Ig
extracellulare, una regione idrofobica trans membrana e una coda citoplasmatica, altamente basica
a 25 aminoacidi. Il dominio Ig terminale di CD8 si lega principalmente al dominio non polimorfo α3
nella molecola MHC di classe I e interagisce anche con porzioni del dominio α e con la
microglobulina β2. Alcuni linfociti T attivati e di memoria esprimono omodimeri αα di CD8 e questa
diversa forma potrebbe avere una funzione inibitoria invece che attivatoria.
La coda citoplasmatica del CD4 e del CD8 lega Lck, una chinasi della famiglia Src. Sul versante citosolico
della membrana, Lck viene a trovarsi molto vicino agli ITAM delle catene CD3 e ζ e fosforila i residui di
tirosina di questi ITAM, permettendo il successivo reclutamento e l’attivazione della tirosin-chinasi ZAP-70.
La fosforilazione delle proteine e dei lipidi è fondamentale per la trasduzione del segnale da parte del
complesso del TCR e dei suoi corecettori. Oltre a Lck, esiste un’altra tirosin-chinasi citoplasmatica della
famiglia Scr,chiamata Fyn, fisicamente associata al CD3 e che potrebbe contribuire alla fosforilazione dei
domini ITAM.

Le sequenze ITAM delle catene ζ, una volta fosforilate, formano dei siti di ancoraggio per una tirosin-
chinasi della famiglia Syk denominata ZAP-70: essa contiene due domini SH2 in grado di legare fosfotirosine
degli ITAM. Ogni ITAM ha due residui tirosinici ed entrambi devono essere fosforilati per formare un sito di
ancoraggio per una molecola ZAP-70. Dopo essersi associata alla catena ζ, ZAP-70 diventa un substrato per
Lck ad essa adiacente, innescando l’attività tirosin-chinasica della ZAP che è ora in grado di fosforilare altri
substrati coinvolti nella trasduzione del segnale. È necessario il raggiungimento di una soglia critica di
attivazione, affinchè la cascata della trasduzione possa proseguire; questa soglia viene raggiunta mediante
il reclutamento di molteplici molecole ZAP-70 in corrispondenza delle numerose sequenze ITAM fosforilate
delle catene ζ e del CD3.

Un’altra via di trasduzione del segnale coinvolta nell’attivazione dei linfociti T è costituita dall’attivazione
della chinasi P13 che fosforila i fosfatidilinositoli di membrana. Questo enzima viene reclutato dal
citoplasma al foglietto interno della membrana dal complesso del TCR e qui genera PIP3 a partire dal
fosfatidilinositolo bifosfato (PIP2). Alcune proteine citoplasmatiche coinvolte nella trasduzione del segnale
hanno domini specializzati PH con affinità per PIP3 e dunque le proteine che contengono domini PH
possono legarsi alla superficie interna della membrana solo quando viene generato PIP3.

Dopo l’attivazione, ZAP-70 fosforila numerosi substrati che fungono da proteine adattatrici per il legame di
altre molecole coinvolte nella trasduzione del segnale. Un evento precoce di particolare importanza è
rappresentato dalla fosforilazione in tirosina delle proteine adattatrici SLP-76 e LAT ad opera di ZAP-70. Una
volta fosforilata, LAT lega la fosfolipasi Cγ1 (PLCγ-1), coordinando il reclutamento di numerose altre
proteine adattatrici al complesso del TCR-proteine associate (SEGNALOSOMA). LAT serve dunque a
raggruppare componenti della trasduzione del segnale nelle vicinanze degli attivatori collocati in prossimità
del TCR. SOLO IL RICONOSCIMENTO DELL’ANTIGENE (STIMOLO FISIOLOGICO PER L’ATTIVAZIONE DI ZAP-70)
INNESCA LE VIE DI TRASDUZIONE DEL SEGNALE CHE PORTANO ALLA RISPOSTA FUNZIONALE DEI LINFOCITI
T.

Il riconoscimento dei complessi peptide-MHC da parte del TCR provoca il reclutamento di diverse proteine
di membrana e citoplasmatiche nel sito di contatto tra il linfocitaT e l’APC. La regione di contatto del
linfocita T con l’APC è detta sinapsi immunologica (SMAC). Le molecole che vengono rapidamente
reclutate verso il centro della sinapsi includono il complesso del TCR, i corecettori CD4 e CD8, i recettori per
le molecole costimolatorie (CD28), enzimi come la protein-chinasi θ (PKCθ) e le proteine adattatrici. Questa
regione della sinapsi è detta c-SMAC (central- SMAC). Le integrine rimangono nelle regioni periferiche della
sinapsi, dove hanno il compito di stabilizzare il legame del linfocita T all’APC formando la regione periferica
di SMAC chiamata p-SMAC. Le sinapsi immunologiche svolgono alcune funzioni fondamentali:

• Rappresentano un punto di contatto stabile tra il linfocita T e l’APC che presenta l’antigene,
costituendo il sito di assemblaggio della “macchina” della trasduzione del segnale del linfocita.
Costituiscono delle regioni preferenziali per l’attivazione del TCR, sebbene la trasduzione del
segnale del TCR inizi prima della formazione della sinapsi e siano anzi necessarie per la sua
formazione.
• Permettono un rilascio “direzionato” del contenuto di granuli secretori e citochine dal linfocita T
verso l’APC o la cellula bersaglio che prende parte alla sinapsi stessa. Un esempio è il rilascio
vettoriale dei granuli contenenti perforina e granzimi effettuato dai CTL per uccidere in maniera
selettiva le cellule bersaglio.
• Rappresentano il sito preferenziale di degradazione delle molecole coinvolte nella trasduzione del
segnale, mediante monoubiquitinazione e ingresso nella via di degradazione endosomiale e
lisosomiale e contribuiscono a spegnere l’attivazione dei linfociti T.

Le proteine G a basso peso molecolare, attivate dal riconoscimento dell’antigene, stimolano per lo meno
tre diverse MAP (Mitogen-Activated-Protein) chinasi, che a loro volta attivano diversi fattori trascrizionali.
Ciascuna proteina G attiva un diverso fattore trascrizionale.

• La via di RAS viene attivata in seguito al riconoscimento dell’antigene e porta all’attivazione della
protein-chinasi ERK (della famiglia delle MAP-chinasi). Ras è debolmente associata alla membrana
plasmatica mediante lipidi legati covalentemente. Nella sua forma inattiva, il sito di legame del
nucleotide guaninico è occupato da una molecole di guanosisa difosfato; quando il GDP è
rimpiazzato dal guanosina trifosfato (GTP), Ras subisce un cambiamento conformazione e può
reclutare o attivare numerosi enzimi cellulari, il più importante dei quali è c-Raf. L’attivazione di
molti recettori induce l’attivazione di Ras mediante lo scambio GDP/GTP. Le proteine Ras mutate
che diventano costitutivamente attive (cioè che si trovano costantemente nella forma legata a GTP)
sono spesso associate a trasformazione neoplastica.
• Il meccanismo di attivazione di Ras nei linfociti T coinvolge le proteine adattatrici LAT che diventa
così “sito di ancoraggio” per il dominio SH2 della proteina adattatrice GrB-2 che, a sua volta, recluta
in membrana la proteina SOS, la quale catalizza lo scambio GDP/GTP su Ras. In questo modo si
genera la forma di Ras legata a GTP che attiva una cascata di tre MAP-chinasi in sequenza, le prime
due delle quali fosforilano e attivano la chinasi successiva della cascata. L’ultima MAP chinasi è
proprio ERK. Nel dettaglio, la cascata si sussegue in questo modo: il complesso Ras-GTP attiva la
chinasi c-Raf, la quale attiva una chinasi dotata di duplice specificità che fosforila ERK a livello di
residui di treonina e tirosina strettamente adiacente. Questa chinasi a duplice specificità costituisce
un esempio di chinasi che attiva una MAP chinasi, detta MAP chinasi chinasi (MAPKK). Una volta
attivata, ERK trasloca al nucleo e fosforila una proteina chiamata Elk, che a sua volta stimola la
trascrizione di c-Fos, un componente di un fattore di trascrizione noto con il nome di AP-1
(Activating Protein 1).
• Parallelamente all’attivazione di Ras da parte di Grb-2 e SOS, le molecole adattatrici fosforilate
reclutano e attivano una proteina di scambio GTP/GDP detta Vav, che agisce su un’altra proteina G
a basso peso molecolare chiamata Rac. Il complesso Rac-GTP innesca una cascata di MAP chinasi
parallela a quella attivata da Ras, che porta all’attivazione di una diversa proteina della famiglia
delle MAP chinasi chiamata JNK o SAP. Una volta attivata, essa fosforila c-Jun, il secondo
componente del fattore di trascrizione AP-1. Rac-GTP provoca anche la riorganizzazione del
citoscheletro ed è responsabile dei complessi del TCR, dei corecettori e di altre molecole di
trasduzione a livello della sinapsi immunologica.

La trasduzione del segnale del TCR porta all’attivazione dell’isoforma γ1 dell’enzima fosfolipasi C (PLCγ1).
Essa catalizza l’idrolisi di fosfolipidi di membrana, dalla quale derivano prodotti che attivano enzimi che
portano all’attivazione di specifici fattori trascrizionali.
La fosfolipasi PLCγ1 è un enzima citoplasmatico specifico per i fosfolipidi che contengono inositolo e viene
reclutata nell’arco di pochi minuti dall’attivazione del TCR a livello della membrana plasmatica da parte di
LAT nella sua forma fosforilata in tirosina. Una volta fosforilata ad opera di ZAP-70, PLCγ1 catalizza l’idrolisi
di fosfatidilinositolo 4,5 bifosfato (PIP2), con formazione di due prodotti, l’inositolo 1, 4, 5-trifosfato (IP3) e
il diaciglicerolo (DAG) che rimane in membrana. Il PIP3 e il DAG attivano poi due distinte vie di trasduzione
del segnale:

• IP3 è responsabile del rapido aumento della concentrazione citoplasmatica di Ca2+ che si osserva
nei minuti successivi all’attivazione del linfocita T. Diffonde dal citoplasma al RE, dove si lega al
proprio recettore e stimola il rilascio di ioni calcio; questo rapido aumento di Ca viene rilevato da
una proteina del reticolo stesso detta STIM1, che attiva un canale ionico di membrana chiamato
CRAC che, promuovendo l’ingresso di calcio extracellulare, permette di mantenere una
concentrazione citosolica di 300-400nM per più di un’ora. Il Ca2+ agisce da secondo messaggero
legandosi ad una proteina ubiquitaria calcio-dipendente detta calmodulina. Il complesso calcio-
calmodulina attiva numerosi enzimi, tra cui la fosfatasi calcineurina.
• DAG è il secondo prodotto dell’idrolisi di PIP2 e attiva la protein-chinasi C (PKC). La combinazione di
elevato calcio citosolico e DAG attiva alcune isoforme della PKC di membrana inducendone un
cambiamento conformazionale che rende il sito catalico accessibile ai suoi substrati. L’isoforma
della PKC si localizza a livello della sinapsi immunologica ed è coinvolta nell’attivazione e nella
traslocazione al nucleo del fattore di trascrizione NF-kB.

Gli enzimi generati in seguito alla trasmissione del segnale da parte del TCR attivano fattori trascrizionali
che si legano alle regioni regolatrici di numerosi geni determinandone un aumento della trascrizione. I
fattori di trascrizione cruciali per la maggior parte delle risposte T sono tre:

1. NFAT: è un fattore di trascrizione necessario per l’espressione dei geni che codificano per IL-2, IL-4
e TNF. Esistono quattro tipi di NFAT, ognuno codificato da geni diversi. NFAT1 e NFAT2 sono le
forme espresse dai linfociti T; NFAT è presente nel citoplasma dei linfociti T quiescenti in una forma
inattiva fosforilata in serina e viene attivata dalla calcineurina, una fosfatasi calcio-calmodulina-
dipendente che rende disponibile un segnale di localizzazione nucleare, de fosforilando NFAT,
traslocandolo al nucleo. Una volta al nucleo, NFAT si lega a sequenze consenso presenti nelle
regioni regolatrici dei geni dell’IL-2, dell’IL-4 e di altri geni delle citochine, solitamente in
associazione con AP-1.
2. AP-1: è un fattore di trascrizione che si trova in molti tipi cellulari, ma viene attivato specificamente
nei linfociti T da segnali trasmetti dal TCR. È costituito da due proteine diverse legate tra loro grazie
ad un motivo strutturale comune detto cerniera di leucina. Nei linfociti T viene attivato a livello
nucleare, per opera di segnali trasmessi dal TCR. La formazione di AP-1 attivo necessita della
neosintesi della proteina Fos e della fosforilazione della proteina Jun, stimolate dalle MAP.
3. NF-kB: è un fattore di trascrizione essenziale per la sintesi delle citochine che viene attivato in
risposta a segnali trasmessi dal TCR. Può essere un omo- o un etero-dimero composto da proteine
omologhe al prodotto di un protoncogene cellulare detto c-rel; questo fattore svolge un ruolo
importante per la trascrizione di numerosi geni in differenti tipi cellulari e in particolare nelle cellule
dell’immunità innata.

Un altro meccanismo attraverso il quale viene regolata l’attivazione dei linfociti T coinvolge i microRNA
(miRNA), che sono piccoli RNA non codificanti trascritti dal DNA ma non tradotti in proteine. La funzione
dei miRNA è di inibire l’espressione di geni specifici. Nei linfociti T attivati, l’espressione della maggior parte
dei miRNA è globalmente ridotta.

Le tirosine-fosfatasi rimuovono gruppi fosfato da residui di tirosina contenuti nelle proteine e in generale
inibiscono la trasduzione del segnale del TCR. Le fosfatasi inibitorie sono solitamente reclutate dagli ITIM
presenti nelle code citoplasmatiche dei recettori inibitori che sono a loro volta fosforilati da tirosin-chinasi
indotte durante l’attivazione dei linfociti. Esse bloccano la trasduzione del segnale rimuovendo i gruppi
fosfato dalle tirosine contenute in importanti molecole responsabili della trasduzione del segnale e si
comportano quindi da antagonisti funzionali delle tirosin-chinasi. La maggior parte delle fosfatasi hanno un
ruolo inibitorio, tuttavia esiste una tirosina fosfatasi, detta CD45, che invece facilita l’attivazione dei linfociti
T. CD45 è una tirosina fosfatasi recettoriale espressa da tutte le cellule emopoietiche. Si tratta di una
proteina integrale di membrana che, nella coda citoplasmatica, contiene domini tandem di tirosina
fosfatasi. CD45 defosforila residui di tirosina inibitori delle chinasi della famiglia Scr e contribuisce perciò a
generarne le forme attive.

Alcuni recettori, riconoscendo i ligandi indotti sulle APC dai microbi, forniscono segnali costimolatori che
cooperano con i segnali trasmessi dal TRC per promuovere l’attivazione dei linfociti T. Il segnale trasdotto
dal TCR e dai corecettori in seguito al riconoscimento di un complesso MHC-peptide determina la risposta
dei linfociti T nei confronti delle strutture estranee (SEGNALE 1); tuttavia, perché l’attivazione sia
massimale, è necessario che il peptide estraneo sia già stato riconosciuto e abbia attivato le risposte innate
inducendo sulle APC i ligandi dei recettori costimolatori che rappresentano quindi un segnale di pericolo
(SEGNALE 2). In sostanza, per ottenere un’attivazione massimale dei linfociti T verso un segnale non self
deve combinarsi con la percezione di una situazione di pericolo.

Le molecole costimolatorie meglio conosciute sono due proteine tra loro correlate, chiamate B7-1 (CD80) e
B7-2 (CD86), espresse da DC attivate, macrofagi e linfociti B. Concorrono all’attivazione e alla
differenziazione dei linfociti T anche proteine strutturalmente simili ad un recettore chiamato CD2,
glicoproteina espressa da oltre il 90% dei linfociti T maturi. Contiene due domini Ig extracellulari, una
regione idrofobica trans membrana e una lunga coda citoplasmatica a 116 aminoacidi. Il CD2 è un tipico
esempio di molecola accessoria che funziona sia come molecola di adesione intercellulare sia come
proteina in grado di trasdurre il segnale. Un sottogruppo di CD2 è conosciuto con il nome di SLAM, che nella
coda citoplasmatica contiene dei residui di tirosina, uno di valina, uno di isoleucina e un motivo conosciuto
come ITSM noto come motivo interruttore che determina lo scambio tra il legame con la tirosina fosfatasi
SHP-2 e il legame con una tirosina-chinasi come Fyn, mediando il passaggio da una funzione attivatoria ad
una inibitoria, in base alla presenza o all’assenza di un mediatore detto SAP. Un altro membro importante
di questa famiglia è 2B4, espresso dalle NK, dai CTL e dalle Tγδ.

Quando i linfociti vengono attivati, la loro attività metabolica deve aumentare per soddisfare le maggiori
richieste della risposta cellulare. I linfociti T aumentano il trasporto di glucosio e cambiano il meccanismo
della produzione di energia passando dalla fosforilazione ossidativa mitocondriale alla glicolisi (effetto
Warburg).

COMPLESSO RECETTORIALE DEI LINFOCITI B

Il recettore per gli antigeni dei linfociti B (BCR) è costituito da un anticorpo trans membrana associato a due
catene responsabili della trasduzione del segnale. Il recettore per l’antigene dei linfociti B naive è
rappresentato da IgM e IgD di membrana, sostituito da IgG, IgA e IgE nei linfociti B che hanno effettuato lo
scambio di classe isotipica. Le Ig di membrana possiedono code citoplasmatiche composte da tre soli
aminoacidi (lisina, valina, lisina), troppo corte per trasdurre il segnale generato dal riconoscimento
dell’antigene. Di questo si occupano altre due molecole, Igα e Igβ, legate tra loro da ponti disolfuro e
associate non covalentemente all’Ig di membrana, insieme alla quale formano il complesso del BCR.

Entrambe queste catene possiedono un dominio ITAM intracitoplasmatico e, come il CD3 per il TCR, sono
necessarie per il trasporto in membrana della molecola anticorpale. L’antigene innesca la trasduzione del
segnale causando l’aggregazione del BCR. Si pensa che l’aggregazione delle Ig di membrana da parte di
antigeni multivalenti comporti l’aggregazione anche di chinasi della famiglia Src e, promuovendo
l’interazione fisica, la loro attivazione, rendendole capaci di fosforilare le tirosine degli ITAM di Igα e Igβ. La
fosforilazione delle tirosine degli ITAM attiva tutti gli eventi di trasduzione del segnale a valle del BCR. Le Ig
recettoriali aggregate entrano nei raft lipidici, dove si concentrano molte proteine adattatrici e molecole
importanti per la trasduzione del segnale. Igα e Igβ sono debolmente associate a tirosin-chinasi della
famiglia Src, che sono anche associate al foglietto interno della membrana citoplasmatica. I residui
fosforilati di tirosina degli ITAM dell’Igα e dell’Igβ permettono il legame e l’attivazione della tirosin-chinasi
Syk, dotata di due domini SH2 in tandem. Questa può essere inoltre fosforilata e ulteriormente attivata da
chinasi della famiglia Src associate al BCR.

L’attivazione dei linfociti B è potenziata da segnali generati da proteine del complemento attraverso il
recettore CD21, che fa dunque da tramite tra l’immunità innata e l’immunità specifica umorale. Il sistema
del complemento consiste di un gruppo di proteine plasmatiche che si attivano legando agli
immunocomplessi (via classica) oppure interagendo direttamente con alcuni polisaccaridi o con le superfici
microbiche in assenza di anticorpi (via alternativa o lectinica). In questo modo, durante le risposte
immunitari innate i polisaccaridi e le sostnze di origine microbica possono attivare direttamente il sistema
del complemento. Proteine ed altri antigeni che non attivano direttamente il complemento possono legarsi
ad anticorpi preesistenti attivando il complemento tramite la via classica. Il componente chive è C3, dalla
cui scissione si genera C3b che si lega covalentemente al microrganismo o all’immunocomplesso per poi
essere ulteriormente degradato in C3d, che resta legato alla superficie microbica o al complesso antigene-
anticorpo. I linfociti B esprimono un recettore per il C3d denominato recettore per il complemento di tipo 2
(CR2 o CD21). Il complesso formato da C3d con l’antigene o con l’immunocomplesso si lega ai linfociti B. Il
CR2 è espresso sulla membrana dei linfociti B come il complesso trimolecolare con CD19 e CD81 (definito
TAPA-1). Il complesso CR2-CD19-CD81 viene anche definito complesso corecettoriale dei linfociti B. Il
legame di CR2 con C3d porta il CD19 in prossimità delle chinasi associate al BCR; perciò, il CD19 viene
rapidamente fosforilato causando il reclutamento della Lyn, una chinasi della famiglia Scr in grado di
amplificare i segnali generati dal BCR aumentando l’efficienza della fosforilazione dei residui di tirosina
delle ITAM di Igα e Igβ. Il CD19 fosforilato è inoltre in grado di attivare altre vie di trasduzione del segnale,
come quella dipende dalla chinasi PI3.

In seguito al legame del BCR con l’antigene, Syk e altre tirosin-chinasi attivano numerosi secondi
messaggeri “a valle”, la cui attività viene regolata da numerose proteine adattatrici. L’aggregazione del BCR
o la sua attivazione tramite un meccanismo dipendente dai corecettori determinano la fosforilazione degli
ITAM e il reclutamento di Syk, seguito dall’attivazione di questa chinasi contenente due domini SH2. Syk
attivata causa la fosforilazione di specifici residui di tirosina della proteina adattatrice SLP-65 (BLNK),
facilitando il reclutamento di altri enzimi che contengono domini SH2, come proteine scambiatrici di
GTP/GDP, la fosfolipasi PLCγ2 e altre chinasi. Il reclutamento di tutte queste molecole effettrici facilita la
loro attivazione e ognuna di esse contribuisce all’attivazione di distinte vie di trasduzione del segnale.

• Nei linfociti B stimolati dall’antigene viene attivata la via delle Ras-MAP-chinasi. Il fattore SOS è uno
scambiatore di GTP/GDP che viene reclutato da BLNK attraverso il legame con la proteina
adattatrice Grb-2; Ras viene poi convertita da questo scambiatore dalla forma inattiva legata a GDP
alla forma attiva legata a GTP. Ras attivata contribuisce ad attivare la via di ERK.
• In risposta al segnale prodotto dal BCR viene attivata la fosfolipasi C (PCL), specifica per il
fosfatidilinositolo. Nei linfociti B, l’isoforma dominante della PCL è la PCLγ2, attivata in seguito al
legame con BLNK e fosforilata da Syk e Btk. PCL attivata taglia PIP2 generando IP3 solubile e
liberando DAG nella membrana plasmatica. IP3 determina un rapido aumento della concentrazione
di ioni calcio intracitoplasmatico, grazie al quale DAG attiva alcune isoforme della PKC, che
fosforilano residui di serina/treonina di altre proteine.
• L’attivazione della PKC-β contribuisce all’attivazione di NF-kB nei linfociti B stimolati dall’antigene.
Questo processo è attivato da PKC-θ.

Queste cascate di trasduzione del segnale finiscono per attivare diversi fattori di trascrizione necessari
all’espressione di geni i cui prodotti sono indispensabili per l’attivazione dei linfociti B; alcuni di questi sono
Fos e JunB.
Nei linfociti, la trasduzione dei segnali inibitori dipende anzitutto dall’attivazione di recettori inibitori, ma
hanno un ruolo anche enzimi noti come ubiquitina ligasi E3, i quali contrassegnano determinate molecole
affinchè vengano degradate. La maggior parte dei recettori inibitori contiene motivi ITIM nelle code
citoplasmatiche, che possono reclutare fosfatasi contenenti domini SH2, attenuando la trasduzione del
segnale. Nelle cellule NK, i recettori inibitori chiamati KIR contengono domini extracellulari Ig che possono
riconoscere molecole HLA di classe I; una frazione di quesi recettori contiene motivi ITIM citosolici. Il
recettore inibitorio CD94/NKG2A, che riconosce una molecole MHC di classe I atipica nota come HLA-E,
possiede motivi ITIM citosolici. I residui di tirosina presenti negli ITIM possono essere fosforilati da chinasi
della famiglia Src e reclutare alcune tirosin-fosfatasi, come SHP-1 e SHP-2 che attenuano la trasduzione del
segnale attivata dalla fosforilazione in tirosina ad opera di recettori attivatori delle NK e del BCR e del TCR
dei linfociti B e T. Invece, SHIP rimuove i gruppi fosfato da PIP3, inibendo così l’attivazione della chinasi PI3
nei linfociti, nelle NK e nelle cellule dell’immunità innata.

CTLA-4 (CD152) è il più noto recettore inibitorio della famiglia di CD28 e possiede la capacità di inibire le
risposte dei linfociti attivati. È responsabile del mantenimento della tolleranza agli antigeni self. Un altro
recettore inibitorio appartenente alla stessa famiglia è PD-1.

Uno dei principali meccanismi di degradazione delle proteine citoplasmatiche e nucleari si basa sul loro
legame covalente con residui di ubiquitina. Tipi diversi di ubiquitinazione possono causare l’attenuazione
oppure l’induzione della trasduzione del segnale. L’ubiquitina è una proteina a 76 aminoacidi attivata in
maniera ATP-dipendente da un enzima E1 per essere poi trasportata da un enzima E2 su uno specifico
substrato che viene riconosciuto dall’ubiquitina ligasi E3. Molto spesso, dopo che la porzione C-terminale di
un’ubiquitina è stata unita covalentemente ad un residuo di lisina delle proteine bersaglio, le estremità C-
terminali delle successive ubiquitine vengono legate a residui di lisina dell’ubiquitina precedente,
generando catene di poli-ubiquitina. La forma della catena di poli-ubiquitina varia notevolmente a seconda
dello specifico residuo di lisina utilizzato per il legame della molecole successiva e ha importanti
conseguenze funzionali. Una tipica ligasi E3 coinvolta nello spegnimento delle risposte è Cbl-b. Al contrario,
i segnali provenienti dal CD28 bloccano l’attività inibitoria di Cbl-b e questo è uno dei modi attraverso cui la
costimolazione aumenta l’attivazione del TCR.
Vediamo ora nel dettaglio le varie classi recettoriali delle citochine e come avviene la trasduzione del
segnale.

Tutti i recettori per le citochine sono costituiti da una o più proteine trans membrana le cui porzioni
extracellulari legano la citochina, mentre le porzioni citoplasmatiche trasducono il segnale all’interno della
cellula. Nella maggior parte dei casi, la trasduzione del segnale viene attivata dall’aggregazione di più
recettori ad opera del ligando, grazie alla quale le code citoplasmatiche vengono portate a stretto contatto
rendendo così possibile l’attivazione di specifiche tirosin-chinasi non recettoriali. Un eccezione è
rappresentata dai recettori per il TNF: essi sono formati da trimeri preformati che, dopo aver riconosciuto i
rispettivi ligandi, vanno incontro ad un cambiamento conformazionale che attiva la trasduzione del segnale.
Vediamo nel dettaglio le singole classi di recettori per le citochine.

• Recettori per le citochine di tipo I (famiglia del recettore dell’ematopoietina): sono dimeri o
trimeri composti da catene che hanno il compito di riconoscere il ligando, e da una o più catene che
trasducono il segnale. Entrambi i tipi di catena sono caratterizzati da uno o due domini conservati
contenenti un paio di residui di cisteina e dalla sequenza aminoacidica triptofano-X-triptofano-
serina. Le sequenze conservate formano strutture tridimensionali in grado di legare specifiche
citochine contenenti quattro α-eliche, dette citochine di tipo I; la specificità per una determina
citochine è conferita da aminoacidi caratteristici di ciascun recettore. Questa famiglia può essere
suddivisa in vari sottogruppi:
• Presenza di una catena denominata catena γ-comune (CD132): comprende i recettori per l’IL-2,
IL-4, IL-7, IL-9, IL-15, IL-21.
• Presenza di una catena β-comune (CD131): include i recettori per l’IL-3, IL-5 e GM-CSF.
• Presenza di una catena gp130: include i recettori per l’IL-6, IL-7 e IL-27.

Tutti i recettori per le citochine di tipo I ingaggiano una via di trasduzione di tipo JAK-STAT.
• Recettori per le citochine di tipo II (famiglia del recettore dell’interferone): possiedono due
domini extracellulari contenenti residui conservati di cisteina. Sono composti da una catena che
riconosce la citochine e da una che trasduce il segnale. Include i recettori per gli interferoni di tipo I
e II, per l’IL-10, IL-20 e IL-22. Ingaggia vie di trasduzione JAK-STAT.
• Famiglia del recettore per il TNF: questi recettori sono costituiti da trimeri preformati. Importanti
membri di questa famiglia sono i due recettori per il TNF, TNFRI e TNFRII, la proteina CD40, la
proteina Fas, il recettore linfotossina e la famiglia dei recettori del fattore di attivazione della cellula
B (BAFF). I recettori trimerici che riconoscono i rispettivi ligandi subiscono un cambiamento
conformazionale che permette loro di reclutare proteine adattatrici, le quali a loro volta reclutano
protein-chinasi che iniziano la trasduzione del segnale a valle dei recettori. Viene inoltre reclutata
l’ubiquitina ligasi E3, responsabile di una poli-ubiquitinazione non degradativa. Nel caso del
recettore per il TNF, viene reclutata la proteina adattatrice TRADD (TNF-Receptor-Associated Death
Domain) che può a sua volta reclutare proteine dette TRAF (TNF-Receptor Associated Factors)
dotate di specifica attività ligasi E3. Il recettore per il TNF di tipo I e la proteina Fas (CD95) possono
anche reclutare adattatori che causano l’attivazione della caspasi-8, inducendo apoptosi.

• Famiglia dell’IL-1: questi recettori possiedono un dominio citoplasmatico conservato detto TIR,
mediante il quale ingaggiano vie di trasduzione che attivano la trascrizione genica. L’ingaggio degli
IL-1R o dei TLR determina la dimerizzazione del recettore e il reclutamento, in corrispondenza del
dominio TIR, di una o più proteine adattatrici contenenti anch’esse un dominio TIR. Le proteine
adattatrici collegano i recettori a differenti membri della famiglia IRAK che, a loro volta, possono
mettere in contatto le proteine adattatrici alla proteina TRAF6, ubiquitina ligasi E3 necessaria per
l’attivazione di NF-kB.

Vediamo ora come avviene la trasduzione del segnale tramite JAK e STAT. I membri della famiglia dei
recettori di tipo I e II attivano vie di trasduzione che coinvolgono enzimi definiti chinasi Janus (JAK) e fattori
di trascrizione definiti STAT (Signal Transducers and Activators of Transcription). Le forme inattive della
chinasi JAK sono associate non covalentemente ai domini citoplasmatici dei recettori per le citochine di tipo
I e II. L’aggregazione di due catene recettoriali causata dal legame della citochina determina l’attivazione
delle molecole JAK associate al recettore, che fosforilano residui di tirosina presenti nella porzione
citoplasmatica del recettore. Alcuni dei residui di fosfotirosina vengono quindi riconosciuti e legati da
domini SH2 presenti nelle proteine STAT, che si trovano nel citoplasma in forma monomerica. Le proteine
STAT vengono così avvicinate e fosforilate dalle JAK associate al recettore. I residui di fosfotirosine della
STAT attivata sono in grado di legare il dominio SH2 in un’altra molecola STAT, formando così un dimero
che si stacca dal recettore e trasloca al nucleo, dove si lega a sequenze di DNA specifiche, presenti nelle
regioni promotrici dei geni responsivi alle citochine, attivandone la trascrizione.

I diversi domini SH2 presenti nelle proteine STAT riconoscono selettivamente strutture costituite sia dai
residui di fosfotirosina sia dalle sequenza aminoacidiche adiacenti. Ciò sembrerebbe il principale
meccanismo attraverso cui diversi recettori per le citochine, che attivano particolari STAT, inducono
specifiche attività biologiche.

Tutta la classe delle citochine di tipo I utilizza la chinasi JAK3, la cui espressione è ristretta alle cellule del
sistema immunitario ed è attivata solo dai recettori per le citochine che utilizzano la catena comune γ. I
recettori per le citochine di tipo I della famiglia di IL-6 usano JAK2 per attivare STAT3. Le mutazioni
eterozigoti dominanti negative di STAT3 sono tra le cause della sindrome da iper IgE, nota come sindrome
di Giobbe, immunodeficienza associata a difetti delle risposte Th17. Le mutazioni che determinano
l’attivazione di STAT3 sono caratteristiche delle leucemie dei grandi linfociti granulari che coinvolgono
l’espansione di cellule NK o di linfociti T CD8+. In generale, mutazioni che determinano la perdita di
funzione in alcune JAK e STAT contribuiscono a sindromi da immunodeficienza primaria, mentre le
mutazioni somatiche attivatorie di STAT sono associate ad una moltitudine di neoplasie.

Oltre a JAK e STAT, le citochine attivano anche altre vie di trasduzione del segnale : per esempio, la catena β
del recettore per l’IL-2 attiva la via RAS/MAPK che può stimolare la proliferazione cellulare e la trascrizione
genica.
Esistono diversi meccanismi di regolazione della via JAK/STAT: per esempio, le proteine SOCS fungono da
adattatori per l’attività di una ligasi E3 composta da molte sottounità. Il legame alle STAT e alle JAK attivate
determina l’ubiquitinazione e la degradazione da parte del proteasoma grazie alle ligasi E3 ad esse
strettamente associate. Le SOCS agiscono da regolatori a feedback negativo della stimolazione cellulare da
parte delle citochine.

Infine, per concludere questo capitolo, vediamo le caratteristiche delle vie di attivazione di NF-kB.
Ricordiamo che NF-kB è un importantissimo fattore trascrizionale, fondamentale per l’infiammazione,
l’attivazione leucocitaria, la sopravvivenza cellulare e la formazione degli organi linfoidi secondari. Esso
viene attivato, oltre che dal riconoscimento dell’antigene, da molte citochine e ligandi dei TLR . in realtà, il
termine NF-kB indica una famiglia composta da cinque proteine che presentano un dominio comune, detto
dominio di omologia Rel, in grado di legare il DNA. Per essere attivo, un fattore di trascrizione deve essere
in grado non solo di legarsi al DNA, ma anche di attivare la trascrizione attraverso un apposito “dominio di
attivazione”. Tre proteine NF-kB possiedono sia domini di omologia Rel sia domini di attivazione: p65/RelA,
RelB e RelC. Al contrario, NF-kB1 e NF-kB2 mancano dei domini di attivazione, risiedono nel citoplasma
legati ad un inibitore detto IКBα e vengono attivati da numerosi recettori coinvolti dell’induzione
dell’infiammazione e nell’attivazione linfocitaria. Per l’attivazione di NF-kB sono richiesti due tipi di
poliubiquitinazione:

1. Il riconoscimento del ligando porta all’attivazione di una specifica ubiquitina ligasi E3 che aggiunge
una catena di ubiquitina di tipo lisina-63 ad una proteina detta NEMO (IKKγ), subunità non catalitica
di un complesso enzimatico noto come IKK. Esso contiene altre due subunità chiamate IKKα e IKKβ,
ciascuna delle quali è una potenziale serina/treonina chinasi catalicamente attiva. L’ubiquitinazione
di NEMO permette a IKKβ di essere attivata da una chinasi a monte.
2. Una volta attivata, l’IKKβ fosforila l’IКBα, in corrispondenza di due specifiche serine,
contrassegnandola per l’ubiquitinazione lisina-48.
3. IКBα poliubiquitinata quindi viene degradata dal proteasoma e gli etero dimeri canonici di NF-kB
sono liberi di entrare nel nucleo.
CAPITOLO 8: MATURAZIONE DEI LINFOCITI E RIARRANGIAMENTO DEL RECETTORE PER L’ANTIGENE

La maturazione dei linfociti B e T consiste in una serie di eventi che avvengono negli organi linfoidi primari:

1. Orientamento dei progenitori verso la linea differenziativa B o T;


2. Proliferazione delle cellule progenitrici e dei linfociti in via di differenziazione, per aumentare il
numero di cellule in grado di generare linfociti maturi.
3. Riarrangiamento dei geni del recettore per l’antigene. Tale processo, sequenziale e coordinato, è
necessario per la corretta espressione dei diversi recettori per l’antigene;
4. Eventi atti a selezionare le cellule dotate di un recettore funzionante e ad eliminare quelle
potenzialmente pericolose in grado di riconoscere con elevata affinità gli antigeni self. Questi
meccanismi di controllo assicurano che, raggiunta la maturazione, i linfociti esprimano recettori
funzionanti dotati di specificità utili al sistema immunitario.
5. Differenziazione dei linfociti T e B in sottopopolazioni distinte per fenotipo e funzioni. I linfociti B si
differenziano in linfociti B follicolari, in linfociti della zona marginale e in linfociti B-1. I linfociti T si
differenziano in CD4+ helper, CD8+ αβ citotossici, linfociti NKT e in linfociti T γδ.

Le cellule staminali pluripotenti presenti nel fegato fetale e nel midollo osseo, note come cellule staminali
emopoietiche (HSC) danno origine a tutte le cellule circolanti, inclusi i linfociti. Maturando, le HSC danno
origine a progenitori linfoidi comuni, che a loro volta danno origine ai linfociti B e T, alle cellule linfoidi
innate e ad alcuni tipi di cellule dendritiche.

La maturazione dei linfociti B avviene prevalentemente nel midollo osseo e nel fegato fetale; le HSC
epatiche fetali danno origine prevalentemente ad un particolare tipo di linfociti B, detti linfociti B-1; le HSC
midollari danno origine alla maggior parte dei linfociti B circolanti (follicolari) nonché a quelli della zona
marginale. I precursori dei linfociti T che lasciano il fegato fetale o il midollo prima e dopo la nascita,
rispettivamente, entrano in circolo raggiungendo successivamente il timo, dove completano la loro
maturazione. La maggior parte dei linfociti T αβ deriva dalle HSC midollari, mentre quelli γδ derivano dalle
HSC epatiche fetali. I linfociti che si sviluppano durante il periodo fetale sono caratterizzati da una limitata
diversificazione del repertorio recettoriale.
L’indirizzamento verso la linea differenziativa B o T è determinato dall’attivazione di recettori di membrana
che inducono l’espressione di specifici fattori trascrizionali che, a loro volta, inducono un progenitore
linfoide comune a differenziarsi in un linfocita B o T. I recettori di superficie e i fattori trascrizionali
inducono l’espressione di proteine che, riuscendo a interagire con specifici loci del gene codificante il
recettore per l’antigene, ne regolano il riarrangiamento. Diverse classi di fattori trascrizionali guidano la
differenziazione delle cellule progenitrici in linfociti B o T: i fattori di trascrizione Notch-1 e GATA-3 dirigono
la differenziazione dei linfociti specificamente verso la linea T. Notch è una proteina di membrana attivata
dalla sua proteolisi controllata innescata dall’interazione con ligandi specifici presenti su cellule adiacenti.
La porzione intracellulare di Notch così generata migra verso il nucleo dove andrà a modulare l’espressione
di specifici geni bersaglio. Nelle cellule progenitrici linfoidi, Notch-1 viene attivato insieme a GATA3,
inducendo l’espressione di una serie di geni necessari per l’ulteriore sviluppo dei linfociti T αβ. Invece, i
fattori di trascrizione EBF, E2A e Pax-5 inducono l’espressione dei geni coinvolti nello sviluppo dei linfociti B,
tra cui quelli che codificano per le proteine Rag-1 e Rag-2.

Durante lo sviluppo dei linfociti B e T, le cellule progenitrici già indirizzate verso le distinte linee
differenziative proliferano dapprima in risposta alle citochine e quindi in risposta ai segnali generati da un
recettore pre-antigene che seleziona le cellule che hanno correttamente riarrangiato il primo gruppo di
geni codificanti per il recettore per l’antigene. L’attività mitotica fa sì che venga generato un pool
abbastanza numeroso di cellule che daranno vita ad un repertorio molto ampio di linfociti antigene-
specifici. Nell’uomo, IL-7 è necessaria per la proliferazione dei progenitori dei linfociti T; essa è sintetizzata
dalle cellule stromali del midollo e nel timo dalle cellule epiteliali. Mutazioni nella catena comune γ,
condivisa dai recettori per diverse citochine incluse IL-2, IL-7 e IL-15, provocano un’immunodeficienza
definita immunodeficienza grave combinata legata al cromosoma X.

Il più imponente evento proliferativo dei precursori linfocitari può avvenire solo dopo il corretto
riarrangiamento dei geni codificanti per una delle due catene del recettore per l’antigene, producendo il
pre-recettore per l’antigene. I segnali generati da questi pre-recettori hanno un ruolo più importante
nell’espansione della popolazione dei linfociti che si stanno differenziando di quello di citochine come IL-7.

Molti degli eventi nucleari associati allo sviluppo delle diverse sottopopolazioni linfocitarie sono regolati da
meccanismi epigenetici, ossia da meccanismi che regolano la diversa organizzazione della cromatica e
dunque la diversa accessibilità dei geni ai fattori trascrizionali. Tra questi, la metilazione dei residui di
citosina del DNA (silenziamento del gene interessato), modificazioni post-traslazionali (acetilazione,
metilazione e ubiquitinazione delle code istoniche dei nucleosomi), rimodellamento attivo della cromatina
e infine il silenziamento dell’espressione genica ad opera di RNA non codificanti. Modificazioni istoniche in
particolari loci del gene codificante per il recettore per l’antigene sono necessarie al reclutamento delle
proteine responsabili del processo di ricombinazione, necessario per dare origine a recettori per l’antigene
funzionanti. Lo sviluppo di un linfocita T CD4+ o CD8+ dipende da meccanismi epigenetici che silenziano
l’espressione del gene CD4 nei linfociti CD8+, che consistono nel porre il gene CD4 nella forma di etero
cromatina inaccessibile. Anche i miRNA possono contribuire alla modulazione dell’espressione genica e
proteica durante lo sviluppo.

Il riarrangiamento dei geni del recettore per l’antigene costituisce l’evento chiave della maturazione
linfocitaria, essenziale per la generazione di un repertorio diversificato. Nell’uomo possono esistere più di
10^7 diversi cloni di linfociti B e T, ognuno dotato di uno specifico recettore. Tuttavia, non è richiesto un
corrispondente numero di geni che codifichino per i recettori per l’antigene. I geni in grado di codificare per
i recettori sono prodotti nei linfociti B immaturi, nel midollo osseo, e nei linfociti T immaturi, nel timo,
attraverso un processo di riarrangiamento genico che genera un enorme numero di esoni in grado di
codificare per la regione variabile del recettore, pur partendo da una frazione di genoma relativamente
piccola. Durante la maturazione, in ogni singolo linfocita uno dei diversi segmenti genici che codificano per
le regioni variabili viene scelto a caso e coniugato a un segmento di DNA successivo. Gli eventi di
riarrangiamento non sono influenzati dalla presenza dell’antigene: i diversi recettori per l’antigene sono
generati ed espressi prima che avvenga l’incontro con l’antigene stesso.

Durante lo sviluppo linfocitario, sono presenti numerosi punti di controllo (“checkpoints”) i quali assicurano
che solo le cellule che hanno correttamente portato a termine le varie fasi della differenziaione proseguano
nel processo di maturazione. Uno di questi punti di controllo si basa sulla corretta espressione di una delle
due catene del recettore per l’antigene e successivamente sul controllo del corretto assemblaggio del
recettore completo. I punti di controllo successivi hanno lo scopo di eliminare i linfociti autoreattivi oppure
di orientare i linfociti verso specifiche forme di selezione. Sia i pre-recettori per l’antigene sia i recettori
stessi trasmettono segnali essenziali per la sopravvivenza, la proliferazione e la continuazione del processo
maturativo dei linfociti. I pre-BCR e i pre-TCR sono in grado di trasdurre segnali che vengono espressi nel
corso dello sviluppo linfocitario; essi contengono solo una delle catene che compongono il recettore per
l’antigene maturo (catena pesante di Igμ e catena TCRβ). Per poter esprimere queste catene, i linfociti B o T
devono prima andare incontro a riarrangiamenti dei geni che codificano per i recettori, un processo che
necessita l’esposizione di particolari logi genici e la loro fusione con particolari segmenti di DNA necessari a
generare un recettore funzionale. Al fine di ottenere la massima diversificazione possibile, diversi nucleotidi
vengono aggiunti o rimossi casualmente. Nel corso della maturazione, i primi geni ad essere riarrangiati
sono quelli per la catena pesante delle Ig (gene IgH) nei linfociti B e quelli per la catena β del TCR nei
linfociti T αβ. I precursori dei linfociti B che avranno correttamene riarrangiato i geni per le catene pesanti
delle Ig esprimeranno quindi la catena pesante μ, che agirà da pre-BCR; analogamente per i precursori dei
linfociti T che avranno correttamente riarrangiato il gene corrispondente esprimeranno la catena β del TCR,
che fungerà da pre-TCR. Solo un terzo dei precursori dei linfociti B e T che vanno incontro al
riarrangiamento riesce a portare a termine in maniera corretta il processo; quelli difettosi non riceveranno
alcun segnale di sopravvivenza e andranno incontro a morte programmata. A seguito di questi eventi, i
linfociti B e T in corso di sviluppo cominceranno ad esprimere recettori per l’antigene completi e
funzionanti e saranno quindi selezionati per la sopravvivenza in base a ciò che tali recettori possono
riconoscere. I linfociti che hanno superato il checkpoint del pre-recettore procedono al riarrangiamento e
all’espressione dei geni codificanti la seconda catena del BCR/TCR. In questa fase, i linfociti sono ancora in
uno stato immaturo, in cui quelli autoreattivi possono ancora essere eliminati. In particolare, parleremo di:

• SELEZIONE POSITIVA: processo che salvaguarda i linfociti dotati di specificità utile, garantendo la
maturazione delle cellule dotate di recettori in grado di riconoscere le molecole MHC e di
corecettori (CD4 e CD8) in grado di riconoscere rispettivamente MHC II e MHC I; nel caso dei
linfociti B, verranno mantenuti in vita quei recettori per l’antigene funzionali.
• SELEZIONE NEGATIVA: processo che elimina o modifica i linfociti dotati di recettori che riconoscono
con elevata affinità gli antigeni self presenti negli organi linfoidi primari. I linfociti T immaturi
autoreattivi vengono eliminati per apoptosi (delezione clonale); i linfociti B autoreattivi vengono
indotti a riarrangiare ulteriormente i geni delle Ig al fine di modificare la loro specificità (editing
recettoriale). Se l’editing recettoriale non va a buon fine, il linfocita B autoreattivo muore per
delezione clonale. Questi processi sono fondamentali per mantenere la tolleranza centrale.

I geni per i diversi recettori per l’antigene sono generati nei singoli linfociti dal riarrangiamento di diversi
segmenti genici della regione variabile (V) con segmenti genici della regione della diversità (D) e/o quelli
della ricongiunzione (J). Per ognuno di questi geni viene generato un nuovo esone riarrangiato mediante la
fusione di un segmento a monte con uno a valle del gene V sullo stesso cromosoma. Questo peculiare
processo di riarrangiamento selettivo è definito RICOMBINAZIONE V(D)J. La configurazione germinativa dei
loci genici per le Ig e per il TCR è fondamentalmente simile in tutte le cellule ed è caratterizzata dalla
segregazione spaziale di numerose sequenze codificanti per i domini variabili e da un numero relativamente
basso di sequenze codificanti per i domini costanti dei diversi recettori. Distinte sequenze codificanti per le
regioni variabili vengono congiunte a sequenze che codificano per le regioni costanti, per generare i singoli
linfociti. Prima di descrivere come avviene la ricombinazione V(D)J, descriviamo i loci genici per le Ig e per il
TCR.

• Organizzazione dei loci genici per le Ig: tre loci separati codificano rispettivamente per tutte le
catene pesanti, le catene leggere di tipo К e quelle di tipo λ delle Ig. Ogni locus è localizzato su un
diverso cromosoma. All’estremità 5’ di ogni locus vi è un cluster di geni V, ciascuno dei quali è
costituito da circa 300bp. Nell’uomo esitono circa 35 geni V per la catena leggera К, 30 per la
catena leggera λ e 45 per le catene pesanti. I segmenti genici V sono distribuiti in un’ampia regione
di DNA di circa 2000 kb. Localizzato all’estremità 5’ di ogni segmento V c’è un esone leader, che
codifica i 20-30 residui N-terminali della proteina. Questa sequenza, definita anch’essa leader, è
moderatamente idrofobica e rappresenta la sequenza segnale presente in tutte le proteine neo
sintetizzate secrete o trans membrana. La sequenza leader svolge un ruolo importante durante la
sintesi proteica guidando i polipeptidi nascenti dai risobomi al lume del RE. Qui, la sequenza leader
viene rimossa rapidamente, venendo perciò a mancare nella proteina matura. A monte di ogni
esone leader c’è un promotore del gene V, dove inizia la trascrizione. Ad una distanza variabile, in
posizione 3’ rispetto ai geni V, si trovano i segmenti genici J, strettamente associati agli esoni che
codificano per la regione costante localizzati più a valle. I segmenti J sono separati da sequenze non
codificanti. Tra i geni V e J, nel locus H delle Ig, si trovano sequenze codificanti aggiuntive note
come segmenti D (diversità), non presenti nei loci delle catene leggere. Ogni locus per le Ig subisce
un proprio riarrangiamento che coinvolge un certo numero di geni della regione C. Nell’uomo, il
locus per la catena leggera К delle Ig ha un singolo gene C, mentre il locus per la catena leggera λ
ha 4 geni funzionali C; il locus per la catena pesante ha 9 geni, localizzati in modo tale da codificare
i 9 diversi isotipi e sottotipi delle Ig. I geni CК e Cλ sono composti ognuno da un solo esone; invece,
ogni gene CH è composto da 5 o 6 esoni, 3 o 4 dei quali codificanti per la sequenza CH della catena
pesante, mentre 2 codificanti per la porzione carbossiterminale della forma di membrana. Nelle
catene leggere К e λ, il dominio V è codificato da segmenti genici V e J, mentre nelle catene pesanti
il dominio V è codificato da segmenti genici V, D e J. I residui giunzionali posti a cavallo dei
segmenti genici V e D o D e J riarrangiati formano la terza regione ipervariabile (regione che
determina la complementarietà 3, CDR3). I residui giunzionali posti a cavallo dei segmenti genici V
e J riarrangiati formano invece la terza regione ipervariabile delle catene leggere. Le regioni CDR1 e
CDR2 sono codificate nella configurazione germinativa da un segmento presente in ogni gene V. Le
sequenze non codificanti dei loci Ig svolgono un ruolo importante nella ricombinazione e
dell’espressione dei diversi loci genici.
• Organizzazione dei loci genici per il TCR: nella configurazione germinativa, ciascun locus
codificante per il TCR presenta un’organizzazione molto simile a quella dei loci codificanti per le Ig,
con un cluster localizzato all’estremità 5’ composto da numerosi segmenti genici V, seguiti dai
segmenti genici D e da un cluster di segmenti genici J. Nell’uomo, il locus β contiene 50 segmenti
genici V, 2 D e 12 J; il locus α contiene 45 segmenti genici V e 50 J. I loci γ e δ contengono un totale
di 7 segmenti genici V. A monte di ogni segmento V c’è un esone che codifica un peptide leader e a
monte di ogni esone leader c’è un promotore per ogni gene V. Nell’uomo, esistono 2 geni C in
ciascuno dei loci per la catena β e per la catena γ del TCR, ciascuno dei quali possiede il proprio
cluster di segmenti genici J localizzato all’estremità 5’ e un solo gene C in ciascun locus di α e γ.
Ciascuna regione C è composta da 4 esoni codificanti per il dominio immunoglobulinico della
regione extracellulare C, una breve regione cerniera, il segmento trans membrana e la coda
citoplasmatica.

Vediamo ora nel dettaglio il processo di RICOMBINAZIONE V(D)J. Questo processo avviene in qualsiasi
locus per le Ig o per il TCR e prevede la scelta casuale di un gene V, un segmento J e un segmento D
(quando presente); è proprio il loro riarrangiamento a formare un singolo esone V(D)J che codificherà per la
regione variabile di un recettore per l’antigene specifico per ogni singolo linfocita. Nei loci per la catena
leggera delle Ig e per le catene α e δ del TCR (dove non sono presenti i segmenti D), un singolo evento di
riarrangiamento unisce casualmente un gene V ad un segmento J. Invece, nei loci per le IgH e per le catene
β e δ del TCR (dove sono presenti i segmenti D) due distinti eventi di riarrangiamento devono essere
effettuati separatamente: il primo ricongiunge un segmento D ad uno J, il secondo ricongiunge il
neoformato segmento DJ a un segmento V. Ogni riarrangiamento prevede una precisa sequenza di reazioni:

• La cromatina deve essere aperta in regioni specifiche del cromosoma per rendere accessibili i
segmenti genici codificanti per i recettori per l’antigene.
• I due segmenti genici scelti devono essere avvicinati, a volte anche da posizione cromosomiche
molto distanti.
• Alle terminazioni codificanti dei due segmenti genici devono essere effettuati dei tagli alla doppia
elica del DNA, devono essere inserite dei nucleotidi e infine le terminazioni così formate devono
essere ricongiunte a formare il gene per il recettore di quel particolare clone, che possa essere
efficacemente trascritto.
Le regioni C si posizionano a valle degli esoni V(D)J riarrangiati. Questi ultimi vengono trascritti a formare un
RNA nucleare primario che andrà incontro ad un successivo processo di splicing che unirà l’esone leader,
l’esone V(D)J e l’esone della regione C, formano così un mRNA che, a livello ribosomiale, verrà tradotto a
formare una delle catene del recettore per l’antigene. La generazione di diverse combinazioni dei segmenti
genici V, D e J e l’addizione o la rimozione di nucleotidi alle loro giunzioni contribuiscono all’enorme
diversificazione dei recettori per l’antigene.

Le proteine responsabili del processo di ricombinazione V(D)J nei linfociti agiscono riconoscendo specifiche
sequenze di DNA definite sequenze segnale della ricombinazione (RSS), localizzate all’estremità 3’ dei
segmenti genici V, all’estremità 5’ dei segmenti genici J e ai due estremi dei segmenti D.

Le RSS sono costituite da una sequenza altamente conservata di 7 nucleotidi (di solito CACAGTG) , definita
“eptamero”, localizzata vicino alla sequenza codificante, seguita da uno spaziatore di 12 o 23 nucleotidi non
conservati e da una seconda sequenza altamente conservata di 9 nucleotidi ricchi in AT (“nonamero”). Gli
intervalli di 12 e 23 nucleotidi corrispondono rispettivamente a uno o due giri completi di elica di DNA.
Durante la ricombinazione, vengono effettuati dei tagli nella doppia elica tra l’eptamero delle RSS e le
sequenze V, D o J adiacenti. Durante la ricombinazione V-J della catena leggera delle Ig, i tagli verranno
effettuati all’estremità 3’ di un segmento V e a quella 5’ di un segmento J. Il frammento di DNA a doppia
elica tagliato, che contiene le parti terminai dei segnali, viene rimosso sotto forma di anello, permettendo
alle estremità dei segmenti genici codificanti per V e J di congiungersi.
Nel caso in cui in alcuni segmenti genici V, le RSS non siano localizzate in modo da porsi l’una di fronte
all’altra, il DNA intermedio viene invertito, i segmenti genici V e J vengono opportunamente allineati e le
RSS così congiunte non vengono eliminate, bensì conservate nel cromosoma.

La maggior parte dei riarrangiamenti per Ig e TCR avviene per delezione; l’inversione è la base di una
percentuale che può arrivare al 50% dei riarrangiamenti totali nel caso del locus per le catene К delle Ig. La
ricombinazione si verifica tra due segmenti genici soltanto se uno dei due segmenti è affiancato da uno
spaziatore di 12 nucleotidi e l’altro da uno di 23 nucleotidi (regola 12/23). Un segmento genico codificante
dotato di una RSS con un distanziatore che copre un singolo giro di elica di DNA potrà pertanto ricombinarsi
sempre e solo con un altro segmento genico codificante dotato di una RSS con un distanziatore che deve
necessariamente coprire due giri di elica di DNA. Il tipo di RSS (un giro o due giri di elica) assicura che
vengano ricombinati solo gli appropriati segmenti genici.

Una delle conseguente della ricombinazione V(D)J è che le sequenze promotrici localizzate al 5’ dei geni V
vengono portate in contiguità a sequenze enhancer situate a valle, negli introni J-C e al 3’ dei geni della
regione C. Tali sequenze enhancer spingono al massimo la trascrizione delle sequenze promotrici dei geni V.
Alcune volte si può verificare che alcuni geni vengano trascritti in modo abnorme, come avviene nei tumori
dei linfociti B e T.

Il riarrangiamento dei geni per le Ig e per il TCR rappresenta una particolare forma di ricombinazione non
omologa del DNA, regolata dall’attività coordinata di diversi enzimi, alcuni dei quali si ritrovano solo nei
linfociti in corso di maturazione, mentre altri sono ubiquitari, riconducibili ad enzimi di riparazione del DNA.
Nel processo di ricombinazione V(D)J, si possono distinguere quattro eventi distinti:

1. SINAPSI: parti del cromosoma sono rese accessibili ai componenti del processo di ricombinazione;
due distinti segmenti genici codificanti e le loro RSS adiacenti vengono posti in contatto grazie alla
formazione di strutture ad anello e vengono mantenuti in questa posizione per i successivi eventi di
taglio, processamento e ricongiunzione.
2. TAGLIO: mediante reazione enzimatica, alle giunzioni tra RSS e sequenze codificanti si operano i
tagli della doppia elica del DNA. I geni attivanti la ricombinazione 1 e 2 (RAG-1 e RAG-2 ) si
assemblano a formare un complesso contenente due molecole di ciascuna proteina, conosciuto
come RICOMBINASI V(D)J, che svolge un ruolo essenziale nel processamento di ricombinazione.
Agendo come un’endonucleasi di restrizione, Rag-1 riconosce e taglia le sequenze di giunzione tra
eptameri e segmenti genici codificanti. È opportuno sottolineare che Rag-1 è attiva solo quando
strutturalmente complessata a Rag-2. Rag-1 taglia una delle due eliche del DNA tra l’estremità
codificante e l’eptamero. La terminazione 3’-OH dell’estremità codificante così generata si lega
covalentemente all’altro filamento di DNA, formando una struttura a forcina. L’altra estremità non
si organizza a forcina ma dà origina ad una terminazione troncata a doppio filamento che non viene
ulteriormente processata. La fornica chiusa di un segmento codificante si trova di fronte alla forcina
chiusa dell’altra estremità codificante, mentre le due corrispondenti estremità troncate si
posizionano in postazioni ravvicinate. Le proteine Rag, oltre a introdurre rotture nel doppio
filamento, mantengono in posizione le estremità forcina e le estremità troncate prima che esse
vengano processate e ricongiunte.
I geni Rag vengono attivati solo durante la maturazione delle cellule linfoidi, mentre rimangono
silenti durante la fase proliferativa, limitando gli eventi di taglio e ricombinazione del DNA.
3. APERTURA DELLE FORCINE E PROCESSAMENTO: le estremità codificanti tagliate vengono
modificate dall’aggiunta o dalla rimozione di nucleotidi, al fine di aumentare il livello di
diversificazione. Dopo i tagli della doppia elica, le strutture a forcina devono essere aperte
(linearizzate) a livello delle giunzioni delle sequenze codificanti per permettere l’aggiunta di
nucleotidi che garantiranno una maggiore diversificazione. Artemis è proprio un’endonucleasi che
apre la forcina; una sua mutazione impedisce la generazione di linfociti B e T.
4. UNIONE: le estremità codificanti tagliate e le estremità segnale si avvicinano e si ricongiungono
mediante il processo di riparazione delle rotture del doppio filamento, al quale partecipano diversi
fattori ubiquitari (unione delle estremità non omologhe). Ku70 e Ku80 sono due proteine che
ricongiungono le terminazioni di DNA e reclutano la subunità catalitica dell’enzima DNA-PK, in
grado di riparare la doppia elica. Questo enzima fosforila e attiva Artemis, coinvolta nel processa
mento delle estremità codificanti. Queste vengono ricongiunte dalla DNA-ligasi IV e da XRCC4.
L’ampia varietà del repertorio dei linfociti B e T è generata dal riarrangiamento casuale dei geni per le Ig e il
TCR e dall’aggiunta o dalla rimozione di sequenze addizionali alle estremità dei segmenti genici riarrangiati.
Numerosi meccanismi contribuiscono a questa diversificazione:

1. Diversità combinatoriale: la ricombinazione V(D)J coinvolge molteplici segmenti genici della linea
germinativa che possono combinarsi casualmente, producendo diversi recettori. Il numero
massimo possibile di combinazioni dei segmenti è il prodotto del numero di segmenti genici di V, J e
D in ogni locus; questa diversità combinatoriale può ulteriormente essere aumentata dalla
giustapposizione di due regioni V diverse, generate in modo casuale. In ogni caso, il reale grado di
diversificazione è probabilmente molto inferiore a quello ipotizzato, questo perché non tutte le
ricombinazioni di segmenti genici hanno la stessa probabilità di realizzarsi e non tutte le coppie di
catene sono in grado di formare recettori per l’antigene funzionanti. Il numero massimo possibile di
combinazioni è dell’ordine delle migliaia.
2. Diversità giunzionale: il più ampio contributo alla diversificazione dei recettori per gli antigeni è
dato dalla rimozione e dall’aggiunta di nucleotidi tra le terminazioni dei segmenti genici V e D, D e J
o V e J, al momento della loro ricongiunzione. Questo processo avviene attraverso la rimozione, ad
opera di endonucleasi, di nucleotidi della sequenza germinativa alle estremità dei segmenti genici
che si ricombinano. Inoltre, nuove segmente nucleotidiche possono essere aggiunte nei siti di
giunzione. Le estremità delle strutture forcina sono spesso scisse da Artemis, cosicché un tratto di
DNA rimane più lungo dell’altro: il tratto più corto deve essere esteso con nucleotidi
complementari a quelli del tratto di DNA più lungo prima della giunzione dei due segmenti genici; il
tratto più lungo serve da stampo per l’aggiunta di brevi segmenti nucleotidici detti nucleotidi P.
Tale processo introduce nuove sequenze nella giunzione V-D-J. Un ultimo meccanismo di
diversificazione giunzionale è legato all’aggiunta casuale di un massimo di 20 nucleotidi casuali,
definiti nucleotidi N, mediante l’enzima transferasi terminale di deossinucleotidi (Terminale
deoxynucleotidyl Transferase, TdT). L’aggiunta di nucleotidi P ed N nei siti di ricombinazione può
provocare slittamenti nello schema di lettura che possono generare codoni di stop con una
frequenza di due su tre eventi di giunzione. I geni così riarrangiati non potranno codificare per
proteine funzionanti, ma tale inefficienza è il “prezzo da pagare” per avere il massimo della
diversificazione.
A causa della diversità giunzionale, gli anticorpi e i TCR mostrano la massima variabilità in corrispondenza
delle giunzioni delle regioni V e C che formano la terza regione ipervariabile (CDR3). Queste regioni sono
anche le più importanti nella determinazione della specificità del legame dell’antigene. Infatti, a causa della
diversità giunzionale, il numero delle diverse sequenze aminoacidiche presenti nelle regioni CDR3 delle Ig e
dei TCR è nettamente maggiore del numero che può essere codificato dai segmenti genici presenti nella
linea germinativa. Così, la diversificazione dei recettori è concentrata nelle regioni che sono più importanti
per il legame con l’antigene. Un’applicazione clinica basata sulle conoscenza relative alla diversità
giunzionale è la determinazione della clonalità dei tumori linfoidi che si originano da linfociti B e T. Siccome
ogni clone linfocitario esprime un’unica regione CDR3, la sequenza di nucleotidi nel sito di ricombinazione
V(D)J funziona come un marcatore clonale specifico. Tramite PCR, si può stabilire la lunghezza e la sequenza
delle regioni giunzionali dei geni per le Ig o il TCR in diversi linfociti B e T, stabilendo se si tratta
dell’espansione di un singolo clone (segno di neoplasia) o di più cloni (indice di proliferazione non
neoplasica).

Passiamo ora a vedere nel dettaglio come avviene lo sviluppo dei linfociti B e T.

SVILUPPO DEI LINFOCITI B

I principali eventi che si verificano nel corso della maturazione dei linfociti B sono il riarrangiamento e
l’espressione dei geni delle Ig che avvengono secondo un ordine ben preciso: la selezione e la proliferazione
dei linfociti B che esprimono il pre-recettore per l’antigene e la successiva selezione del repertorio dei
linfociti B maturi. Nel corso della loro maturazione, i linfociti B passano attraverso stadi ben distinti, ognuno
caratterizzato da specifici marcatori di superficie e dall’espressione di uno specifico profilo di Ig.

1. Stadi pro-B e pre-B: il primo progenitore midollare orientato verso la linea B è chiamato cellula pro-
B. I linfociti pro-B non producono Ig ma possono essere distinti dalle altre cellule immature per
l’espressione di molecole di superficie tipiche dei linfociti B, come CD19 e CD10. In questa fase sono
espresse le proteine Rag-1 e Rag-2 che mediano la prima ricombinazione dei geni del locus della
catena pesante delle Ig. Questa ricombinazione avvicina un segmento D ad un segmento J, con
delezione del DNA interposto. I rimanenti segmenti genici D, in posizione 5’ rispetto al segmento D
riarrangiato, e i rimanenti segmenti J, in posizione 3’ rispetto al segmento J riarrangiato, vengono
eliminati nel corso di questa ricombinazione. Dopo la ricombinazione D-J, uno dei molti geni V è
ricongiunto al segmeento DJ neoformato, originando un esone VDJ riarrangiato. In questo stadio,
anche tutti i segmenti genici V e D compresi tra i geni V e D riarrangiati vengono rimossi. La
ricombinazione di V con DJ nel locus della catena H delle Ig si verifica solo nei precursori dei linfociti
B ed è un evento critico nell’espressione delle Ig, poiché solo il gene V riarrangiato sarà
successivamente trascritto. L’enzima TdT, che catalizza l’aggiunta di nucleotidi N giunzionali, è
espresso più abbondantemente durante lo stadio pro-B e i suoi livelli si riducono prima che la
ricombinazione V-J del gene per la catena leggera sia completa. Quindi, la diversità giunzionale
attribuibile all’aggiunta dei nucleotidi N nel riarrangiamento delle catene pesanti è maggiore che in
quello delle catene leggere.
Gli esoni della regione C delle catene pesanti restano separati dal complesso VDJ da una regione di
DNA contenente il segmento distale di J e l’introne J-C. Il gene per la catena pesante riarrangiato è
trascritto per produrre un trascritto primario che include il complesso VDJ riarrangiato e gli esoni
Cμ. Questo RNA nucleare viene tagliato a valle, con l’aggiunta di diverse coda poli-A sono aggiunte
all’estremità 3’. Questo trascritto andrà incontro a splicing con rimozione degli introni e
ricongiunzione degli esoni. Nel caso dell’RNA della catena μ, vengono rimossi gli introni tra l’esone
principale e l’esone VDJ, tra l’esone VDJ e il primo esone del locus Cμ, dando così origine ad una
mRNA processato per la catena μ. Se l’RNA deriva da un locus Ig che ha subito un riarrangiamento
produttivo, la traduzione dell’RNA della catena μ riarrangiato porta alla sintesi della proteina μ. Per
avere questo riarrangiamento produttivo, le basi alle giunzioni devono essere aggiunte o tolte in
multipli di tre. Questo garantisce che il gene riarrangiato possa codificare correttamente una
proteina Ig. Una volta avvenuto questo riarrangiamento produttivo, le cellule non viene più
identificata come pro-B, ma come linfocita pre-B, che esprime la proteina Ig μ ma deve ancora
riarrangiare i loci per le catene leggere.
2. Recettore pre-B: il complesso della catena μ con la catena leggera sostitutiva e le proteine Igα e
Igβ, che trasducono il segnale, formano il pre-recettore del linfocita B, noto anche come recettore
pre-B (pre-BCR). La catena m si associa con le proteine λ5 e V, a loro volta definite catene leggere
sostitutive. Le Igα e le Igβ fanno anch’esse parte del recettore dei linfociti B maturi. I segnali
provenienti dal pre-BCR sono responsabili della massiccia proliferazione di queste cellule del
midollo osseo. Possiamo dire che l’espressione del pre-BCR costituisce il primo “checkpoint” nella
maturazione dei linfociti B. La corretta espressione del pre-BCR è necessaria alla transizione da pro-
B a pre-B e numerose proteine sono coinvolte nel superamento di questa importante fase di
controllo. La tirosin-chinasi Bruton (BTK) è una chinasi che funziona a valle del pre-BCR ed è
necessaria per la generazione dei segnali di sopravvivenza, proliferazione e maturazione necessarie
per i linfociti pre-B. Nell’uomo, mutazioni del gene BTK provocano l’agammaglobulinemia legata al
cromosoma X, caratterizzata dalla mancata maturazione dei linfociti B.
Il pre-BCR regola l’ulteriore riarrangiamento dei geni delle Ig in due modi distinti: se la
ricombinazione de locus della catena pesante in un cromosoma riesce a produrre una proteina μ in
grado di formare un pre-BCR, questo recettore produce un segnale che inibisce irreversibilmente il
riarrangiamento del locus della catena pesante sul secondo cromosoma. Se, invece, il primo
riarrangiameno non risulta produttivo, l’allele delle catene pesanti sul secondo cromosoma può
completare il riarrangiaento VDJ al locus Ig H; in questo modo, in ogni clone linfocitario B, almeno
un allele della catena pesante è riarrangiato ed espresso in modo produttivo, mentre l’altro rimane
nella sua configurazione germinativa o viene riarrangiato in modo non produttivo. Ne consegue che
un linfocita B può codificare proteine della catena pesante delle Ig a partire da uno solo dei due
allele ereditati (fenomeno dell’esclusione allelica). Se entrambi gli alleli subiscono un
riarrangiamento non produttivo del gene IgH, la cellula in via di sviluppo non è in grado di produrre
le catene pesanti, non può generare un segnale di sopravvivenza dipendente dal pre-BCR e va
incontro a morte cellulare programmata. Il secondo meccanismo tramite cui il pre-BCR regola la
sintesi del recettore per l’antigene, è attraverso la stimolazione del riarrangiamento del gene per la
catena leggera.
3. Linfociti B immaturi: nelle fasi successive allo stadio pre-B, ogni cellula riarrangia inizialmente i geni
della catena К e, se il riarrangiamento viene operato correttamente, esso porterà alla produzione di
una catena leggera К che verrà associata alla catena μ precedentemente sintetizzata per produrre
una IgM completa. Se il locus К non è stato correttamente riarrangiato, la cellula può riarrangiare il
locus λ producendo comunque unaIgM completa. I linfociti B che esprimono le IgM sono definiti
linfociti B IMMATURI. La ricombinazione del DNA nel locus delle catene К avviene in modo simile a
quello descritto per le catene pesanti. Non esistendo segmenti genici D nei loci delle catene
leggere, la ricombinazione implica solamente l’unione di un segmento V ad un segmento J, con
formazione dell’esone VJ. Tale esone rimane separato dalla regione C da un introne che permane
nel trascritto primario dell’RNA. Lo splicing di quest’ultimo ha come risultato la rimozione
dell’introne tra gli esoni VJ e C, generando un mRNA che produrrà o la catena К oppure quella λ. La
produzione di una catena К previene l’ulteriore riarrangiamento dei loci λ, che avviene solo se il
precendente riarrangiamento sia risultato non produttivo. Ne consegue che un singolo clone
linfocitario B può esprimere solo uno dei due tipi di catene leggere (esclusione isotipica della
catena leggera). Un gene К o λ viene espresso solo da uno dei due cromosomi progenitori in
qualsiasi linfocita B, mentre l’altro allele viene escluso. Se entrambi gli alleli per le catene К e λ
vengono riarrangiati in modo non funzionale, tale cellule non riuscirà a sopravvivere in quanto
incapace di ricevere i segnali di sopravvivenza generati dalle BCR. Le IgM neo sintetizzate vengono
espresse sulla superficie cellulare in associazone con le Igα e Igβ, dove agiscono da recettori per gli
antigeni. I linfociti B immaturi non proliferano, ma si differenziano in risposta agli antigeni. I linfociti
B immaturi non altamente autoreattivi lasciano il midollo osseo e completano la loro maturazione
nella milza prima di migrare agli altri organi linfoidi secondari.
4. Sottopopolazioni di linfociti B maturi:
Linfociti B FOLLICOLARI: molti linfociti B maturi appartengono alla sottopopolazione dei linfociti B
follicolari, che esprimono le IgD, oltre che le IgM. Tali cellule esprimono catene pesanti sia μ sia δ,
partendo dallo stesso esone VDJ e generando quindi un dominio V identico. Le catene pesanti si
associano poi alle stesse catene leggere К o λ per assemblare due possibili recettori con la stessa
specificità per l’antigene. Inizialmente viene prodotto un lungo trascritto di RNA primario,
contenente il complesso VDJ riarrangiato e i geni Cμ e Cδ. Se il trascritto primario è tagliato e
poliadenilato dopo l’esone μ, gli introni verranno eliminati cosicchè il complesso VDJ vada a
ricongiungersi con l’esone Cμ, portando alla formazione di un mRNA μ. Se invece il complesso VDJ
non si ricongiunge all’esone Cμ, ma all’esone Cδ, si forma un mRNA δ. La successiva traduzione
risulta nella sintesi di una catena μ o δ. Quindi, la poliadenilazione e lo splicing alternativo
permettono quindi al linfocita B di produrre simultaneamente mRNA maturi e proteine di due
diversi isotipi di catena pesante. La coespressione di IgM e IgD è accompagnata dall’acquisizione
della competenza funzionale e della capacità di ricircolare e questa è la ragione per cui i linfociti B
IgM+ e IgD+ sono detti MATURI. I linfociti B follicolari sono spesso detti ricircolanti, perché passano
da un organo linfoide all’altro, colonizzando specifiche nicchie note come follicoli; nei follicoli, essi
vengono mantenuti grazie all’azione di segnali di sopravvivenza sotto forma di una citochina della
famiglia del fattore TNF nota come BAFF.
Linfociti B-1 e della ZONA MARGINALE: una particolare sottopopolazione di linfociti B, detti
linfociti B-1, esprime recettori per l’antigene dotati di una limitata diversità che svolge una serie di
funzioni assai peculiari. Queste cellule originano dalle HSC del fegato fetale e, nell’uomo adulto,
una popolazione in continuo rinnovamento si rova nel perineo e nelle mucose. Essi secernono
spontaneamente IgM dirette contro polisaccaridi e lipidi di origine microbica o contro i lipidi
ossidati derivati dal processo di perossidazione lipidica; garantiscono una rapida produzione di
anticorpi contro microrganismi e, a livello mucosale, secernono una grande quantità di IgA.
Possiedono un repertorio per gli antigeni limitato. I linfociti B della zona marginale sono localizzali
nella milza, prevalentemente nelle vicinanze del seno marginale, e assomigliano ai linfociti B-1 per
la loro limitata diversificazione e per la loro capacità di rispondere agli antigeni polisaccaridici
producendo anticorpi naturali. Rispondono molto velocemente ai microbi presenti nel sangue e si
differenziano in plasmacellule a vita breve che secernono IgM.

I linfociti B immaturi che riconoscono antigeni autoreattivi con grande affinità possono essere indotti a
modificare la loro specificità mediante il processo di editing recettoriale. Il riconoscimento degli antigeni
self da parte dei linfociti B immaturi induce la riattivazione dei geni Rag e il riarrangiamento e la produzione
di una nuova catena leeggera dell’Ig, consentendo alla cellula di esprimere un recettore diverso
(“revisionato”) non autoreattivo. Se questo processo non riesce a generare un riarrangiamento della catena
leggera К su entrambi i cromosomi, il linfocita B immaturo attivato può riarrangiare il locus della catena
leggera λ localizzato su un altro cromosoma. Quasi tutti i linfociti B che possiedono catene leggere λ sono
pertanto cellule che erano una volta autoreattive e che sono state sottoposte al processo di editing
recettoriale. Se l’editing non ha successo, i recettori autoreattivi muoiono per apoptosi nella milza
(selezione negativa).

Chemochine e fattori di crescita principalmente implicati nello sviluppo dei linfociti B sono Ikaros e PU1,
che consentiranno la successiva espressione di FLT3 sulla superficie del precursore in modo da interagire
con il ligando espresso dalle cellule stromali; questo attiva il recettore per l’IL-7. Come risultato finale
avremo l’attivazione dei fattori trascrizione specifici per la linea B, che sono E2A, EBF e Pax5. E2A ed EBF
inducono l’espressione di RAG. Inoltre, la citochine KitSCF attiva la protein-chinasi KIT che attiva la
proliferazione delle cellule pro-B.

Le cellule B possono dare origine a trasformazioni neoplastiche. È il caso del mieloma multiplo, in cui
avremo mutazioni delle regioni variabili degli anticorpi, o della leucemia linfoblastica, in cui non saranno
presenti evidenti mutazioni. Altri linfomi molto diffusi sono quelli di Hodgkings, con cellule grosse di
aspetto azzurrognolo e i linfomi di Burkitt, causato da traslocazione tra cromosoma 8 e 14.

SVILUPPO DEI LINFOCITI T

Lo siluppo dei linfociti T maturi a partire da progenitori specifici avviene attraverso fasi successive che
consistono nel riarriamento e nell’espressione dei geni per il TCR, nella proliferazione cellulare, nella
selezione indotta dall’antigene e nell’acquisizione di capacità funzionali.

Il timo è la principale sede di maturazione dei linfociti T. L’importanza di ciò è messa in evidenza dal fatto
che nei pazienti affetti da sindrome di DiGeorge si associa ad un basso numero linfociti T maturi in circolo e
negli organi linfoidi secondari e ad un grave deficit delle risposte T-dipendenti. Il timo si sviluppa
nell’endoderma, nella terza tasca faringea e dalla sottostante cresta neurale mesenchimale e solo in
seguito viene popolato da precursori midollari. Va incontro a involuzione con l’età ed è quasi assente
nell’uomo dopo la pubertà. Un certo grado di maturazione dei linfociti T continua tuttavia anche
nell’adulto, come indicato dall’efficace ripristino del sistema immunitario in adulti che hanno subito
trapianto di midollo. È possibile che il residui di timo involuto sia sufficiente per una limitata maturazione
dei linfociti T. D’altra parte, la lunga sopravvivenza dei linfociti T della memoria (anche sino a 20 anni
nell’uomo) e il loro conseguente accumulo riducono con l’età la necessità di creare nuovi linfociti T.

I linfociti T originano da precursori nel fegato fetale e del midollo osseo adulto e successivamente popolano
il timo. Questi precursori sono progenitori multipotenti che arrivano al timo provenendo dal circolo
ematico attraverso l’endotelio di una venula postcapillare all’interfaccia corticomidollare. Le cellule in corso
di maturazione nel timo sono dette timociti; quelli più immaturi non esprimono il TCR o i corecettori CD4 e
CD8 e si trovano nel seno sottocapsulare e nella corticale esterna. Da qui, migrano attraverso la corticale,
dove si verifica la maggior parte dei successivi eventi maturativi. È infatti proprio nella corticale che i
timociti esprimono per la prima volta il TCR γδ o quello αβ; questi ultimi, in particolare, maturano a linfociti
T CD4+ ristretti per MHC II oppure a T CD8+ ristretti per MHC I.

L’ambiente timico fornisce gli stimoli necessari alla proliferazione e alla maturazione dei timociti. Molti di
questi stimoli provengono da cellule diverse dai linfociti T in corso di maturazione. Nella corticale, le cellule
timiche epiteliali formano un reticolo di lunghi prolungamenti citoplasmatici attraverso cui i timociti
devono passare per raggiungere la midollare. Nella midollare è inoltre presente un tipo di cellule epiteliali
ben distinto (cellule timiche epiteliali midollari) che svolgono un particolare ruolo nella presentazione di
antigeni self per la selezione negativa dei linfociti T in corso di maturazione. Le DC midollari sono presenti
prevalentemente nella giunzione corticomidollare, mentre i macrofagi sono maggiormente presenti nella
midollare. La migrazione dei linfociti attraverso questa organizzazione anatomica permette le interazioni
fisiche tra i timociti e le altre cellule necessarie alla maturazione e alla selezione dei linfociti T. Le DC e le
cellule epiteliali timiche esprimono molecole MHC di classe I e II; le interazioni dei timociti in corso di
maturazione con le MHC sono essenziali per la selezione del repertorio di linfociti T maturi. Il movimento
delle cellule attraverso il timo è direzionato dalle chemochine: i progenitori dei timociti esprimono il CCR9,
un recettore che lega la chemochina CCL25, prodotta a livello della corteccia timica e che regola l’ingresso
dei precursori cellulari nel timo; altre chemochine, come CCL21 e CCL19, sono riconosciute dal recettore
CCR7 e regolano il passaggio dei timociti dalla corticale alla midollare; infine, i linfociti T di nuova
generazione esprimono il recettore della sfingosina-1-fosfato ed escono al midollo timico seguendo un
gradiente di sfingosina-1-fosfato per entrare in circolo.

Il ritmo di proliferazione e apoptosi dei timociti corticali è elevato: un singolo precursore può originare
un’ampia progenie, di cui il 95% muore per apoptosi prima di raggiungere la midollare. L’apoptosi è di solito
determinata dall’incapacità di riarrangiare correttamente il gene per la catena β del TCR o di superare la
selezione positiva indotta dalle MHC.

La maturazione del linfocita T procede attraverso una serie di tappe sequenziali caratterizzate dal
riarrangiamento dei geni per il TCR e dall’espressione del TCR insieme ai corecettor CD4 e CD8. Vediamo nel
dettaglio ciascuna di queste tappe:

1. Timociti doppio-negativi: i timociti corticali più immaturi appena giunti nel midollo osseo
contengono i geni per il TCR nella loro configurazione germinativa e non esprimono il TCR, CD3 e la
catena ζ, né CD4 e CD8; queste cellule sono definite timociti doppio negativi. A questo stadio
maturativo, i linfociti sono considerati linfociti pro-T. La maggior parte di quelli che supera la
selezione timica darà origine a linfociti T CD4+ o CD8+ ristretti per MHC, dotati di un TCR αβ; la
rimanente parte (meno del 10%) darà origina a linfociti T γδ. Le proteine Rag-1 e Rag-2 espresse
precocemente proprio durante lo sviluppo dei linfociti T doppio-negativi sono necessarie per il
riarrangiamento del geni del TCR. In primo luogo si verifica il riarrangiamento Dβ-Jβ al locus della
catena β del TCR, implicando l’unione del segmento genico Dβ1 ad uno dei sei segmenti genici Jβ1
oppure l’unione di uno dei segmenti Dβ2 ad uno dei segmenti Jβ2 (questi riarrangiamenti
avvengono nella fase di transizione da pro-T a pre-T). Le sequenze di DNA tra i segmenti riarrangiati
vengono eliminate; i trascritti nucleari primari dei geni per il TCR β contengono l’introne tra gli
esoni VDJβ ricombinati e il gene rilevante Cβ; code poli-A sono aggiunte dopo il taglio dei trascritti
primari a valle e le sequenze tra l’esone VDJ e Cβ vengono tagliate per formare un mRNA maturo, i
cui segmenti genici VDJ sono giustapposti al primo esone di uno qualsiasi dei geni Cβ. La traduzione
di questo mRNA dà origine alla catena β del TCR completa. I promotori della catena β localizzati
nelle regioni adiacenti all’estremità 5’ dei geni Vβ funzionano insieme ad un potente enhancer
localizzato all’estremità 3’ del gene Cβ2, aumentando enormemente la trascrizione del gene per la
catena β del TCR riarrangiato.
2. Recettore pre-T: se in un determinato linfocita T doppio negativo il riarrangiamento del gene della
catena β del TCR avviene correttamente, questa viene espressa sulla superficie della cellula in
associazione ad una proteina invariante, definita pre-Tα, a CD3 e alla catena ζ, formando il
complesso del recettore pre-T (pre-TCR). Esso guida la selezione dei linfociti in corso di maturazione
che riarrangiano correttamente la catena β del TCR. Dopo il riarrangiamento, circa metà di tutti i
linfociti pre-T contiene un numero di nuove basi nel gene per la catena β che è un multiplo di tre,
per cui circa la metà dei pre-TCR riesce ad esprimere con successo la catena β. I segnali provenienti
dal pre-TCR mediano la sopravvivenza di quei linfociti pre-T che hanno riarrangiato in modo
corretto il gene della catena β del TCR e contribuiscono alla grandissima espansione proliferativa
che avviene durante lo sviluppo dei linfociti T. Inoltre, segnali provenienti dal TCR inibiscono
ulteriori riarrangiamenti del locus della catena β, limitando la ricombinazione dell’altro allele,
facendo sì che i linfociti T maturi esprimano solo uno dei due alleli della catena β ereditati. La
trasmissione del segnale da parte del pre-TCR è mediata da tirosin-chinasi citosoliche e proteine
adattatrici.
3. Timociti doppio-positivi: allo stadio successivo della maturazione, i linfociti esprimono cia CD4 che
CD8 e sono definiti timociti doppio-positivi. Il riarrangiamento dei geni della catena αl TCR e
l’espressione degli etero dimeri ab si verifica nella popolazione CD4+-CD8+ doppio-positiva subito
prima che le cellule passino il punto di controllo pre-TCR. Un secondo picco di espressione tardiva
del gene Rag allo stadio pre-T promuove la ricombinazione del gene α. Poiché non vi sono segmenti
genici D nel locus del TCR, il riarrangiamento consiste nella ricongiunzione dei soli segmenti genici V
e J. A differenza del locus per la catena β, nel locus per la catena α l’esclusione allelica è scarsa o del
tutto assente; quindi, riarrangiamento produttivi del TCR α possono verificarsi su entrambi i
cromosomi e, se ciò avviene, il linfocita T esprimerà di conseguenza due catene α. La regolazione
trascrizionale del gene per la catena α è simile a quella del gene β: all’estremità 5’ vi sono
promotori di ciascun gene Vα dotati di una ridotta attività trascrizionale ma che si rendono
responsabili di elevati livelli di trascrizione una volta resi contigui da un’enhancer della catena α
localizzato in 3’ al gene per la catena Cα. I riarrangiamenti del gene αdel TCR non andati a buon fine
su entrambi i cromosomi determineranno l’insuccesso della selezione positiva e la morte dei TCR
per apoptosi.
L’espressione del TCR α allo stadio doppio-positivo porta alla formazione del TCR αβ completo,
espresso sulla superficie cellulare insieme a CD3 e alla catena ζ. L’espressione dei geni Rag e
l’ulteriore ricombinazione del gene TCR cessano dopo questo stadio maturativo. I linfociti doppio-
positivi che portano a termine con successo questi processi selettivi proseguono maturando in
linfociti T CD4+ o CD8+, detti timociti singolo-positivi, che entrano nella midollare del timo per poi
lasciare questo organo e andare a popolare i tessuti linfoidi secondari.

Vediamo ora di comprendere i concetti di selezione positiva e negativa per i timociti:

SELEZIONE POSITIVA dei timociti: è quel processo attraverso il quale i timociti dotati di TCR che
legano con bassa affinità i complessi MHC-peptidi self vengono stimolati a sopravvivere. I timociti
doppio-positivi sono prodotti in assenza di stimolazione da parte dell’antigene e iniziano ad
esprimere TCR αβ dotati di specificità casuali predisposti a riconoscere strutture simili alle molecole
MHC. Una bassa affinità di questi complessi promove la sopravvivenza del timocita, mentre i
timociti dotati di recettori che non riconoscono molecole MHC self vengono indotti ad apoptosi con
un meccanismo definito “morte per privazione”. In conclusione, la selezione positiva garantisce che
i linfociti T siano ristretti per MHC-self. Durante la transizione da cellule doppio-positiva a cellula
singolo-positiva, i timociti dotati di TCR ristretti per MHC di classe I divengono CD8+CD4-, mentre
quelli dotati di TCR ristretto per MHC di classe II divengono CD4+CD8-. Il modello stocastico o
probabilistico postula che la differenziazione di un linfocita T doppio-positivo verso un linfocita
CD4+ o CD8+ sia del tutto casuale. Nel secondo (e più accetato modello), si presuppone che
l’orientamento verso una delle due sottopopolazioni linfocitarie non sia casuale ma il risultato di un
processo orientato da segnali specifici che indirizzano i linfociti T a differenziare in CD4+ o CD8+. La
teoria “educativa” suggerisce che i TCR forniscano segnali che inducono attivamente l’espressione
del corecettore appropriato, interrompendo al contempo l’espressione dell’altro corecettore. È
stato dimostrato che un linfocita doppio-positivo attraversa uno stadio in cui esprime elevati livelli
di CD4 e bassi livelli di CD8. Se il TCR di tale cellula è ristretto per MHC I, nel momento in cui
dovesse riconoscere lo specifico peptide self riceverebbe un debole segnale a causa dei bassi livelli
di CD8 e, inoltre, il CD8 si assocerebbe meno efficientemente alla Lck di quanto non sia in grado di
fare CD4. Questi deboli segnali attivano fattori di trascrizione come Runx3 che mantengono il
fenotipo CD8+ T regolando l’espressione di CD8 stesso e di fattori di trascrizione a valle e spingono
l’ulteriore differenziazione dei linfociti T CD8+ in CTL al termine del processo di maturazione e dopo
la loro attivazione da parte dell’antigene. Viceversa, se il TCR del linfocita è ristretto per MHC II, in
seguito al riconoscimento di un peptide presentato su classe II, la cellula riceverebbe un segnale
forte, grazie agli elevati livelli di espressione di CD4 e al fatto che CD4 si associa con maggiore
efficienza a Lck. Questi segnali forti attivano il fattore di trascrizione GATA3 che spinge la
differenziazione dei linfociti T verso la linea CD4 e induce l’espressione di un repressore detto
ThPoK, che previene l’espressione di geni differenziativi dei linfociti T CD8+. I peptidi associati a
MHC sulle cellule epiteliali svolgono un ruolo essenziale nella selezione positiva. Infatti, alcuni
peptidi sono più efficienti di altri nel favorire la selezione positiv e possono differire nel repertorio
dei linfociti T che selezionano. La selezione positiva permette a diversi cloni T che riconoscono
peptidi self con scarsa affinità di sopravvivere e differenziarsi; molti di questi linfociti, una volta
raggiunta la maturazione, casualmente riconosceranno anche peptidi estranei con un’affinità
sufficientemente elevata da permettere loro di generare risposte immuni competenti.
SELEZIONE NEGATIVA dei timociti (TOLLERANZA CENTRALE): i timociti dotati di recettori che
riconoscono a livello timico con elevata affinità il complesso peptide-MHC vanno incontro ad
apoptosi o si differenziano in linfociti T regolatori. La tolleranza indotta dal riconoscimento di
antigeni self negli organi linfoidi primari da parte dei linfociti immaturi è anche definita tolleranza
centrale, per distinguerla dalla tolleranza periferica esercitata dai linfociti maturi nei tessuti
periferici. L’eliminazione dei linfociti T autoreattivi immaturi può avvenire sia nello stadio di cellule
doppio-positive, nella corticale timica, che nei linfociti T singolo-positivi neoformati nella midollare.
Le cellule timiche che presentano l’antigene e determinano la selezione negativa sono
prevalentemente DC e macrofagi che originano dal midollo. I linfociti T doppio-positivi sono attirati
verso il midollo timico dalle chemochine; qui, le cellule timiche epiteliali esprimono una proteina
nucleare detta AIRE (AutoImmune Regulator) che determina a livello timico l’espressione di
numerosi geni tessuto-specifici. Tali geni sono normalmente espressi solo negli organi periferici,
mentre la loro espressione timica fa in modo che molti peptidi tessuto-specifici divengano
disponibili per la loro presentazione ai linfociti T in corso di maturazione, agevolando il processo di
selezione negativa. Il meccanismo chiave che regola la selezione negativa nel timo è l’induzione
della morte per apoptosi che, a differenza di quella per deprivazione, avviene per assenza di segnali
di sopravvivenza in seguito a mancata selezione positiva. L’induzione dell’espressione di una
proteina pro-apoptotica definita Bim, indotta dall’attivazione del TCR, svolge un ruolo importante
nell’indurre l’alterazione della permeabilità di membrana mitocondriale e quindi dell’apoptosi dei
timociti durante il processo di selezione negativa. Il riconoscimento degli antigeni self nel timo può
anche portare alla generazione di una sottopopolazione di linfociti T regolatori CD4+ che agiscono
prevenendo le reazioni autoimmuni.
Per concludere questo capitolo, occorre descrivere un’ultima classe di linfociti, quelli linfociti T γδ: i
timociti che esprimono i TCR αβ e γδ appartengono a linee differenziative separate ma che originano da un
precursore comune. Nel timo fetale, i primi riarrangiamenti dei geni per il TCR coinvolgono i loci γ e δ. La
loro ricombinazione procede in modo simile a quella degli altri recettori per l’antigene: in un linfocita T
doppio-negativo, è possibile che avvenga il riarrangiamento dei loci per le catene β, γ o δ del TCR. Se il
riarrangiamento in modo produttivo dei loci γ e δ avviene prima che questa porti a termine il
riarrangiamento della catena β, essa viene selezionata per diventare un linfocita T γδ. Questo avviene in
circa il 10% dei linfociti T doppio-negativi. Il grado di diversificazione del repertorio di linfociti T γδ è
teoricamente anche superiore a quello del repertorio T αβ, in parte perché le sequenze di riconoscimento
eptamero-nonamero adiaenti ai segmenti genici D consentono l’unione D-D; tuttavia, la diversificazione dei
TCR γδ è limitata, perché solo pochi segmenti genici V, D e J sono usati nei linfociti T γδ maturi.

CAPITOLO 9: ATTIVAZIONE DEI LINFOCITI T

L’attivazione dei linfociti T naive avviene negli organi linfoidi secondari, attraverso i quali queste cellule
ricircolano e nei quali possono incontrare gli antigeni presentati dalle DC mature. Nel timo vengono
generati cloni di linfociti T, ognuno con una diversa specificità, indipendentemente dall’esposizione agli
antigeni. I linfociti T naive si muovono all’interno degli organi linfoidi interagendo in modo casuale con
molte DC e si fermano solo quando incontrano un antigene per il quale essi esprimono gli specifici recettori.
Il costante movimento dei linfociti T è mediato soprattutto dal network reticolare dei fibroblasti, un
substrato-matrice prodotto dalle cellule reticolari fibroblasti che sono localizzate nell’area T degli organi
linfoidi. Il riconoscimento dell’antigene provoca la generazione di segnali biochimici che conducono al
rapido arresto dei linfociti T, permettendo la stabilizazione dell’interazione tra i linfociti T e le APC che
esprimono l’antigene e danno il via al processo di attivazione dei linfociti T. Il riconoscimento dell’antigene,
insieme ad altri stimoli attivatori, induce numerose risposte nei linfociti T: secrezione di citochine,
proliferazione dei cloni antigene-specifici (espansione clonale) e differenziamento in linfociti effettori e
della memoria. Le citochine guidano la proliferazione e la differenziazione dei linfociti T attivati
dall’antigene. L’espansione clonale e il differenziamento sono favorite da numerosi meccanismi di
amplificazione. Le cellule che presentano l’antigene non solo presentano gli antigeni ai linfociti T, ma
forniscono anche stimoli che determinano la potenza e la qualità della risposta dei linfociti T stessi. I
linfociti T effettori riconoscono l’antigene negli organi linfoidi o nei tessuti periferici non linfoidi e in questo
modo vengono attivati a svolgere quelle funzioni che portano all’eliminazione del patogeno o, in condizioni
particolari, a danno tissutale. Mentre i linfociti naive sono attivati prevalentemente negli organi linfoidi, i
linfociti effettori differenziati possono rispondere agli antigeni e svolgere le loro funzioni in qualunque
tessuto. Il processo di differenziamento da cellule naive a cellule effettrici conferisce a queste ultime la
capacità di svolgere funzioni specializzate e di migrare verso i tessuti infetti o infiammati, dove le cellule
incontrano nuovamente l’antigene e mettono in atto le risposte per eliminarlo. In seguito all’attivazione
clonale del linfocita T naive vengono generati i linfociti della memoria che sopravvivono a lungo e sono
dotati di una spiccata reattività nei confronti dell’antigene. Queste cellule sono in grado di ricircolare nei
tessuti e sono abbondanti nelle mucose, nella cute e negli organi linfoidi. In seguito all’eliminazione
dell’antigene, le risposte T si esauriscono, riportando il sistema immunitario in uno stato di equilibrio e
omeostati e spegnendo la risposta infiammatoria.

Per permettere la proliferazione dei linfociti T e il loro differenziamento in cellule effettrici e della memoria,
sono necessari il riconoscimento dell’antigene, la costimolazione e la presenza di citochine.
1. Riconoscimento dell’antigene: l’antigene è sempre il primo segnale necessario per l’attivazione dei
linfociti, nonché l’elemento in grado di garantire la specificità della successiva risposta immunitaria.
I linfociti T CD4+ e CD8+ riconoscono complessi peptide-MHC presentati dalle APC e per questo
possono rispondere solo ad antigeni proteici che danno origine ai peptidi attraverso un processo
definito processazione. Oltre al TCR, che riconosce i peptidi associati alle MHC, molte altre proteine
di membrana prendono parte al processo di attivazione dei linfociti T, che includono molecole di
adesione, corecettori e costimolari. L’attivazione dei linfoicti naive richiede il riconoscimento
dell’antigene presentato dalle DC. Il ruolo critico delle DC nell’iniziare la risposta del linfociti T è
dovuto al fatto che queste APC si trovano nel luogo anatomico appropriato per interagire con i
linfociti T naive. Gli antigeni proteici che attraversano le barriere epiteliali o sono prodotti nei
tessuti, vengono catturati dalle DC e trasportati ai linfonodi. Gli antigeni che entrano in circolo
possono essere catturati dalle DC nella milza. Se questi antigeni sono componenti patogeni o
somministrati come adiuvanti (vaccini) viene stimolata l’immunità innata che porta all’attivazione
delle DC e all’espressione delle molecole costimolatorie. Le DC che presentano sulla loro superficie
gli antigeni catturati, migrano nelle zone degli organi linfoidi secondari dove transitano i linfociti T.
Sia i linfociti naive che le DC mature sono attirati in queste aree degli organi linfoidi secondari da
chemochine prodotte localmente che attivano un recettore spceifico chiamato CCR7. Quando le DC
mature raggiungono le aree T, esse presentano i peptidi associati alle MHC ed esprimono anche le
molecole costimolatorie. Le DC montano sulle molecole MHC II i peptidi che derivano da antigeni
esogeni catturati mediante endocitosi e li presentano ai linfociti T CD4+ naive; i peptidi che
originano da proteine citosoliche e nucleari sono invece presentati da oelcole MHC I ai linfociti T
CD8+. I linfociti T effettori possono anche rispondere ad antigeni presentati da cellule diverse dalle
DC. Nelle risposte immunitarie umorali, i linfociti B presentano gli antigeni ai linfociti T helper e
contemporaneamente ne ricevono segnali attivatori; nelle risposte cellulo-mediate sono i
macrofagi a presentare gli antigeni ai T CD4+ e a esserne a loro volta stimolati; inoltre,
virtualmente, qualunque cellula nucleata può presentare antigeni ai CD8+ CTL ed essere da essi
uccisa.
2. Presenza di costimolatori: permettono la proliferazione e il differenziamento dei linfociti T naive. Il
segnale di attivazione (secondo segnale) da esse attivato è definito costimolazione, in quanto
collabora con l’antigene (primo segnale) nello stimolare in modo ottimale l’attivazione dei linfociti
T. In assenza di costimolazione, il linfocita non può rispondere e può morire per apoptosi oppure
entrare in uno stato di prolungata non responsività.
La via di costimolazione meglio caratterizzata nei linfociti T è quella attivata dal recettore CD28, il
quale lega le molecole costimolatorie B7-1 (CD80) e B7-2 (CD86) espresse dalle APC attivate. B7-1 e
B7-2 sono glicoproteine integrali di membrana simili tra loro dal punto di vista strutturale e
caratterizzate dalla presenza di due domini extracelulari di tipo immunoglobulinico. L’espressione
delle B7 è regolata in modo da garantire che le risposte T vengano iniziate solo quando esse siano
necessarie. Esse sono espresse prevalentemente dalle APC attivate da prodotti microbici che
legano i recettori Toll-like o da citochine come l’IFN-γ. Le B7 sono invece assenti o espresse a bassi
livelli sulle APC non attivate. Inoltre, gli stessi linfociti T CD4+ stimolano l’espressione delle B7 sulle
APC attraverso una via di amplificazione del segnale che dipende da CD40 e fornisce un feedback
continuo che serve a potenziare le risposte T. L’espressione di B7-1 e B7-2 è regolata in modo
diverso: B7-2 è espressa costitutivmente a bassi livelli e viene indotta rapidamente in seguito
all’attivazione delle APC; B7-1 è presente solo successivamente (ore o giorni) all’inizio della
risposta. I segnali attivati da CD28 agiscono in cooperazione con il riconoscimento dell’antigene per
promuovere la sopravvivenza, la proliferazione e la differenziazione dei linfociti T antigene-specifici.
I segnali costimolatori attivati da CD28 amplificano anche le vie di trasduzione indotte a valle del
recettore dei linfociti T e possono dare il via ad ulteriori segnali che cooperano con quelli attivati
dal TCR. La chinasi PI3 viene reclutata alla coda citoplasmatica di CD28 e ciò a sua volta attiva la
chinasi Akt, che permette la sopravvivenza del linfocita T attivato, e gli enzimi Itk e PLCγ, che
provocano l’aumento della concentrazione di calcio intracellulare. CD28 contribuisce anche
all’attivazione della chinasi JNK MAP attraverso la via che coinvolge la proteina G Rac potenziando
l’attivazione di NF-kB. Nel loro complesso l’attivazione di queste vie di trasduzione determina:
l’aumentata espressione di proteine anti-apoptotiche come Bcl-2 e Bcl-xL, che promuovono la
sopravvivenza del linfocita T; la produzione di citochine, tra le quali IL-2, e il differenziamento dei
linfociti T in cellule effettrici e della memoria. I linfociti T effettori e della memoria sono meno
dipendenti dalla costimolazione mediata da B7:CD28 rispetto lle cellule naive. Ciò permette loro di
rispondere ad antigene presentati dalle APC localizzate nei tessuti non linfoidi che esprimono bassi
o nulli livelli di B7.
Oltre a CD28, il recettore costimolatorio meglio caratterizzato è ICOS (CD278), necessario per lo
sviluppo e l’attivazione dei linfociti T helper follicolari che sono essenziali per la formazione dei
centri germinativi e per la generazione di linfociti B ad elevata affinità.
L’attivazione di un linfocita T dipende quindi dall’equilibrio tra i recettori attivatori e quelli inibitori
della famiglia CD28. I recettori inibitori sono CTLA-4 e PD-1, importanti per il fenomeno della
tolleranza. CTLA-4 è un recettore ad alta affinità per le B7, che viene di solito ingaggiato quando i
livelli di B7 espressi dalle APC sono bassi (presenza di antigeni self). CD28 invece è solitamente
ingaggiato quando i livelli di espressione di B7 sono relativamente alti (in presenza di patogeni).

Vediamo una tabella riassuntiva dei principali membri della famiglia B7 e CD28:
Un’altra via di costimolazione è quella messa in atto da CD40: il riconoscimento dell’antigene
determina l’espressione di CD40L sul linfocita T; CD40L si lega al CD40 sulla DC, causando
l’espressione di B7 sulla DC e la secrezione di citochine; le DC attivate stimolano la proliferazione e
il differenziamento dei linfociti T.
L’attivazione dei linfociti T è provocata al riconoscimento dell’antigene e dal legame delle molecole
costimolatorie. Gli avvenimenti iniziali di questa fase si associano a caratteristici cambiamenti
nell’espressione di diverse molecole di membrana. Questi fenomeni, che sono stati meglio
caratterizzati nei linfociti T CD4+ helper, hanno un importante significato, poiché molte delle
molecole espresse dai linfociti T sono anche implicate nell’ottimizzazione delle funzioni cellulari.
• CD69: riduce l’espressione della sfingosina-1-fosfato, provocando una maggiore ritenzione
dei linfociti T attivati negli organi linfoidi affinchè questi possano ricevere i segnali necessari
per la proliferazione e il differenziamento. Quando i linfociti T iniziano a proliferare,
l’espressione di CD69 diminuisce e l’espressione di S1PR1 torna ad aumentare, favorendo la
fuoriuscita dei linfociti effettori e della memoria degli organi linfoidi.
• CD25 (IL-2Rα): rende i linfociti attivati in grado di rispondere a IL-2.
• CD40L (CD154): consente ai linfociti di coadiuvare l’azione dei macrofagi e dei linfociti B.
• CTLA4 (CD152)
• Molecole di adesione e recettori per le chemochine
3. Citochine nelle risposte adattive: nel corso della risposta adattiva, la maggior parte delle citochine
è prodotta dai linfociti T CD4+ helper ed esse sono coinvolte nella proliferazione e nella
differenziazione dei linfociti T e B attivati dal riconoscimento dell’antigene e nelle funzioni effettrici
dei linfociti T. La maggior parte delle citochine può agire sulle stesse cellule che le producono
(azione autocrina) o su cellule vicine (azione paracrina).
Vediamo nel dettaglio l’azione dell’interleuchina-2. L’IL-2 è un fattore di crescita, sopravvivenza e
differenziamento dei linfociti T e svolge un ruolo fondamentale nell’attivazione della risposta T e
nel controllo delle risposte immunitarie. È prodotta prevalentemente dai linfociti T CD4+ dopo il
riconoscimento dell’antigene e il legame con le molecole costimolatorie. La sua produzione è
rapida e transitoria: inizia entro 1 o 2 ore dal riconoscimento dell’antigne e si esaurisce entro le 24
ore. I linfociti CD4+ liberano l’IL-2 nella sinpasi immunologica formata con l’APC, dove tende a
localizzarsi anche il recettore per l’IL-2. In questo modo, sia la citochina che il recettore
raggiungono concentrazioni locali sufficientemente elevate per dare inizio alle risposte cellulari.
L’IL-2 secreta è una glicoproteina globulare contenente quattro α eliche. I linfociti T naive e quelli
effettori esprimono, in seguito all’attivazione e in modo transitorio, recettori per l’IL-2; al contrario,
i linfociti T regolatori esprimono l’IL-2R ad elevata affinità in modo costitutivo. L’IL-2R è costituito
da tre proteine associate in maniera non covalente (α, β, γc), di cui sia quella β che quella γc
trasducono il segnale tramite la via JAK-STAT.
Le principali funzioni svolte dall’IL-2 sono:
• Stimolazione della sopravvivenza, profilerazione e differenziamento dei linfociti T attivati
dall’antigene. Induce la proteina antiapoptotica Bcl-2, stimolando la progressione del ciclo
cellulare attraverso la sintesi di cicline e annulla l’azione di possibili ostacoli alla
progressione del ciclo cellulare tramite degradazione dell’inibitore del ciclo cellulare p27.
• Sopravvivenza a funzionamento dei linfociti T regolatori.
• Stimolazione e proliferazione (in vitro) delle NK e dei linfociti B.

La proliferazione dei linfociti T in seguito al riconoscimento dell’antigene dipende dalla combinazione dei
segnali che derivano dal recettore per l’antigene, dalle molecole costimolatorie e dai fattori di crescita,
primo tra tutti l’IL-2. Le cellule che riconoscono l’antigene non solo producono l’IL-2, ma costituiscono
anche il principale bersaglio dell’azione di questa citochina, assicurando così che proliferino principalmente
i linfociti T specifici per l’antigene. Questo provoca un aumento del numero delle cellule che appartengono
al clone specifico per l’antigene (ESPANSIONE CLONALE). L’espasione clonale può arrivare a produrre un
quantità di cloni CD8+ finno a 50mila volte superiore, mentre il numero di linfociti T CD4+ aumenta fino a
100 volte. Una parte consistente dei linfociti stimolati dall’antigene si differenzia in cellula effettrici. Le
CD4+ esplicano il proprio ruolo attraverso l’espressione in membrana di nuove molecole e la secrezione di
citochine in grado di attivare altre cellule. L’attivazione dei CD4+ naive determina prevalentemente la
secrezione di IL-2, mentre quella dei linfociti effettori comporta la produzione di una grande varietà di
citochine caratterizzate da diverse attività biologiche. I linfociti effettori CD8+ sono citotossici e uccidono le
cellule infettate.
Rivediamo in uno schema riassuntivo le principali fasi della risposta T:

Le risposte immunitarie mediate dai linfociti T si associano alla generazione di linfociti T della memoria
antigene-specifici, in grado di sopravvivere per molti anni e talvolta per tutta la vita. Essi posson originare
dalle cellule effettrici, secondo una via di sviluppo lineare, oppure seguire un differenziamento divergente
rispetto a quello delle popolazioni effettrici. L’espressione del fattore di trascrizione T-bet favorisce il
differenziamento dei linfociti T CD4+ e CD8+ in cellule effettrici, mentre l’espressione del fattore di
trascrizione Blimp-1 spinge le cellule effettrici a differenziarsi in cellule della memoria.

I linfociti della memoria sono caratterizzati dalla capacità di sopravvivere in uno stato di quiescenza dopo
l’eliminazione dell’antigene e dalla capacità di generare risposte secondarie più veloci, ampie ed efficaci
rispetto a quelle generate dai linfociti naive. Le cellule della memoria:

• Esprimono livelli aumentati di proteine anti-apoptotiche, che possono essere responsabili della loro
prolungata sopravvivenza. Esempi di proteine apoptotiche sono Bcl-2 e Bcl-Xl, che promuovono la
sopravvivenza cellulare impedendo il rilascio di citocromo c dai mitocondri e bloccando l’apoptosi
indotta dal deficit di segnali di sopravvivenza.
• Rispondono più rapidamente alla stimolazione da parte dell’antigene rispetto a quanto facciano le
cellule naive specifiche per lo stesso antigene.
• Il numero di linfociti T della memoria specifici per un determinato antigene è maggiore rispetto al
numero di cellule naive specifiche per lo stesso antigene di circa 10-100 volte.
• Sono in grado di migrare e rispondere agli antigeni nei tessuti periferici.
• Sono in una condizione di continua e lenta proliferazione; questa capacità di auto-rinnovarsi può
contribuire alla loro lunga sopravvivenza.
• La loro sopravvivenza dipende dall’azione delle citochine ma non richiede il riconoscimento
dell’antigene.

I marcatori più affidabili per l’identificazione dei linfociti della memoria sono il recettore per l’IL-7 e una
proteina dalla funzione sconosciuta detta CD27. I linfociti CD4+ e CD8+ della memoria sono eterogenei e
possono essere suddivisi in sottopopolazioni a seconda delle loro funzioni e della loro capacità di
raggiungere tessuti diversi. I linfociti della memoria centrale esprimono il recettore per le chemochine CCR7
e la L-selectina, proliferano attivamente pur possedendo limitate capacità effettrici e danno origine ad un
elevato numero di linfociti effettori. I linfociti T della memoria effettrice, invece, non esprimono né CCR7 né
L-selectina e si localizzano prevalentemente nei tessuti periferici. La ridotta proliferazione di questa
sottopopolazione spiega perché, pur essendo in grado di rispondere rapidamente ad un patogeno, non sia
in grado di eradicare completamente l’infezione.

L’eliminazione dell’antigene conduce al declino della risposta T; ciò è fondamentale per permettere il
mantenimento dell’omeostati nel sistema immunitario. Questa interruzione avviene per la cessazione di
quei segnali che generalmente mantengono vivi e proliferativi i linfociti. Per esempio, non appena il livello
della costimolazione e la concentrazione di IL-2 calano, diminuisce anche l’espressione delle proteine anti-
apoptotiche; la contemporanea cessazione della produzione dei fattori di crescita attiva sensori di stress
cellulare che stimolano l’apoptosi mitocondriale che non è più contrastata dalle proteine anti-apoptotiche.
Ne consegue che la maggior parte delle cellule prodotte durante l’attivazione muore, mentre l’attivazione
di nuove cellule diminuisce causando la contrazione del numero di linfociti specifici.

CAPITOLO 10: DIFFERENZIAZIONE E FUNZIONI DEI LINFOCITI T CD4+ EFFETTORI

L’immunità cellulo-mediata è la risposta immunitaria dell’ospite mediata dai linfociti T e costituisce un


meccanismo di diffesa contro i microbi intracellulari e fagocitati. A differenza dell’immunità umorale,
efficace solo contro microrganismi e tossine extracellulari ma non contro microrganismi che sopravvivono e
si moltiplicano all’interno delle cellule, l’immunità cellulo-mediata è efficace sia contro i microrganismi
fagocitati sia contro quelli intracellulari. Difetti dell’immunità cellulo-mediata producono un aumento della
suscettibilità alle infezioni da partedi virus e batteri intracellulari così come da parte di batteri extracellulari
e funghi normalmente eliminati dai fagociti. La sequenza di eventi nelle risposte dei linfociti T CD4+
comprende:

1. Attivazione negli organi linfoidi per la generazione di linfociti effettori e della memoria.
2. Migrazione dei linfociti effettori ai siti di infezione.
3. Eliminazione dei patogeni nei siti periferici.

I linfociti CD4+ si generano negli organi linfoidi secondari in seguito al riconoscimento degli antigeni, ma la
maggior parte di essi lascia questi organi e migra ai focolai periferici di infezione per eliminare i microbi.
Sebbene la migrazione sia ampiamente indipendente dall’antigene, i linfociti T che riconoscono l’antigene
nei tessuti extravascolari sono ampiamente trattenuti qui. Una volta raggiunti i tessuti periferici, i linfociti T
incontrano gli antigeni microbici presentati dai macrofagi e da altre APC. I linfociti T che riconoscono in
maniera specifica gli antigeni ricevono segnali attraverso i proprio recettori per l’antigene (TCR) che
aumentano l’affinità delle integrine per i propri ligandi. I linfociti che migrano in un sito di infiammazione
ma non possiedono la specificità per l’antigene coinvolto, possono morire nel tessuto o ritornare in circolo
attraverso i vasi linfatici. Alcuni linfociti T CD4+ che si sono attivati negli organi linfoidi secondari migrano
nei follicoli senza uscire dall’organo linfoide; qui espletano un’azione di supporto per la produzione di
anticorpi ad alta affinità di svariati isotipi da parte dei linfociti B (linfociti T helper follicolari). Nelle risposte
immunitarie cellulo-mediate nei confronti di microbi fagocitati, i linfociti T riconoscono in maniera specifica
gli antigeni ma sono i fagociti i responsabili dell’uccisione dei patogeni. Quindi, i CD4+ fungono da tramite
tra lo specifico riconoscimento dei microrganismi e l’attivazione di altri tipi di leucociti preposti
all’eliminazione del microrganismo. La fagocitosi e l’eliminazione dei microbi da parte dei fagociti è una
reazione importante dell’immunità innata, ma i linfociti T sono in grado di aumentare significativamente
questa funzione dei fagociti. Quando i patogeni sono così evoluti da resistere all’immunità innata, i linfociti
T riconoscono gli antigeni microbici arruolando e attivando i fagociti, facendo sì che questi eradichino le
infezioni che non possono essere combattute dalla sola immunità innata. I CD4+ attivano i fagociti
attraverso molecole espresse sulla superficie cellulare, principalmente il ligando del CD40 (CD40L) e le
citochine secrete.

L’infiammazione si accompagna spesso alle risposte dei linfociti CD4+ e in molti casi può danneggiare i
tessuti normali. In questo caso si parla di ipersensibilità di tipo ritardato.

Esistono tre diverse sottopopolazioni di linfociti T CD4+, TH1, TH2 e TH17, le quali combattono patogeni
diversi e possono essere coinvolte nell’insorgenza di diversi tipi di danno tissutale e malattie immunitarie.
Le caratteristiche distintive delle diverse sottopopolazioni sono rappresentate dalle citochine prodotte, dai
fattori di trascrizione espressi e dai cambiamenti epigenetici che si osservano in corrispondenza dei geni per
le varie citochine. Le citochine distintive della maggiori sottopopolazioni dei linfociti CD4+ sono:

• IFN-γ per i TH1;


• IL-4, IL-5 e IL-13 per i TH2;
• IL-17 e IL-22 per i TH17.

Ognuna delle tre sottopopolazioni è caratterizzata da una specifica configurazione molecolare, in gran parte
definita dai recettori delle chemochine e dalle molecole di adesione che ne indirizzano la migrazione verso i
diversi focolai di infezione. I TH1 esprimono recettori chemochimici CXCR3 e CXCR5, per cui essi saranno più
abbondanti nei focolai di infezione dove l’agente infettivo avrà evocato una risposta immunitaria innata.
Inoltre, i TH1 esprimono anche i ligandi della E-selectina e della P-selectina, che contribuiscono alla loro
migrazione ai siti di infiammazione. Al contrario, i TH2 esprimono i recettori chemochimici CCR3, CCR4 e
CCR8 che riconoscono le chemochine espresse ad alti livelli preferenzialmente nei focolai delle infezioni da
elminti o durante le reazioni allergiche. I TH17 esprimono il recettore CCR6 che lega la chemochina CCL20
prodotta in alcune infezioni batteriche e fungine.
I linfociti Th1, Th2 e Th17 si sviluppano a partire da linfociti CD4+ naive in risposta a citochine presenti
durante le fasi precoci della risposta immunitaria; il loro differenziamento coinvolge l’attivazione
trascrizionale e la modificazione epigenetica dei geni per le citochine. Il processo di differenziamento
implica tre fasi:

1. Induzione: le citochine agiscono sui linfociti T stimolati dall’antigene e dalle molecole


costimolatorie provocando la trascrizione dei geni che codificano per le citochine caratteristiche di
ogni sottopopolazione cellulare.
2. Indirizzamento: se la stimolazione dell’antigene è sufficientemente prolungata, intervengono
cambiamenti epigenetici che rendono i geni che codificano per le citochine costantemente attivati.
Viceversa, i geni codificanti citochine che non sono prodotte da quella particolare sottopopolazione
linfocitaria rimangono inattivi.
3. Amplificazione: le citochine prodotte da ciascuna sottopopolazione di linfociti CD4+ favoriscono lo
sviluppo di quella determinata sottopopolazione e inibiscono la generazione delle altre. Ne
consegue l’accumulo di linfociti che appartengono add una singola sottopopolazione.

Vediamo allora quali sono le principali caratteristiche del differenziamento dei linfociti T:

• Le citochine che guidano lo sviluppo delle sottopopolazioni di CD4+ sono prodotte dalle APC e da
altre cellule del sistema immunitario, come NK e basofili, che si trovano nell’organo linfoide dove
ha inizio la risposta. Microbi diversi possono indurre la produzione di citohine diverse, essendo
riconosciuti da recettori diversi.
• Anche stimoli diversi dalle citochine possono influenzare il differenziamento dei linfociti helper.
Inoltre, le caratteristiche genetiche dell’ospite influenzano profondamente il differenziamento in
linfociti T.
• I profili citochinici distintivi delle diverse sottopopolazioni sono controllati da specifici fattori
trascrizionali che attivano l’espressione genetica delle citochine e da modificazioni della cromatina
che influenzano l’accesso ai promotori e agli elementi regolatori dei geni delle citochine a cui questi
fattori trascrizionali si legano. I fattori trascrizionali vengono essi stessi attivati o indotti dagli stimoli
generati dal recettore per l’antigene, dai recettori dell’immunità innata, dalle molecole
costimolatorie e da altri recettori citochinici. Ciascuna sottopopolazione esprime un pannello
caratteristico di fattori trascrizionali. Man mano che una sottopopolazione procede nel processo di
differenziamento, i loci genetici delle citochine distintive vanno incontro a modificazione degli
istoni e ad altri eventi di rimodellamento della cromatina, rendendo questi loci accessibili alla RNA
polimerasi e ai fattori di trascrizione. Al contrario, i loci per le citochine non prodotte da quella
determinata sottopopolazione vengono a trovarsi in uno stato cromatinico inaccessibile.
• Ciascuna sottopopolazione di linfociti effettori produce citochine che promuovono il proprio
sviluppo e al contempo inibiscono lo sviluppo delle altre sottopopolazioni. Questa caratteristica
fornisce ai linfociti T un potente meccanismo di amplificazione. In altre parole, possiamo dire che
ciascuna sottopopolazione si autopromuove e inibisce lo svilluppo delle altre sottopopolazioni. I
differenziamenti più spinti si trovano nelle infezioni croniche o nell’esposizione cronica ad antigeni
ambientali, situazioni in cui la stimolazione è prolungata.
• Il differenziamento di ciascuna sottopopolazione è indotto dai tipi di microbi che rappresenteranno
il bersaglio privilegiato di quella stessa popolazione. Ad esempio, lo sviluppo dei linfociti Th1 è
guidato dai microbi intracellulari che rappresentano il bersaglio privilegiato delle risposte Th1; al
contrario, il sistema immunitario risponde ai parassiti elmintici tramite linfociti Th2 e le citochine
prodotte da questi sono fondamentali per combattere gli elminti stessi. Analogamente, le risposte
Th17 sono indotte da alcuni batteri e funghi che vengono debellati proprio da queste cellule.

Possiamo passare a vedere nel dettaglio le caratteristiche delle singole sottoclassi.

LINFOCITI TH1

La sottopopolazion dei Th1 è indotta da microbi fagocitati e attiva gli stessi fagociti. Si tratta della principale
popolazione di linfociti T effettori coinvolta nella difesa dell’ospite da parte dei fagociti, la reazione centrale
dell’immunità cellulo-mediata. Il differenziamento in senso Th1 è guidato principalmente dalle citochine IL-
12 e IFN-γ e avviene in risposta a microbi che attivano le DC, i macrofagi e le NK. Il differenziamento è
stimolato da molti batteri intracellulari (es. Listeria e micobatteri) e da alcuni parassiti, che infettano le DC e
i macrofagi; esso è inoltre stimolato da virus e antigeni proteici. Inoltre, è stato osservato che l’IL-18
sinergizzi con IL-12 e che gli IFN di tipo I siano importanti per il differenziamento Th1 in risposta a infezioni
virali. Inoltre, altri microbi stimolano le NK a produrre IFN-γ il quale, oltre ad essere un potente induttore
Th1, agisce anche sulle DC e sui macrofagi aumentando la secrezione di IL-12. Una volta che le Th1 si sono
sviluppate, cominciando a secernere IFN-γ, promuovendo un ulteriore differenziamento Th1 e amplificando
fortemente le reazione. Inoltre, IFN-γ inibisce il differenziamento in senso Th2 e Th17. I linfociti T possono
ulteriormente aumentare la produzione di citochine da parte delle DC e dei macrofagi tramite il ligando
CD40L espresso sui linfociti T che può stimolare il CD40 espresso sulle APC innescando produzione di IL-12.
IFN-γ e IL-12 stimolano il differenziamento Th1 attivando i fattori trascrizionali T-bet, STAT1 e STAT4: T-bet
è indotto dal riconoscimento dell’antigene e dall’IFN-γ, il quale stimola anche il fattore trascrizionale STAT1,
che a sua volta stimola l’espressione di T-bet; a questo punto, T-bet promuove la produzione di IFN-γ sia
direttamente attraverso l’attivzione trascrizionale del gene, sia attraverso il rimodellamento cromatinico
del promotore del gene di questa citochina. L’IL-12 contribuisce a questo differenziamento legandosi a
recettori specifici espressi dai linfociti CD4+ attivati dal riconoscimento dell’antigene e attivando il fattore di
trascrizione STAT4, che a sua volta aumenta ulteriormente la produzione di IFN-γ.

La principale funzione dei Th1 è quella di attivare i macrofagi a fagocitare ed eliminare i microrganismi.
L’attivazione Th1-dipendente dei macrofagi è anche coinvolta nell’ipersensibilità di tipo ritardato e nello
sviluppo del granuloma. Abbiamo detto che la principale citochina coinvolta nelle funzioni dei Th1 è l’IFN-γ,
anche denominato interferone immunitario o di tipo II. È un proteina omodimerica appartenente alla
famiglia delle citochine di tipo II e non ha un’attività antivirale, nonostante il nome interferone implichi una
modesta attività antivirale. È prodotto anche dalle NK agendo come mediatore dell’immunità innata.
Nell’immunità specifica sono invece i linfociti T a produrlo in risposta al riconoscimento dell’antigene. È
composto da due catene peptidiche strutturalmente omologhe appartenenti alla famiglia del recettore per
le citochine di tipo II e definite IFN-γR1 e IFN-γR2. L’IFN-γ lega le due caene recettoriali e ne induce la
dimerizzazione. Quest’ultima induce l’attivazione delle due chinasi JAK1 e JAK2 che sono associate alle
catene recettoriali, portando alla fosforilazione e alla dimerizzazione del fattore trascrizionale STAT1 che
induce la trascrizione di diversi geni, codificanti per proteine coinvolte nella regolazione di diverse attività
biologiche. Vediamo quindi quali sono le principali funzioni dell’IFN-γ:

• Attiva i macrofagi ad eliminare i microrganismi fagocitati (attivazione classica dei macrofagi).


• Agendo sui linfociti B, promuove lo scmabio isotipico verso alcune sottoclassi di IgG, in particolare
IgG2a o IgG2c (nel topo), inibendo al contempo lo scambio verso isotipi IL-4-dipendenti come le IgE.
Le sottoclassi di IgG indotte dall’IFN-γ si legano ai recettori per l’Fcγ espressi dai fagociti e sono
anche in grado di attivare il complemento, favorendo risposte anticorpali che contribuiscono
all’eliminazione dei microrganismi.
• Promuove lo sviluppo dei CD4+ verso la sottopopolazione Th1 inibendo quello verso le
sottopopolazioni Th2 e Th17.
• Induce l’espressione di diverse proteine che contribuiscono a migliorare la presentazione
dell’antigene in associazione e MHC e ad innescare e amplificare le risposte immunitarie T-
dipendenti.

Oltre all’IFN-γ, i Th1 producono anche varie altre chemochine che contribuiscono al reclutamento dei
leucociti e ad intensificare la risposta infiammatoria, tra cui l’IL-10.

I linfociti Th1 attivano i macrofagi per mezzo di segnali generati dall’interazione CD40L-CD40 e dell’IFN-γ. In
risposta alla stimolazione da parte dell’antigene i linfociti Th1 esprimono sulla loro superficie il CD40L e
secernono l’IFN-γ, la cui azione sui macrofagi sinergizza con quella del CD40L, facendo in modo che l’IFN-γ e
il CD40L diventino dei potenti stimoli per l’attivazione macrofagica. I segnali derivati dal CD40 attivano i
fattori di trascrizione NF-kB e AP-1 e l’IFN-γ attiva STAT1, che stimola l’espressione di diversi enzimi
contenuti nei fagolisosomi dei macrofagi. La necessità dell’interazione CD40L-CD40 per l’attivazione
macrofagica fa sì che i macrofagi che presentano l’antigene ai linfociti T siano anche quelli che si trovano in
contatto con questi ultimi e quindi quelli più efficacemente attivati dagli stessi. I macrofagi attivati
eliminano i microrganismi fagocitati, soprattutto attraverso la produzione di ROS, NO ed enzimi lisosomiali,
che eliminano il microrganismo ingerito solo dopo che il fagosoma si è fuso con il lisosoma. Gli individui con
mutazioni ereditario del CD40L (sindrome da iper-IgM legata al cromosoma X) sono altamente sensibili alle
infezioni da parte di microbi intracellulari altrimenti innocui. I macrofagi attivati sono coinvolti in numerose
altre reazioni delle difese dell’ospite. Essi stimolano l’infiammazione attraverso la secrezione di citochine,
principalmente il TNF, l’IL-1, le chemochine e i mediatori lipidici a breve emivita, come le prostaglandine.
L’azione complessiva di queste molecole è quella di potenziare ulteriormente il reclutamento dei monociti.
I macrofagi attivati amplificano la risposta immunitaria cellulo-mediata aumentando l’efficienza delle
proprie funzioni di APC, grazie all’aumento dell’espressione delle molecole coinvolte nel processamento
dell’antigene, delle MHC II, delle molecole costimolatorie e delle citochine. Un certo grado di danno
tissutale accompagna sempre le risposte dei Th1, perché i prodotti microbicidi liberati non sono in grado di
discriminare tra batteri e tessuti dell’ospite.

LINFOCITI TH2

La sottopopolazione Th2 è responsabile della cosiddetta difesa fagocito-indipendente, dove gli eosinofili e i
mastociti svolgono un ruolo centrale. Il differenziamento dei Th2 viene stimolato dalla citochina IL-4 e
avviene in risposta a elminti e allergeni. Questi ultimi determinano una stimolazione cronica dei linfociti T,
spesso in assenza di significative risposte innate o di attivazione macrofagica necessarie per il
differenziamento in senso Th1. In alcune situazioni, l’IL-4 è prodotta dai mastociti e probabilmente anche
da altre popolazioni cellulari; in altri casi, i CD4+ stimolati dall’antigene cominciano immediatamente a
produrre piccole quantità di IL-4 e, nel caso in cui l’antigene sia persistente e abbondante, la
concentrazione locale di IL-4 aumenterà gradualmente. Quindi, il differenziamento dei Th2 dipende dall’IL-4
che agisce attivando il fattore di trascrizione STAT6 che, insieme ai segnali generati dal TCR, induce
l’espressione di GATA-3. Quest’ultimo agisce come principale regolatore del differenziamento in senso Th2
attivando la trascrizione dei geni che codificano per IL-4, IL-5 e IL-13. Il fattore GATA-3 indirizza stabilmente
il differenziamento dei linfociti verso Th2 aumentando la sua stessa espressione attraverso un meccanismo
a feedback positivo. Inoltre, blocca il differenziamento Th1 inibendo l’espressione della catena responsabile
della trasduzione del segnale del recettore Il-12.
I Th2 stimolano le reazioni immunitarie protettive nei confronti delle infezioni elmintiche mediate dalle IgE,
dai mastociti e dagli eosinofili. Gli elminti sono di dimensioni troppo grandi per essere fagocitati dai
macrofagi o dai neutrofili e sono generalmente più resistenti all’attività microbicida di queste cellule. Per
questo, contro queste infezioni, si sono sviluppate le risposte Th2 mediate dall’IL4: essa è la citochina più
rappresentativa dei linfociti Th2 e può agire sia come induttore sia come effettore di queste cellule. È un
membro della famiglia delle citochine di tipo I a quattro domini α elica e il suo recettore, IL-4Rαγc, trasduce
il segnale attraverso la via JAK-STAT che coinvolge JAK1, JAk3 e STAT6 e una seconda via che coinvolge IRS-
2. IL-4 svolge importanti funzioni:

• Nei linfociti B, promuove lo scambio isotipico della catena pesante delle immunoglobuline verso le
classe IgE, principali effettrici della difesa esercitata dagli eosinofili contro le infezioni da elminti e
principali mediatrici delle reazioni allergiche. Di conseguenza, IL-4 è coinvolta nello sviluppo delle
allergie e stimola lo scmabio isotipico verso l’IgG4 nell’uomo.
• Induce lo sviluppo dei Th2 a partire dai linfociti CD4+ naive e funziona da fattore di crescita
autocrino per i Th2 effettori.
• Insieme a IL-13, contribuisce ad una forma alternativa di attivazione dei macrofagi diversa da quella
innescata dall’IFN-γ.
• Insieme a IL-13, stimola la peristalsi del tratto gastro-intestinale e la secrezione di muco da parte
delle cellule epitaliali dell’intestino e delle vie aeree superiori.
• Insieme a IL-13, induce il reclutamento dei leucociti, principalmente eosinofili.

Altre due citochine importanti da considerare sono:

• IL-13: svolge un ruolo critico nella difesa contro gli elminti e nell’insorgenza di malattie su base
allergica, agendo in concerto con IL-4. Alcune delle sue azioni si sovrappongono a quelle di IL-4,
mentre altre sono distinte. Sinergizza con IL-4 nell’indurre l’attivazione alternativa dei macrofagi
contribuendo alla fibrosi e alla riparazione dei tessuti; stimola la produzione di muco da parte delle
cellule epiteliali bronchiali; può attivare lo scambio di classe verso le IgE e verso alcuni tipi di IgG nei
linfociti B, oltre che promuovere il reclutamento leucocitario. Non è coinvolta nella differenziazione
dei Th2.
• IL-5: è un attivatore degli eosinofili e rappresenta il principale collegamento tra l’attivazione dei
linfociti T e le risposte infiammatorie che coinvolgono gli eosinofili. Gli eosinofili attivati esprimono
sulla loro superficie recettori specifici per il frammento Fc delle IgE e di alcune IgG e sono quindi in
grado di legare ed eliminare i microrganismi opsonizzati da tali anticorpi. Inoltre, stimola la
proliferazione dei linfociti B e la produzione di IgA.

I Th2 svolgono alcune funzioni molto importanti:

1. Reazioni mediate da IgE ed eosinofili.


2. Attivazione dei mastociti.
3. Difesa dell’ospite a livello della barriera mucosale rivolta verso l’ambiente esterno.
4. Attivazione alternativa dei macrofagi: i macrofagi alternativamente attivati possono innescare la
riparazione tissutale a seguito di diversi tipi di danno tissutale, promuovendo la cicatrizzazione e la
fibrosi tramite stimolazione dei fibroblasti e la sintesi di collagene.

LINFOCITI TH17
La sottopopolazione dei Th17 è principalmente coinvolta nel reclutamento dei leucociti e nell’attivazione
dell’infiammazione. Il loro sviluppo è stimolato da citochine pro infiammatorie prodotte in risposta a batteri
e funghi, come IL-6, IL-1 e IL-23, il cui rilascio è promosso dal riconoscimento da parte del recettore simil-
lectinico Dect-1 dei glucani fungini. Mentre IL-1 e IL-6 sono implicati nelle fasi iniziali di sviluppo dei Th1, IL-
23 potrebbe essere coinvolto nella loro proliferazione e nel loro mantenimento nello stato attivo. Lo
sviluppo dei Th17 è promosso anche del TGF-β. I fattori trascrizionali che mediano lo sviluppo di Th17 sono
RORγt e STAT3: TGF-β e citochine pro infiammatorie cooperano per indurre la produzione di RORγt; le
citochine infiammatorie, in particolare IL-6, attivano STAT3, il quale collabora con RORγt per originare la
risposta Th17. I Th17 sono particolarmente abbondanti nei tessuti mucosi, soprattutto nella mucosa del
tratto gastrointestinale; infatti, è stato dimostrato che alcuni batteri commensali della specie Clostridium
sono induttori molto potenti dei Th17.

Essi hano la funzione principale di combattere i microbi arruolando leucotiti, principalmente neutrofili,
presso i siti di infezione. Molte delle loro azioni pro-infiammatorie dipendono dalla citochina IL-17, in
particolare IL-7A e IL-7F: la loro funzione è quella di promuovere l’infiammazione caratterizzata da una
forte componente neutrofilia e di stimolare la produzione di sostanze antimicrobiche, incluse le defensine.
Altre citochine prodotte dai Th17 sono l’IL-22, prodotta nei tessuti epiteliali dove mantiene l’integrità
epiteliali promuovendo le funzioni di barriera meccanica e stimolando la riparazione tissutale; l’IL-21,
importante nella risposta anticorpale e nella generazione dei linfociti T helper follicolari, nonché nella nella
differenziazione dei Th17 e nell’aumento, proliferazione e differenziazione dei CTL e delle NK.

La principale funzione effettrice dei Th17 è quella di indurre l’infiammazione mediata dai neutrofili, che
serve ad eliminare batteri e funghi. La loro importanza è messa in evidenza nella sindrome di Giobbe,
causata da mutazioni del gene che codifica STAT 3 e caratterizzata dall’aumentata sensibilità alle infezioni
cutanee causate da funghi e batteri. I Th17 collaborano con i Th1 per eliminare i microbi da parte dei
fagociti nell’immunità cellulo-mediata. I Th17 sono probabilmente i linfociti T effettori più importanti nel
reclutamento dei fagociti ai siti di infezione, processo guidato dalle chemochine. Infine, i Th17
contribuscono alla patogenesi di molte malattie infiammatorie. Le risposte dei Th17 sono state associate a
malattie come la psoriasi, patologie infiammatorie dell’intestino, artrite reumatoide e sclerosi multipla.

Per concludere, vediamo altre due classi di linfociti, i T γδ e gli NKT, che hanno in comune alcune funzioni:

1. Difesa precoce contro i microbi incontrati nei tessuti epiteliali.


2. Monitoraggio ed eliminazione delle cellule sottoposte a danno.
3. Produzione di citochine che influenzano successivamente le risposte adattive.

LINFOCITI T γδ: rappresentano una sottopopolazione distinta, la cui percentuale varia molto da
tessuto a tessuto. Nel corso dell’ontogenesi si possono sviluppare diverse sottopopolazioni di
linfociti γδ dotate di diverse regioni V a livello del recettore per l’antigene in grado di popolare
tessuti diversi, anche se con una limitata capacità di ricircolo. Una loro caratteristica peculiare è
l’abbondanza nei tessuti epiteliali. Essi non sono ristretti per MHC e non riconoscono gli antigeni di
natura proteica. Alcuni cloni riconoscono piccole molecole fosforilate, come alchilamine e lipidi
micobatterici, presentati da MHC “non convenzionali” di classe I; altri riconoscono proteine o
antigeni non proteici che non richiedono la processazione o la presentazione da parte delle APC. Un
certo numero di funzioni biologiche è stato comunque associato a questi linfociti, incluse la
secrezione di citochine e l’eliminazione delle cellule infettate, pur rimanendo poco caratterizzata la
loro reale funzione.
CELLULE NKT: una piccola popolazione di cellule T esprime marcatori come il CD56, normalmente
espresso dalle NK. Queste cellule sono perciò dette NKT. Le catene α del TCR espresso da una
frazione di NKT presentano una limitata diversificazione e sono caratterizzate da una regione V
codificata da un unico segmento riarrangiato, con minima o assente diversità giunzionale, associata
ad una delle tre catene β. A causa di questa limitata variabilità, queste cellule sono definite NKT
invarianti (iNKT). Inoltre, esisono NKT caratterizzate dall’espressione di recettori per l’antigene
abbastanza diversificati. In ogni caso, tutti i TCR delle NKT riconoscono lipidi associati a molecole
simili alle MHC di classe I, chiamate CD1. Le NKT sono in grado di produrre IL-4 e IFN-γ e potrebbero
aiutare i linfociti B della zona marginale a produrre anticorpi diretti contro gli antigeni lipidici.
Inoltre, potrebbero anche svolgere un’azione protettiva contro alcuni patogeni come i micobatteri
e regolare le risposte immunitarie specifiche.

CAPITOLO 11: DIFFERENZIAZIONE E FUNZIONI DEI LINFOCITI T CD8+ EFFETTORI

La differenziazione dei linfociti CD8+ in CTL effettori prevede l’acquisizione dei meccanismi necessari per
l’uccisione delle cellule bersaglio. La cellule infettata o tumorale che viene uccisa dai CTL è comunemente
detta cellula bersaglio. I CD8+ naive riconoscono gli antigeni, ma devono proliferare e differenziarsi per
generare una popolazione abbastanza ampia di CTL in grado di eliminare la fonte dell’antigene. All’interno
del citoplasma dei CTL differenziati si trovano numerosi lisosomi modificati, detti granuli, che contegono
proteine (tra cui perforina e granzimi) la cui funzione è uccidere altre cellule. Inoltre, i CTL differenziati sono
in grado di secernere citochine, principalmente IFN-γ, la cui funzione è attivare i fagociti. Gli eventi
molecolare coinvolti nella differenziazione dei CTL comprendono la trascrizione dei geni che codificano per
queste proteine effettrici. Due fattori di trascrizione necessari per questa espressione genica sono T-bet e
l’eomesodermina.

L’attivazione dei CD8+ naive viene avviata da antigeni presentati dalle DC. Gli antigeni riconosciuti dai CD8+
possono essere virus che infettano molti tipi di cellule oppure antigeni di tumori anch’essi derivati da
svariati tipi cellulari. La via di presetazione dell’antigene in MHC I ai linfociti CD8+ richiede la presenza di
antigeni proteici nel citosol delle cellule infettate in modo che tali proteine possano essere degradate dal
proteasoma e possano quindi entrare nel RE attraverso il trasportatore TAP. Le proteine di un virus che
infetta un tipo specifico di cellule possono accedere al citosol e ai proteasomi di quelle cellule, ma questo
non può avvenire nelle cellule che presentano l’antigene semplicemente perché il virus non è in grado di
infettarle e quindi le cellule non possono sintetizzare l’antigene virale. Il sistema immunitario risolve questo
problema attraverso il processo della cross-presentation, in cui DC specializzate ingeriscono cellule
infettate, tumorali o proteine espresse da queste cellule, trasferiscono gli antigeni proteici nel citosol ed
elaborano questi antigeni in modo che entrino nella via di presentazione dell’antigene del MHC I per il
riconoscimento dei linfociti CD8+. Nell’uomo, le DC specializzate per la presentazione crociata sono quelle
che esprimono elevati livelli di CD141 (BDCA-3).

L’attivazione completa dei CD8+ naive e la loro differenziazione in CTL funzionali e linfociti della memoria
può necessitare della partecipazione dei linfociti T CD4+ helper. Questi ultimi sono attivati dall’antigene
presentato sulle MHC II e da molecole costimolatorie B7 espresse dalle DC. In caso di forte risposta
immunitaria innata ad un microbo o se le APC vengono direttamente infettate dal microbo, l’aiuto del
linfocita T helper può non essere fondamentale. Invece, i T helper possono essere necessari per le risposte
dei linfociti CD8+ a infezioni virali latenti, trapianti di organi o tumori, condizioni in cui si osserva una debole
stimolazione dell’immunità innata. I T helper possono promuovere l‘attivazione dei CTL in svariati modi:

1. Possono secernere citochine che stimolano la differenziazione dei CD8+.


2. Possono esprimere il ligando del CD40 e legarsi a quest’ultimo sulle DC che presentano l’antigene.
Questa interzione attiva le APC e le rende più efficienti per la differenziazione dei CD8+, in parte
inducendo l’espressione di molecole costimolatorie (licesing delle APC).

Diverse citochine contribuiscono alla differenziazione dei CD8+:

IL-2 promuove la proliferazione e la differenziazione dei CD8+ in CTL e linfociti della memoria.
IL-2 e IFN-γ di tipo I stimolano la differenziazione dei CD8+ naive in CTL effettori, soprattutto
durante la risposta innata a infezioni sia batteriche che virali.
IL-15 è importante per la sopravvivenza dei CD8+ della memoria.
IL-21, prodotta dai CD4+ attivati, svolge un ruolo nella generazione dei CD8+ della memoria e
dunque nella prevenzione dell’esaurimento funzionale dei linfociti CD8+.

In alcune infezioni croniche virali, le risposte dei CD8+ possono essere stimolate ma gradualmente
smorzate, un fenomeno detto esaurimento funzionale. I linfociti CD8+ esauriti mostrano numerose
alterazioni funzionali e fenotipiche, tra cui ridotta produzione di IFN-γ e maggiore espressione di diversi
recettori initori, tra cui PD-1. L’esaurimento funzionale mediato da PD-1 sembra contribuire alla cronicità di
alcune infezioni virali, quali HIV e HCV (virus dell’epatite C) e alla capacità di alcuni tumori di eludere la
risposta immunitaria.

I CTL eliminano i microbi intracellulari principalmente uccidendo le cellule infettae. Questa uccisione
prevede il riconoscimento specifico delle cellule bersaglio e il rilascio di proteine che inducono le morte
cellulare. I CTL stessi non vengono danneggiati durante l’uccisione né uccidono le cellule adiacenti non
infette, assicurano che le cellule normali non vengano danneggiate. L’uccisione è altamente specifica grazie
alla formazione di una zona di stretto contatto cellulare (sinapsi immunologica) tra CTL e cellula bersaglio
che esprime l’antigene. Le molecole responsabili dell’uccisione sono secrete nello spazio sinaptico e non
riescono a diffondere alle cellule vicine. Il processo di uccisione avviene in 4 fasi fondamentali:

1. Riconoscimento dell’antigene
2. Attivazione del CTL
3. Rilascio del corpo letale
4. Distacco del CTL dalla cellula bersaglio

Il CTL si lega e reagisce contro la cellula bersaglio usando il proprio recettore, il corecettore CD8 e le
molecole di adesione. Per essere efficacemente riconosciute dai CTL, le cellule bersaglio devono esprimere
molecole MHC di classe I complessare con un peptide; in questo modo, i CTL si associano ai propri bersagli
cellulari in modo molto stabile. Questa sinapsi immunologica formata tra le due cellule è caratterizzata da
un anello definito da uno stretto accostamento tra la membrana del CTL e la membrana del bersaglio,
formato dal legame di LFA-1 a ICAM-1, e da uno spazio racchiuso all’interno dell’anello. Questa interazione
determina l’avvio di segnali biochimici che attivano il CTL in grado di uccidere qualsiasi cellula nucleata che
presenti l’antigene per cui sono specifici. I CTL esprimono anche recettori che sono espressi anche dalle NK
e che contribuiscono alla regolazione e all’attivazione dei CTL stessi. Alcuni di questi appartengono alla
famiglia KIR e trasducono segnali inibitori che servono ad impedire che i CTL uccidano cellule normali.
Inoltre, i CTL esprimono il recettore NKG2D che riconosce le molecole MIC-A, MIC-B e ULBP, espresse sulle
cellule danneggiate.

Pochi minuti dopo aver riconosciuto l’antigene su una cellula bersaglio attraverso il proprio TCR, il CTL
rilascia le proteine dei granuli verso la cellula bersaglio, causandone la morte per apoptosi. La morte ha
luogo entro le 2-6 ore successiva al riconoscimento dell’antigene e avviene anche se il CTL si distacca. Il
principale meccanismo utilizzato dai CTL è il rilascio di proteine citotossiche immagazzinate all’interno dei
granuli citoplasmatici, che stimolano la morte del bersaglio. I granuli vengono trasportati lungo i
microtubuli e si concentrano nella regione della sinapsi, qui la membrana dei granuli si fonde con quella
plasmatica del dominio secretorio, causando l’esocitosi dei granuli all’interno dell’anello sinaptico
formatosi tra le membrane plasmatiche del CTL e la cellula bersaglio. Le principali proteine citotossiche
contenute nei granuli dei CTL e delle NK sono granzimi e perforina. I granzimi A, B e C sono serin-proteasi
che condividono una sequenza His-Asp-Ser nei loro domini catalitici. Il granzima B taglia le proteine dopo i
residui di aspartato ed è l’unico componente dei granuli responsabile della citotossicità dei CTL. La
perforina è una molecola, omologa alla proteina C9 del complemento, che altera la membrana. I granuli
contengono anche un proteoglicano, la serglicina, che serve ad assemblare un complesso contenente
granzimi e perforina. La principale funzione della perforina è facilitare il rilascio dei granzimi nel citosol del
bersalgio, polimerizzando e formando pori acquosi nella membrana della cellula bersaglio stessa. I
complessi di granzima B, perforina e serglicina sono rilasciati dal CTL sulla cellula bersaglio e l’inserimento
della perforina nella sua membrana stimola un processo di riparazione della membrana stessa, che porta
all’internalizzazione negli endosomi sia della perforina che dei granzimi. Una volta nel citosol, i granzimi
scindono in vari substrati, tra cui le caspasi, e avviano la morte della cellula per apoptosi. Inoltre, la
granulisina può alterare la permeabilità della membrana della cellula bersaglio e del microbo, ma non si
conosce al momento la sua importanza nell’uccisione da parte dei CTL.

I CTL usano anche un meccanismo di uccisione indipendente dai granuli: esprimono una proteina di
membrana, detta ligando del Fas (FasL) che si lega al recettore di morte Fas, espresso da molti tipi cellulari.
Anche questa interazione causa l’attivazione di caspasi e innesca l’apoptosi delle cellule bersaglio che
esprimono Fas.

Dopo aver sferrato il colpo letale, il CTL si allontana dalla sua cellula bersaglio, solitamente prima ancora
che essa inizi a morire. I granuli contengono un enzima proteolitico, detto catepsina B, che viene rilasciato
sulla superficie dei CTL durante l’esocitosi dei granuli, dove degrada le molecole di perforina che si trovano
nelle vicinanze della membrana del CTL.

I linfociti CD8+ producono l’IFN-γ per l’attivazione dei macrofagi.

Nelle infezioni dovute a microbi intracellulari, l’uccisione da parte dei CTL è importante per l’eradicazione
del serbatorio di infezione. Ciò è particolarmente importante in due tipi di situazioni in cui le cellule sono
incapaci di eliminare i microbi che le hanno infettate. Innanzitutto, la maggior parte dei virus vive e si
replica in cellule prive della capacità di eliminare i microbi attraverso i fagosomi/lisosomi. Secondo, anche
nei fagociti alcuni microbi fuoriescono dal fagolisosoma e vivono nel citosol, dove i meccanismi microbicidi
sono inefficaci. Queste infezioni possono essere eradicate soltanto eliminando le cellule infette e i CTL
rappresentano il principale meccanismo per uccidere tali cellule. Inoltre, le caspasi scindono in molti
substrati e attivano enzimi che degradano il DNA senza discriminare tra proteine dell’ospite e proteine
microbiche. Attivando le nucleasi nelle cellule bersaglio, i CTL possono quindi avviare contemporaneamente
alla degradazione del genoma della cellula bersaglio, la degradazione del DNA microbico, eliminando così il
DNA potenzialmente infettivo. In caso di mancata espansione e attivazione della risposta CTL, si osserva un
aumento della suscettibilità alle infezioni. L’uccisione comunque causa un danno tissutale in alcune
malattie infettive.

CAPITOLO 12: ATTIVAZIONE DEI LINFOCITI B E PRODUZIONE ANTICORPI

I meccanismi di attivazione dei linfociti B e della produzione anticorpale presentano alcune caratteristiche
cruciali:

1. L’attivazione dei linfociti B porta alla proliferazione cellulare e all’espansione clonale seguita dalla
loro differenziazione che culmina con la generazione di plasmacellule secernenti anticorpi e di
cellule B della memoria. Le risposte immunitarie umorali iniziano con il riconoscimento specifico di
un particolare antigene da parte dei linfociti B; l’antigene lega e attiva i recettori rappresentati dalle
immunoglobuline M e D, espresse sulla membrana dei linfociti T naive. L’attivazione porta alla
proliferazione e alla differenziazione in cellule della memoria e in plasmacellule secernenti
anticorpi. Un singolo linfocita può dare origine a più di 5000 cellule nell’arco di una settimana,
determinando una produzione giornaliera di 10^12 anticorpi, permettendo di tenere a bada la
rapidissima proliferazione dei microbi. Alcuni dei linfociti B attivati possono iniziare a produrre
anticorpi diversi dalle IgM e dalle IgD, processo definito scambio di classe (isotipo) delle catene
pesanti. Man mano che la risposta umorale procede, prendono il sopravvento i linfociti B che
producono anticorpi con un’affinità sempre maggiore (maturazione dell’affinità).
2. La classe e la quantità di anticorpi prodotti variano in base al tipo di antigene che ha avviato la
risposta, al coinvolgimento dei linfociti T, alla possibilità che lo stesso antigene sia già stato
incontrato dall’individuo e al sito anatomico in cui avviene il riconoscimento dell’antigene.
3. Le risposte anticorpali verso gli antigeni proteici richiedono che l’antigene sia internalizzato da
parte dei linfociti B, processato e presentato ai linfociti CD4+ helper, che poi a loro volta attivano i
linfociti B. Per questa ragione, le proteine vengono definite antigeni T-dipendenti. In particolare, i
T-helper follicolari aiutano la formazione dei centri germinativi, strutture presenti all’interno degli
organi linfoidi, dove hanno luogo diversi aspetti delle risposte umorali verso gli antigeni T-
dipendenti.
4. Le risposte anticorpali agli antigeni multivalenti dotati di determinanti antigenici ripetuti non
richiedono l’intervento dei linfociti T helper; per questo, questi antigeni vengono detti T-
indipendenti. In questo caso le risposte sono direttamente attivate dall’ingaggio del recettore del
linfocita B e possono essere potenziate dai segnali provenienti da altri recettori espressi dai linfociti
B.
5. I linfociti B attivati si differenziano in plasmacellule che producono anticorpi. Nelle risposte T-
dipendenti, le plasmacellule migrano dal centro germinativo degli organi linfoidi secondari, dove
sono prodotte, al midollo osseo dove potranno sopravvivere per molti anni. Queste cellule
forniscono una protezione immediata ogniqualvolta lo specifico microrganismo da esse
riconosciuto infetti nuovamente l’individuo.
6. Alcuni dei linfociti B attivati in maniera T-indipendente possono differenziarsi in cellule della
memoria. Tali cellule sopravvivono per anni in uno stato di quiescenza senza secernere anticorpi,
ma sono in grado di dare luogo a risposte rapide in seguito all’incontro con l’antigene.
7. I processi di scambio isotipico e di maturazione dell’affinità avvengono tipicamente nelle risposte T-
dipendenti verso antigeni proteici.
8. Le risposte anticorpali primarie e secondarie verso gli antigeni proteici si differenziano a livello
quantitativo e qualitativo. Le risposte primarie sono il risultato dell’attivazione di linfociti B naive
che mai in precedenza erano venuti in contatto con l’antigene; al contrario, le risposte secondarie
sono dovute alla stimolazione dei cloni B della memoria che si erano già espansi numericamente
nel corso della prima esposizione all’antigene e sono quindi più rapide.
9. Distinte popolazioni di linfociti B rispondono preferenzialmente a diversi tipi di antigene. I linfociti B
follicolari risponodono principalmente agli antigeni proteici; i linfociti B della zona marginale della
milza e degli altri organi linfoidi riconoscono invece preferenzialmente gli antigeni multivalenti con
determinanti antigenici ripetuti evocando una risposta anticorpale indipendente dai linfociti T.

Cerchiamo di capire quali sono gli eventi precoci del processo di attivazione dei linfociti B.

1. Cattura e localizzazione dell’antigene per il riconoscimento da parte dei linfociti B: la maggior


parte dei linfociti B maturi è costituita dai linfociti B follicolari naive che ricircolano continuamente
attraverso il sangue da un organo linfoide al successivo in cerca di antigeni. I linfociti B follicolari
entrano nei tessuti linfoidi secondari attraverso i vasi ematici localizzati nelle aree T, per poi
migrare all’interno dei follicoli. La migrazione nei follicoli è guidata dalla chemochine CXCL13
secreta dalle DC follicolari, che si lega al recettore per chemochine CXCR5 espresso dai linfociti B
naive circolanti, indirizzandoli all’interno dei follicoli. Gli antigeni vengono indirizzati ai linfociti B
presenti negli organi linfoidi secondari attravero diverse vie.
• La maggior parte di essi sono trasportati dai tessuti ai linfonodi attraverso i vasi linfatici
afferenti che drenano nel seno sottocapsulare.
• I macrofagi del seno sottocapsulare catturano i microbi di grandi dimensioni e i complessi
antigene-anticorpo e li trasferiscono nei follicoli.
• Molti degli antigeni di grandi dimensioni che entrano nel linfonodo attraverso i vasi linfatici
non sono catturati dai macrofagi del seno sottocapsulare; data la loro dimensione, vengono
catturati nella regione midollare dalle DC e trasportati ai follicoli, dove possono essere
riconosciuti dai linfociti B.
• Gli antigeni che fanno parte di immunocomplessi possono legare i recettori del
complemento (in particolare CR2), espresso dai linfociti B della zona marginale per essere
trasferiti ai linfociti B follicolari.
• Gli immunocomplessi possono anche legarsi al recettore CR2 del complememtno per
essere poi presentati ai linfociti B.
• I patogeni presenti in circolo possono essere catturati dalle DC plasmacitoidi presenti nel
sangue e trasportati alla milza per essere veicolati ai linfociti B della zona marginale.
• Gli antigeni polisaccaridici possono essere catturati dai macrofagi della zona marginale dei
follicoli linfoidi della milza e presentati o trasferiti ai linfociti B in quest’area.
In tutti questi casi, l’antigene è generalmente integro, nella sua conformaione nativa e non è
processato dalle APC.
2. Attivazione dei linfociti B da parte deli antigeni e di altri stimoli: l’antigene e le citochine svolgono
un ruolo importante per la sopravvivenza dei linfociti T naive. Tale sopravvivenza dipende dai
segnali generati dal BCR e dai segnali impartiti dalla citochina BAFF (BLyS), membro della
superfamiglia del TNF. BAFF ed un ligando ad esso corellato (APRIL) possono attivare anche altri
due recettori, TACI e BCMA, che partecipano agli stadi più avanzati del processo di attivazione e
differenziazione dei linfociti B. L’attivazione del linfocita B inizia con il riconoscimento dell’antigene
da parte delle Ig di membrana che, con le catene Igα e Igβ, formano il BCR dei linfociti B maturi, il
quale svolge due ruoli: genera i segnali necessari all’attivazione della cellula e veicola l’antigene agli
endosomi, dove viene processato in peptidi che verranno poi presentati sulle superficie dei linfociti
B per il riconoscimento da parte dei linfociti T. Il riconoscimento dell’antigene dà inizio alla risposta
B, ma di per sé è generalmente insufficiente a stimolare in modo significativo la proliferazione e il
differenziamento. Per ottenere una risposta completa, devono cooperare con il BCR anche altri
stimoli, come il complemento, i BRR e i T helper. Inoltre, l’attivazione dei linfociti B è facilitata dal
corecettore CR2/CD21, che riconosce frammenti del complemento associati covalentemente
all’antigene o che sono parte dell’immunocomplesso che contiene l’antigene. Generalmente,
l’attivazione del complemento da parte dei microbi avviene in assenza di anticorpi, tramite la via
alternativa o quella lectinica, o in presenza in anticorpi, tramite la via classica. In tutte queste
condizioni, vengono generati frammenti del complemento che legano i microbi.
Attivando i TLR, i prodotti microbici contribuiscono all’attivazione dei linfociti B; i linfociti B umani
esprimono diversi TLR, come il TLR5 (riconosce la flagellina batterica), il TLR7 (riconosce l’RNA a
singola catena) e il TLR9 (riconosce sequenze ipometilate dei motivi CpG a livello endosomiale).
3. Attivazione dei linfociti B in seguito al riconoscimento dell’antigene: il cross-linking del BCR
produce una serie di eventi che è diversa a seconda del tipo di antigene: antigeni multivalenti
causano la proliferazione e la differenziazione dei linfociti B, mentre antigeni proteici preparano i
linfociti B per le successive interazioni con i linfociti T helper. Il riconoscimento dell’antigene
promuove l’entrata dei linfociti quiescenti nella fase G1 del ciclo cellulare, determinando un
aumento delle dimensioni cellulari, della quantità di RNA citoplasmatico e del numero degli
organelli biosintetici. Alcuni linfociti attivati si differenziano in plasmacellule a breve sopravvivenza
che secernono anticorpi; la sopravvivenza dei linfociti B attivati risulta aumentata in seguito
all’attivazione di vari geni anti-apoptotici, come Bcl-2. In seguito al riconoscimento dell’antigene, i
linfociti B aumentano anche l’espressione delle MHC II e delle molecole costimolatorie B7
rendendo i linfociti B attivati più efficienti nell’attivazione dei T helper. Infine, si osserva un
cambiamento nel profilo di espressione dei recettori per le chemochine e ciò consente ai linfociti B
attivati di fuoriuscire dai follicoli.
La maggior parte degli antigeni T-dipendenti contiene epitopi identici e ripetuti su ciascuna
molecola; ne consegue che essi legano e inducono l’aggregazione di un numero elevato di BCR e
avviano le risposte dei linfociti B nonostante non vengano riconosciuti dai linfociti T helper. Al
contrario, gran parte degli antigeni globuliari di natura proteica possiedono soltanto una copia per
molecola di ciascun epitopo; per cui essi non possono indurre un’efficace aggregazione del BCR e la
loro efficienza nell’attivare tale recettore è limitata, tanto da non indurre la proliferazione e la
differenziazione dei linfociti B. Gli antigeni proteici vengono internalizzati dal BCR, processati e
presentati in forma di peptidi legati alle MHC ai linfociti T helper che sono in grado di stimolare in
modo efficace la proliferazione e la differenziazione dei linfociti B. Successivamente al
riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti B, le risposte umorali che si generano sono molto
diverse a seconda che si tratti di una risposta T-dipendente o T-indipendente.

• RISPOSTE ANTICORPALI AGLI ANTIGENI PROTEICI T-DIPENDENTI

Gli antigeni proteici vengono riconosciuti dai linfociti B e T specifici negli organi linfoidi secondari. Più
precisamente, queste due popolazioni linfocitarie, una volta attivate, iniziano ad interagire tra loro per dare
inizio alle risposte umorali. L’interazione tra linfociti T e B inizia con il riconoscimento dello stesso antigene
da parte di entrambi i tipi di linfociti e segue una precisa sequenza di eventi. I linfociti CD4+ sono attivati
nelle aree T da parte dell’antigene presentato dalle DC e si differenziano in linfociti T helper. I linfociti B
naive sono attivati nei follicoli dallo stesso antigene. I linfociti B e T helper migrano gli uno verso gli altri e
interagiscono ai margini dei follicoli, dove si sviluppa la risposta anticorpale iniziale. Alcuni linfociti B
ritornano all’interno dei follicoli per formare i centri germinativi e dare luogo a risposte anticorpali più
specializzate.

1. Attivazione iniziale e migrazione dei linfocit B e T helper: l’attivazione da parte dell’antigene è


essenziale per l’interazione tra linfociti T e B, nonché per la loro localizzazione e per aumentare la
probabilità di una loro interazione. La frequenza di linfociti B o T naive specifici per un determinato
epitopo è estremamente bassa (1 su 10^5). L’interazione fisica tra i due tipi di linfociti avviene
principalmente grazie alla redistribuzione dei linfociti all’interno dell’organo linfoide, in seguito al
riconoscimento dell’antigene. I linfociti T helper modificano radicalmente il loro profilo di
espressione dei recettori per le chemochine, diminuendo l’espressione del recettore CCR7 e
aumentando quella di CXCR5 e dunque spingendo i linfociti helper attivati a lasciare le aree T e a
migrare verso il follicolo, dove è prodotto CXCL13 (ligando di CXCR5) da parte delle DC follicolari. I
linfociti B che hanno riconosciuto l’antigene riducono l’espressione del recettore CXCCR5 e
aumetano quella di CCR7, determinano la loro migrazione verso le aree T seguendo un gradiente di
concentrazioni di CCL19 e CCL21 (ligandi di CCR7). I linfociti B attivati esprimono anche CD69 che
impedisce l’espressione in membrana del recettore per la sfingosina-1-fosfato, causando la loro
ritenzione a livello linfonodale. Di conseguenza, i linfociti B e quelli T migrano gli uni verso gli altri.
Gli antigeni proteici vengono endocitati dai linfociti B e presentati in una forma che può essere
riconosciuta dai T helper.
2. Presentazione dell’antigene da parte dei linfociti B ed effetto aptene-carrier: i linfociti B attivati
endocitano l’antigene proteico, lo processano e lo presentano ai linfociti CD4+ montato su
molecole MHC II. Un antigene proteico che attiva una risposta B, utilizza almeno due diversi epitopi
della proteina nativa: uno viene riconosciuto in modo altamente specifico dal linfocita B, l’altro si
lega all’MHC II e verrà riconosciuto dai T helper. Gli anticorpi che verranno prodotti sono
generalmente specifici per determinanti conformazionali dell’antigene, poiché l’Ig di membrana del
linfocita B è in grado di legarsi a epitopi conformazionali presenti nella proteina nativa. L’anticorpo
prodotto sarà specifico per la proteina nativa.
Cerchiamo ora di comprendere l’effetto aptene-carrier. Gli apteni sono piccole molecole chimiche
che possono essere riconosciute dagli anticorpi ma non sono immunogeniche; se gli apteni
vengono associati a proteine che svolgono la funzione di carrier, i coniugati risultanti acquisiscono
la capacità di evocare la risposta anticorpale verso gli apteni. Le risposte anticorpali ai coniugati
aptene-proteina presentano tre caratteristiche: richiedono sia la presenza dei linfociti B specifici
per l’aptene che dei linfociti T specifici per il carrier; aptene e carrier devono essere legati
fisicamente; l’interazione è ristretta per molecole MHC II. Il linfocita B specifico per l’aptene lega il
coniugato aptene-carrier attraverso i peptidi derivati dal carrier ai linfociti T helper specifici per
quest’ultimo. Quindi, i due linfociti cooperanti riconoscono epitopi differenti dello stesso
complesso. L’aptene è responsabile dell’efficace internalizzazione della proteina carrier all’interno
del linfocita B , spiegando così la ragione per cui le due strutture devono essere legate fisicamente.
La necessità di presentare i peptidi in associazione alle MHC II spiega la restrizione per MHC delle
interazioni B e T.
3. Ruolo dell’interazione CD40L (CD40 nell’attivazione dei linfociti B da parte di antigeni T-
dipendenti): i linfociti T helper attivati esprimono sulla loro superficie il ligando del recettore CD40
(CD40L) che interagendo con il suo recettore, espresso dai linfociti B attivati, promuove la
proliferazione e la differenziazione dei linfociti B; questo avviene inizialmente nei foci
extrafollicolari e successivamente nei centri germinativi. I linfociti T helper attivati secernono anche
citochine che agiscono in modo coordinato con CD40L per stimolare le risposte B. Successivamente
alle fasi iniziali dell’interazione dei linfociti B con i T helper all’interfaccia tra i follicoli e le regioni T,
l’attivazione dei linfociti B può avvenire in due diverse region i: all’esterno dei follicoli in foci
extrafollicolari o, al loro interno, nei centri germinativi.

4. Attivazione extrafollicolare dei linfociti B: l’attivazione dei linfociti B nei foci extrafollicolari
fornisce una prima risposta anticorpale agli antigeni proteici e prepara la successiva risposta del
centro germinativo, che si sviluppa più lentamente ma che è più efficace. La risposta ad antigeni T-
dipendenti dei linfociti B nei foci extrafollicolari produce anticorpi a bassa affinità che possono
circolare e limitare la diffusione di un’infezione. La risposta extrafollicolare contribuisce anche alla
formazione dei T helper follicolari che migrano nel follicolo e sono necessari per la formazione del
centro germinativo. Anche alcuni linfociti B attivati ritornano nel follicolo, partecipando alla
formazione del centro germinativo e subendo alcune modificazioni che determinano una risposta
anticorpale più potente e duratura. Ciascuno dei foci può contenere da 100 a 200 plasmacellule.
Nella milza, i foci si formano nelle regioni esterne dei manicotti linfoidi periarteriolari o tra le
regioni T e la polpa rossa. Le cellule generate nei follicoli, tra cui plasmablasti circolanti o
plasmacellule tissutali, sono prevalentemente a vita breve e non acquisiscono la capacità di migrare
nei siti distali quali il midollo osseo. La limitata quantità di anticorpi prodotti nei foci può
contribuire alla formazione di immunocomplessi che vengono catturati dalle DC follicolari che, in
seguito all’attivazione da parte degli immunocomplessi stessi, possono produrre chemochine che
attirano un limitatissimo numero di linfociti B attivati dai foci extrafollicolari verso il follicolo, per
dare inizio alla reazione del centro germinativo.
5. Reazione del centro germinativo: gli eventi caratteristici della risposta anticorpale che dipende dai
linfociti T helper include la maturazione dell’affinità, lo scambio isotipico, nonché la generazione di
linfociti B della memoria e plasmacellule a lunga sopravvivenza. Questa risposta ha luogo
soprattutto in strutture organizzate, dette centri germinativi, che si generano all’interno dei follicoli
linfoidi. L’insieme degli eventi che susseguono allo sviluppo dei centri germinativi, come il processo
di diversificazione genetica dei linfociti B attivati e la selezione delle cellule che possiedono le
caratteristiche migliori per rispondere all’antigene, prende il nome di reazione del centro
germinativo. I centri germinativi si sviluppano nei 4-7 giorni successivi all’inizio della risposta B. un
numero limitato di linfociti B attivati nei foci ritorna nei follicoli per dare luogo ad un rapido
processo proliferativo in una regione distinta del follicolo, detta appunto centro germinativo.
All’interno del centro germinativo, si distingue una porzione scura popolata da linfociti B
proliferanti, detti centroblasti (tempo di duplicazione pari a circa 5- 6 ore). I cloni di linfociti che si
generano (centrociti) sono destinati ad ulteriori processi di differenziamento e selezione nella zona
chiara.
L’architettura dei follicoli linfoidi dipende dalla presenza di DC follicolari (FDC) che esprimono
recettori per frammenti del complemento (CR1, CR2 e CR3) e recettori per Fc (FcR), coinvolti nella
stimolazione e nella selezione dei linfociti B del centro germinativo. Le FDC non sono di origine
midollare e non esprimono MHC II, essendo dunque diverse dalle DC classiche. Presentano lunghi
prolungamenti citoplasmatici che vanno a costituire una sorta di intelaiatura intorno alla quale si
forma il centro germinativo. La reazione del centro germinativo consiste di tre fasi:

I linfociti B in rapida proliferazione si accumulano nella zona scura, che non contiene FDC né
linfociti T. La piccola quota di progenie B non proliferanti migra invece verso l’adiacente zona
chiara, dove viene a contatto con i prolungamenti citoplasmatici delle FDC ed entra in contatto con
i linfociti T helper follicolari; questa è anche la zona dove avverranno i successivi eventi di selezione.
Nel follicolo, il contorno costituito da linfociti B naive che circonda il centro germinativo viene
chiamato zona mantellare. L’interazione tra CD40 (espesso dai Tfh) con CD40L (espresso dai B) è
fondamentale per la proliferazione dei linfociti B.
6. Induzione dei linfociti follicolari T helper: nei 4-7 giorni successivi al riconoscimento dell’antigene, i
linfociti B attivati promuovono la differenziazione di alcuni dei linfociti T precedentemente attivati
in linfociti Tfh. Queste cellule svolgono un ruolo essenziale nella formazione e nel funzionamento
dei centri germinativi e vengono attirate all’interno dei follicoli in risposta a CXCL13 (ligando di
CXCR5), un recettore da loro espresso ad elevati livelli. La differenziazione dei Tfh necessita di due
fasi: l’attivazione iniziale dei CD4+ naive da parte delle APC e la successiva attivazione da parte dei
linfociti B. Una forte attivazione del TCR da parte delle DC causa l’espressione del repressore della
trascrizione Bcl-6 e di bassi livelli della catena α di IL-2R sui linfociti CD4+. L’espressione di Bcl-6
insieme ad un debole segnale da parte di IL-2R inibisce la differenziazione verso Th1, Th2 o Th17.
Alcuni di questi linfociti attivati inizia ad esprimere CXCR5. La differenziazione dei Tfh si completa
con l’attivazione da parte dei linfociti B attivati.
La molecola costimolatoria ICOS, espressa dai Tfh, svolge un ruolo cruciale nelle reazioni del centro
germinativo: l’interazione di ICOS con il suo ligando promuove la differenziazione dei Tfh. Le
interazioni tra linfociti B e T helper sono regolate da integrine e da molecole costimolatorie della
famiglia SLAM, tra cui la molecola SAP che stabilizza l’espressione di molecole che regolano la
trascrizione necessarie per lo sviluppo dei Tfh (Bcl-6).
La citochina che identifica i Tfh è IL-21, necessarie per lo sviluppo del centro germinativo e per la
generazione delle plasmacellule. Oltre a IL-21, i Tfh secernono anche altre citochine, come IFN-γ e
IL-4.
7. Scambio di classe isotipico della catena pesante: nelle risposte T-indipendenti una parte della
progenie dei linfociti B attivati che esprime IgM e IgD va incontro allo scambio di classe isotipico
delle catene pesanti, per produrre anticorpi di classe diversa. Questo scambio avviene in parte
anche nei linfociti B dei foci extrafollicolari grazie ai T helper. La capacità dei linfociti B di produrre
diverse classi anticorpali conferisce una notevole plasticità alla risposta anticorpale. I linfociti B
modificano l’isotipo degli anticorpi che producono, modificando le regioni costanti delle catene
pesanti e mantenendo inalterata la specificità per l’antigene. Lo scambio isotipico viene regolato
dalle citochine prodotte dai linfociti T helper attivati dai diversi tipi di microrganismi. L’IFN-γ
promuove lo scambio isotipico verso IgG e IL-4 induce lo scambio a IgE. La risposta a molti virus e
batteri consiste proprio nella produzione di IgGche bloccano l’ingresso dei microrganismi nelle
cellule ospite e potenziano la fagocitosi ad opera dei macrofagi. In effetti, virus e batteri attivano
soprattutto i Th1 che producono IFN-γ e stimolano i Tfh a produrre quantità maggiori di IFN-γ.
La principale risposta anticorpale ai parassiti si basa sulla produzione di IgE che partecipano
all’eliminazione de parassita da parte degli eosinofili e dei mastociti, mediando anche la risposta
allergica.
Inoltre, i linfociti B possono andare incontro ad un diverso scambio isotipico anche in relazione al
sito anatomico in cui risiedono: per esempio, i linfociti B degli organi linfoidi associati alle mucose
producono IgA, che rappresentano la classe di anticorpi maggiormente rappresentati a livello degli
epiteli. Lo scambio verso IgA è stimolato da TGF-β, prodotto da molti tipi cellulari inclusi i Th; anche
BAFF e APRIL stimolano lo scambio di classe a IgA. Anche l’attivazione da parte di CD40 coopera con
l’azione delle citochine nell’indurre lo scmabio isotipico: l’ingaggio di CD40 causa l’attivazione
dell’enzima AID, cruciale sia per lo scambio isotipico che per il processo di maturazione dell’affinità.
Il meccanismo molecolare attraverso cui avviene lo scambio di classe è un processo di
ricombinazione in cui la regione del DNA che codifica per la catena pesante dell’Ig viene tagliata e
ricombinata in modo tale per cui l’esone VDJ, che codifica per il dominio V, viene posto accanto ad
una regione C più a valle e il DNA interposto viene eliminato. Questi eventi di ricombinazione
coinvolgono sequenze nucleotidiche definite regioni di scambio, poste negli introni tra le regioni J e
C al 5’ di ogni locus Ch, fatto salvo il gene δ. Queste regioni hanno una lunghezza variabile e
contengono numerose sequenze di DNA ricche di sequenze GC ripetute e si trovano a monte di
ogni gene codificante per una catena pesante. A monte di ogni regione di scambio è presente un
piccolo esone definito esone I, preceduto da una regione promotrice. CD40 e le citochine avviano lo
scambio di classe attivando la trascrizione a partire da un determinato promotore di una regione I,
determinando la trascrizione dell’esone I, della regione di scambio e dell’esone Ch adiacente.
Questi tracritti non sono tradotti in proteine ma sono necessari affinchè si realizzi lo scambio e
sono detti germinativi: essi facilitano la rottura del DNA a doppia elica. La porzione del DNA nella
regione di scambio a monte (μ) è unita a quella di ricombinazione a valle permettendo che l’esone
VDJ riarrangiato, subito adiacente alla catena μ, si ricombini con il gene della catena pesante Ig che
si trova immediatamente dopo la regione di scambio, più a valle. Le citochine determinano quale
regione Ch debba essere coinvolta nella formazione del trascritto germinativo. L’IL-4 induce la
trascrizione del locus Iξ-Sξ-Cξ e ciò porta dapprima alla produzione di trascritti germinativi ξ e poi
alla ricombinazione delle regioni di scambio Sμ e Sξ. Le regione di DNA inframmezzata viene persa e
l’esone VDJ è portato in prossimità di Cξ. Questo processo determina la produzione di IgE che
contengono lo stesso dominio V che era presente nelle IgM originariamente prodotte dalla stessa
cellula. L’enzima chiave del processo di scambio isotipico è AID: esso agisce catalizzando la
deaminazione delle citosine (C) e convertendole ad uracile (U). Le regioni di scambio sono ricche di
basi G e C e i trascritti tendono a formare complessi stabili DNA-RNA attraverso la loro catena di
DNA codificante e lasciando libera quell non codificante, che forma un’ansa a singola elica definita
loop R. A livello del loop R un elevato numero di residui di citosina è convertito in uracila da AID e
successivamente un secondo enzima, l’uracil-N-glicosidasi, elimina i residui di uracile generando siti
privi di basi azotate che vengono riconosciuti e rimossi da un terzo enzima, l’endonucleasi ApeI, che
genera delle interruzioni del DNA. Anche sulla seconda catena vengono prodotti alcuni tagli. Questi
tagli contribuiscono alla rottura della doppia elica sia a livello della regione Sμ che in quella di
scambio più a valle. Le rotture della doppia elica nelle due regioni di scambio vengono riparate ad
opera dei meccanismi responsabili della riparazione delle rotture delle doppie eliche di DNA. In
questo processo, il frammento di DNA inframmezzato portando la regione V, originariamente
riarrangiata, adiacente alla nuova regione costante, viene eliminato.
8. Maturazione dell’affinità anticorpale (mutazioni somatiche a carico dei geni che codificano per le
Ig e selezione dei linfociti B ad alta affinità): la maturazione dell’affinità è il processo che porta
all’aumento dell’affinità degli anticorpi per un determinato antigene T-dipendente, man mano che
la risposta umorale procede. Essa è il risultato di mutazioni somatiche che avvengono a carico dei
geni che codificano per le Ig, seguita dalla sopravvivenza selettiva dei linfociti B che, proprio grazie
a queste mutazioni, producono gli anticorpi con affinità maggiore. Il processo di maturazione
dell’affinità porta alla produzione di anticorpi dotati di affinità sempre maggiore per l’antigene e
quindi capaci di neutralizzare microrganismi ed eliminarli sempre più efficacemente. I T helper e il
sistema CD40-CD40L sono necessari affinchè questo processo possa avere luogo, pertanto la
maturazione dell’affinità si verifica solo nel corso di risposte anticorpali dirette verso antigeni
proteici T-dipendenti. Nei linfociti B della zona scura che stanno proliferando, i geni V che
codificano per le Ig vanno incontro a mutazioni puntiformi con un’enorme frequenza, superiore
fino a 1000 volte rispetto a quella di qualsiasi altro gene di mammifero e per questo motivo anche
definita ipermutazione somatica. I geni V delle catene pesanti o leggere di ciascun linfocita B
contengono in totale circa 700 nucleotidi: si può calcolare che in essi si accumula circa una
mutazione per ogni divisione cellulare. Ne consegue che ciascun clone di linfociti B specifico per un
determinato antigene accumulerà sempre più mutazioni durante la propria permanenza nel centro
germinativo. Tali mutazioni, nei segmenti genici V, si concentrano principalmente in corrispondenza
delle regioni che determinano la complementarietà; avvengono più mutazioni nelle IgG rispetto alle
IgM; la presenza di mutazioni correla con l’aumento dell’affinità degli anticorpi diretti contro
l’antigene che ha originato la risposta.
AID sembra avere anche un ruolo importante nella maturazione dell’affinità; esso è una DNA-
deaminasi che converte in uracile i residui di citosina, presenti in sequenze di DNA particolarmente
importanti per le mutazioni C:T.
È verosimile che molte delle mutazioni generino una riduzione o persino la perdita delle capacità
dell’anticorpo di legare l’antigene; ne deriva la necessità di una tappa successiva, durante la quale
avvenga la selezione positiva di linfociti B che producono anticorpi ad alta affinità, un tipo di
selezione naturale di tipo darwiniano che garantisce la sopravvivenza solo dei linfociti B migliori. I
linfociti B che nel centro germinativo legano gli antigeni con elevata affinità hanno un vantaggio
selettivo di sopravvivenza. Nelle fasi precoci della risposta immunitaria, gli anticorpi prodotti
possono formare complessi con l’antigene e attivare il complemento. Le FDC esprimono recettori
sia per il frammento Fc che per frammenti del complemento. Parallelamente, i linfociti B del centro
germinativo che hanno subito il processo di ipersaturazione somatica migrano nella zona chiara
ricca di FDC. Questi linfociti B moriranno per apoptosi a meno che riescano a riconoscere
l’antigene. I linfociti B dotati di recettori ad alta affinità riescono a legare l’antigene anche quando
questo è presente a basse concentrazioni, ricevendone un segnale di sopravvivenza: tale processo
avviene perché il riconoscimento dell’antigene induce di per sé l’espressione di proteine anti-
apoptotiche della famiglia Bcl-2; inoltre, i linfociti B dotati di elevata affinità per l’antigene sono
avantaggiati nel processo di endocitosi e nella presentazione dell’antigene ai Tfh. Alcuni Tfh,
inoltre, esprimono il ligando del recettore Fas, che può riconoscere il Fas espresso dai linfociti B,
inducendone la morte per apoptosi. I linfociti B ad alta affinità sono in grado di attivare inibitori
endogeni del recettore Fas e proteggersi dalla morte cui sono invece destinati quelli a bassa
affinità. Durante lo svolgersi dell’attività anticorpale, i linfociti B dotati di affinità sempre maggiore
verranno selezioni perché solo questi potranno legare l’antigene ed essere risparmiati
dall’apoptosi. Tuttavia, dato che molte delle mutazioni somatiche non producono recettori ad alta
affinità, queste cellule non saranno selezionate per la sopravvivenza e i centri germinativi saranno il
luogo di frequenti apoptosi cellulari.
Le mutazioni somatiche avvengono nei centroblasti della zona scura, caratterizzati dall’espressione
nucleare di AID. Queste cellule migrano ripetutamente nella zona chiara, dove si differenziano in
centrociti. I centrociti dotati di recettore ad elevata affinità vengono selezionati e possono andare
incontro ad ulteriore scambio isotipico. Le cellule fuoriescono dal centro germinativo
trasformandosi in linfociti B della memoria o in precursori delle plasmacellule secernenti anticorpi
ad alta affinità.
9. Differenziazione dei linfociti B in plasmacellule secernenti anticorpi: le plasmacellule sono linfociti
B, differenziati terminalmente, morfologicamente distinti, destinati alla produzione di grandi
quantità di anticorpi. Essi si generano in seguito all’attivazione dei linfociti B da BCR, CD40, TLR e
altri recettori. Esistono due tipi fondamentali di plasmacellule:
• A BREVE SOPRAVVIVENZA: originano nei foci extrafollicolari nel corso delle risposte T-
indipendenti e durante le fasi precoci delle risposte T-dipendenti, per poi localizzarsi negli
organi linfoidi secondari e negli organi non linfoidi periferici.
• A LUNGA SOPRAVVIVENZA: vengono generate in risposta ad antigeni proteici, durante la
reazione del centro germinativo. A questo processo cooperano l’attivazione del BCR e del
recettore di IL-21. Le plasmacellule e i loro precursori (plasmablasti) si trovano
principalmente nel circolo ematico, dove secernono anticorpi e perdono l’espressione di
CD20. I plasmablasti entrano in circolo e si dirigono verso il midollo osseo, dove si
differenziano in plasmacellule a lunga sopravvivenza. La sopravvivenza viene sostenuta da
citochine della famiglia di BAFF che legano il recettore BCMA permettendo loro di
sopravvivere per lunghi periodi. Generalmente, nelle 2-3 settimane successive
all’immunizzazione con un antigene T-dipendente, il midollo osseo costituisce la sede
principale della produzione anticorpale. Le plasmacellule midollari possono continuare a
secernere anticorpi per mesi o persino anni dopo l’eliminazione dell’antigene.
Il processo di differenziamento che porta alla generazione di linfociti B che secernono anticorpi è
caratterizzato da profonde alterazioni a carico di componenti del RE e dell’apparato di secrezione.
Questo processo comporta anche un aumento della produzione di Ig e il passaggio delle Ig dalla
forma di membrana a quella secreta. La cellula aumenta in modo considerevole le sue dimensioni e
al microscopio è possibile osservare un notevole aumeto del rapporto tra l’area del citoplasma e l
nucleo. Il cambiamento della produzione di Ig dalla forma di membrana, caratteristica dei linfociti
B, a quella secreta, caratteristica delle plasmacellule, deriva da cambiamenti all’estremità
carbossiterminale delle catene pesanti delle Ig:
Per esempio, nelle catene μ di membrana il dominio Cμ4è seguito da una breve sequenza di 26
aminoacidi idrofobici e da una coda intracitoplasmatica di soli 3 aminoacidi (lisina, valina e lisina).
Al contrario, nelle IgM secrete, il dominio Cμ4 è seguito da una coda di aminoacidi polari. Se i due
esoni che codificano per il dominio trans membrana e intracitoplasmatico nell’mRNA maturo
rimangono, la catena μ prodotta resterà ancorata al doppio strato lipidico; se invece vengono
rimossi, l’estremità carbossiterminale della catena μ conterrà soltanto i 20 aminoacidi della
porzione di coda e non resterà ancorata alla membrana.
10. Generazione dei linfociti B della memoria: i linfociti B della memoria sono generati durante la
reazione del centro germinativo e sono in grado di produrre rapide risposte ad un’eventuale
riesposizione all’antigene. Dato che le cellule della memoria vengono generalmente generate nei
centri germinativi, sono parte delle risposte T-dipendenti e generalmente originano insieme ai T
helper della memoria. I linfociti B della memoria esprimono elevati livelli di Bcl-2; alcuni restano
negli organi linfoidi, mentre altri li abbandonano e ricircolano nel sangue. Esprimono un BCR ad alta
affinità e isotipi diversi dalle IgM, poiché hanno subito lo scambio isotipico.
I vaccini coniugati inducono la produzione di anticorpi dotati di maggiore affinità e una più rapida
generazione di linfociti B della memoria; si sono dimostrati in grado di indurre una risposta
protettiva specialmente nei neonati e nei bambini, che sono meno efficienti di un soggetto adulton
nell’attivare una risposta T-dipendente.
11. Ruolo dei fattori di trascrizione: le conseguenze funzionali della differenziazione dei linfociti B
dipendono dalll’attivazione di diversi fattori di trascrizione:
• Bcl-6: funge da repressore trascrizionale ed è responsabile del progredire della reazione del
centro germinativo, in modo particolare della grande proliferazione che caratterizza i
linfociti B. Sopprime l’espressione degli inibitori delle chinasi ciclina-dipendenti e coopera
con gli attivatori trascrizionali, come c-Myb, orchestrando il rapido ingresso nel ciclo
cellulare dei linfociti B dei centri germinativi. Bcl-6, inoltre, sopprime p53, un fattore che
determina l’arresto del ciclo cellulare e la morta cellulare per apoptosi. Infine, antagonizza
un altro repressore trascrizionale, Blimp-1, che è richiesto per lo sviluppo delle
plasmacellule e quindi impedisce alle cellule del centro germinativo di differenziarsi in
plasmacellule durante la fase di grande proliferazione che caratterizza la reazione del
centro germinativo.
• Blimp-1 e IRF4: il primo è un repressore trascrizionale, il secondo un attivatore
trascrizionale. Blimp-1 sopprime Bcl-6 e Pax5, necessario per la sopravvivenza dei linfociti
B. IRF4 contribusice all’espressione di XBP-1 che regola la risposta allr ptoeine che hanno
una conformazione alterata. XBP-1 protegge le plasmacellule dai danni causati dalle
proteine che hanno un’errata conformazione e contribuisce alla maturazione delle
plasmacellule e all’aumento della sintesi di Ig.

• RISPOSTE ANTICORPALI AGLI ANTIGENI T-INDIPENDENTI

Molti antigeni non proteici, come i polisaccaridi e i lipidi, stimolano la produzione di anticorpi in assenza
del coinvolgimento dei T-helper. Tali antigeni sono denominati T-indipendenti o timo-dipendenti. I linfociti
B della zona marginale e quelli B-1 svolgono un ruolo importante nella risposta agli antigeni TI. Se i linfociti
B follicolari sono principalmente responsabili delle risposte verso antigeni proteici T-dipendenti, altri tipi di
linfociti B sono invece coinvolti nelle risposte agli antigeni TI. I linfociti B della zona marginale
rappresentano una sottopopolazione distinta che risponde principalmente ai polisaccaridi e si differenzia in
plasmacellule a breve sopravvivenza che producono IgM. I linfociti B1 rappresentano un altro tipo di
linfociti B, sono localizzati nel peritoneo e nelle mucose e rispondono rapidamente agli antigeni TI. Le
risposte anticorpali agli antigeni TI si generano a livello della milza, del midollo osseo, della cavità
peritoneale e delle mucose. I macrofagi localizzati nelle zone marginali dei follicoli della milza sono
particolarmente efficienti nel captare i polisaccaridi presenti nel circolo.

Gli antigeni TI sono in grado di stimolare la proliferazione e la differenziazione dei linfociti B senza l’aiuto
dei linfociti T. Questi antigeni non possono essere processati e presentati in associazione a MHC e pertanto
non possono essere riconosciuti dai T helper CD4+. La maggior parte degli antigeni TI è costituita da
molecole polivalenti composte da molteplici epitopi antigenici identici e ripetuti in grado di promuovere
efficientemente l’aggregazione delle Ig di membrana,permettendo l’attivazione di queste cellule anche in
assenza di linfociti T. Alcuni antigeni TI non proteici inducono la produzione di Ig diverse dalle IgM,
nonostante le risposte TI non siano caratterizzate da scambio isotipico. Nell’uomo, la principale classe di
anticorpi prodotti in risposta al polisaccaride capsulare dello pneumococco è l’IgG2.

L’importanza biologica degli antigeni TI risiede nel fatto che molti polisaccaridi che compongono la parete
cellulare batterica appartengono a questa categoria e che l’immunità umorale rappresenta il principale
meccanismo di difesa dell’ospite verso le infezioni da parte di questi microrganismi. Gli antigeni TI
contribuiscono a stimolare la produzione di anticorpi naturali, presenti fisiologicamente in circolo e
apparentemente prodotti senza un’evidente esposizione dell’antigene.

• FEEDBACK ANTICORPALE (REGOLAZIONE DELLE RISPOSTE IMMUNITARIE UMORALI DA PARTE DEI


RECETTORI Fc)

Gli anticorpi secreti formano immunocomplessi che vanno a legare simultaneamente le Ig di membrana e i
recettori Fcγ espressi dai linfociti B, inibendone l’attivazione. Questo fenomeno, definito feedback
anticorpale, spiega l’osservazione che le IgG secrete inibiscono la sintesi di nuovi anticorpi. Le IgG bloccano
l’attivazione dei linfociti B formando dei complessi con l’antigene che si possono legare a un FcR delle IgG,
denominato recettore FcγRIIB o CD32. Il dominio citoplasmatico di questo recettore contiene un dominio
inibitorio ITIM. Quando il recettore Fcγ del linfocita B viene legato dall’immunocomplesso, il dominio ITIM
viene fosforilato nei residui di tirosina, formando un sito di attacco per l’inositolo-5-fosfatasi SHIP. Questa
fosfatasi idrolizza un gruppo fosfato presenti nel fosfatidilinositolo trifosfato (PIP3), inattivandone le
funzioni. Attraverso questo meccanismo, l’attivazione di FcγRIIB blocca la risposta del linfocita B
all’antigene.
Il feedback anticorpale da parte dei FcR è un meccanismo fisiologico di controllo delle risposte umorali. È
possibile che durante le fasi precoci delle risposte immunitarie umorali, le IgM (che attivano il
complemento ma non legano FcγR) inducano preferenzialmente l’amplificazione, mentre la produzione
sempre maggiore di IgG nelle fasi più tardive sia responsabile del feedback inibitorio.

CAPITOLO 13: MECCANISMI EFFETTORI DELL’IMMUNITA’ UMORALE

Rivediamo quali sono i principali meccanismi di difesa mediati da anticorpi:

1. Gli anticorpi neutralizzano ed eliminano dei microrganismi infettivi e tossine da essi prodotti.
2. Gli anticorpi sono prodotti dalle plasmacellule negli organi linfoidi secondari e nel midollo osseo,
ma svolgono la loro funzione effettrice in luoghi distanti dai siti di produzione. Sono anche
attivamente trasportati nel circolo fetale attraverso la placenta.
3. Gli anticorpi responsabili della protezione immunitaria sono prodotti da plasmacellule a breve o a
lunga sopravvivenza.
4. Molte delle funzioni effettrici svolte dagli anticorpi sono a carico delle regioni costanti della catena
pesante delle Ig. Ne deriva che isotipi diversi di Ig svolgono funzioni effettrici diverse.
ISOTIPO ANTICORPALE FUNZIONI EFFETTRICI SPECIFICHE
IgG Opsonizzazione dell’antigene per facilitare la
fagocitosi da parte di macrofagi e neutrofili;
attivazione della via classica del complemento;
citotossicità cellulare anticorpo-dipendente da
parte delle NK; immunità neonatale; feedback
inibitorio dei linfociti B.
IgM Attivazione della via classica del complemento;
recettore per l’antigene dei linfociti B naive.
IgA Immunità delle mucose (secrezione di IgA nel
lume del tratto gastrointestinale e respiratorio).
IgE Degranulazione dei mastociti (reazioni di
ipersensibilità immediata).
IgD Recettore per l’antigene dei linfociti B naive.
5. Sebbene le regioni costanti della catena pesante delle Ig siano responsabili della maggior parte
delle funzioni effettrici, tutte queste funzioni sono avviate dal legame all’antigene attraverso le
regioni variabili dell’Ig.

Entriamo ora nel dettaglio della neutralizzazione dei microrganismi. Legando i microrganismi e le tossine da
essi prodotte, gli anticorpi ne bloccano il legame ai recettori cellulari. In questo modo, neutralizzano
l’infettività dei microrganismi, nonché i potenziali effetti patogeni delle tossine microbiche. La penetrazione
di molti microrganismi all’interno delle cellule dell’ospite avviene attraverso il legame tra proteine della
superficie del microrganismo e proteine di membrana della cellula bersaglio. Gli anticorpi diretti contro
queste proteine interfiscono con la capacità dei microbi di interagire con i loro recettori cellulari,
rappresentando un esempio di inibizione per impedimento sterico. In altri casi, gli anticorpi si legano a un
microrganismo alterando la conformazione della sua superficie, che non sarà più in grado di interagisce
con i recettori cellulari (effetto allosterico). Gli anticorpi diretti contro le tossine (es. tossina difterica o
tossina tetanica) ne ostacolano stericamente l’interazione con le cellule dell’ospite, prevenendo gli effetti
patogeni e i danni tissutali. All’anticorpo è sufficiente la sola regione di legame per l’antigene per
neutralizzare il microbo, per cui la neutralizzazione può essere esercitata da anticorpi di qualsiasi isotipo,
circolanti o presenti nelle secrezioni mucose. La maggior parte degli anticorpi neutralizzanti presenti nel
siero o nelle secrezioni appartiene alle classi IgG e IgA; gli anticorpi neutralizzanti più efficaci sono quelli
dotati di elevata affinità per l’antigene.

Gli anticorpi della classe IgG rivestono (opsonizzano) i microrganismi favorendone la fagocitosi attraverso il
loro legame agli FcR dei fagociti. I fagocti esprimono sulla loro superficie una serie di recettori che, legando
direttamente i microrganismi, ne favoriscono la cattura anche in assenza di anticorpi. Questo rappresenta
uno dei principali meccanismi effettori dell’immunità innata. L’efficienza di questo processo è
notevolmente potenziata se al fagocita viene data la possibilità di legarsi al microrganismo con maggiore
affinità. I recettori Fc sono espressi sulla superficie dei leucociti e legano le regioni costanti degli anticorpi
che hanno opsonizzato un antigene. Questo legame determina l’attivazione della fagocitosi e della
conseguente trasduzione del segnale, necessaria per innescare l’attività microbicida e il processo
infiammatorio. Altri recettori Fc sono responsabili del trasporto degli anticorpi ai diversi siti. I recettori Fc
delle diverse classi di Ig sono espressi da molti tipi di leucociti e svolgono numerose funzioni nell’ambito di
risposte immunitari. In particolar modo, i recettori Fcγ sono stati classificati in tre gruppi sulla base della
diversa affinità per le catene pesanti delle diverse classi di IgG. In generale, i complessi immuni contenenti
IgG1 e IgG3 risultano più efficienti nell’indurre l’attivazione dei recettori Fc rispetto a quelli che contengono
la sottoclasse IgG2. IgG4 hanno un’affinità molto bassa e non sono in grado di attivare i recettori Fc,
pertanto la funzione biologica di questo isotipo anticorpale è poco conosciuta. La maggior parte degli FcR
svolge un ruolo di attivazione cellulare, ad eccezione di FcRγRIIB, che è un recettore inibitorio. Tutti gli FcRγ
contengono una catena α responsabile del riconoscimento e del legame alle IgG. La diversa specificità e la
diversa affinità dei vari FcRγ per gli isotopi delle IgG dipendono proprio dalle differenze strutturali delle
catene α. Tutti gli FcR risultano attivati in maniera ottimale solo dagli anticorpi complessati con l’antigene e
non da quelli che circolano liberi in soluzione. In tutti gli FcR, ad eccezione di FcγRII, la catena α associata ad
una o più catene polipeptidiche deputate alla trasduzione del segnale.

• FcγRI (CD64): è il principale FcγR espresso dai fagociti, dotato di elevata affinità per le IgG1 e IgG3.
La lunga regione N-terminale extracellulare della sua catena α, responsabile del legame a Fc, si
ripiega in tre domini sequenziali di tipo Ig. La catena α è associata ad un omodimero costituito da
due catene γ unite tra loro da ponti disolfuro e responsabili della trasduzione del segnale. La catena
γ è caratterizzata da una corta sequenza N-terminale exracellulare e da una lunga sequenza C-
terminale citoplasmatica, con omologa struttura alla catena ζ del complesso del recettore per le
cellule T: infatti, essa contiene domini ITAM responsabili dell’attivazione di tirosin-chinasi a valle
dell’attivazione degli FcR. FcγRI è costantemente saturato dal legame con le Ig, in modo simile al
recettore per le IgE. L’aggregazione e l’attivazione di FcγRI risulta facilitata dalle IgG associate ad
antigeni multivalenti e la sua trascrizione è stimolata dall’IFN-γ.
• FcγRII (CD32): lega le classi IgG1 e IgG3 con bassa affinità. Ne esistono tre diverse tre diverse
forme, denominate A, B e C: queste isoforme mostrano differenze nella struttura della coda
citoplasmatica, nella distribuzione e nelle funzioni. L’isoforma A è espressa dai neutrofili e fagociti
mononucleati e contribuisce all’attività fagocitica di queste cellule; l’isoforma C è espressa dai
fagociti mononucleati, neurtrofili ed NK. Le code citoplasmatiche contengono sequenze ITAM.
L’isoforma B è un recettore inibitorio espresso dalle cellule mieloidi ed è l’unico FcR espresso dai
linfociti B.
• FcγRIII (CD16): anch’esso è un recettore per le IgG a bassa affinità. Esiste in due isoforme:
l’isoforma A è una proteina trans membrana espressa soprattutto dalle NK che si associa a
omodimeri della catena γ o della catena ζ del TCR (associazione essenziale per la sua espressione
funzionale in membrana); l’isoforma B è una proteina associata alla membrana plasmatica dei
neutrofili attraverso un residuo di GPI.

La fagocitosi degli antigeni opsonizzati dalle IgG è mediata dall’interazione della porzione Fc con gli FcγR
espressi dai fagociti. Ne deriva che gli isotipi IgG1 e IgG3, che si legano con maggiore affinità a questi
recettori, sono le opsonine più efficaci nel favorire la fagocitosi. Il legame degli antigeni opsonizzati al
recettore Fc avvia la loro internalizzazione in vescicole fagocitiche, i fagosomi, che si fondono
successivamente con i lisosomi per formare i fagolisosomi, all’interno dei quali avviene la degradazione
dell’antigene. L’attivazione richiede il cross-linking degli FcR da parte di molecole Ig adiacenti: il cross-
linking delle catene α di un FcR legate ad antigeni multivalenti attiva la trasduzione di segnali simili a quelli
trasdotti dopo il cross-linking dei recettori per l’antigene dei linfociti. Tali segnali comprendono:

1. Fosforilazione dei residui di tirosina delle sequenze ITAM delle catene degli FcR a opera delle
chinasi Src;
2. Reclutamento SH2-dipendente delle chinasi della famiglia Syk alle sequenze ITAM fosforilate;
3. Attivazione della chinasi fosfatidilinositolo 3 (PI3-kinase);
4. Reclutamento di molecole adattatrici (BLNK);
5. Reclutamento di enzimi come la fosfolipasi Cγ e i membri della famiglia delle chinasi Tec.

Tutti questi eventi portano alla generazione di inositolo trifosfato e diacilglicerolo, nonché ad un aumento
dell’intensa mobilizzazione di ioni calcio.

Abbiamo detto che FcγRIIB è un recettore inibitorio, espresso dalle DC, dai neutrofili, dai macrofagi e dai
mastociti e potrebbe controbilanciare l’attivazione di queste cellule da parte di altri FcR.

Tramite i loro FcR, NK e altri leucociti sono in grado di legarsi e uccidere le cellule opsonizzate dagli
anticorpi (citotossicità mediata da anticorpi, ADCC). Questo fenomeno si verifica solo quando la cellula
bersaglio è opsonizzata da parte di IgG, che stimolano le NK a sintetizzare le citochine, come l’IFN-γ, e a
liberare il contenuto dei loro granuli svolgendo così la funzione citolitica. L’ADCC potrebbe rappresentare
un importante meccanismo per eliminare cellule opsonizzate da specifici anticorpi monoclonali a scopo
terapeutico, come linfociti B normali o trasformati in senso neoplastico.

Anticorpi, mastociti ed eosinofili collaborano per determinare l’espulsione e l’uccisione di alcuni parassiti
elmintici. Gli elminti, particolari tipi di vermi, sono troppo grandi per essere fagocitati; possono essere uccisi
da una proteina cationica tossica (proteina basica maggiore) contenuta nei granuli degli eosinofili. Le IgE e,
in minor misura, le IgG e le IgA che rivestono l’elminta, possono legare gli FcR presenti sugli eosinofili e
attivare il processo di de granulazione e il conseguente rilascio della proteina basica maggiore e di altre
molecole citotossiche. Inoltre, le IgE che hanno riconosciuto determinanti antigenici della superficie
dell’elminta possono legare il recettore ad alta affinità per le IgE espresso dai mastociti, inducendone de
granulazione locale.

Uno dei principali meccanismi effettori dell’immunità umorale è il SISTEMA DEL COMPLEMENTO. Esso è
costituito da numerose proteine solubili e di membrana, che interagiscono tra loro e con altre componenti
del sistema immunitario in modo strettamente controllato, generando una serie di proteine funzionali
all’eliminazione dei microrganismi. Le proteine del complemento sono proteine normalmente presenti nel
torrente circolatorio sotto forma di precursori inattivi che vengono attivati solo in particolari condizioni,
originando prodotti bioattivi responsabili delle diverse funzioni effettrici. Il processo di attivazione del
complemento ha delle caratteristiche essenziali:

• È attivato da microrganismi e da anticorpi legati ad essi o ad altri antigeni.


• La sua attivazione avviene solo in seguito alla proteolisi sequenziale delle sue diverse componenti,
che porta all’assemblaggio di complessi enzimatici dotati essi stessi di attività proteolitica. Le
proteine che acquisiscono attività proteolitica per azione di altre proteine sono chiamate zimogeni.
Il processo di attivazione sequenziale degli zimogeni avviene con un meccanismo a cascata
proteolitica che consente una straordinaria amplificazione del processo.
• I prodotti di attivazione si legano covalentemente agli antigeni sulla superficie di un
microrganismo, nonché agli anticorpi che hanno riconosciuto lo stesso microrganismo e ai corpi
apoptotici. Le proteine del complemento sono inattive in fase fluida e si attivano esclusivamente in
seguito al legame con i microrganismi, permettendo che la loro attivazione sia limitata
esclusivamente alla superficie microbica o alla sede in cui gli anticorpi sono legati agli antigeni.
• L’attivazione del complemento è inibita da proteine espresse sulla membrana delle cellule
dell’ospite, ma non sulla superficie dei microrganismi. Tali proteine prevengono o riducono al
minimo gli effetti lesivi derivati dall’eventuale attivazione del complemento sulle cellule dell’ospite.

Vi sono tre maggiori vie di attivazione del complemento: la via classica, attivata da alcune classi di anticorpi
a seguito della loro aggregazione cusata da antigeni multivalenti; la via alternativa, attivata direttamente da
alcune componenti della superficie microbica in assenza di anticorpi; la via lectinica, attivata da una lectina
del plasma in seguito al suo legame con i residui di mannosio presenti sulla superficie microbica. L’evento
centrale dell’attivazione del complemento è la proteolisi della frazione C3 con generazione di prodotti
biologicamente attivi, tra i quali il C3b, che si lega covalentemente alla superficie del microbo o agli
anticorpi ad esso associati. Il processo di attivazione dipende dalla formazione di due complessi proteolitici:
la C3 convertasi, che scinde la frazione C3 in due frammenti proteolitici definiti C3a e C3b, e la C5
convertasi, che scinde la frazione C5 in C5a e C5b. Al sito di attivazione del complemento, il frammento C3b
si lega covalentemente alla superficie del microrganismo. Tutte le funzioni biologiche svolte dal
complemento derivano dal taglio proteolitico della frazione C3, i cui prodotti proteolitici stimolano
l’infiammzione. La C5 convertasi, che si assembla solo dopo la generazione del frammento C3b,
contribuisce al processo infiammatorio attraverso il suo frammento C5a, nonché alla formazione di pori
nella membrana dei microrganismi bersaglio. Le vie di attivazione differiscono principalmente per il modo
in cui viene prodotto il frammento C3b, ma dopo la scissione della frazione C5 si esplicano secondo una
serie di tappe comuni.

VIA ALTERNATIVA: porta alla proteolisi dell frazione C3 e alla conseguente formazione del
frammento C3b che si lega covalntemente alla superficie microbica in assenza di anticorpi.
Normalmente, la frazione C3 presente nel plasma è sottoposta ad un lento e continuo processo di
clivaggio, che porta alla generazione del frammento C3b (tickover). La C3 contiene un gruppo
tioesterico estremamente reattivo, ma circondato e reso inaccessibile da un più largo dominio,
anch’esso tioesterico. Quando viene legato, il frammento C3b subisce imponenti modificazioni
conformazionali a livello del dominio tioesterico che espongono il gruppo tioesterico reattivo. Una
piccola quantitò di C3b può legarsi covalentemente alla superficie di tutti i tipi cellulari, compresi i
microrganismi eventualmente presenti in circolo. A livello molecolare, tale legame avviene
attraverso il gruppo tioesterico del frammento c3b che reagisce con gruppi aminici o idrossilici
presenti nelle proteine o nei polisaccaridi delle superfici cellulari, formando legami covalenti
aminici o esterici. Se questi legami non si formano, il frammento C3b rimane in fase fluida e il suo
gruppo tioesterico reattivo esposto viene rapidamente idrolizzato. Di conseguenza, C3b si inattiva e
l’attivazione del complemento non può avvenire. In alterantiva, la modificazione di C3b può
causare l’esposizione, oltre che del gruppo tioesterico, anche di un sito di legame per un’altra
proteina plasmatica, denominata fattore B: esso si lega a C3b e viene clivato ad opera d una serin-
proteasi plasmatica, detta fattore D, rilasciando un piccolo frammento definita Ba e originando al
contempo un frammento Bb più grande che rimane legato C3b. Il complesso C3bBb rappresenta la
C3 convertasi della via alternativa e la sua funzione è quella di clivare massicciamente la frazione
C3, innescando un circuito di amplificazione che genera quantità sempre maggiori di C3b, che può
associarsi a Bb. Ricordiamo che il frammento C3b si associa ad una superficie cellulare, mentre il
C3a rimane libero in circolo.
L’attivazione stabile della via alternativa si può verificare solo a livello di una superficie microbica e
non a livello delle membrane delle cellule dell’ospite. Se il complesso C3bBb si forma su una cellula
dell’ospite, viene rapidamente degradato per l’azione di diverse proteine regolatorie. Un’altra
proteina, la properdina, può legarsi al complesso C3bBb stabilizzandolo e regolando in modo
positivo il complemento.
Il frammento C3b generato può legasi alla C3 convertasi stessa, formando un complesso
contenente il frammento Bb e due molecole del frammento C3b che agisce da C5 convertasi della
via alterantiva, clivando la frazione C5 ed innescando le fasi terminali dell’attivazione del
complemento.
VIA CLASSICA: è avviata dal legame della frazione C1 ai domini CH2 delle IgG o ai domini CH3 delle
IgM complessate all’antigene. La frazione C1 è un complesso proteico multimerico di grandi
dimensioni composto dalle subunità C1q, C1r e C1s: la subunità q è deputata al legame con
l’anticorpo, mentre quelle r ed s sono dotate di attività protesica. La C1q è composta da 6 catene
disposte radialmente, ognuna con una testa globulare e tutte connesse ad uno stelo centrale
strutturalmente simile al collagene; per legare l’anticorpo, essa deve legare specificamente le
regioni Fc delle catene μ e di alcune catene pesanti γ. Solo più anticorpi legati ad un antigene
multivalente e non singoli anticorpi liberi circolanti possono innescare l’attivazione della via
classica: ciò perché ogni recettore Fc possiede un solo sito di legame per la C1q, mentre
quest’ultima richiede l’interazione con almeno due porzioni Fc per essere attivata. Perché la via
classica venga attivata, è quindi necessario che due o più porzioni Fc siano accessibili alla frazione
C1. Le IgM libere non legano C1q perché le 5 regioni Fc delle IgM sono inaccessibili alla C1q;
viceversa, legandosi ad un antigene, subiscono una modificazione strutturale che espone le
porzioni Fc alla C1q permettendone il legame.
Le subunità r ed s sono serin-proteasi che nel complesso proteico C1 son organizzate a formare un
tetramero contenente due molecole di ciascuna subunità. Il legame di due o più teste globulari
della subunità C1q alle regioni Fc delle IgG o delle IgM porta all’attivazione della subunità r, che
cliva la subunità s attivandola. A sua volta, la C1s attivata va ad agire sulla componente successiva
della cascata del complemento (C4) clivandola e generando un frammento più piccolo (C4a), che
viene rilasciato in fase fluida, ed un frammento più grande (C4b), che presenta omologie con C3b. il
legame covalente di C4b garantisce che l’attivazione della via classica prosegua a stretto contatto
con la superficie dell’antigene o dell’immuocomplesso. Un’altra componente del complemento, C2,
ha una forte tendenza a complessarsi con C4b che, in questa configurazione, viene tagliata dalla
subunità C1s generando un grammento solubile C2b ed un frammento più grande C2a che rimane
fisicamente associato a C4b. Il complesso C4b2a rappresenta la C3 convertasi della via classica,
dotata di capacità di legare la frazione C3, clivandola. In particolare, C4b si occupa del legame a C3,
mentre C2a si occupa dell’azione proteolitica. Il clivaggio della C3 porta alla formazione dei due
frammenti C3a e C3b; quest’ultimo può formare legami covalenti con la superficie dell patogeno o
con gli anticorpi ad esso associati. Il risultato finale, anche qui, consiste in un’amplificazione del
processo di attivazione.
Parte delle molecole C3b generate dalla C3 convertasi si legano alla convertasi stessa, generando il
complesso C4b2a3b, che agisce da C5 convertasi, clivando la frazione C5 e innescando le tappe
terminali del processo di attivazione del complemento.
Infine, una via inusuale di attivazione del complemento indipendente dagli anticorpi, ma
dipendente da C1, viene attivata da residui sacca ridici che legano una lectina presente sulla
superficie cellulare (soprattutto nelle infezioni da pneumococchi). I macrofagi della zona marginale
della milza esprimono sulla loro superficie una lectina di tipo C, definita SIGN-R1, che può
riconoscere un polisaccaride dello pneumococco e legare contemporaneamente anche la subunità
C1q. il legame multivalente della lectina al batterio determina l’attivazione della via classica senza
alcun intervento da parte di anticorpi.
VIA LECTINICA: si innesca in modo anticorpo-dipendente a partire dell’interazione dei polisaccaridi
microbici con le lectine circolanti, come la lectina legante il mannosio (MBL) o le ficoline. Queste
lectine solubili fanno parte della famiglia delle collectine e sono strutturalmente simili a C1q. La
MBL è un membro delle collectine e presenta un dominio N-terminale simile alla struttura del
collagene e all’estremità C-terminale un residuo di riconoscimento di natura saccaridica (lectina). Le
ficoline condividono la stessa struttura con un dominio N-terminale simile al collagene e un
dominio C-terminale simile alla struttura del fibrinogeno. I domini N-terminali determinano
l’assemblaggio di strutture a tripla elica che possono formare oligomeri di ordine superiore. La MBL
si lega ai residui di mannosio dei polisaccaridi; il dominio simile al fibrinogeno delle ficoline si lega ai
glicani che contengono residui di N-acetilglucosammina. La MBL e le ficoline si legano a serin-
proteasi associate alla MBL (MASP), che comprendono MASP1, MASP2 e MASP3: le proteine MASP
hanno una struttura omologa a quella delle proteasi C1r e C1s e svolgono funzioni simili, come il
clivaggio di C2 e C4 per attivare la via del complemento. Gli oligomeri formati da un elevato
numero di molecole MBL si associano tipicamente a MASP-1 e MASP-2: la MASP-1, ma anche la
MASP-3, può formare un complesso tetramerico con la MASP-2 simile a quello formato da C1r e
C1s; la MASP-2 rappresenta la proteasi che va a clivare C4 e C2. Gli eventi conseguenti sono identici
quelli che avvengono nella via classica.

Cerchiamo ora di capire quali siano gli eventi terminali che portano all’attivazionedel complemento.

Le C5 convertasi generate attraverso una delle tre vie innescano l’attivazione delle componenti terminali
del sistema del complemento, che portano alla formazione del MAC (Membrane Attack Complex), dotato di
attività citolitica. Le C5 convertasi tagliano la frazione C5 generando il frammento C5a, che rimane in fase
fluida, e C5b, che si associa alle proteine del complemento già legate alla superficie microbica. Le restanti
componenti della cascata del complemento (C6, C7, C8 e C9) sono strutturalmente correlate tra loro e prive
di attività enzimatica. C5b mantiene transitoriamente una conformazione capace di legare le frazioni C6 e
C7 per formare il complesso C5b, 6, 7. In questa nuova configurazione, la frazione C7 (idrofobica!) si
inserisce all’interno del doppio strato fosfolipidico dove agisce da recettore ad alta affinità per la frazione
C8. Quest’ultima è composta da tre catene, una delle quali si lega al complesso C5b, 6, 7 e forma un etero
dimero covalente con la seconda catena; la terza catena si inserisce nel doppio strato lipidico della
membrana, stabilizzando ulteriormente il complesso C5b, 6, 7, 8 che si va formando. Il complesso C5b-8 ha
una limitata capacità di lisare la cellula su cui si è stabilmente inserito. Per formare un MAC pienamente
attivo, C5b-8 si lega ulteriormente all’ultimo componente del complemento C9, che tende a polimerizzare
in associazione con il complesso C5b-8, formando dei pori nella membrana plasmatica. Tali pori formano
dei canali per il passaggio delle molecole di acqua e di ioni, che provocano il rigonfiamento della cellula e la
conseguente lisi. La componente C9 è strutturalmente una perforina e i pori sono morfologicamente simili
a quelli della perforina, proteina citosolica presenti nei granuli dei CTL e delle NK.
Vediamo ora i principali recettori per le proteine del complemento:

1. CR1 (CD35): svolge principalmente la funzione di promuovere la fagocitosi degli antigeni


osponizzati dai frammenti C3b o C4b e, più in generale, di garantire l’eliminazione degli
immunocomplessi dal circolo. È espresso prevalentemente dalle cellule emopoietiche come
eritrociti, neutrofili, monociti, eosinofili e linfociti, nonché dalle DC follicolari. Sulla superficie dei
fagociti, CR1 lega gli antigeni osponizzati dal C3b o dal C4b attivando la fagocitosi. CR1 espresso
sugli eritrociti lega gli immunocomplessi circolanti che hanno fissato C3b e C4b, assicurando così il
loro trasporto al fegato e alla milza, dove i fagociti rimuovono gli immunocomplessi dalla superficie
degli eritrociti che possono quindi tornare in circolo.
2. CR2 (CD21): stimola le risposte immunitarie umorali potenziando l’attivazione dei linfociti B da
parte dell’antigene e favorendo l’intrappolamento degli immunocomplessi nei centri germinativi. È
espresso dai linfociti B, dalle DC follicolari e da altre cellule epiteliali. Lega specificamente i
frammenti C3d, C3dg e iC3b (inattivo) generati dal taglio del frammento C3b ad opera del fattore I.
Nei linfociti B, CR2 è espresso in associazione ad un complesso trimerico formato da altre due
proteine legate non covalentemente (CD19 e CD81), formano il TAPA-1 (Target of AntiProliferative
Antibody-1). Questo complesso trasduce nei linfociti B i segnali che potenziano la risposta
all’antigene. Se espresso dalle DC follicolari, CR2 favorisce l’intrappolamento degli
immunocomplessi rivestiti dai frammento iC3b e C3dg nei centri germinativi.
3. CR3 (CD11b, CD18 o Mac-1: è un’integrina che agisce da recettore per il frammento iC3b generato
dal taglio del C3b. Mac-1 è espresso sulla superficie dei neutrofili, dei fagociti mononucleati, dei
mastociti e delle NK; è costituito da una catena α (CD11b) associata non covalentemente ad una
catena β (CD18). Nei neutrofili e nei monociti, Mac-1 promuove la fagocitosi dei microrganismi
opsonizzati dal frammento iC3b ed è responsabile dell’interazione fagocita-microrganismo in
assenza di opsonine. Infine, esso lega ICAM-1 favorendo l’adesione stabile dei leucociti all’endotelio
anche in assenza di attivazione del complemento.
4. CR4 (p150,95 o CD11cCD18): è un’altra integrina costituita dalla stessa catena β di Mac-1, ma da
una diversa catena α. Si lega a iC3b, svolgendo funzioni simili a Mac-1.
5. Recettore della famiglia delle Ig (CRIg): è espresso sulla superficie dei macrofagi residenti nel
fegato (cellule del Kupffer). Lega C3b e iC3b agendo da recettore per l’eliminazione di batteri
opsonizzati e di altri patogeni presenti in circolo.

L’attivazione della cascata del complemento e la stabilità dei suoi prodotti sono strettamente regolate per
impedire che l’attivazione avvenga sulla superficie di cellule normali e per limitarne la durata quando
avviene sulla superficie di microrganismi o immunocomplessi.

• L’attività proteolitica delle subunità C1r e C1s viene inibita da una proteina plasmatica chiamata C1
INH: si tratta di un inibitore delle serin-proteasi. Nel caso in cui C1q inizi l’attivazione del
complemento legandosi ad un anticorpo in fase fluida, la C1 INH diviene il principale bersaglio
dell’attività enzimatica delle subunità C1r e C1s. Il conseguente taglio di C1 INH porta alla sua
associazione covalente al tetramero C1r2-C1s2 che si dissocia dalla C1q bloccando l’attivazione del
complemento. Un deficit dei C1 INH causa una malattia ereditaria autosomica dominante, nota
come edema angioneurotico ereditario, caratterizzato da episodi intermittenti di edema della cute
e delle ucose, con dolori addominali, vomito , diarrea e ostruzione delle vie aeree.
• L’assemblaggio delle componenti della C3 convertasi e della C5 convertasi può essere inibito dal
legame delle proteine inibitorie ai frammenti C3b e C4b associati covalentemente alla superficie
cellulare. Quando il frammento C3b si associa alla superficie delle cellule normali dell’ospite, può
essere legato ad una proteina plasmatica (fattore H); analogamente, C4b può essere legato da DAF,
CR1, MPC da una diversa proteina plasmatica (C4BP). Legandosi al C3b o al C4b tali proteine
impediscono il legame degli altri coponenti della C3 convertasi, bloccando la prosecuzione della
cascata complementare.
• Il frammento C3b legato covalentemente alla cellula può essere degradato da una serin-proteasi
plasmatica (fattore I) in grado di svolgere tale compito solo in presenza delle proteine regolatorie
sopra elencate. MPC, fattore H, C4BP e CR1 agiscono da cofattori per il taglio dei frammenti C3b e
C4b operato dal fattore I. Queste proteine regolatorie sono al contempo responsabili della
dissociazione dei complessi contenente C3b e C4b e della loro degradazione proteolitica.
• La formazione di MAC è inibita da CD59, espressa da molti tipi cellulari. Essa può incorporare MAC
dopo l’inserimento in membrana del C5b-8, inibendo così il successivo assemblaggio della frazione
C9. La formazione di MAC può anche essere inibita da altre proteine, come la proteina S, che agisce
legandosi ai complessi solubili C5b, 6, 7 provocandone l’inserimento nelle membrane cellulari nelle
quali non sta avvenendo l’attivazione del complemento.
UN INCREMENTO ABNORME DELL’ATTIVAZIONE DEL COMPLEMENTO PUO’ RENDERE INEFFICACE
L’AZIONE DELLE PROTEINE REGOLATORIE!

Le principali funzioni svolte dal sistema del complemento nell’ambito delle risposte umorali sono:

1. OPSONIZZAZIONE E FAGOCITOSI: i microrganismi che hanno provocato l’attivazione della via


alternativa o di quella classica del complemento vengono opsonizzati dai frammenti C3, iC3b o C4b
e vengono fagocitati attraverso l’interazione di queste proteine con recettori specifici espressi su
macrofagi e neutrofili. Il solo legame dei frammenti C3b e C4b a CR1 non è in grado di promuovere
efficacemente la fagocitosi, ma la sua efficienza aumenta sensibilmente se i microrganismi sono
anche opsonizzati dalle IgG che si legano simultaneamente ai recettorei Fcγ.
2. ATTIVAZIONE DELLA RISPOSTA INFIAMMATORIA: i frammenti del complemento C3a, C4a e C5a
inducono un’infiammazione acuta agendo su mastociti, neutrofili e cellule endoteliali. Questi tre
frammenti si legano ai mastociti inducendone la de granulazione, con conseguente rilascio di
mediatori vasoattivi come l’instamina. Questi frammenti sono perciò anche definiti anafilotossine,
poiché le reazioni che scatenano a livello dei mastociti producono il processo di anafilassi. C5a è il
più potente induttore della de granulazione dei mastociti, mentre C3a e C4a sono circa 20 e 2500
volte meno potenti.
3. CITOLISI MEDIATA DAL COMPLEMENTO: la lisi dei microrganismi da parte del complemento è
principalmente dovuta al Mac, come abbiamo già visto. Difetti genetici di Mac si traducono in un
aumento della suscettibilità solo verso alcuni batteri, come quelli del genere Neisseria,
caratterizzati da parete molto sottile.
4. ALTRE FUNZIONI: legandosi agli immunocomplessi, il complemento ne favorisce la solubilizzazione
e l’eliminazione da parte dei fagociti. La C3d può inoltre legarsi a CR2, espresso dai linfociti B,
attivandoli e fornendo loro un segnale per l’avvio della risposta umorale.

Passiamo ora a descrivere brevemente i principali deficit del complemento esistenti:

• Deficit genetici a carico delle componenti della via classica C1q, C1r, C4, C2 e C3: il deficit di C2 è il
più frequente e si accompagna spesso a deficit di C1q e C4, con sviluppo di lupus eritematoso
sistemico. Di solito i deficit di C2 e C4 non si accompagnano ad un’aumentata suscettibilità alle
infezionie, mentre deficit di C3 si accompagna a infezioni gravi e ricorrenti da batteri piogeni,
spesso fatali.
• Deficit dei componenti della via alterantiva: determinano un’aumentata suscettibilità alle infezioni
da batteri piogeni; una mutazione del gene che codifica per la lectina MBL si associa allo sviluppo di
alcune immunodeficienze.
• Deficit delle componenti della sequenza terminale: tendenza a sviluppare infezioni da Neisseria.
• Deficit delle proteine regolatorie: aumento della suscettibilità a infezioni da batteri piogeni. Il
deficit da fattore H è estremamente raro e causa un eccesso di attivazione della via alterantiva a
conseguente eccessivo consumo di C3. Ciò comporta frequenti glomerulonefriti.
• Deficit dei recettori del complemento: se a carico di CR3 e CR4, determinano la sindrome da deficit
dell’adesione leucocitaria, caratterizzata da frequenti infezioni da batteri piogeni.

Il sistema del complemento può causare danni significativi tissutali, anche quando viene attivamente
regolato e controllato. In alcuni casi, infatti, l’attivazione del complemento si accompagna alla trombosi
intravascolare e può portare ad un danno ischemico a carico dei tessuti. Gli esempi classici di processi
patologici mediati dal complemento sono le manifestazioni che caratterizzano le malattie da
immunocomplessi. La vasculite sistemica e le glomerulonefriti sono causate proprio dalla massiva
deposizione di immunocomplessi nelle pareti dei vasi e nei glomeruli renali. Il complemento innesca una
risposta infiammatoria che danneggia la parete vascolare o i glomeruli, con conseguente trombosi, danno
ischemico e fibrosi tissutale.

I microrganismi patogeni hanno evoluto diversi meccanismi per eludere il complemento:

• Possono sfuggire al complemento causando l’accumulo locale di proteine regolatorie prodotte


dall’ospite. Molti patogeni esprimono sulla loro superficie l’acido sialico che può inibire la via
alternativa del complemento legando il fattore H che causa il distacco del frammento C3b dal Bb.
Altri patogeni hanno invece evoluto vie biosintetiche proprie per la generazione dell’acido sialico.
• Alcuni patogeni producono specifiche proteine che mimano le funzioni delle proteine regolatorie
del complemento.
• Alcuni prodotti genici dei microrganismi possono inibire il processo infiammatorio scatenato dalle
proteine del complemento.

Infine, per concludere questo capitolo, diamo un cenno di immunità neonatale. I neonati sono protetti dalle
infezioni grazie agli anticorpi prodotti dalla madre e trasportati nel circolo fetale tramite la placenta o
ingeriti con il latte materno e assorbiti dall’epitelio intestinale attraverso un processo specializzato detto
transcitosi. I neonati non sono in grado di attivare risposte immunitarie efficaci contro microrganismi e per
molti mesi dopo la nascita la loro principale difesa contro le infezioni è rappresentata dall’immunità passiva
fornita dagli anticorpi materni. Le IgG presenti nel sangue materno vengono trasportate attraverso la
placenta, mentre la IgA e le IgG presenti nel latte materno vengono ingerite durante l’allattamento. Una
volta raggiunto l’intestino, le IgA e le IgG sono in grado di neutralizzare i microrganismi patogeni e, da qui,
gli anticorpi possono anche essere trasferiti attraverso l’epitelio intestinale al circolo del lattante, che viene
così ad assumere lo stesso repertorio anticorpale della madre. Il trasporto di IgG materne attraverso la
placenta e l’epitelio intestinale è mediato da un recettore specifico per la porzione Fc delle IgG,
denominato recettore neonatale per Fc (FcRn) ed è l’unico recettore Fc ad assomigliare alle MHC di classe I.
CAPITOLO 14: IMMUNITA’ DISTRETTUALE: RISPOSTE IMMUNITARIE SPECIALIZZATE NEI TESSUTI
EPITELIALI E NEI TESSUTI IMMUNOLOGICAMENTE PRIVILEGIATI

Il sistema immunitario distrettuale comprende il sistema immunitario associato alle mucose, che è
deputato a proteggere le barriere mucose gastrointestinale, broncopolmonare e genitourinaria, e il sistema
immunitario cutaneo.

DISTRETTO CARATTERISTICHE STRUTTURE CELLULE SPECIALIZZATE


ANATOMICHE E FUNZIONI
TRATTO Tolleranza agli antigeni Tonsille CELLULE EPITELIALI
GASTROINTESTINALE alimentari, ai microbi Placche di Peyer INTESTINALI: secrezione
commensale e Follicoli della lamina di muco
responsività ai patogeni propria CELLULE M: cattura di
rari. Enorme superficie antigeni dal lume
esposta. CELLULE DI PANETH:
produzione di defensine
IgA E IgM SECRETORIE:
neutralizzazione dei
microbi nel lume
SOTTOPOPOLAZIONI DI
DC: cattura di antigeni,
induzione della
tolleranza cellulare,
attivazione dei linfociti T
effettori, induzione dello
scambio isotipico verso
IgA, imprinting
fenotipico dell’homing
all’intestino
SISTEMA RESPIRATORIO Esposizione a molteplici Tonsille CELLULE CILIATE:
patogeni, germi innocui, Adenoidi produzione di muco e
particelle presenti defensine ed espulsione
nell’aria. dalle via aeree di muco
contenente microbi e
particelle
SECREZIONE DI IgA, IgM,
IgG: neutralizzazione di
microbi fuori dalla
barriera epiteliale
SISTEMA IMMUNITARIO Ampia superficie. Barriera di epitelio CHERATINOCITI:
CUTANEO squamoso stratificato produzione di cheratina
cheratinizzato e secrezione di citochine
e defensine
CELLULE DI
LANGERHANS: cattura di
antigeni epidermici
SOTTOPOPOLAZIONE DI
DC: cattura di antigeni
nel derma, induzione
della tolleranza T,
attivazione di T effettori,
imprinting fenotipico di
homing nella cute.

DISTRETTO NUMERO DI LINFOCITI


PRESENTI (X 10^9)
MILZA 70
LINFONODI 190
MIDOLLO OSSEO 50
SANGUE 10
CUTE 20
INTESTINO 50
FEGATO 10
POLMONE 30

I principali sistemi immunitari regionali condividono un’organizzazione anatomica di base, costituita da una
barriera epiteliale esterna che svolge funzioni essenziali per prevenire l’invasione microbica, da un
sottostante strato di connettivo, che contien cellule di vario tipo distribuite in modo capillare e che sono
responsabili delle risposte innate e adattive nei confronti di microrganismi commensali o patogeni che
attraversano l’epitelio, e infine da linfonodi drenanti, più distanti, in ci si attiva e viene amplificata la
risposta immunitaria adattiva nei confronti dei microrganismi che hanno invaso il tessuto. Le mucose
presentano inoltre tessuti linfoidi secondari organizzati, ma non incapsulati, immediatamente al di sotto
della barriera epiteliale, che contengono linfociti B, T, DC e macrofagi (tessuto linfoide associato alle
mucose, MALT). Ciascun sistema immunitario distrettuale contiene tipi cellulari specializzati e particolari
tipi di molecole. I linfociti T effettori che si generano nei linfonodi drenanti o nel MALT di un particolare
sistema immunitario distrettuale entreranno nel circolo ematico per ricomparire poi nel tessuto connettivo
sottoepiteliale dello stesso organo. I sistemi immunitari regionali hanno funzioni di regolazione il cui scopo
è prevenire le reazioni indesiderate nei confronti di microrganismi non patogeni e di sostanze estranee che
possono essere presenti in corrispondenza delle diverse barriere.

Sistema immunitario del tratto GASTROINTESTINALE

Il tratto gastrointestinale è costituito da un cavo tubiforme rivestito da uno strato continuo di cellule
epiteliali, come gli altri tessuti mucosi, adagiato su una membrana basale che funge da barriera fisica verso
l’esterno. Al di sotto dell’epitelio, è presente uno strato di tessuto connettivo lasso, chiamato lamina
propria, che contiene i vasi sanguigni, i vasi linfatici e il MALT. Dal punto di vista immunologico, il tratto
gastrointestinale presenta due caratteristiche fondamentali: nel loro insieme, la mucosa dell’intestino
tenue e del crasso raggiungono una superficie di oltre 200 m^2 (campo da tennis), costituita soprattutto da
villi intestinali e microvilli; in secondo luogo, il lume dell’intestino è colmo di microrganismi in continua
cescita come commensali sulla superficie della mucosa dei soggetti sani. Si stima che più di 500 differenti
specie di batteri siano presenti nell’intestino dei mammiferi. L’evoluzione ci ha portato a dipendere da
questi commensali per diverse funzioni: degradano alcune componenti della dieta e prevengono
l’instaurarsi di infezioni dannose. Tuttavia, se questi organismi superano la barriera mucosa ed entrano in
circolo, possono diventare molto pericolosi.

Le cellule epiteliali intestinale che rivestono l’intestino tenue e l’intestino crasso sono parte integrante del
sistema dell’immunità innata gastrointestinale, che è coinvolto nelle risposte contro gli agenti patogeni,
nella tolleranza verso i microorganismi commensali e nella cattura di antigeni che poi vengono presentati al
sistema dell’immunità adattiva intestinale. Le principali cellule a carattere immunitario sono:
Caliciformi: secernono muco e si trovano nella parte più alta dei villi.
Cellule epiteliali: funzioni di assorbimento e secrezione di citochine.
Cellule M: specializzate nella cattura dell’antigene; si trovano in strutture a cupola altamente
specializzate e rivestono i tessuti linfoidi.
Cellule di Paneth: secernono peptidi antibatterici e sono localizzate in fondo alle cripte.

La protezione dell’immunità innata dell’intestino è dovuta in parte alla barriera di natura fisico-chimica,
costituita dalle cellule epiteliali della mucosa e dalla secrezione di muco. Diverse proteine ampiamente
glicosilate, chiamate mucine, formano una barriera fisica vischiosa che impedisce il contatto dei
microrganismi con le cellule del tratto gastrointestinale. Le mucine secrete (MUC-2, MUC-5 e MUC-6)
formano un gel idratato che presenta due strati, uno esterno normalmente colonizzato dai batteri, e uno
interno più denso, fissato all’epitelio e privo di batteri. Alcune mucine agiscono come molecole trappola
che possono essere rilasciate dalle cellule epiteliali e legano le proteine adesive che i batteri patogeni
utilizzano per legarsi alla membrana della cellula ospite. Altre mucine legate alla membrana si associano a
glicolipidi per formare il glicocalice, che forma una barriera fisica per prevenire il contatto con i microbi. La
barriera mucosa dell’intestino presenta un rapido turnover e una diversa reattività in risposta a stimoli
ambientali di diversa natura e segnali immunologici che permettono un rapido potenziamento
dell’efficienza delle funzioni di barriera. Le defensine, prodotte dalle cellule dell’epitelio intestinale,
forniscono protezione da parte dell’immunità innata contro i batteri presenti nel lume intestinale ed è stato
osservato che un deficit della loro produzione è associato all’invasione batterica e all’instaurarsi della
malattia infiammatoria intestinale. Nell’intestino, le defensine più rappresentate sono le defensina 5 e la
defensina 6, entrambe prodotte in forma di precursore inattivo dalle cellule di Paneth e attivate in seguito a
taglio da parte della tripsina. Nel colon, le defensine sono deputate all’assorbimento. Le cellule di Paneth
secernono anche una lectina di tipo C, chiamata REGIIIγ che inibisce la colonizzazione batterica a livello
della superficie epiteliale. I recettori Toll-Like e i recettori citoplasmatici NOD espressi dalle cellule epiteliali
intestinali promuovono una risposta immunitaria nei confronti degli agenti patogeni invasivi, ma sono
anche finemente regolati in modo da poter limitare la risposta infiammatoria nei confronti dei batteri
commensali. Le cellule epiteliali intestinali esprimono un’ampia gamma di TLR, il cui legame induce
fosforilazione e riorganizzazione delle zonule occludens tra le cellule epiteliali intestinali, incrementando la
forza di legame tra le giunzioni. Inoltre,la trasduzione del segnale del TLR induce un aumento di motilità e
della proliferazione dell’epitelio intestinale per aumentare le funzioni di barriera senza causare
infiammazione. Negli individui sani, le DC e i macrofagi della lamina propria dell’intestino inibiscono
l’infiammazione e contribuiscono al mantenimento dell’omeostasi. I macrofagi intestinali hanno un
fenotipo unico che permette loro di fagocitare e uccidere i microrganismi e allo stesso tempo di secernere
citochine antinfiammatorie. Le cellule linfoidi innate che producono IL-17 e IL-22 sono localizzate
principalmente nella mucosa intestinale e contribuiscono alle difese immunitarie contro alcuni batteri,
nonché alla funzione di barriera dell’epitelio mucosale.

Il sistema immunitario del tratto gastrointestinale presenta delle caratteristiche del tutto peculiari:

1. La principale forma di immunità adattiva è quella umorale diretta verso i microrganismi presenti nel
lume.
2. La risposta cellulo-mediata protettiva che prevale in questa sede è rappresentata dalle cellule
effettrici Th17.
3. Uno dei principali meccanismi per il controllo delle risposte immunitarie nell’intestino è
l’attivazione dei linfociti T regolatori (Treg).
Nell’intestino, le risposte adattive prendono l’avvio in strutture funzionali organizzate strettamente
associate allo strato epiteliale della mucosa, formate da linfociti e APC, oltre che nei linfonodi mediastinici. I
tessuti linfoidi associati alla mucosa intestinale vengono spesso indicati come GALT. Le strutture più
rilevanti del GALT sono le placche di Peyer, che si trovano principalmente nell’ileo distale ed hanno una
struttura simile ai follicoli linfoidi, con centri germinativi contenenti linfociti B, Tfh, DC follicolari e
macrofagi. La regione definita cupola si trova tra i follicoli e l’epitelio sovrastante e contiene linfociti B e T,
DC e macrofagi. A differenza dei linfonodi, le strutture GALT non sono incapsulate e le loro vie sono
indipendenti dalla circolazione linfatica. La via principale di diffusione degli antigeni dal lume intestinale al
GALT è rappresentata da cellule specializzate che si trovano all’interno dell’epitelio intestinale, chiamate
cellule M (microfold). Esse sono localizzate nelle regioni dell’epitelio intestinale associate ai follicoli o nella
cupola. La loro principale funzione è il trasporto trans cellulare di varie sostanze attraverso la barriera
epiteliale, dal lume dell’intestino alle sottostanti cellule APC. Le cellule M catturano in modo efficiente
l’antigene ma, a differenza di macrofagi e DC, non sono specializzate nella presentazione delle sostanze
catturate, ma solo nel loro trasporto all’interno di vescicole endocitiche attraverso il citosol per poi
rilasciarle per esocitosi a livello della membrana basocellulare, nelle regioni a cupola delle placche di Peyer
e dei follicoli linfoidi. Alcuni microrganismi si sono evoluti per sfruttare queste cellule come via di invasione
attraverso la barriera mucosale, primo tra tutti la Salmonella Typhi, che causa la febbre tifoide.

Gli antigeni microbici presenti nel lume intestinale possono anche essere catturati dalle DC della lamina
propria, che estendono le loro estroflessioni citoplasmatiche tra le cellule dell’epitelio intestinale.
Diversamente dalle cellule M, esse sono in grado di processare e presentare gli antigeni proteici ai linfociti T
presenti nel GALT. Gli antigeni vengono trasportati tramite la linfa dall’intestino tenute a quello crasso e qui
inducono il differenziamento dei linfociti T effettori e T regolatori che poi ritornano alla lamina propria.

Le risposte immunitarie nei confronti dei microbi della cavità orale originano a livello delle tonsille linguali e
palatine. Queste sono strutture linfoidi non capsulate, poste rispettivamente alla base della lingua e
dell’orofaringe, al di sotto della mucosa composta da epitelio squamoso stratificato. Insieme alle tonsille
nasofaringee, formano l’anello di Waldeyer. La maggior parte del tessuto linfoide tonsillare è formato da
follicoli linfoidi che di solito hanno importanti centri germinativi.

I linfociti effettori che si generano nel GALT e nei linfonodi mesenterici sono caratterizzati da proprietà di
homing nell’intestino che dipendono dalla selettiva espressione di integrine e recettori per le chemochine,
che ne permettono il ricircolo dal sangue alla lamina propria. L’integrina maggiormente espressa è α4β7
che lega MadCAM-1. L’homing richiede anche l’espressione del recettore per le chemochine CCCR9 e la
presenza del suo ligando CCL25. Il fenotipo di homing intestinale dei linfociti B che producono IgA e dei
linfociti T effettori è impresso dalle DC attraverso l’azione dell’acido retinoico durante il processo di
attivazione. L’induzione selettiva di cellule che fanno homing nell’intestino è spiegata dal fatto che i tessuti
linfoidi intestinale sono esposti alla vitamina A introdotta con la dieta e le DC del GALT, a differenza di
quelle di altri tessuti, esprimono una deidrogenasi necessaria per la sintesi di acido retinoico dalla vitamina
A.

La lamina propria contiene linfociti effettori, DC e macrofagi diffusamente distribuiti e rappresenta il sito
della fase effettrice delle risposte adattive gastrointestinali. Nel tratto gastrointestinale, la principale
funzione dell’immunità umorale è la neutralizzazione dei microbi luminali, che è principalmente dovuta
all’azione delle IgA prodotte nel GALT e trasportate nel lume attraverso l’epitelio mucosale. Le IgA sono
l’isotipo più abbondante nel tratto gastrointestinale. Si stima che un individuo normale di 70 kg possa
produrre al giorno circa 2g di IgA e, per questo motivo, esse rappresentano meno di un quarto degli
anticorpi totali circolanti e dunque una componente minore dell’immunità umorale sistemica. La
prevalenza della produzione di IgA è dovuta in parte allo scambio isotipico verso le IgA che avviene nel
GALT e nei linfonodi mesenterici, che sembra anche essere promosso dalla produzione di ossido nitrico da
parte delle DC e dall’acido retinoico. Inoltre, la produzione di IgA risulta essere aumentata anche dalle
proprietà selettive di homing intestinale delle cellule che producono IgA che sono presenti in numero
elevato nel GALT e nei linfonodi mesenterici. Una volta secrete, esse sono trasportate attraverso le cellule
epiteliali nel lume intestinale mediante un recettore specifico per le IgA/IgM chiamato recettore poli-Ig. Le
IgA dimeriche secretorie e le IgM pentameriche legano il poli-Ig tramite un dominio della catena J; questo
complesso è endocitato dalla cellula epiteliale e le vescicole si fondono direttmanete con la membrana
plasmatica apicale della cellula epiteliale (transcitosi). Sulla superficie cellulare il poli-Ig viene
proteoliticamente tagliato, mentre la porzione che rimane associata all’IgA è detta componente secretoria,
che ha funzione di protzione nei confronti delle IgA stesse dalla proteoisi degli enzimi presenti nel lume. Le
IgG sono presenti nelle secrezioni intestinali in livelli paragonabili alle IgM, ma inferiori rispetto alle IgA. Le
IgA prodotte nei tessuti linfoidi della ghiandola mammaria vengono secrete nel colostro e nel latte materno
maturno mediate transcitosi tramite il recettore poli-Ig e sono responsabili dell’immunità mucosale passiva
nei bambini allattati al seno.

I linfociti T regolatori sono abbondanti nel GALT e prevengono le reazioni infiammatorie contro i
microrganismi commensali intestinali. Diverse citochine, come il TGF-β, IL-10 e IL-2, sembrano avere un
ruolo fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi nel sistema immunitario intestinale e i deficit di
queste citochine o dei loro recettori danno origine a processi patologici infiammatori.

Malattie infiammatorie dell’intestino: comprendono un gruppo eterogeneo di disordini


caratterizzati da infiammazione cronica con fasi intermittenti, localizzate nell’intestino tenue e nel
crasso, verosimilmente dovute a risposte alterate verso batteri commensali. I due principali tipi
sono il MORBO DI CROHN e la COLITE ULCEROSA, con sintomatologia comune da dolore
addominale, vomito, diarrea e calo ponderale. In generale, queste malattie possono essere dovute
a: deficit dell’immunità innata verso i commensali intestinali; alterate risposte Th17 e Th1; difetto
dei linfociti T regolatori; polimorfismi genici associati a macroautofagi e le alterazioni della struttura
associate a stress del RE.
Malattia celiaca (enteropatia glutine-sensibile, sprue non tropicale): è una malattia infiammatoria
cronica dell’intesstino causata da risposte immunitarie contro le proteine del glutine presenti nel
frumento. Provoca atrofia dei villi, malassorbimento e vari difetti nutrizionali.
Altre patologie: allergie alimentari causate da risposte Th2 a svariate proteine alimentari che
provocano risposte infiammatorie acute nell’intestino e risposte sistemiche. Proungate risposte
possono dare luogo a insorgenza di tumori del tratto gastrointestinale, come nel caso di infezione
da Helicobacter pylori.

IMMUNITA’ INNATA DEL SISTEMA RESPIRATORIO

L’epitelio ciliato colonnare pseudo stratificato che delimita la maggior parte della mucosa delle vie
respiratorie svolge funzioni di barriera fisica e chimica simili all’epitelio intestinale, in virtù delle giunzioni
strette tra le cellule e della secrezione di muco, defensine e catelicidine. Il muco intrappola le sostanze
estranee mentre le ciglia lo spostano fuori dai polmoni. Le risposte innate degli alveoli svolgono funzioni
antimicrobiche, ma sono anche controllate per prevenire l’infiammazione che comprometterebbe gli
scambi gassosi. Le proteine A e D, surfactanti, neutralizzano i virus ed eliminano i microbi dagli spazi aerei,
ma possono anche sopprimere le risposte infiammatorie e allergiche nei polmoni. I macrofagi alveolari
rappresentano la maggior parte delle cellule presenti negli spazi alveolari, mantenendo un fenotipo
antinfiammatorio, inibendo le risposte T e la funzione di presentazione dell’antigene delle DC CD103+ delle
vie aeree.

IMMUNITA’ ADATTIVA DEL SISTEMA RESPIRATORIO

È dominata dalle IgA secretorie, insieme alle IgG e alle IgE che svolgono funzioni effettrici pro-
infiammatorie quando sono legate ai mastociti. Le risposte T polmonari hanno inizio in seguito alla cattura
degli antigeni da parte delle DC e alla presentazione di questi antigeni ai linfociti T naive dei linfonodi
peribronchiali e mediastinici. Una sottopopolazione di DC bronchiali è in grado di estendere i propri
prolungamenti catturando un maggior numero di antigeni inalati, che migrano verso i linfonodi drenanti.

IMMUNITA’ DEL SISTEMA GENITO-URINARIO

L’epitelio vaginale contiene cellule di Langerhans e una varietà di DC e di macrofagi. Nella mucosa genitale
risiedono anche linfociti B e T ed p completamente assente il MALT. Qui l’isotipo prevalentente è quello
delle IgG.

SISTEMA IMMUNITARIO CUTANEO

L’epidermide costituisce una barrier fisica all’invasione microbica e i cheratinociti rispondono attivamente
agli antigeni patogeni e ad eventuali lesioni con la produzione di peptidi antimicrobici e citochine che
promuovono le risposte immuni. Svariate sottopopolazioni di DC sono normalmente presenti nella cute e
contribuiscono sia alle risposte innate che ad avviare le risposte T nei confronti degli antigeni microbici ed
ambientali. La cute umana normale contiene moltissimi linfociti T, il 95% dei quali ha il fenotipo di cellule
della memoria; essi esprimono molecole di homing che promuovono la loro estravasazione a livello
dermico. Un caratteristico disordine infiammatorio cronico della cute, caratterizzato da placche squamose
eritematose, dovute ad alterate risposte immunitarie è la psoriasi. La dermatite atopica è una malattie
infiammatoria cronica della cute caratterizzata da eruzioni cutanee pruriginose.

OCCHIO

Il privilegio immunologico dellocchio è dovuto alla deviazione immunologica presente nella camera
anteriore, fenomeno per cui l’introduzione nella parte anteriore dell’occhio di antigeni proteici provocaa
una condizione di tolleranza sistemica verso quell’antigene, riducendo la possibilità che vengano attivate
risposte immunitarie adattive verso quell’antigene.

CERVELLO

Il cervello ha caratteristiche anatomiche che impediscono l’attivazione di risposte immunitarie, come


l’assenza di drenaggio linfatico e di DC. L’accesso delle cellule del sistema immunitario e dei mediatori
infiammatori è limitato dalla barriera emato-encefalica. Il cervello è ricco di macrofagi (microglia) che si
attivano in risposta a infezione e danno tissutale.

TESTICOLO

Il privilegio immunitario del testicolo serve a limitare l’infezione che potrebbe compromettere la fertilità
maschile. Anche qui è presente la barriera emato-testicolare, formate dalle cellule del Sertoli che rivestono
lo strato esterno dei tubuli seminiferi in cui avviene la spermatogenesi.
PRIVILEGIO IMMUNOLOGICO DEL FETO

Diverse osservazioni sperimentali indicano che la localizzazione anatomica del feto rappresenti un fattore
critico per l’assenza di rigetto. È possibile che la decidua uterina sia un sito dove le risposte immunitarie
sono funzionalmente inibite. La tolleranza materna del feto potrebbe essere dovuta a T regoatori e sembra
che un’eventuale risposte immunitaria verso il feto potrebbe essere regolata dalle concentrazioni locali di
triptofano e suoi metaboliti nella decidua.

Le tolleranza immunologica materna nei confronti del feto che esprime antigeni allogenici dipende da
meccanismi che agiscono a livello dell’interfaccia placentare materno-fetale. I possibili meccanismi
coinvolti includono la mancanza di espressione di molecole MHC sul trofoblasto fetale, l’azione dei Treg e la
degradazione del triptofano ad opera della indolamina 2, 3-diossigenasi locale, necessaria per lo sviluppo
dei linfociti.

CAPITOLO 15: TOLLERANZA IMMUNOLOGICA E AUTOIMMUNITA’

La tolleranza dei linfociti T e B comprende molti aspetti ed è importante esaminarne i principi fondamentali
prima di addentrarsi nei meccanismi specifici che caratterizzano la tolleranza di queste cellule.

Gli individui normali sono tolleranti verso i propri antigeni poiché i linfociti autoreattivi vengono
uccisi, inattivati oppure indotti a cambiare la loro specificità.
La tolleranza è il risultato del riconoscimento degli antigeni da parte di linfociti specifici. In altre
parole, la tolleranza è antigene-specifica.
La tolleranza ai self può essere generata nei linfociti autoreativi immaturi negli organi linfoidi
primari (tolleranza centrale) oppure nei linfociti maturi presenti nei siti periferici (tolleranza
periferica).
La tolleranza centrale si attua durante una precisa fase del processo di maturazione dei linfociti,
quando l’incontro con l’antigene può dar luogo a morte cellulare o alla sostituzione di un recettore
dell’antigene autoreattivo con uno non autoreattivo.
La tolleranza periferica si genera quando i linfociti T maturi che riconoscono gli antigeni self
muoiono per apoptosi o diventano incapaci di attivarsi anche dopo un ulteriore incontro con
l’antigene.
La tolleranza periferica è sostenuta dall’azione dei linfociti T regolatori che inibiscono attivamente i
linfociti specifici per gli antigeni self.
Alcuni antigeni self sono sequestrati dal sistema immunitario, altri vengono ignorati.
In assenza di segnali costimolatori, gli antigeni non self possono inibire la risposta immunitaria
causando tolleranza.
La tolleranza immunologica è stata studiata come approccio terapeutico per prevenire risposte
immunitarie dannose.

Discutiamo ora della tolleranza centrale e periferica specifica dei linfociti T e B.

• TOLLERANZA DEI LINFOCITI T

La tolleranza dei T CD4+ rappresenta un meccanismo efficace per la prevenzione delle risposte cellulari e
umorali agli antigeni proteici, poiché i linfociti T helper sono necessari per entrambi i tipi di risposta. Nel
corso della maturazione timica, molti dei linfociti T immaturi che riconoscono l’antigene con elevata affinità
vengono eliminati e alcuni dei T CD4+ autoreattivi che sopravvivono danno origine a linfociti T regolatori. Il
processo di selezione negativa interessa sia le cellule ristrette per MHC I che quelle ristrette per MHC II. La
selezione negativa dei timociti è responsabile del fatto che i linfociti T maturi non sono in grado di
rispondere a molti antigeni self normalmente presenti in elevate concentrazioni nel timo. I due principali
fattori che determinano la selezione negativa dei timociti autoreattivi sono la presenza nel timo
dell’antigene stesso e l’affinità con cui il TCR lo riconosce. La selezione negativa coinvolge i linfociti doppio-
positivi presenti nella corticale timica e i linfociti T di nuova generazione, singolo-positivi, nella midollare. In
entrambe queste sedi, i timociti immaturi con recettori ad elevata affinità per i self muoiono per apoptosi: il
segnale proveniente dal TCR scatena la via mitocondriale dell’apoptosi.

Gli antigeni presenti nel timo derivano da numerose proteine presenti nel circolo ematico o associate a
cellule, che sono ampiamente distribuite nei tessuti. Il timo, inoltre, ha lo speciale meccanismo di
espressione di antigeni proteici che sono tipicamente presenti solo in alcuni tessuti periferici, che permette
che i linfociti T immaturi e specifici per questi antigeni possano essere eliminati dal repertorio dei linfociti T
in fase di sviluppo. Le cellule epiteliali della midollare timica esprimono, sotto il controllo del gene AIRE
(AutoImmune REgulator) molte proteine che originariamente erano tessuto-specifiche. Le mutazioni di
AIRE sono la causa di una malattia autoimmune che colpisce diversi organi, detta sindrome poliendocrina
autoimmune di tipo 1 (APS1), caratterizzata da lesioni causate da anticorpi e linfociti in molteplici organi
endocrini. AIRE è una regolatrice della trascrizione che promuove l’espressione di antigeni tessuto-specifici
nel timo ed è un componente del complesso multi proteico coinvolto nella trascrizione e nello
srotolamento e rimodellamento della cromatina; contribuisce, inoltre, alla processazione dei pre-mRNA
processati dei geni che codificano per gli antigeni di tessuti periferici.

Alcuni linfociti T CD4+ autoreattivi che incontrano gli antigeni self nel timo non vengono eliminati, ma si
differenziano in T regolatori specifici per questi antigeni. I linfociti T regolatori lasciano il timo e inibiscono
le risposte contro gli antigeni self nei tessuti periferici.

Per quanto riguarda la tolleranza periferica, esistono tre principali meccanismi:

1. Anergia (mancata responsività): l’esposizione dei T CD4+ maturi ad un antigene in assenza di


segnali costimolatori o la mancanza di attivazione dell’immunità innata possono rendere i linfociti
incapaci di rispondere ad un determinato antigene. In questo meccanismo, definito anergia, le
cellule autoreattive non muoiono ma diventano non responsive verso quell’antigene. L’anergia è
determinata dalla prolungata disponibilità del primo segnale (riconoscimento dell’antigene), in
assenza del secondo segnale (riconoscimento di costimolatori). L’anergia deriva da alterazioni
biochimiche che riducono la capacità dei linfociti di rispondere a segnali che provengono dal
recettore per l’antigene.
• Nelle cellule anergiche, la trasduzione del segnale da parte del TCR è bloccata, in seguito a
minore espressione di TCR o al reclutamento nel complesso del TCR di molecole inibitorie.
• Il riconoscimento di antigeni self può attivare le ligasi in grado di ubiquitinare le proteine
associate al TCR e indirizzarle alla degradazione nel proteasoma o nei lisosomi. Ne deriva la
riduzione del numero di molecole coinvolte nella trasduzione del segnale, con conseguente
riduzione dell’attivazione cellulare.
• I linfociti T che riconoscono gli antigeni self possono reclutare i recettori inibitori della famiglia
di CD28 in grado di bloccare la loro attivazione.

I recettori inibitori maggiormente implicati nel processo di tolleranza sono CTLA-4 e PD-1
CTLA-4: è un membro della famiglia CD28 e si lega quindi a molecole B7. L’assenza di controllo
negativo da parte di CTLA-4 determina la mancanza della tolleranza periferica ed una grave
patologia ad opera dei linfociti T, nonché malattie autoimmuni come l’encefalomielite, il diabete di
tipo 1 e il morbo di Graves. CTLA-4 svolge essenzialmente due funzioni:

• La sua espressione si mantiene su bassi livelli nella maggioranza dei linfociti T fino
all’attivazione delle cellule da parte dell’antigene e, una volta espresso, pone fine
all’attivazione continua dei linfociti T che rispondono all’antigene.
• È espresso dai Treg eed è responsabile delle funzioni inibitorie attraverso il blocco
dell’attivazione dei linfociti T naive.

Il suo ruolo inibitorio viene svolto tramite due meccanismi:

• Blocco della trasduzione del segnale: l’ingaggio di CTLA-4 da parte di B7 attiva una fosfatasi che
rimuove i gruppi fosfato dalle molecole coinvolte nella trasduzione del segnale del TCR e CD28,
interrompendo in tal modo le risposte.
• Riduzione della disponibilità di B7: CTLA-4 si lega a B7, espresso dalle APC, ne previene il
legame con CD28 e ne provoca l’endocitosi, riducendone l’espressione sulle APC. Il risultato è
che i livelli di B7 disponibili a legarsi a CD28 sono notevolmente ridotti, determinando carenza
di costimolazione e riduzione della risposta T.

La scoperta che CTLA-4 rappresenta un punto di controllo nell’ambito delle risposte immunitarie ha
portato all’idea che l’attivazione linfocitaria possa essere promossa attraverso la riduzione
dell’inibizione (blocco dei punti di controllo); questo blocco, operato con anticorpi anti-CTLA-4,
determina un aumento delle risposte immunitarie ai tumori ed è oggi utilizzato nella cura dei
melanomi in stadio avanzato.

PD-1: è un secondo recettore inibitorio della famiglia CD28. Riconosce i suoi ligandi, chiamati PD-L1
e PD-L2. L’ingaggio di PD-1 da parte di uno dei suoi ligando provoca l’inattivazione dei linfociti T.
PD-1 inibisce le risposte T presumibilmente attraverso l’attivazione di segnali inibitori. È importante
nel porre fine alle risposte dei T effettori, in particolare ai CD8+, nei tessuti periferici e, a differenza
di CTLA-4, non sembra essere coinvolto nelle funzioni dei Treg.

2. Inibizione da parte dei linfociti T regolatori: i lingociti T regolatori sono una sottopolazione di T
CD4+ e hanno la funzione di inibire le risposte immunitarie e mantenere la tolleranza self. La
maggioranza di questi esprime elevati livelli della catena α (CD25) del recettore per l’IL-2 in assenza
di altri marcatori di attivazione linfocitaria. Un fattore trascrizionale, FoxP3, svolge un ruolo cruciale
nello sviluppo e nella funzione della maggior parte dei Treg. Una rara malattia autoimmune
nell’uomo è la sindrome IPEX (disregolazione del sistema immunitario, poliendocrinopatia,
enteropatia, X-linked), causata da una mutazione del gene FoxP3 e associata a carenza di linfociti T
regolatori. I Treg esprimono generalmente bassi livelli di CD127 (recettore di IL-7) e quindi
utilizzano preferenzialmente IL-2 piuttosto che IL-7. Inoltre, i Treg FoxP3+ generalmente esprimono
elevati livelli di CTLA-4. La demetilazione del locus genico FOXP3 e di altri loci contenenti geni
espressi in queste cellule serve a mantenere stabile il fenotipo dei Treg.
I linfociti T regolatori originano nel timo o negli organi linfoidi secondari in seguito al
riconoscimento degli antigeni self o non self (linfonodi). I Treg timici sono specifici per gli anticorpi
self, poiché questi sono gli antigeni con cui vengono in contatto nel timo; i Treg periferici sono
invece specifici per antigeni self e non self. La generazione di alcuni Treg richiede la citochine TGF-
β, mentre la sopravvivenza e la funzione dei Treg richiede la citochina IL-2. Quest’ultima attiva
inoltre il fattore STAT5 che stimola l’espressione di FoxP3 e di altre geni coinvolti nelle funzioni dei
Treg.
I principali meccanismi di soppressione da parte dei Treg sono dunque:
• Produzione di citochine immunosupressive IL-10 e TGF-β.
TGF-β (fattore-β di crescita trasformante): inibisce la proliferazione e le funzioni effettrici dei
linfociti T e l’attivazione dei macrofaagi, nonché l’attivazione di neutrofili e cellule endoteliali,
svolgendo un ruolo importante nell’attenuare e terminare le risposte immunitarie e
infiammatorie. Regola la differenziazione di sottopopolazioni di linfociti T, stimolando in
particolare quella dei Treg. Agendo sui linfociti B, promuove lo scambio isotipico verso le IgA,
principalmente coinvolte nelle risposte immunitarie a livello mucosale. Infine, promuove la
riparazione dei tessuti al termine dei processi reattivi locali, promuovendo fibrosi e
angiogenesi.
IL-10: inibendo macrofagi e DC, è coinvolta nel controllo delle risposte innate e dell’immunità
cellulo-mediata. Funge da regolatore a feedback negativo poiché è prodotta dai macrofagi e
dalle DC ma al contempo ne inibisce l’attività. È inoltre prodotta da alcuni linfociti B con
funzioni immunosoppressive (B regolatori). Inibisce la produzione di IL-12 da parte dei
macrofagi attivati e delle DC, inibendo la produzione di IFN-γ e dunque regolando
negativamente le risposte innate e cellulo-mediate. Infine, inibisce l’espressione di molecole
costimolatorie e di MHC II da parte di macrofagi e DC, ponendo fine alle risposte cellulo-
mediate.
• Ridotta capacità delle APC di stimolare i linfociti T;
• Consumo di IL-2.
3. Delezione dei linfociti T mediante apoptosi: i linfociti T che riconoscono antigeni self ad elevata
affinità o che sono ripetutamente stimolati da antigeni persistenti possono morire per apoptosi.
• Via mitocondriale (intrinseca): è regolata da Bcl-2 e ha inizio quando le proteine
citoplasmatiche della famiglia Bcl-2 vengono indotte o attivate durante la deprivazione
dei fattori di crescita, in presenza di stimoli nocivi, danno al DNA o in seguito ad alcuni
tipi di attivazione recettoriale. Queste proteine possono legare e influenzare gli
effettori e i regolatori della morte cellulare. Nei linfociti, il più importante di questi
sensori di stress cellulare è la proteina Bim: nella sua forma attiva, essa lega due
proteine effettrici proapoptotiche della famiglia Bcl-2, chiamate Bax e Bak, che si
inseriscono nella membrana mitocondriale esterna, causandone un aumento della
permeabilità. Fattori di crescita e altri segnali di sopravvivenza causano l’espressione di
membri antiapoptotici della famiglia Bcl-2, che funzionano da inibitori dell’apoptosi
blocacando Bax e Bak e quindi mantenendo intatti i mitocondri. Nel momento in cui le
cellule vengono deprivate dei segnali di sopravvivenza, la membrana mitocondriale
aumenta la sua permeabilità a causa dell’azione non più bloccata dai Bax e Bak e molte
proteine mitocondriali, incluso il citocromo c, vengono rilasciate nel citosol. Queste
proteine attivano le caspasi che portano alla frammentazione del DNA nucleare e ad
altri eventi che culminano nella morte per apoptosi.
• Via estrinseca: è mediata da recettori, si attiva in seguito all’ingaggio di recettori
membrana omologhi ai recettori per il TNF. L’oligomerizzazione di questi recettori
determina l’attivazione di proteine adattatrici citoplasmatiche, che determinano
l’attivazione della caspasi-8 che esercita un taglio proteolitico delle caspasi a valle e
morte per apoptosi.
Le cellule che vanno incontro a morte per apoptosi sviluppano estroflessioni della membrana e
rilasciano frammenti di nucleo e citoplasma chiamati corpi apoptotici; inoltre, espongono lipidi sulla
membrana plasmatica che vengono riconosciuti da parte dei recettori delle cellule fagocitiche, che
eliminano i corpi e le cellule apoptotiche, in completa assenza di risposta infiammatoria.
I linfociti T che riconoscono gli antigeni self in assenza di segnali costimolatori attivano la proteina
proapoptotica Bim che innesca la via mitocondriale dell’apoptosi. La ripetuta stimolazione dei
linfociti T porta alla contemporanea espressione dei recettori che trasducono i segnali di morte
cellulare e dei loro rispettivi ligandi che ne determinano la morte per apoptosi. Nei CD4+, il
recettore di morte cellulare è Fas; mutazioni di questo recettore o del suo ligando (FasL) inducono
nell’uomo una patologia autoimmune detta sindrome linfoproliferaiva autoimmune.

La maggior parte delle nostre conoscenze sulla tolleranza periferica è limitata ai CD4+; per quanto riguarda
i CD8+, è probabile che essi diventino anergici quando riconoscono peptidi presentati da MHC I in assenza
di segnali di costimolazione o di cooperazione con i Th. In questa situazione, i CD8+ incontrerebbero il
segnale 1 (antigene) in assenza del segnale 2, procedendo poi in maniera analoga a quanto accade per i
CD4+. I recettori inibitori come PD-1 sopprimono l’attivazione dei CD8+ e possono essere coinvolti
nell’interruzione delle risposte, nell’ambito di un fenomento definito esaurimento clonale.

Infine, vediamo brevemente quali sono i fattori che determinano l’immunogenicità e la tolleranza di una
proteina:

FATTORE CONDIZIONI CHE FAVORISCONO CONDIZIONI CHE FAVORISCONO


LA STIMOLAZIONE DELLE LA TOLLERANZA
RISPOSTE IMMUNITARIE
Persistenza Breve (eliminati dalla risposta Prolungata
immunitaria)
Via di ingresso e localizzazione Sub cutanea, intradermica Intravenosa, mucosale
Assenza negli organi linfoidi Presenza negli organi linfoidi
primari primari
Presenza di adiuvanti Antigeni con adiuvanti (stimolano Antigeni senza adiuvanti (non
i linfociti T helper) sono immunogenici né
tollerogenici)
Caratteristiche delle APC Livelli elevati di molecole Bassi livelli di molecole
costimolatorie costimolatorie e citochine

• TOLLERANZA DEI LINFOCITI B

I linfociti B immaturi che riconoscono con elevata affinità un antigene self presente nel midollo osseo
vengono eliminati oppure indotti a modificare la loro specificità. I principali meccanismi messi in atto sono:

1. Editing recettoriale: il riconoscimento di antigeni self presenti ad alte concentrazioni nel midollo e
soprattutto degli antigeni multivalenti determina il cross-linking dei recettori per i linfociti B e
l’innesco di un forte segnale di attivazione. In queste condizioni,i linfociti B riattivano i geni RAG1 e
RAG2 e procedono ad una nuova ricombinazione VJ nel locus della catena leggera К delle Ig. Questo
processo porta una sequenza VК, posta a monte della regione VКJК già riarrangiata, ad unirsi ad
una sequenza JК a valle. L’esone VКJК autoreattivo, precedentemente riarrangiato, viene quindi
eliminato e verrà espressa una catena leggera Ig dotata di nuova specificità. Se il nuovo
riarrangiamento non è produttivo, il riarrangiamento può procedere nel locus К del secondo
cromosoma. Nel caso in cui anche questo non sia produttivo, si passa a riarrangiare la catena λ.
2. Delezione: se il processo di editing fallisce, i linfociti B immaturi autoreattivi vengono eliminati per
apoptosi.
3. Anergia: nel caso in cui il legame con l’antigene sia debole, i linfociti B fuoriescono dal midollo in
condizioni anergiche. L’anergia è causata dall’inibizione dell’espressione del recettore per
l’antigene o da un suo blocco funzionale.

I linfociti B maturi che riconoscono gli antigeni self nei tessuti periferici in assenza di cellule T helper
specifiche vengono inattivati o eliminati per apoptosi. I meccanismi di tolleranza periferica sono:

1. Anergia e delezione: i linfociti B autoreattivi possono perdere la capacità di rispondere a successive


stimolazioni, in seguito alla ripetuta attivazione da parte degli antigeni self. Queste cellule hanno un
maggiore grado di dipendenza dai fattori di sopravvivenza e non riescono a competere con gli altri
linfociti B naive presenti nei follicoli linfoidi, che necessitano di concentrazione inferiori dei fattori
BAFF/BLys. Di conseguenza, questi linfociti hanno una ridotta capacità di sopravvivenza e vengono
eliminati più rapidamente attraverso la via mitocondriale dell’apoptosi.
2. Ruolo dei recettori inibitori: i linfociti B che riconoscono con bassa affinità gli antigeni self possono
essere controllati grazie all’azione di alcuni recettori inibitori, la cui funzione è definire una soglia di
attivazione che può essere raggiunta solo se il riconoscimento degli antigeni avviene in associazione
con i segnali di costimolazione forniti dai linfociti T; condizioni che normalmente non si verifano in
risposta agli antigeni self.

• TOLLERANZA VERSO GLI ANTIGENI PROTEICI NON SELF

Le modalità con cui un antigene non self viene somministrato possono indurre preferenzialmente la
tolleranza piuttosto che una risposta immunitaria. La somministrazione di antigeni proteici per via cutanea
in combinazone con gli adiuvanti favorisce la risposta immune, mentre dosi elevate dell’antigene
somministrate in assenza di adiuvanti tendono a indurre tolleranza. Questo accade perché gli adiuvanti
stimolano l’espressione di molecole costimolatorie sulle APC e, in assenza di questi secondi segnali, i
linfociti T che riconoscono l’antigene possono diventare anergici, morire o differenziarsi in cellule
regolatrici. La somministrazione orale di un antigene proteico in genere porta ad una marcata soppressione
della risposta sistemica e ad una successiva immunizzazione con lo stesso antigene (tolleranza orale).

• MALATTIE AUTOIMMUNI

I fattori che contribuiscono allo sviluppo delle malattie autoimmuni sono la predisposizione genetica e i
fattori ambientali scatenanti, come gli episodi infettivi e le lesioni tissutali focali. Le malattie autoimmuni
possono essere sistemiche (es. lupus eritematoso sistemico) oppure localizzate in un determinato organo
(es. sclerosi multipla, diabete di tipo1, miastenia gravis), a seconda della distribuzione degli antigeni self che
vengono riconosciuti. In queste malattie, vari meccanismi effettori sono responsabili del danno tissutale,
come la formazione in circolo di immunocomplessi e di autoanticorpi, nonché lo sviluppo di linfociti T
autoreattivi. Spesso queste malattie tendono ad essere croniche, progressive e ad auto perpetuarsi.

L’autoimmunità è il risultato della combinazione di tre principali aberrazioni immunologiche:


1. Carenza di tolleranza o regolazione: l’inefficienza dei meccanismi di tolleranza al self nei linfociti B
e T, che determina uno squilibrio tra l’attivazione e il controllo dei linfociti, rappresenta la causa
sottostante tutte le malattie autoimmuni. La perdita di tolleranza può subentrare se i linfociti
autoreattivi non vengono eliminati o inattivati durante o dopo il processo di maturazione, oppure
se le APC sono attivate in modo tale che antigeni self siano presentati al sistema immunitario in
ambiente immunogenico. Uno qualsiasi dei seguenti meccanismi può contribuire alla perdita della
tolleranza:
• Difetti di eliminazione dei linfociti B e T o dell’editing recettoriale.
• Carenza o difetti funzionali dei Treg.
• Difetto di apoptosi dei linfociti T autoreattivi maturi.
• Inadeguato funzionamento dei recettori inibitori.
2. Anomala presentazione degli antigeni self: le anomalie possono consistere nell’aumentata
espressione e persistenza degli antigeni self, che in condizioni normali sarebbero eliminati, o
variazioni strutturali in questi antigeni causate da modificazione enzimatiche, da danno o lesioni
cellulari. Se queste alterazioni determinano l’esposizione di nuovi epitopi antigenici che non sono
presenti normalmente, il sistema immunitario può mancare di tolleranza e consentire lo sviluppo di
risposte ai self.
3. Infiammazione o iniziale risposta immunitaria: infezioni o lesioni cellulari possono contribuire allo
svilppo di malattie autoimmuni, verosimilmente mediante attivazione delle APC, che soverchia i
meccanismi regolatori e determina un’eccessiva attivazione dei linfociti T.

La maggior parte delle malattie autoimmuni è poligenica e i soggetti che ne sono affetti ereditano
molteplici polimorfismi che contribuiscono a definire una predisposizione genetica per la malattia. Questi
geni agiscono in concerto con fattori ambientali. A volte, il polimorfismo di un singolo gene può esseere
coinvolto nella suscettibilità a molteplici patologie autoimmuni; altre volte, i logi genici sono associati a
specifiche malattie. Ogni polimorfismo dà un piccolo contributo allo sviluppo di una particolare patologia
ed è generalmente presente anche negli individui sani, ma ad una frequenza minore rispetto a quella
osservata nei pazienti. Tra tutti i geni studiati, l’associazione con quelli MHC è la più forte. In molte malattie
autoimmuni, come il diabete di tipo 1, sono stati identificati 20-30 geni associati alla patologia; nella
maggior parte dei casi, il locus HLA da solo contribuisce per almeno la metà della suscettibilità genetica.
L’odds ratio (limite di confidenza) rappresenta la probabilità di sviluppare una malattia negli individui che
ereditano determinati alleli HLA. Questa associazione ha delle caratteristiche molto importanti:

1. Può essere identificata per mezzo di tipizzazione sierologica di un locus, ma la reale associazione
può essere con altri alleli legati all’allele tipizzato ed ereditati congiuntamente.
2. In molte malattie autoimmuni, i polimorfismi dei nucleotidi associati alla malattia codificano per gli
aminoacidi presenti nella tasca che alloggia il peptide della molecola MHC.
3. Le sequenze HLA legate alla malattia sono presenti anche in individui sani. Infatti, se tutti i soggetti
che esprimono un particolare HLA associato ad una determinata malattia autoimmune venissero
monitorati, si potrebbe osservare che la maggior parte di questi non svilupperà la malattia. Quindi
l’espressione di un particolare HLA non rappresenta di per sé causa della malattia, ma uno dei
fattori che contribuiscono alla sua insorgenza.

Vediamo ora di comprendere le caratteristiche dei principali geni associati a malattie autoimmuni.
GENE FUNZIONE MALATTIA
PTPN 22 Proteina tirosina fosfatasi; ruolo ARTRITE REUMATOIDE
nella trasduzione del segnale dei DIABETE DI TIPO 1
recettori dei linfociti T e B. MALATTIA INFIAMMATORIA
DELL’INTESTINO
CD2 / CD58 Costimolazione dei linfociti T. ARTRITE REUMATOIDE
SCLEROSI MULTIPLA
IL 23 R Componente nel recettore di IL- MALATTIA INFIAMMATORIA
23; ruolo nella generazione ed DELL’INTESTINO
espansione dei linfociti Th17. PSORIASI
SPONDILITE ANCHILOSANTE
IL 10 Inibisce l’espressione delle MALATTIA INFIAMMATORIA
molecole costimolatorie, delle DELL’INTESTINO
MHC, dell’IL-12 nelle DC; inibisce LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO
le risposte Th1. DIABETE DI TIPO 1
CTLA 4 Recettore inibitorio dei linfociti T; DIABETE DI TIPO 1
molecola effettrice dei Treg. ARTRITE REUMATOIDE
IL2 / IL21 Fattore di crescita e MALATTIA INFIAMMATORIA
differenziazione dei linfociti T; IL- DELL’INTESTINO
2 è coinvolta nella sopravvivenza MALATTIA CELIACA
dei Treg. ARTRITE REUMATOIDE
DIABETE DI TIPO 1
SCELORSI MULTIPLA
IL 12 B Subunità p40 di IL-12 (citochina MALATTIA INFIAMMATORIA
che attiva i Th1). DELL’INTESTINO
PSORIASI
BLK Tirosin-chinasi dei linfociti B; LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO
coinvolta nell’attivazione e ARTRITE REUMATOIDE
sopravvivenza dei linfociti B.
IL2RA Catena α del recettore di IL-2 SCLEROSI MULTIPLA
(CD25); ruolo nell’attivazione e DIABETE DI TIPO 1
sopravvivenza dei linfociti T.
NOD 2 Sensore citoplasmatico dei MALATTIA INFIAMMATORIA
batteri DELL’INTESTINO
ATG 16 Autofagia (degradazione di MALATTIA INFIAMMATORIA
microrganismi, mantenimento DELL’INTESTINO
dell’integrità delle cellule
epiteliali).
IRF 5, IFIH 1 Risposta dell’interferone di tipo 1 LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO
ai virus.
Studi condotti in modelli animali e in sperimentazioni cliniche hanno permesso l’identificazione di diversi
geni in grado di regolare la tolleranza agli antigeni self. Questi difetti sono esempi di malattie mendeliane in
cui la mutazione è rara ma ha un’alta penetranza e quindi causa l’insorgenza della malattia nella maggior
parte degli individui che ne sono portatori.

• Geni che codificano per le proteine del complemento: il deficit di numerose proteine del
complemento, come C1q, C2 e C4, è associato a malattie autoimmuni simili al lupus. È probabile
che il deficit di rimozione degli immunocomplessi circolanti e dei corpi apoptotici nei tessuti,
dovuto all’assenza dei fattori del complemento, determini il loro accumulo e una conseguente
persistenza degli antigeni.
• FcγRIIB: un polimorfismo responsabile delle mutazioni di un’isoleucina in una treonina nel dominio
trans membrana di questo recettore Fc con attività inibitoria è associato a lupus. La probabile causa
di questa malattia è da imputare alla mancanza del meccanismo di feedback negativo durante
l’attivazione dei linfociti B.

Le infezioni virali e batteriche possono contribuire allo sviluppo e all’esacerbazione delle malattie
autoimmuni. Le infezioni possono favorire autoimmunità attraverso due meccanismi principali:

• Possono promuovere l’attivazione locale dell’immunità innata a livello di un particolare tessuto,


che comporta il reclutamento tissutale di leucociti e l’attivazione delle APC. Queste ultime
esprimono molecole costimolatorie e secernono citochine in grado di attivare i linfociti T, con la
conseguente rottura della tolleranza T verso gli antigeni self. Pertanto, l’infezione causa
l’attivazione non specifica dei linfociti T (attivazione bystander). I microbi possono anche legarsi ai
TLR espressi dalle DC, con conseguente produzione di citochine che attivano i linfociti, o ai TLR
espressi dai linfociti B autoreattivi, con produzione di anticorpi.
• Gli antigeni infettivi possono contenere antigeni che cross-reagiscono con gli antigeni self, per cui
la risposta verso i microbi può determinare risposte contro gli antigeni self (mimetismo
molecolare). Ne è un esempio la febbre reumatica, che si sviluppa in seguito a infezioni da
streptococco ed è causata da anticorpi anti-streptococco che cross-reagiscono con le proteine del
miocardio, causando miocardite.

Alcune infezioni possono proteggere dallo sviluppo dell’autoimmunità. Anche il microbioma intestinale e
cutaneo può influenzare lo sviluppo di malattie autoimmuni.

Infine, oltre ad alterazioni genetiche e infezioni, lo sviluppo di malattie autoimmuni correla con numerosi
altri fattori:

• Le alterazioni anatomiche dei tessuti, causate da infiammazione, danno ischemico e traumi,


possono portare all’espressione di antigeni self normalmente inaccessibili al sistema immunitario.
• L’azione ormonale riveste un ruolo importante in alcune malattie. Per esempio, il lupus colpisce le
donne con una frequenza 10 volte maggiore rispetto agli uomini e la sua insorgenza può essere
ritardata tramite somministrazione di androgeni.

CAPITOLO 16: IMMUNITA’ AI MICRORGANISMI

Cerchiamo ora di delineare alcune caratteristiche generali della risposta immunitaria ai microrganismi:

1. La difesa contro i microrganismi è mediata dai meccanismi effettori dell’immunità innata e


specifica.
2. Il sistema immunitario risponde in modo diversificato e specializzato ai diversi patogeni al fine di
combatterli nel modo più efficace possibile.
3. La patogenicità del microrganismo e la sua sopravvivenza nell’ospite sono fortemente condizionati
dalla capacità di eludere o resistere ai meccanismi effettori dell’immunità.
4. In molti casi, i microrganismi stabiliscono infezioni latenti o persistenti, che il sistema immunitario
controlla senza però essere in grado di eliminare l’agente patogeno, che sopravvive in assenza di
propagazione di infezione.
5. In molte infezioni il danno tissutale e la malattia possono essere causati dalla rispota dell’ospite
piuttosto che dall’agente infettivo in sé.
6. I difetti ereditari e acquisiti dell’immunità innata e specifica sono causa importanti di suscettibilità
alle infezioni.

Entriamo ora nel dettaglio dei singoli meccanismi di difesa contro i microrganismi.

• IMMUNITA’ AI BATTERI EXTRACELLULARI

I batteri extracellulari sono in grado di replicarsi al di fuori della cellula dell’ospite. Molte specie sono
patogene e le malattie ad esse associate possono essere causate attraverso due meccanismi principali. In
primo luogo, inducono un processo infiammatorio che causa danno tissutale nella sede di infezione (es.
batteri piogeni che producono pus); in secondo luogo, producono tossine in grado di esercitare diversi
effetti patologici. Le tossine possono essere endotossine (componenti della parete cellulare batterica) o
esotossine (attivamente secrete dai batteri). Molte esotossine sono citotossiche: per esempio, la tossina
difterica blocca la sintesi proteica nelle cellule infettate; la tossina del tetato inibisce la trasmissione
neuromuscolare.

I principali meccanismi dell’immunità innata ai batteri extracellulari sono:

1. Attivazione del complemento: i peptidoglicani della parete cellulare dei batteri gram-positivi e il
LPS dei batteri gram-negativi attivano il complemento attraverso la via alternativa. I batteri che
esprimono sulla loro superficie residui di mannosio possono legre una lectina omologa alla subunità
C1q, inducendo l’attivazione della via lectinina. Le conseguenze sono l’opsonizzzione e il
potenziamento della fagocitosi dei batteri, nonché lisi celllulare.
2. Attivazione dei fagociti e infiammazione: i fagociti riconoscono i batteri extracellulari attraverso
recettori di superficie, come i recettori per il mannosio, mentre utilizzano recettori per il
frammento Fc degli anticorpi e recettori per il complemento per legare batteri osponizzati con
anticorpi o proteine del complemento, rispettivamente. I prodotti microbici attivano i TLR e vari
sensori citoplasmatici nei fagociti e in altre cellule. DC e fagociti attivati secernono citochine
responsabili dell’infiltrazione leucocitaria che solitamente si osserva a livello dei focolai infettivi. I
leucociti reclutati fagocitano ed eliminano i batteri.

La risposta anticorpale che costituisce la principale risposta protettiva contro i batteri extracellulari ha la
funzione di prevenire l’infezione, di eliminare i microrganismi e di neutralizzare le loro tossine. La risposta
anticorpale è diretta contro gli antigeni espressi sulla parete cellulare e le tossine secrete o di superficie,
costituite da polisaccaridi (rappresentano il prototipo degli antigeni timo-dipendenti) o proteine. La
neutralizzazione è mediata da IgG ad alta affinità, da IgM e IgA; l’osponizzazione è mediata da alcune
sottoclassi di IgG, mentre l’attivazione del complemento è secondaria all’intervento delle IgM e IgG. Gli
antigeni proteici possono attivare anche i T helper CD4+, che producono citochine in grado di provocare
l’infiammazione a livello locale, di potenziare l’attività fagocitica e microbicida dei macrofagi e dei neutrofili
e di stimolare la produzione di anticorpi.

Le principali conseguenze patologiche della risposta a questi batteri sono l’infiammazione e lo schok
settico. Lo schok settico è una grave conseguenza patologica di infezioni disseminate causate da alcuni
batteri gram-negativi e gram-positivi. Le principali manifestazioni cliniche sono il collasso cardiocircolatorio
e la coagulazione intravascolare disseminata. Le fasi precoci sono causate dalle citochine prodotte dai
macrofagi attivati da componenti della parete cellulare batterica, primi tra i quali LPS e peptidoglicani. Il
TNF e l’IL-1 sono i principali mediatori citochinici dello schok settico. Alcune tossine batteriche sono in
grado di stimolare tutti quei linfociti T che esprimono una particolare regione Vβ del TCR. Tali tossine sono
chiamate superantigeni, poiché si legano al TCR e alle molecole dell’MHC II, ma hanno la capacità di attivare
un numero di linfociti T molto maggiore rispetto a quelli stimolati da antigeni peptidici convenzionali.

Una conseguenza tardiva della risposta immunitaria umorale può essere la produzione di anticorpi che
hanno un’azione patologica per l’organismo, come nel caso della febbre reumatica o della glomerulo-
nefrite post-streptococcica.

Un meccanismo utilizzato dai batteri per eludere l’immunità umorale è la continua mutazione dei loro
antigeni di superficie.

BATTERI EXTRACELLULARI
MECCANISMO DI ELUSIONE IMMUNITARIA ESEMPI
Modificazione degli antigeni Neisseria gonorrhoeae
Escherichia coli
Salmonella typhimurium
Inibizione dell’attivazione del complemento Numerosi batteri
Resistenza alla fagocitosi Pneumococcus
Neisseria meningitidis
Neutralizzazione delle specie reattive all’ossigeno Stafilococchi catalasi-positivi

• IMMUNITA’ AI BATTERI INTRACELLULARI

Una caratteristica dei batteri intracellulari è la loro capacità di sopravvivere e persino di replicarsi
all’interno dei fagociti, divenendo inaccessibili agli anticorpi circolanti.

La risposta immunitaria innata ai batteri intracellulari si basa principalmente sull’azione dei fagociti e delle
NK. I fagociti inglobano e tentano di uccidere i batteri, che sono però resistenti. I prodotti di questi batteri
vengono riconosciuti dai TLR e da proteine citoplasmatiche della famiglia NOD, responsabili dell’attivazione
dei fagociti. In particolare, il DNA batterico nel citosol stimola la produzione dell’IFN-1 attraverso una via di
attivazione STING-mediata. Le DC attivate dai batteri producono l’IFN-γ che attiva i macrofagi ad uccidere i
batteri fagocitati.

La principale risposta protettiva contro i batteri intracellulari è rappresentata dal reclutamento e


dall’attivazione dei fagociti ad opera dei linfociti T (immunità cellulare). I batteri fagocitati stimolano la
risposta CD8+ se gli antigeni batterici vengono trasportati dai fagosomi al citosol o se i batteri fuoriescono
dai fagosomi, penetrando al citoplasma delle cellule infettate. Nel citosol, i microrganismi non sono più
suscettibili ai meccanismi microbicidi dei fagociti e l’infezione può essere eradicata solo mediante
l’uccisione della cellula infettata da parte dei CTL. Quindi, le cellule effettrici dell’immunità cellulare, ossia i
T CD4+, i macrofagi e i CTL agiscono sinergicamente nella difesa nei confronti dei batteri intracellulari.
L’attivazione dei macrofagi in risposta ai microrganismi intracellulari può anche scatenare un danno
tissutale , che può manifestarsi come reazione di ipersensibilità di tipo ritardato. Dal momento che i batteri
si sono evoluti per resistere all’uccisione, spesso persistono per unghi periodi e causano un’attivazione
cronica dei linfociti T e dei macrofagi che può portare alla formazione di granulomi, che prevengono la
diffusione dei microrganismi ma al contempo possono causare grave danno tissutale dovuto a necrosi e
fibrosi tissutale. Le differenze interindividuali nella risposta T linfocitaria ai batteri intracellulari sono un
fattore importante nella progressione e nell’evoluzione della malattia. Ne è un chiaro esempio la lebbra:
esistono due forme di questa malattia, quella leproma tosa e quella tubercoloide. Nel primo caso, i pazienti
presentano un titolo elevato di anticorpi specifici, ma una debole risposta cellulo-mediata, per cui i
micobatteri proliferano all’interno dei macrofagi portando alla formazione di lesioni a carico della cute e dei
tessuti sottostanti. Per contro, i pazienti con lebbra tubercoloide mostrano una forte immunità cellulare
associata ad una modesta risposta anticorpale. Questo diverso tipo di risposta si riflette nella formazione di
granulomi attorno alle terminazioni nervose che provocano deficit sensoriale e lesioni secondarie della cute
di origine traumatica.

Anche i batteri intracellulari possono eludere le risposte immunitarie:

BATTERI INTRACELLULARI
MECCANISMO DI ELUSIONE IMMUNITARIA ESEMPI
Inibizione della formazione dei fagolisosomi Mycobacterium tubercolosis
Legionella penumophila
Neutralizzazione delle specie reattive all’ossigeno Mycobacterium leprae
Rottura della membrana dei fagosomi, fuoriuscita Listeria monocytogenes
nel citoplasma

• IMMUNITA’ AI MICETI

Le infezioni da miceti, chiamate anche micosi o infezioni fungine, sono endemiche e sono solitamente
provocate dall’inalazione di spore di miceti presenti nell’ambiente. Altre infezioni sono definite
opportunistiche, poiché l’agente eziologico provoca solo lievi sintomi o è addirittura innocuo nei soggetti
sani, mentre può infettare e causare gravi patologie nei soggetti immunodeficienti. I principali mediatori
dell’immunità innatta contro i miceti sono i neutrofili e i macrofagi; difatto, pazienti neutropenici sono
estremamente sensibili alle infezioni da miceti opportunistici. Fagociti e DC riconoscono gli organismi
fungini attraverso particolari recettori lectinici, detti dectine. I neutrofili sono in grado di liberare sostanze
dotate di azione fungicida, come le specie reattive dell’ossigeno e gli enzimi lisosomiali. Inoltre, essi
possono fagocitare i miceti distruggendoli a livelli intracellulare. L’immunità cellulo-mediata rappresenta il
principale meccanismo di immmunità specifica contro le infezioni micotiche. Numerosi miceti extracellulari
stimolano intense risposte Th17 che sono indotte dalla attivazione delle DC che producono IL-6 e IL-23, che
stimolano il differenziamento verso Th17. Le risposte Th1 sono protettive nei confronti dele infezioni
micotiche ma possono indurre infiammazioni granulomatose. Infine, i miceti possono anche stimolare una
risposta anticorpale specifica che può essere protettiva.

• IMMUNITA’ AI VIRUS

I virus sono organismi intracellulari che usano i componenti degli acidi nucleici e i meccanismi di sintesi
proteica dell’ospite per replicarsi e propagarsi. Una volta penetrati nella cellula tramite recettori di
superficie, possono causare danno tissuale e malattie mediante numerosi meccanismi. La replicazione
virale interferisce con la sintesi proteica e con le normali funzioni della celulla, danneggiandola e
provocandone persino la morte litica. I virus non citopatici possono invece causare infezioni llatenti. I
principali meccanismi dell’immunità innata ai virus sono l’inibizione dell’infezione da parte degli IFN di tipo
1 e l’uccisione delle cellule infettate da parte delle NK. La produzione di IFN è attivata da diversi segnali,
come il legame del RNA e del DNA virale ai TLR endosomiali, l’attivaione da parte dell’RNA virale dei
recettori RIG, l’attivazione da parte del DNA virale dei recettori STING. Gli IFN di tipo I hanno la funzione di
inibire la replicazione virale, sia nelle cellule infettate che in quelle ancora indenni. Le NK uccidono le cellule
infette e costituiscono un meccanismo di difesa durante le prime fasi dell’infezione virale, prima che
intervengono risposte specifiche. L’espressione di MHC I è spesso ridotta nelle cellule infettate da virus,
permettendo loro di sfuggire al riconoscimento da parte dei CTL ma rendendole suscettibili all’azione litica
delle NK.

L’immunità specifica alle infezioni virali è mediata dagli anticorpi che bloccano l’ingresso del virus nelle
cellule bersaglio e dai CTL che eradicano l’infezione uccidendo le cellule infettate. Gli anticorpi più efficienti
sono quelli ad alta affinità prodotti nelle aree T-dipendenti dei centri germinativi. Essi sono efficaci solo in
due momenti dell’infezione: nella fase precose, prima dell’ingresso del virus nella cellula bersaglio, oppure
quado un virus citopatico viene liberato in seguito alla lisi delle cellule infettate. In effetti, gli anticorpi
antivirali svolgono principalmente la funzione di neutralizzare il virus, prevenendone l’adesione e l’ingresso
nella cellula. Le IgA svolgono un ruolo essenziale in questo senso, soprattutto a livello mucosale. Gli
anticorpi possono anche opsonizzare le particelle virale, promuovendone la rimozione ad opera dei fagociti.
Infine, anche l’attivazione del complemento può partecipare all’immunità celluare.

L’eliminazione dei virus che risiedono all’interno della cellula è mediata dai CTL. Molti CTL virus-specifici
sono linfociti CD8+ che riconoscono i peptidi virali citosolici; se la cellula infettata è una semplice cellula
tissutale e non una APC professionale, essa può essere fagocitata dalle DC, che provvedono al
processamento degli antigeni virali e alla loro presentazione ai linfociti T CD8+ (cross-printing).

Nelle infezioni latenti, il DNA virale persiste nella cellula ospite senza che il virus vada incontro a replicazioni
e senza che uccida la cellula infettata. La letanza è quindi uno stato di equilibrio tra infezione e risposta
immunitaria. I CTL possono controllare l’infezione, senza eradicarla; per cui, il virus permane nelle cellule
infettate, talvolta anche a vita.

In alcune infezioni tissutali, talvolta, può accadere che il danno tissutale sia causato dai CTL. Per esempio, in
corso di infezione da HBV (virus dell’epatite B) gli individui immunodeficienti si infettano ma non
sviluppano la malattia, diventando portatori cronici in grado di trasmettere l’infezione ad altri. Il fegato dei
pazienti con epatite cronica contiene un numero elevato di CD8+. Una conseguenza della persistenza del
virus è la formazione di immunocomplessi circolanti composti da antigeni virali e anticorpi specifici, che si
depositano nei vasi causando vasculiti sistemiche.

Purtroppo, anche i virus hanno sviluppato delle tecniche per eludere le difese:

1. Possono modificare i loro antigeni cessando di essere riconosciuti dalle cellule immuni. I genomi dei
virus vanno incontro a mutazioni dei geni che codificano per le proteine di superficie (deriva
antigenica). Il riarrangiamento dei geni virali causa una modificazione importante della struttura
dell’antigene, chiamata shift antigenico, che genera nuovi virus, resistenti all’immunità dei virus
generati dalle epidemie precedenti (es. influenza aviaria e influenza suina).
2. Alcuni virus impediscono l’associazione dei loro antigeni proteici citosolici con MHC I. I virus
producono una vasta gamma di proteine che possono bloccare diverse fasi nel processamento,
trasporto e presentazione dell’antigene, bloccando l’assemblaggio e l’espressione delle MHC I e
dunque la presentazione degli antigeni virali. Ne consegue che le cellule infettate non possono
essere riconosciute dai CTL. Tuttavia, le NK possono rappresentare una risposta efficace, anche se
alcuni virus possono ache produrre proteine che si comprotano da ligandi per i recettori inibitori
delle NK, impedendone l’attivazione.
3. Alcuni virus producono molecole che inibiscono le risposte immunitarie. Il virus di Epstein-Barr
produce una proteina omologa a IL-10, dotata di azione soppressiva sui macrofagi, che può quindi
inibire l’immunità cellulo-mediata.
4. Alcune infezioni virali croniche si accompagnano a deficit della risposta CTL. In sostanza, i virus
hanno imparato a trarre giovamento dai meccanismi fisiologici di regolazione delle risposte
immunitarie, utilizzandole dunque a proprio favore durante l’infezione. Le risposte contro i virus
vengono avviate ma si interrompono prematuramente (esaurimento della risposta). È stato
osservato per l’infezione da HIV e virus dell’epatite.
5. I virus possono infettare, uccidere o inattivare le cellule immunocompetenti. Ne è un ovvio
esempio l’infezione da HIV.

• IMMUNITA’ AI PARASSITI

Il concetto di infezione parassitaria si riferisce all’infezione di microorganismi come protozoi, elminti ed


ectoparassiti (es. zecche, acari, ecc.). La maggior parte dei parassiti presenta un complesso ciclo biologico,
una parte del quale si verifica nell’uomo, mentre l’altra si svolge in ospiti intermedi, come mosche, zecche e
lumache. L’uomo viene spesso infettato da una puntura di un insetto o dall’esposizione ad acque infette.
Anche se molti protozoi ed elminti attivano diversi meccanismi dell’immunità innata, spesso essi riescono
comunque a sopravvivere e moltiplicarsi nei loro ospiti, poiché hanno acquisito la capacità di resistere alle
difese. La principale risposta innata è la fagocitosi, anche se molti elminti sono dotati di tegumenti che li
rendono resistenti ai meccanismi citotossici dei neutrofili e dei macrofagi.

Il principale meccanismo di difesa contro i protozoi che sopravvivono all’interno dei macrofagi è l’immunità
cellulo-mediata, in particolare l’attivazione dei macrofagi da parte delle citochine prodotte dai Th1. I
protozoi che si replicano nella cellula, causandone la lisi, stimolano risposte anticorpali e citotossiche
specifiche del tutto simili a quelle causate dai virus citopatici. Un esempio significativo è rappresentato dal
virus della malaria, che risiede prevalentemente negli eritrociti e negli epatociti che svolgono azione
citotossica. La difesa contro molte infezioni elmintiche è dovuta all’attivazione di Th2 che portano alla
produzione di IgE e all’attivazione degli eosinofili.

Anche i parassiti hanno evoluto tecniche di elusione immunitaria:

MECCANISMO DI ELUSIONE IMMUNITARIA ESEMPI


Variazione degli antigeni Tripanosomi
Plasmodium
Acquisizione della resistenza al complemento o ai Schistosomi
CTL
Inibizione delle risposte immunitarie Filaria
Tripanosomi
Liberazione degli antigeni in forma solubili Entamoeba
• STRATEGIE PER LO SVILUPPO DI VACCINI

TIPO DI VACCINO ESEMPIO


Batteri vivi attenuati e uccisi: vengono ottenuti Bacillo di Calmette-Guerin
trattando il microrganismo in modo da attenuarne Colera
la virulenza o uccidendolo senza alterarne
l’immunogenicità
Virus vivi attenuati (più efficaci) Poliomielite
Rabbia
Vaccini a subunità purificati dal microrganismo o Tossoide tetanico
dalle sue tossine inattivate, generalmente Tossoide difterico
somministrati con un adiuvante
Vaccini coniugati (coniugazione di polisaccaridi ad Haemophilus influenzae
antigeni proteici) Pneumococco
Vaccini sintetici (tramite tecnologia di DNA Epatite
ricombinante)
Vettori virali (introduzione di geni codificanti per Sperimentazione clinica con antigeni dell’HIV nel
antigeni microbici in virus non citopatici, per poi vettore del vaiolo del canarino
infettare i soggetti con i virus così modificati)
Vaccini a DNA (inoculo di un plasmide contenente Studi clinici in corso per molte infezioni
un cDNA codificante per un antigene proteico,
determinando una risposta umorale all’antigene
stesso)

CAPITOLO 17: IMMUNOLOGIA DEI TRAPIANTI

Il trapianto di cellule o tessuti da un individuo ad un altro geneticamente diverso è sempre seguito da


rigetto causato dall’immunità adattiva. Questo problema si presenta già durante i primi tentativi iniziali di
sostituire, in pazienti ustionati, la cue lesa con quella di donatori occasionali: infatti, nell’arco di 1 o 2
settimane la cuta trapiantata andava incontro a necrosi, con conseguente distacco e perdita dall’impianto
cutaneo. Questa reazione di tipo infiammatorio viene in generale definita rigetto. Esso si manifesta nei 10-
14 giorni successivi al primo trapianto da donatore a ricevente non compatibile (rigetto di primo livello), ma
è ancora più veloce in caso di un secondo trapianto dallo stesso donatore allo stesso ricevente che abbia già
rigettato il primo trapianto (rigetto di secondo livello), questo perché il ricevente ha già sviluppato una
memoria immunologica nei confronti del tessuto trapiantato. Tuttavia, se il donatore è diverso il rigetto
può avvenire più lentamente o non avvenire affatto. Un trapianto da un individuo allo stesso individuo è
definito trapianto autologo (autotrapianto); un trapianto tra due individui geneticamente identici è
definito trapianto singenico; un trapianto tra due individui geneticamente diversi ma appartenenti alla
stessa specie è definito trapianto allogenico (allotrapianto); un trapianto tra individui appartenenti a
specie diverse è detto trapianto xenogenico (xenotrapianto). Le molecole riconosciute come estranee
nell’allotrapianto sono dette alloantigeni, mentre quelle dello xenotrapianto sono dette xenoantigeni.
Linfociti e anticorpi che reagiscono contro alloantigeni e xenoantigeni sono detti alloreattivi e xenoreattivi.

Gli antigeni che stimolano le risposte immunitarie adattive nei confronti dei trapianti allogenici sono
proteine di istocompatibilità, codificate da geni polimorfici che differiscono da un individuo ad un altro. In
generale:
• Cellule o organi trapiantati tra individui geneticamente identici non vengono MAI rigettati (es.
gemelli identici).
• Cellule o organi trapianti tra individui geneticamente non identici vengono SEMPRE rigettati.
• Le prole che deriva dall’incrocio tra due diversi ceppi animali inbred (geneticamene identici e
omozigoti per tutti i geni) non rigetta i trapianti provenienti dai genitori (questa regola non vale per
i trapianti di midollo osseo).
• Un trapianto che deriva dalla prole di un incrocio tra due diversi ceppi animai inbred sarà rigettato
dai genitori.

Questi risultati sperimentali suggeriscono che le molecole responsabili del rigetto siano polimorfiche e che
la loro espressione sia codominante (ogni individuo eredita geni codificanti per queste molecole da
entrambi i genitori ed entrambi gli alleli vengono espressi). Gli antigeni del trapianto differiscono da un
individuo all’altro di una specie (eccetto nei gemelli omozigoti) o tra animali di ceppi inbred diversi. Le
molecole responsabili delle reazioni acute e rapide di rigetto sono chiamate molecole del complesso
maggiore di istocompatibilità (MHC). I trapianti tra due individui diversi sono sempre rigettati perché le
molecole codificate da questi geni sono così polimorfe che non esistono individui che condividano lo stesso
assetto di geni del complesso maggiore di istocompatibilità. Le MHC stesse fungono da antigeni in un
trapianto non compatibile. In qualsiasi trapianto, esistono ulteriori antigeni polimorfi contro i quali il
ricevente può allestire una risposta immunitaria: questi antigeni solitamente inducono reazioni di rigetto
deboli o più lente rispetto alle MHC e sono perciò detti antigeni minori di istocompatibilità. Sono costituiti
da proteine processate e presentate ai linfociti T dell’ospite in associazione alle MHC self espresse da APC.
Nell’uomo, il rischio di rigetto è leggermente superiore se il donatore è di sesso maschile e il ricevente di
sesso femminile, rispetto a trapianti tra individui dello stesso sesso.

Le MHC allogeniche di un trapianto possono essere presentate ai linfociti T del ricevente in due modi molto
diversi, definiti via diretta e via indiretta:

• Riconoscimento diretto: i linfociti T di un individuo che riceve trapianto riconoscono le MHC


intatte, non processate, dell’organo trapiantato.
In questo caso, le MHC intatte vengono riconosciute dei linfociti T senza che debbano essere
processate dalle APC: i geni del TCR si sarebbero evoluti per codificare una struttura del recettore
con un’affinità intrinseca per le MHC; inoltre, durante lo sviluppo timico, la selezione positiva
promuove la sopravvivenza dei linfociti T dotati di debole reattività nei confronti delle MHC self, e
tra queste potrebbero anche esserci cellule dotate di alta affinità per le MHC allogeniche. La
selezione negativa non necessariamente elimina i linfociti T con elevata affinità per MHC
allogeniche, semplicemente perché esse non sono presenti nel timo. Normalmente, le MHC
presenti in membrana sono associate ad un peptide e in alcuni casi il peptide contribuisce alla
struttura che viene riconosciuta dai linfociti T alloreattivi. I complessi peptide-MHC allogeniche
sembreranno diversi dai complessi peptide self-MHC self. In altri casi, il riconoscimento diretto e
l’attivazione di un linfocita T alloreativo possono verificarsi indipendentemente dal tipo di peptide
presentato dall’MHC allogenica.
Le risposte dei linfcoiti T alle MHC allogeniche presentate direttamente sono molto forti perché la
frequenza dei linfociti T che possono riconoscre direttamente qualsiasi MHC allogenica singola è
molto alta. Questo può essere spiegato da tre teorie:
• Molti peptidi derivati dalle proteine del donatore possono combinarsi con una singola MHC
allogenica e ciascuna di queste combinazioni peptide-MHC può teoricamente attivare un
diverso clone di linfociti T del ricevente.
• Ogni APC esprime migliaia di copie di MHC diverse sulla sua superficie e, se si tratta di MHC
non self, molte di esse possono essere riconosciute da linfociti T alloreattivi.
• Molti dei linfociti T che rispondono ad una molecola MHC allogenica sono linfociti T della
memoria, popolazioni espanse che rispondono più rapidamente e con maggiore affinità.
• Riconoscimento indiretto: a volte, i linfociti T del ricevente riconoscono MHC del trapianto solo nel
contesto delle molecole MHC del ricevente. Questo significa che le APC del ricevente presentano,
tramite MHC e ai linfonodi, proteine associate all’MHC allogenico.
Le MHC allogeniche, che hanno sequenze aminoacidiche differenti da quelle del ricevente, possono
dare origine a peptidi che, associati alle molecole MHC self del ricevente, vengono espressi sulle
APC del ricevente. La presentazione indiretta induce l’alloriconoscimento da parte dei CD4+ perché
l’alloantigene è catturato e processato dalle APC dell’ospite nelle vescicole endosomiali ed è quindi
presentato alle MHC II. È anche possibile che gli antigeni delle cellule del trapianto, una volta
fagocitati, entrino nella via di presentazione in classe I e vengano quindi riconosciuti dai CTL.

Diretto o indiretto che sia, il riconoscimento rappresenta la prima tappa del rigetto, che ha luogo
probabilmente nei linfonodi che drenano il trapianto.

Le risposte dei linfociti T nei confronti di un organo trapiantato iniziano nei linfonodi drenanti. La maggior
parte degli organi contiene APC residenti che esprimono MHC allogeniche del donatore. Le APC del
donatore migrano ai linfonodi regionali e qui presentano le MHC allogeniche non processate ai linfociti T
del ricevente; possono poi nuovamene ritornare nel tessuto trapiantato, captare gi alloantigeni allogenici e
trasportarli ai linfonodi drenanti, dove vengono presentati (via indiretta). I linfociti naive che normalmente
circolano nel linfonodo vengono in contatto con gli alloantigeni e sono indotti a proliferare e a differenziarsi
in cellule effettrici (sensibilizzazione agli alloantigeni). I linfociti T effettori poi raggiungono il trapianto e ne
causano il rigetto. I linfociti della memoria non devono necessariamente incontrare gli antigeni per essere
attivati ma possono migrare direttamente nei trapianti, dove sono attivati dalle APC che presentano
l’alloantigene. Oltre al riconoscimento dell’alloantigene, l’attivazione dei linfociti T alloreattivi richiede che i
linfociti T siano appropriatamente costimolati da parte di molecole della famiglia B7 espresse dalle APC.
L’espressione delle molecole costimolatorie sembra essere la conseguenza del danno da ischemia e della
morte di alcune cellule dell’organo nel periodo che segue il prelievo fino al termine delle anastomosi
vascolari.

La risposta dei linfociti alloreattivi alle MHC può essere studiata in vitro mediante la tecnica linfocitaria
mista (MLR), modello che permette il riconoscimento diretto delle MHC allogeniche da parte dei linfociti T.
Si osserva coltivando leucociti mononucleati di un individuo con leucociti mononucleati di un altro
soggetto; se i due individui hanno distinti MHC, un’ampia percentuale di linfociti prolifererà nell’arco di 4-7
giorni; se le cellule differiscono per l’MHC, possono reagire le une contro le altre e proliferare, dando
origine ad una MLR a due vie.

I linfociti CD4+ e CD8+ attivati dagli alloantigeni causano il rigetto del trapianto attraverso due meccanismi
distinti. I T helper differenziati producono citochine che danneggiano il trapianto, provocandone
un’infiammazione; i CTL uccidono direttamente le cellule del trapianto che esprimono MHC I allogeniche,
secernendo inoltre citochine pro-infiammatorie. Solo CTL capaci di alloriconoscimento diretto possono
uccidere direttamente le cellule del trapianto, mentre CTL o T helper generati dal riconoscimento diretto o
indiretto degli alloantigeni agiscono attraverso il rilascio di citochine citotossiche.
Anche anticorpi specifici per gli antigeni del trapianto contribuiscono al rigetto. Molti degli alloanticorpi ad
alta affinità sono prodotti dai linfociti B alloreattivi attivati dai T helper. La sequenza di eventi più probabile
per l’attivazione di cellule che producono alloanticorpi è:

1. Riconoscimento delle MHC allogeniche da parte dei linfociti B naive;


2. Internalizzazione e processamento di queste proteine;
3. Presentazione dei loro peptidi ai T helper già precedentemente attivati.

Usando il trapianto di rene come riferimento, il quadro istopatologico di rigetto può essere definito come
iperacuto, acuto o cronico:

• RIGETTO IPERACUTO: è caratterizzato dall’occlusione trombotica dei vasi del trapianto, che
inizia entro pochi minuti o poche ore dall’anastomosi dei vasi sanguigni del ricevente con i vasi
del trapianto ed è mediata da anticorpi preesistenti nel circolo dell’ospite che riconoscono gli
antigeni endoteliali del donatore. Il legame degli anticorpi all’endotelio del trapianto attiva il
complemento, che porta ad un danno endoteliale e all’esposizione di proteine di membrana
basale subendoteliale che attiva le piastrine. Le cellule endoteliali sono stimolate a secernere
forme ad alto peso del fattore di Von Willebrand, mediatore dell’adesione piastrinica. Sia le
cellule endoteliali che le piastrine vanno incontro a vescicolazione della membrana, con
conseguente liberazione di particelle lipidiche che favoriscono la coagulazione. Le cellule
endoteliali perdono i proteoglicani eparan-solfato di superficie che interagiscono con
l’antitrombina III per inibire la coagulazione. Questi processi contribuiscono alla trombosi e
all’occlusione vascolare e l’organo trapiantato va incontro a necrosi ischemica irreversibile. Nei
primi giorni dopo il trapianto, il rigetto è spesso mediato da alloanticorpi IgM, di cui i più noti
esempi sono quelli diretti contro gli antigeni di gruppo sanguigno AB0 espressi dai globuli rossi.
Attualmente, il rigetto iperacuto è solitamente mediato da IgG diretti contro alloantigeni
proteici. Se i livello di tali anticorpi è basso, il rigetto iperacuto può svilupparsi lentamente,
nell’arco di alcuni giorni con esordio comunque più precoce di quello che caratterizza il rigetto
acuto. Un meccanismo di resistenza al rigetto iperacuto è l’aumento dell’espressione di
proteine che inibiscono il complemento da parte delle cellule endoteliali del trapianto
(accomodamento).
• RIGETTO ACUTO: è un processo di danno vascolare e parenchimale dovuto all’azione dei T
alloreattivi e degli anticorpi. La cinetica di comparsa del rigetto acuto è legata al tempo
necessario per generare linfociti T effettori alloreattivi e gli anticorpi in risposta al trapianto.
Nella pratica clinica, gli episodi di rigetto acuto possono verificarsi anche in tempi distanti,
addirittura anni dopo, quando la terapia immunosoppressiva debba essere per qualche ragione
interrotta. Esistono due meccanismi di rigetto acuto:
• Meccanismi cellulari: consistono nell’infiammazione causata dalle citochine prodotte dai T
helper e nella morte indotta dai CTL in cellule parenchimali ed endoteliali del trapianto. Negli
allotrapianti di rene, in particolare, all’esame istologico si rendono spesso evidenti degli
infiltrati di linfociti T helper e CTL specifici per gli alloantigeni del trapianto ed entrambi questi
tipi di linfociti possono contribuire al danno a carico delle cellule parenchimali ed endoteliali.
• Ruolo degli anticorpi: gli alloanticorpi causano il rigetto acuto legandosi agli alloantigeni,
soprattutto a molecole HLA, sulla superficie delle cellule dell’endotelio vascolare, provocando
danno endoteliale e trombosi intravascolare che porta alla distruzione del trapianto. Il legame
con l’alloanticorpo induce l’attivazione locale del complemento, che determina la lisi cellulare,
il reclutamento e l’attivazione dei neutrofili e la formazione del trombo; si può anche verificare
un’alterazione delle funzioni endoteliali. All’esame istologico si osserva infiammazione acuta
dei glomeruli e dei capillari peritubulari con trombosi focale dei capillari.
• RIGETTO CRONICO E VASCULOPATIA DEL TRAPIANTO: con il miglioramento della terapia per il
rigetto acuto, il rigetto cronico è diventato la causa principale del malfunzionamento degli
organi trapiantati vascolarizzati. La principale lesione che caratterizza questo tipo di rigetto è
l’occlusione delle arterie, una conseguenza della proliferazione delle cellule muscolari lisce
della tonaca intima. Questo determina la perdita di funzionalità del trapianto, soprattutto a
causa del conseguente danno ischemico. La vascolopatia è un fenomeno che si sviluppa spesso
nei trapianti di cuore e di rene e potrebbe essere determinata dall’attivazione dei linfociti T
alloreattivi e dalla produzione di citochine in grado di stimolare la proliferazione della
muscolare liscia vasale. Con il progredire del rigetto, l’apporto di sangue all’organo diminuisce e
il parenchima viene progressivamente sostituito da tessuto fibroso non funzionale. Il rigetto
cronico porta a scompenso cardiaco e aritmie nei pazienti con trapianto di cuore e a perdita
della funzionalità tubulare e insufficienza renale nei pazienti con trapianto di rene.

Nel trapianto su esseri umani, la principale strategia per ridurre l’immunogenicità del trapianto consiste nel
ridurre le differenze genetiche tra il donatore e il ricevente. Per evitare il rischio di rigetto iperacuto, gli
antigeni del gruppo sanguigno del donatore vengono selezionati in modo da essere compatibili con quelli
del ricevente. Questo viene abitualmente attuato in caso di trapianto di rene o di cuore, perché tali
trapianti solitamente non sopravvivono se vi sono incompatibilità tra il gruppo sanguigno del donatore e
del ricevente. Nel trapianto renale, maggiore è il numero di alleli MHC condivisi da donatore e ricevente,
migliore sarà la sopravvivenza del trapianto. In particolare, poiché vengono ereditate due alleli espressi in
modo codominante da ognuno dei geni HLA, è possibile che vi siano da zero a sei mismatch di HLA per i loci
HLA-A, HLA-B e HLA-DR tra donatore e ricevente. Se si verifica mismacth per zero antigeni, la sopravvivenza
del trapianto sarà massima; se si verifica mismacth per un antigene avremo una sopravvivenza inferiore; la
sopravvivenza con un mismacth compreso tra due e sei sarà progressivamente peggiore. La ricerca della
compatibilità per HLA nel trapianto di rene è possibile perché i reni del donatore possono essere conservati
fino a 72 ore prima di essere trapiantati e i pazienti che necessitano di allotrapianto renale possono essere
mantenuti in dialisi finchè non è disponibile un organo che presenti una buona compatibilità. Nel caso di
trapianti di cuore e fegato, la conservazione dell’organo risulta più difficoltosa. Nei pazienti che necessitano
di allotrapianti viene anche studiata la presenza di anticorpi preformati contro molecole MHC del donatore
o altri antigeni di superficie. Questi anticorpi, che possono essere stati prodotti in seguito a precedenti
gravidanze, trasfusioni o trapianti, possono stimare il rischio di rigetto vascolare iperacuto o acuto.

I farmaci immunosoppressori che inibiscono o uccidono i linfociti T rappresentano il principale regime


terapeutico nel rigetto del trapianto:

• Inibitori dell’attivazione dei linfociti T: gli inibitori della calcineurine (ciclosporina e tacrolimus)
inibiscono la trascrizione di alcuni geni dei linfociti T, in particolare quelli che codificano per le
citochine, come l’IL-2. La ciclosporina è un peptide ciclico di origine fungina che si lega alla
ciclofillina, inibendo l’attività enzimatica della calcineurina, una serina-treonina-fosfatasi attivata da
complesso calcio/calmodulina. La ciclosporina inibisce l’attivazione di NFAT (Nucleare Factor og
Activated T cells), inibendo la trascrizione dei geni dell’IL-2 e di altre citochine e, di conseguenza, la
differenziazione dei linfociti T. Oggi, con l’uso della ciclosporina, la maggior parte dei trapianti
sopravvive per più di 5 anni. La rapamicina (sirolimus) impedisce la proliferazione dei linfociti T
attivata da fattori di crescita.
• Antimetaboliti: nel trattamento del rigetto si utilizzano anche citostatici che uccidono i linfociti T
proliferanti. Ne è un esempio l’MMF, mofetil micofenolato.
• Anticorpi antilinfociti in grado di eliminare o bloccare le funzioni dei linfociti: la terapia del rigetto
acuto utilizza anche anticorpi che uccidono o inibiscono i linfociti T, reagendo con alcune loro
proteine di membrana. Ne è un esempio l’anticorpo murino monoclonale detto OKT3, specifico per
il CD3. Un limite, tuttavia, all’utilizzo di anticorpi monoclonali e policlonali è dato dalla produzione
da parte dei pazienti trapiantati, di anticorpi neutralizzanti le immunoglobuline terapeutiche.
• Blocco delle molecole costimolatorie: i composti che bloccano le vie di costimolazione dei linfociti
T riducono il rigetto acuto dei trapianti. Il meccanismo consiste nel prevenire l’attivazione dei
segnali costimolatori richiesti per l’attivazione dei linfociti T da parte delle APC.
• Farmaci contro alloanticorpi e linfociti B reattivi
• Farmaci antinfiammatori: sono regolarmente usati per ridurre la reazione infiammatoria contro
l’allotrapianto; tra questi, i più potenti sono i corticosteroidi. Gli attuali protocolli
immunosoppressivi hanno radicalmente migliorato la sopravvivenza dei trapianti.
L’immunosoppressione prolungata richiesta per una sopravvivenza a lungo termine del trapianto
causa un aumento della suscettibilità alle infezioni intracellulari e ai tumori maligni associati a virus.
• Metodi per indurre la tolleranza specifica al donatore:
- Blocco della costimolazione
- Chimerismo ematopoietico
- Trasferimento o induzione di cellule T regolatorie

Per quanto riguardo invece i trapianti xenogenici, una delle principali barriere immunologiche opposte ad
esso è la presenza di anticorpi naturali nei riceventi umani, che provoca il rigetto iperacuto. I maiali sono la
specie xenogenica di elezione per la donazione all’uomo. Gli anticorpi naturali contro gli xenotrapianti
inducono un rigetto iperacuto simile a quello osservato in corso di allotrapianto. Questo rigetto si verifica di
solito entro 2-3 giorni (rigetto ritardato dello xenotrapianto, rigetto acuto accelerato o rigetto vascolare
acuto) ed è caratterizzato da trombosi intravascolare e necrosi fibrinoide delle parete vascolari. Gli
xenotrapianti possono anche essere rigettati a causa di una risposta T che può essere persino più forte di
quella che si verifica negli allotrapianti.

La trasfusione di sangue è una forma di trapianto in cui il sangue intero o le cellule del sangue di uno o più
donatori sono trasferiti per via endovenosa; viene eseguita per ripristinare il sangue dopo un’emorragia o
per correggere anomalie ematiche. Il maggior ostacolo al successo della trasfusione consiste nella risposta
immunitaria a molecole di superficie che sono diverse tra gli individui. Il sistema alloantigenico è quello
AB0: gli antigeni AB0 sono carboidrati legati a proteine di membrana sintetizzati dalle glicosiltransferasi,
enzimi polimorfi la cui attività dipende dagli alleli ereditati. Tutti gli individui normali sintetizzano una
struttura comune di glicano, che è attaccato alle proteine della membrana plasmatica. La maggior parte dei
soggetti possiede una fucosiltransferasi, che trasferisce un residuo di fucosio ad un residuo non terminale
di zucchero della struttura del glicano; il glicano fucosilato è detto antigene H. Un singolo gene localizzato
sul cromosoma 9 codifica per una glicosiltransferasi che può modificare ulteriormente l’antigene H.
Esistono tre varianti alleliche di questo gene: il gene dell’allele 0 è sprovvisto di attività enzimatica; l’enzima
codificato dall’allele A trasferisce un residuo terminale di N-acetilgalattosammina sull’antigene H; il
prodotto del gene dell’allele B ne trasferisce uno di galattosio. I soggetti omozigoti per l’allele 0 non
possono coniugare nessuno zucchero all’antigene H; i soggetti che dispongono di almeno un allele A
(omozigoti AA o eterozigoti A0/AB) formano l’antigene A aggiungendo una N-acetilgalattosamina ad alcuni
antigeni H. Analogamente, i soggetti che esprimono almeno un allele B (omozigoti BB o eterozigoti B0/AB)
formano l’antigene B aggiungendo un galattosio ad alcuni dei loro antigeni H. Gli eterozigoti AB formano
antigeni sia A sia B da alcuni dei loro antigeni H. Gli individui omozigoti per una mutazioni del gene che
codifica per la fucosiltransferasi si dice che hanno il gruppo sanguigno Bombay e non possono produrre
antigeni H, A o B né ricevere sangue di tipo 0, A, B o AB. Gli individui che esprimono un particolare antigene
del gruppo sanguigno A o B sono tolleranti a quell’atigene, ma gli individui che non esprimono
quell’antigene producono anticorpi naturali che riconoscono l’antigene.

GRUPPO ANTICORPI PRESENTI ANTIGENI PRESENTI


A Anti-B Antigene A
B Anti-A Antigene B
AB Nessuno Antigene A
Antigene B
0 Anti-A Nessuno
Anti-B
Nelle trasfusioni, la scelta del donatore si basa sull’espressione degli antigeni dei gruppi sanguigni e delle
risposte anticorpali contro tali antigeni. Nel caso di trasfusione di sangue non compatibile, si avrà una
reazione trasfusionale, che può scatenare un’immediata rezione emolitica, provocando lisi intravascolare
dei globuli rossi e fagocitosi massiccia degli eritrociti legati agli anticorpi e al complemento da parte dei
macrofagi epatici e splenici; l’emoglobina viene liberata dai globuli rossi lisati, in quantità tali da risultare
tossica per le cellule renali, provocando necrosi acuta delle cellule tubulari e insufficienza renale. Possono
anche comparire febbre alta, shock e coagulazione intravascolare disseminata come conseguenza del
rilascio massivo di citochine. Il paziente può paradossalmente morire di emoraggia in presenza di
coagulazione diffusa e reazioni emolitiche più tardive possono anche condurre a progressiva perdita di
globuli rossi trasfusi, portando ad anemia e ittero come conseguenza del sovraccarico epatico di pigmenti
derivati dall’emoglobina.

Antigeni di altri gruppi sanguigni sono:

• Antigene Lewis: determinato dall’aggiunta di fucosio ad una catena laterale catalizzata da


differenti fucosiltransferasi.
• Antigene Rhesus (Rh): è una proteina idrofobica, non glicosilata, presente sulla membrana
plasmatica dei globuli rossi e strutturalmente correlata ad altre glicoproteine di membrana con
funzioni di trasporto. È codificata da due geni, di cui solo uno (RhD) è solitamente preso in
considerazione, poiché fino al 15% della popolazione presenta una delezione o altre alterazioni
di questo allele. Questi soggetti, detti Rh-negativi, non sono tolleranti verso l’antigene RhD e
possono produrre anticorpi se sono esposti a globuli rossi Rh-positivi. Il principale significato
clinico degli anticorpi anti-Rh è legato a reazioni emolitiche associate alla gravidanza, simili alla
reazione trasfusionale. Le madri Rh negative che hanno un feto Rh positivo possono essere
sensibilizzate da globuli rossi fetali che penetrano nella circolazione materna, di solito durante il
parto. Nella madre si generano anticorpi anti-Rh. Se nelle successive gravidanze il feto è
nuovamente Rh-positivo, il feto è a rischio, dal momento che gli anticorpi materni IgG anti-Rh
possono attraversare la placenta e causare la distruzione dei globuli rossi fetali (eritroblastosi
fetale). La malattia può essere prevenuta somministrando alla madre anticorpi anti-Rhd entro
72 ore dalla nascita del primo figlio Rh-positivo; questo trattamento uccide i globuli rossi Rh
positivi del figlio che sono entrati in circolo materno e impedisce la sensibilizzazione e la
produzione di anticorpi anti-Rh.
La reazione del trapianto contro l’ospite (GVHD) è causata dalla reazione dei linfociti T maturi
dell’inoculo di HSC (cellule staminali umane) contro gli alloantigeni dell’ospite. La GVHD acuta è
caratterizzata dalla morte delle cellule epiteliali, epatiche e gastrointestinali; la GVHC cronica è
caratterizzata da fibrosi e atrofia di uno o più organi, in assenza di evidente morte cellulare acuta. Il
trapianto di HSC è anche accompagnato, spesso, dall’immunodeficienza clinica.

CAPITOLO 18: IMMUNITA’ E TUMORI

La pericolosità dei tumori maligni è dovuta alla crescita incontrollata e al danno e deficit funzionale del
tessuto. La malignità di un tumore riflette il deficit di regolazione della proliferazione cellulare, la resistenza
delle cellule tumorali alla morte per apoptosi, la loro capacità di invadere i tessuti dell’ospite e formare
metastasi a distanza, nonché meccanismi di elusione delle difese immunitarie. Il concetto di
immunosorveglianza stabilisce che tra le funzioni fisiologiche del sistema immunitario vi siano il
riconoscimento e l’eliminazione dei tumori stessi dopo la loro formazione. Sia il sistema immunitario innato
che quello adattivo sono in grado di reagire nei confronti di molte neoplasie. In generale, possiamo dire
che:

• I tumori stimolano le risposte immunitarie adattive. Sebbene le cellule tumorali derivino dall’ospite,
i tumori stimolano le risposte immunitarie. Molti tumori sono infiltrati da cellule mononucleate
come i linfociti T, le NK e i macrofagi e i linfociti attivati e i macrofagi sono presenti nei linfonodi
drenanti la sede della crescita tumorale. Se si applica sulla cute di un topo inbred il carcinogeno
chimico metilcolantrene si può indurre sviluppo di sarcoma. Se il tumore indotto viene rimosso e
trapiantato in altri topi, esso continua a crescere. Viceversa, se le cellule prelevate dal tumore
originale vengono nuovamente trapiantate in topi in cui il tumore era originato, il topo le rietta e il
tumore non si sviluppa. Quindi, i linfociti T dell’animale in cui si è sviluppato il tumore possono
trasferire un’immunità protettiva nei confronti di quel tumore ad un animale privo di tumore;
pertanto, le risposte immunitarie verso i tumori presentano le caratteristiche distintive
dell’immunità adattiva, ossia specificità e memoria.
• Le risposte immunitarie spesso non riescono a prevenire lo sviluppo di tumori. Molti tumori
possiedono meccanismi specializzati per eludere le risposte; inoltre, le cellule tumorali derivano
dalle cellule dell’ospite stesso e pertanto somigliano molto a quella normali. I tumori che evocano
forti risposte immunitarie sono quelli generati da virus oncogeni, in cui le proteine virali si
comportano da antigeni estranei.
• Il sistema immunitario può essere attivato per uccidere efficacemente le cellule tumorali ed
eliminare la neoplasia.

La prima classificazione degli antigeni tumorali si basava sul loro profilo di espressione. Gli antigeni espressi
in modo selettivo dalle cellule tumorali vengono definiti antigeni tumore-specifici; alcuni sono tipici di un
singolo tumore mentre altri sono condivisi da tumori dello stesso tipo. Gli antigeni tumorali espressi anche
dalle cellule normali sono gli antigeni tumore-associati, nella maggior parte dei casi costituenti cellulari la
cui espressione è aberrante o sregolata nei tumori. Le principali classi di antigeni tumorali sono:

1. Prodotti dei geni mutati: gli oncogeni e i geni oncosoppressori mutati producono proteine che
differiscono dalle normali proteine cellulari e pertanto possono indurre una risposta immunitaria.
Molte neoplasie esprimono geni i cui prodotti sono necessari per la trasformazione maligna o per il
mantenimento del fenotipo maligno della cellula tumorale. Spesso, questi geni sono prodotti da
mutazioni puntiformi, delezioni o inserimenti di geni virali a carico di protoncogeni o geni
oncosoppressori, che producono proteine che possono seguite la via di presentazione dell’antigene
delle MHC I e II nelle DC che hanno fagocitato le cellule tumorali morte o corpi apoptotici derivati
dalle cellule tumorali. I prodotti di tali geni mutati sono assenti nelle cellule normali e per questo
non inducono tolleranza e i peptidi da essi codificati possono stimolare le risposte T. Alcuni pazienti
oncologici presentano in circolo linfociti T CD4+ e CD8+ in grado di rispondere ai peptidi codificati
dagli oncogeni mutati, per esempio da RAS, o ai peptidi nuovi derivati dalla fusione delle proteine
come Bcr/Abl generate dalle traslocazioni cromosomiche presenti nel tumore, nonché specifici per i
peptidi prodotti da oncosoppressori mutati come p53. La vaccinazione con le proteine RAS o p53
mutate induce la generazione di CTL specifici e determina il rigetto dei tumori che esprimono tali
mutanti. Gli antigeni tumorali possono essere prodotti da geni mutati casualmente i cui prodotti
non sono correlati con il fenotipo trasformato. Molti dei geni dei tumori più comuni nell’uomo
presentano un numero elevato di mutazioni tumore-specifiche, la maggior parte delle quali
coinvolge geni che non si credevano correlati allo sviluppo fenotipico del tumore.
2. Proteine espresse in modo anomalo ma prive di mutazioni: gli antigeni tumorali in grado di
scatenare risposte immunitarie possono essere costituiti da proteine normali espresse in modo
anomalo dalle cellule tumorali. Molti di questi antigeni sono stati identificati in tumori umani, come
i melanomi. Un esempio è rappresentato dalla tirosinasi, un enzima implicato della biosintesi della
melanina, espresso nei melanociti normali e nei melanomi; la tirosinasi viene prodotta in quantità
talmente piccole e da così poche cellule da non essere riconosciuta dal sistema immunitario e da
non indurre tolleranza; perciò, l’aumentata quantità, prodotta dalle cellule di melanoma, è in grado
di suscitare una risposta da parte del sistema immunitario. Gli antigeni tumorali/testicolari sono
proteine espresse nel gamete e nel trofoblasto, oltre che in numerosi tipi di tumori, ma mai nelle
cellule somatiche normali. Questi antigeni vennero chiamati MAGE e identificati anche per altri tipi
di tumore oltre al melanoma, come il carcinoma della vescica, della mammella, della cute, del
polmone e della prostata, nonché alcuni sarcomi.
3. Antigeni prodotti da virus oncogeni: i prodotti dei virus oncogeni si comportano da antigeni
tumorali ed evocano risposte specifiche T che possono servire ad eliminare i tumori. I virus a DNA
sono implicati nello sviluppo di una serie di tumori nel’uomo, come nel caso del virus di Epstein-
Barr, associato a linfomi a cellule B e al carcinoma nasofaringeo, e il papilloma virus umano (HPV),
associato a carcinomi della cervice uterina, dell’orofaringe e di altri siti, nonché anche l’herpevirus
associato a sarcoma di Kaposi. La comprensione che le risposte immunitarie verso i virus
proteggono gli individui dalle neoplasie causate dai virus stessi ha portato allo sviluppo di vaccini
contro i virus oncogeni, come nel caso dell’HPV. I virus oncogeni a RNA (retrovirus) sono importanti
cause di tumore nell’animale. I prodotti degli oncogeni retrovirali hanno teoricamente lo stesso
potenziale antigenico degli oncogeni cellulari mutati e si possono osservare risposte immunitarie
umorali e cellulari. L’unico retrovirus umano oncogeno noto è il virus-T-linfotropico umano di tipo
1, causa dell’eziologia di leucemia e linfoma a cellule T dell’adulto.
4. Antigeni oncofetali: gli antigeni oncofetali sono proteine espresse a elevati livelli dalle cellule
neoplastiche e dai tessuti fetali normali in via di sviluppo, ma non dai tessuti adulti. Geni che
codificano per queste proteine vengono repressi nel corso dello sviluppo e de-repressi nel corso
della trasformazione maligna. I due antigeni oncofetali meglio caratterizzati sono l’antigene
carcinoembrionale (espressione aumentata in caso di carcinoma del colon, del pancreas, dello
stomaco e della mammella) e l’α-fetoproteina (espressione aumentata in caso di carcinoma
epatocellulare, tumori a cellule germinali e, occasionalmente, tumori gastrici e pancreatici).
5. Antigeni costituiti da glicolipidi e glicoproteine alterati: glicolipidi e glicoproteine alterate possono
fungere da marker diagnostici nonché da bersaglio terapeutici. Esempi sono GM2 e GD2 nei
melanomi.
6. Antigeni di differenziazione tissutale: i tumori possono esprimere molecole che sono
normalmente espresse solamente dalle cellule del tessuto da cui il tumore ha avuto origine e non
da quelle di altri tessuti. Questi antigeni sono detti antigeni di differenziazione, perché sono
specifici di particolari stipiti o di alcuni stadi differenziativi cellulari. I linfomi possono essere
caratterizzati come tumori che derivano da linfociti B, per la presenza di marker di superficie tipici
di questo stipite cellulare, come CD10 e CD20. Gli anticorpi contro queste molecole sono utilizzati
per l’immunoterapia antitumorale; l’immunoterapia di maggior successo per il linfoma a cellule B
non-Hodgkin è l’anticorpo anti-CD20 (rituximab).

È stato dimostrato che le risposte immunitarie adattive, principalmente quelle dei linfociti T, controllano lo
sviluppo e la progressione dei tumori maligni:

• LINFOCITI T: il principale meccanismo di protezione dell’immunità adattiva nei confronti dei tumori
è l’uccisione delle cellule tumorali da parte dei CTL. Essi possono svolgere la funzione di
sorveglianza riconoscendo e uccidendo cellule potenzialmente maligne che esprimono peptidi
presentati in associazione a MHC I. Le cellule mononucleate presenti nell’inflitrato infiammatorio
dei tumori solidi includono proprio CTL in grado di uccidere il tumore dal quale sono stati purificati.
Le risposte CD8+ specifiche verso gli antigeni tumorali richiedono la cross presentazione da parte
delle DC. La maggior parte delle cellule tumorali non deriva dalle APC e pertanto non esprime le
molecole costimolatorie richieste per stimolare i linfociti T helper che promuovono la
differenziazione dei CD8+. Le cellule tumorali e i loro antigeni sono captati per fagocitosi dalle APC
dell’ospite, in particolare dalle DC, e gli antigeni tumorali vengono processati dalle APC stesse; esse
esprimono molecole costimolatorie che posson fornire segnali necessari per la differenziazione
delle CD8+ in CTL (cross-priming). I CD4+ possono verosimilmente avere un ruolo nelle risposte
immunitarie antitumorali fornendo le citochine necessaire per la differenziazione dei CD8+ naive in
CTL effettori e della memoria.
• Anticorpi: i soggetti portatori di tumore possono produrre anticorpi contro gli antigeni tumorali;
per esempio, pazienti con linfomi associati a EBV possiedono anticorpi sierici verso gli antigeni
codificati dall’EBV espressi sulla superficie delle cellule linfomatose. Gli anticorpi possono uccidere
le cellule tumorali tramite l’attivazione del complemento o la citotossicità cellulare anticorpo-
dipendente.
• NK: le NK possono uccidere molti tipi di cellule tumorali e in particolare quelle che hanno una
ridotta espressione di molecole MHC I e che esprimono i ligandi dei propri recettori attivatori. Le
NK rispondono anche in assenza di MHC I, in quanto vengono a mancare i segnali di tipo inibitorio
ad esse diretti. Alcuni tumori perdono l’espressione delle MHC I forse come risultato di una
selezione operata da parte dei CTL ai danni delle cellule che esprimono MHC I; tale perdita rende le
neoplasie ottimi bersagli delle NK. Inoltre, le NK possono riconoscere e lisare cellule tumorali
rivestite da IgG mediante il legame con il recettore Fc.
• Macrofagi: sono in grado sia di inibire che di promuovere la crescita e la diffusione metastatica del
tumore, a seconda del loro stato di attivazione. I macrofagi M1 (classicamente attivati) sono in
grado di uccidere molti tipi di cellule tumorali, attraverso gli stessi meccanismi utilizzati per i
microbi. Anche i macrofagi M2 contribuiscono a secernere il VEGF, il TGF-β e altri fattori solubili che
promuovono l’angiogenesi tumorale.
Molti tumori maligni sviluppano meccanismi che permettono di eludere le risposte immunitarie:

1. Mancata espressione di antigeni: la risposta immunitaria esercita una pressione selettiva sulle
cellule tumorali, promuovendo lo sviluppo di varianti dotate di ridotta immunogenicità, secondo un
processo chiamato immuno-editing tumorale. Mutazioni e delezioni a carico dei geni che codificano
per gli antigeni tumorali sono frequenti per via dell’elevato tasso di mitosi delle cellule tumorali e
della loro instabilità genetica; se questi antigeni non sono necessari per la crescita delle neoplasie o
per il mantenimento del fenotipo trasformato, le cellule tumorali prive di antigeni presentano un
vantaggio in termini di crescita rispetto al sistema immunitario dell’ospite. Si pensa quindi che i
processi di immuno-editing tumorale si trovino alla base dello sviluppo di tumori che eludono
l’immunosorveglianza.
2. Inibizione attiva delle risposte immunitarie: i tumori sono in grado di attivare meccanismi che
inibiscono le risposte immunitarie. Osservazioni cliniche e sperimentali hanno dimostrato che le
risposte dei linfociti T verso alcuni tumori sono inibite dall’azione dei recettori CTLA-4 e PD-1, due
delle vie inibitorie meglio conosciute nei linfociti T. I prodotti di secrezione delle cellule tumorali
possono sopprimere le risposte antitumore (es. il TGF-β può inibire la proliferazione e le funzioni
effettrici dei linfociti e dei macrofagi quando secreto in grandi quantità da molti tumori). I linfociti T
regolatori inibiscono le risposte T verso i tumori. I macrofagi associati ai tumori possono
promuovere la crescita e l’invasività tumorale alterando il microambiente tissutale e
sopprimemdno le risposte dei linfociti T. Le cellule soppressorie di derivazione mieloide (MDSC)
sono precursori mieloidi immaturi che vengono reclutati dal midollo osseo e si accumulano nei
tessuti linfoidi, nel sangue o nei tumori dove sopprimono le risposte antitumorali innate e dei
linfociti T. Comprendono una varietà di tipi cellulari, come precursori delle DC, dei monociti e dei
neutrofili; spengono l’immunità innata mediante la secrezione di IL-10, che inibisce varie funzioni
infiammatorie dei macrofagi attivati e delle DC.

Le principali tecniche di immunoterapia dei tumori comprendono:

• Vaccinazione con antigeni tumorali: l’immunizzazione di pazienti oncologici con gli antigeni
tumorali può aumentare la risposta immunitaria nei confronti del tumore. Le strategie vaccinali
impiegano diversi adiuvanti e diversi metodi di somministrazione.
- Alcune molecole pro infiammatorie vengono utilizzate per aumentare il numero di DC attivate
nel sito di vaccinazione (questi adiuvanti includono ligandi dei TLR come dsRNA, CpG DNA, ecc.)
- Gli antigeni tumorali sono somministrati sottoforma di vaccini a DC: le DC prelevate e purificate
vengono incubate con antigeni tumorali e poi nuovamente iniettate nel paziente.
- Un approccio alternativo si basa sull’uso di vaccini a DNA e vettori virali codificanti per gli
antigeni tumorali.

Nella maggior parte dei casi, i vaccini antitumorali sono terapeutici.

• Blocco dei circuiti inibitori per promuovere la risposta antitumorale: il blocco delle molecole
inibitorie dei linfociti T si è imposto come uno dei meccanismi più promettenti per l’effettivo
miglioramento delle risposte immunitarie antitumorali del paziente. Questa strategia si basa
sull’ipotesi che le cellule tumorali utilizzino alcuni dei normali circuiti di regolazione della tolleranza
immunologica per eludere le difese. Poiché tali circuiti rappresentano un checkpoint delle risposte
immunitarie, questo tipo di approccio terapeutico viene spesso definito blocco dei checkpoint.
• Potenziamento dell’immunità antitumorale dell’ospite con citochine: un approccio potenziale per
incrementare la risposta dell’ospite al tumore è di fornire, per via artificiale, citochine in grado di
aumentare l’attivazione delle DC e dei linfociti T tumore-specifici, in particolare dei CTL.
L’esperienza clinica più ampia riguarda IL-2 (somministrazione endovenosa in pazienti con
melanoma e carcinoma renale) e IFN-α (in pazienti con melanoma maligno e carcinomi, nonché
alcune leucemie e linfomi).
• Stimolazione aspecifica del sistema immunitario: le risposte antitumorali possono essere indotte
mediate la somministrazione topica di sostanze infiammatorie o la somministrazione sistemica di
agenti che funzionano come attivatori policlonali dei linfociti.

Un’altra terapia utilizzata è l’immunoterapia passiva: essa implica il trasferimento di cellule effettrici della
risposta immunitaria, come linfociti T tumore-specifici e immunoglobuline.

• Immunoterapia cellulare: consiste nel trasferimento di leucociti con attività antitumorale in un


ricevente affetto da tumore. La terapia adottiva che utilizza linfociti T ingegnerizzati per esprimere
recettori chimerici per l’antigene (CAR) si è dimostrata efficace conro alcune patologie
ematologche maligne. I CAR sono recettori geneticamente ingegnerizzati dotati di siti di legame
antigene-specifici codificati da geni variabili di immunoglobuline e di code citoplasmatiche
contenenti i domini responsabili della trasduzione del segnale, sia del recettore per l’antigene che
delle molecole costimolatorie. I protocolli attuali prevendono l’isolamento dei linfociti T dal sangue
periferico, la loro stimolazione con anticorpi anti-CD3 e/o anti-CD28 e loro trasduzione con vettori
che codificano per CAR. I linfcoiti T esprimenti CAR sono poi espansi in vitro e iniettati nuovamente
al paziente, dove vanno incontro a forte proliferazione in seguito al riconoscimento dell’antigene
tumorale. L’eliminazione del tumore si verifica tramite meccanismi citotossici diretti e mediati da
citochine. Esempi di tumori curati in questo modo sono la leucemia linfocitica cronica e la leucemia
linfoblastica acuta, curate con linfociti T in grado di esprimere CAR specifici per CD19. Con questo
approccio vengono anche eliminati i linfociti B normali, tuttavia i pazienti tollerano questa terapia
in quanto le cellule a lunga sopravvivenza che producono anticorpi non esprimono CD19 e non
sono danneggiate.
• Effetto reazione del trapianto verso leucemia: nei pazienti affetti da leucemia, la
somministrazione di linfociti T ed NK insieme a cellule staminali emopoietiche da donatore
allogenico può contribuire ad eradicare il tumore, grazie al riconoscimento dei linfociti T del
donatore delle MHC allogeniche presenti sulle cellule emopoietiche, comprese le cellule
leucemiche, del ricevente. Le NK del donatore rispondono alle cellule tumorali in quanto i tumori
esprimono bassi livelli di MHC I, molecole che inibiscono l’attivazione delle NK stesse.
• Terapia con anticorpi tumore-specifici: gli anticorpi monoclonali tumore-specifici possono essere
utili per l’immunoterapia dei tumori.
SPECIFICITA’ DELL’ANTICORPO FORMA DELL’ANTICORPO USO CLINICO
USATO
HER2/Neu (recettore EGF, Antcorpo monoclonale murino Carcinoma della mammella
oncogene) umanizzato
CD20 (marker dei linfociti B) Anticorpo monoclonale murino Linfoma a cellule B
umanizzato
CD52 (marcatore linfocitico) Anticorpo monoclonale murino Linfoma a cellule B
umanizzato
Antigene carcinoembrionale Anticorpo monoclonale murino Tumori del tratto
umanizzato gastrointestinale
CA-125 (marker tumorale) Anticorpo monoclonale murino Diagnostica del carcinoma
ovarico
Ganglioside GD3 (antigene Anticorpo monoclonale murino Melanoma, neuroblastoma
tumorale) umanizzato

L’infiammazione cronica è da tempo ritenuta un fattore di rischio per lo sviluppo tumorale. Le cellule
dell’immunità innata possono anche indurre la trasformazione neoplastica attraverso la produzione di
radicale liberi che causano danni al DNA e portano a mutazioni nei geni oncosoppressori e negli oncogeni.
Anche il fattore trascrizionale NF-kB sembra svolgere un ruolo importante nella progressione tumorale
associata a infiammazione. L’immunità specifica, a sua volta, può promuovere in modo diretto l’attivazione
dei macrofagi.

CAPITOLO 19: MALATTIE DA IPERSENSIBILITA’

L’immunità specifica esercita l’importante funzione di difesa dell’ospite contro le infezioni microbiche. Le
malattie con patogenesi immunitaria sono definite malattie da ipersensibilità (o immuno-mediate).
Normalmente, le risposte immunitarie eliminano i microrganismi senza causare gravi lesioni ai tessuti
dell’ospite. Talvolta, però, queste risposte non vengono controllate adeguatamente oppure si rivolgono in
modo inappropriato contro i tessuti dell’ospite. Le risposte immunitarie nei confronti di diverse tipologie di
antigeni possono causare malattie da ipersensibilità:

• AUTOIMMUNITA’: reazioni contro antigeni self.


• RISPOSTE CONTRO MICRORGANISMI: possono causare malattie nel momento in cui diventano
abnormi o nel caso in cui i microbi persistano nell’organismo. Le risposte dei linfociti T nei confronti
di microrganismi persistenti possono provocare un’infiammazione grave, talora con formazione di
granuloma. Talvolta, i meccanismi che una risposta immunitaria utilizza per eradicare un patogeno
richiedono l’eliminazione delle cellule dell’ospite che albergano il patogeno, con inevitabile danno
tissutale, come nel caso dell’epatite virale in cui i CTL danneggiano il tessuto epatico.
• RISPOSTE IMMUNITARIE VERSO ANTIGENI AMBIENTALI: quasi il 20% della popolazione reagisce in
maniera aborne ad uno o più degli antigeni ambientali. In particolare, questi individui producono
IgE che scatenano le reazioni allergiche, mentre altri innescando risposte immunitarie mediate da
linfociti T che liberano citochine e provocano una risposta infiammatoria definita ipersensibilità da
contatto.

Il problema fondamentale delle risposte ipersensensibili è la mancanza di un controllo adeguato della


risposta immunitaria stessa, una volta iniziata; ciò avviene perché risulta difficile o impossibile eliminare gli
stimoli che scatenano questo tipo di risposte oppure per la presenza di molteplici meccanismi di
amplificazione, tipici del funzionamento del sistema immunitario. Per questo, le patologie da ipersensibilità
tendono a cronicizzare.

Le malattie da ipersensibilità vengono in genere classificate in base al tipo di risposta e al tipo di


meccanismo effettore responsabile del danno cellulare e tissutale:

TIPO DI SENSIBILITA’ MECCANISMI PATOLOGICI MECCANISMI DI DANNO


TISSUTALE E MALATTIA
TIPO I: immediata Anticorpi IgE Mastociti, eosinofil e loro
Comunemente definita ALLERGIA Linfociti Th2 mediatori (amine vasoattive,
o ATOPIA mediatori lipidici, citochine)
TIPO II: mediata da anticorpi Anticorpi IgM e IgG rivolti contro Opsonizzazione e fagocitosi delle
antigeni di superficie o della cellule
matrice extracellulare Reclutamento e attivazione dei
leucociti ad opera del
complemento e del recettore Fc
Anomalie funzionali (trasmissione
di segnali ormonali, blocco dei
recettori dei neurotrasmettitori)
TIPO III: mediata da Immunocomplessi formati da Reclutamento e attivazione dei
immunocomplessi antigeni circolanti e da anticorp leucociti ad opera del
IgM e IgG complemento e del recettore Fc
TIPO IV: mediata da linfociti T Linfociti T CD4+ (Th1 e Th17) Infiammazione mediate da
Linfociti T CD8+ citochine
Uccisione diretta delle cellule
bersaglio

• MALATTIE CAUSATE DA ANTICORPI

Queste malattie sono provocate da anticorpi che legano antigeni espressi da particolari cellule o presenti
nella matrice extracellulare o da complessi antigene-anticorpo che si formano in circolo per poi depositarsi
a livello delle pareti vascolari. La diagnosi di queste malattie si basa solitamente sull’identificazione degli
anticorpi o degli immunocomplessi in circolo o depositati nei tessuti, nonché sulle analogie clinico-
patologiche con condizioni sperimentali in cui il ruolo degli anticorpi nell’eziologia della malattia sia stata
dimostrato mediante trasferimento adottivo con siero. Gli anticorpi rivolti contro antigeni tissutali
assumono rilevanza patogenetica attraverso tre meccanismi principali:

1. OPSONIZZAZIONE E FAGOCITOSI: gli anticorpi che legano antigeni espressi sulla membrana di una
cellula possono opsonizzarla direttamente o tramite l’attivazione della cascata del complemento.
Le cellule opsonizzate saranno poi fagocitate ed eliminate dai fagociti che esprimono recettori per
le porzioni Fc delle Ig o per le proteine del complemento (es. anemia emolitica autoimmune).
2. INFIAMMAZIONE: gli anticorpi depositati a livello dei tessuti reclutano neutrofili e macrofagi che,
legando gli anticorpi stessi o le proteine del complemento, ne risultanto attivati, liberando così
fattori citotossici (es. glomerulonefrite).
3. FUNZIONI CELLULARI ANOMALE: gli anticorpi possono anche legare recettori o proteine di
membrana e interferire con le loro funzioni. Gli anticorpi specifici per i recettori dell’ormone che
stimola la tiroide, ad esempio, causando alterazioni funzionali che portano alla malattia di Graves o,
ancora, anticorpi specifici per il fattore intrinseco, necessario per l’assorbimento della vitamina
B12, causano anemia perniciosa.

Gli anticorpi che causano specifico danno tissutale o cellulare in genere sono prodotti nel contesto di una
condizione autoimmune, ma talvolta sono diretti verso componenti microbiche. Nel caso di infezioni
ripetute da streptococchi che si rendono responsabili della febbre reumatica, gli anticorpi prodotti contro i
batteri cross-reagiscono con antigeni cardiaci, causando la deposizione a livello cardiaco, l’infiammazione e
il danno tissutale. Vediamo alcuni comuni esempi di malattie causate da anticorpi specifici per cellule o
tessuti:

MALATTIA ANTIGENE BERSAGLIO MECCANISMO MANIFESTAZIONI


CLINICO-PATOLOGICHE
ANEMIA EMOLITICA Proteine della Opsonizzazione e Emolisi e anemia
AUTOIMMUNE membrana degli fagocitosi degli eritrociti
eritrociti con lisi mediata dal
complemento
VASCULITE CAUSATA Proteine dei granuli dei De granulazione dei Vasculite
DAGLI ANCA neutrofili neutrofili e
infiammazione
FEBBRE REUMATICA Antigene della parete Infiammazione e Miocardite
ACUTA cellulare dello attivazione dei artrite
streptococco; gli macrofagi
anticorpi cross-
reagiscono con le
proteine del miocardio
MIASTENIA GRAVIS Recettore Gli anticorpi inibiscono il Debolezza muscolare
dell’acetilcolina recettore con paralisi
dell’acetilcolina e
l’espressione del
recettore
MORBO DI GRAVES Recettore del TSH Stimolazione dei Ipertiroidismo
(IPERTIROIDISMO) recettori del TSH
mediata da anticorpi
DIABETE INSULINO- Recettore per l’insulina Gli anticorpi inibiscono il Diabete mellito
RESISTENTE legame dell’insulina
ANEMIA PERNICIOSA Fattore intrinseco Neutralizzazione del Eritropoiesi anomala
prodotto dalle cellule fattore intrinseco con Anemia
parietali gastriche diminuzione Sintomi neurologici
dell’assorbimento della
vitamina B12

Gli immunocomplessi in grado di causare malattie sono costituiti da anticorpi legati ad auto antigeni o ad
antigeni non-self. Le caratteristiche di questo tipo patologico dipendono dalla sede di deposizione degli
immunocomplessi stessi piuttosto che dall’origine cellulare dell’antigene. Tuttavia, le malattie da
immunocomplessi si manifestano anche in modo sistemico, nonostante alcuni tessuti, come rene e
articolazioni, siano più predisposti. La patogenesi delle malattie da immunocomplessi è determinata dalla
natura degli immunocomplessi e dalle caratteristiche dei vasi sanguigni. I complessi antigene-anticorpo si
formano durante le normali risposte immunitarie, ma assumono rilevanza patologica quando sono prodotti
in quantità eccessive o non eliminati efficientemente, permettendo la loro depositazione nei tessuti. Gli
immunocomplessi di piccole dimensioni spesso non vengono fagocitati, mentre quelli contenenti antigeni
cationici si legano con elevata affinità ai componenti delle membrane basali dei vasi sanguigni e dei
glomeruli renali, producendo danno tissutale più grave e duraturo. Vediamo alcuni esempi di malattie
mediate da immunocomplessi:

MALATTIA ANTIGENE COINVOLTO MANIFESTAZIONI CLINICO-


PATOLOGICHE
LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO DNA, nucleoproteine, altri Nefrite, artrite e vasculite.
(LES) Questa malattia può essere
considerata una complicanza
tardiva di infezioni virali, in
particolare da virus dell’epatite B
POLIARTERITE NODOSA Antigene di superficie del virus Vasculite
dell’epatite B
GLOMERULONEFRITE POST- Antigeni della parete Nefrite
STREPTOCOCCICA streptococcica
MALATTIA DA SIERO Proteine varie Artrite, vasculite, nefrite

• MALATTIE CAUSATE DA LINFOCITI T

I linfociti T causano danno tissutale sia stimolando il processo infiammatorio sia eliminando direttamente le
cellule bersaglio.

• MALATTIE CAUSATE DA CITOCHINE PROINFIAMMATORIE: nell’infiammazione immunomediata, i


Th1 e i Th17 secernono citochine che reclutano e attivano i leucociti (es. IL-17, IFN-γ). Queste
malattie si associano a infiammazione cronica con reazione fibrotica. Molte malattie autoimmuni
organo-specifiche sono causate dall’interazione dei linfociti T autoreattivi con autoantigeni, con
rilascio di citochine che promuovono l’infiammazione (es. artrite reumatoide). Anche le risposte
immunitarie mediate dai linfociti T specifiche per i microrganismi o altri antigeni non-self possono
dare inizio all’infiammazione e al danno tissutale (es. Mycobacterium tuberculosis). Diverse
malattie cutanee causate dall’esposizione locale a sostanze chimiche e antigeni ambientali
(sensibilità da contatto) sono dovute a infiammazione presumibilmente in risposta a neoantigeni
formati dall’associazione di sostanze chimiche con proteine self (es. eczema).
La tipica risposta infiammatoria mediata da linfociti T è la DTH (ipersensibilità di tipo ritardato): si
tratta di una reazione infiammatoria lesiva mediata da citochine e sostenuta dall’attivazione dei
linfociti T, in particolare dei CD4+; si manifesta entro 24-48 ore successive all’esposizione
all’antigene, al contrario delle reazioni da ipersensibilità immediata (allergia). L’uomo può
sviluppare reazioni DTH in risposta a infezioni di origine microbica oppure in seguito a
sensibilizzazione verso sostanze chimiche e antigeni ambientali; la successiva esposizione allo
stesso antigene stimola la reazione immunitaria (es. reazione cutanea alla tubercolina). Dopo circa
4 ore dalla somministrazione dell’antigene in un individuo sensibilizzato, i neutrofili si raccolgono
attorno alle venule post-capillari del sito di iniezione ed entro 12 ore, nello stesso sito, si
accumulano anche linfociti T e monociti; le venule si rigoniamo e diventano permeabili alle
molecole plasmatiche, il fibrinogeno fuoriesce dai vasi e passa nei tessuti, dove viene convertito in
fibrina. La deposizione di fibrina, l’edema e l’accumulo di linfociti T determinano rigonfiamento e
indurimento del tessuto.
La cronicizzazione della DTH si sviluppa quando i macrofagi, attivati dai Th1, non riescono ad
eliminare il microrganismo fagocitato.
• MALATTIE CAUSATE DAI CTL: sono determinate dalla risposta del CTL nei confronti delle cellule
infettate da virus, con danno tissutale anche se il virus non è citopatico. Ne sono esempi la
coriomeningite linfocitica murina e alcune forme di epatite virale umana.

Le principali malattie mediate da linfociti T sono:

MALATTIA SPECIFICITA’ DEI LINFOCITI T PRINCIPALI MECCANISMI DI


PATOGENETICI DANNO TISSUTALE
ARTRITE REUMATOIDE Collagene (?) Infiammazione mediata da Th1 e
Proteine self citrullinate (?) Th17
Ruolo degli anticorpi e degli
immunocomplessi (?)
SCLEROSI MULTIPLA Antigeni proteici mielinici Infiammazione mediata da Th1 e
Th17
Degradazione della mielina da
parte dei macrofagi attivati
DIABETE MELLITO DI TIPO 1 Antigene delle β delle isole Infiammazione mediata da
pancreatiche (insulina, ecc) linfociti T
Distruzione delle cellule delle
isole pancreatiche ad opera dei
CTL
MALATTIA INFIAMMATORIA Batteri enterici Infiammazione mediata dalle
INTESTINALE Antigeni self (?) citochine Th17 e Th1
PSORIASI Antigeni cutanei sconosciuti Infiammazione mediata da
citochine prodotte dai linfociti T

I principali approcci terapeutici oggi utilizzati sono:

1. Terapia anticitochine
2. Farmaci che inibiscono le interazioni cellulari e la migrazione leucocitaria
3. Somministrazione endovenosa di IgG
4. Terapie che utilizzano linfociti T regolatori

Vediamo ora nel dettaglio la patogenesi e il trattamento delle principali malattie da ipersensibilità.

1. LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO (LES): il LES è una malattia autoimmune cronica multi sistemica
con fasi di remissione e riacutizzazione che colpisce prevalentemente le donne. La sua principale
manifestazione clinica consiste in rash cutaneo, artrite e glomerulonefrite, ma sono anche
frequenti anemia emolitia, trombocitopenia e disturbi del SNC. Nei pazienti affetti da LES si
riscontrano spesso autoanticorpi (frequentemente antinucleo). Tra i fattori genetici si annoverano
l’ereditarietà di alcuni alleli HLA; nel 5% dei pazienti si osserva un deficit a carico delle proteine
della via classica del complemento (C1q, C2 e C4), che potrebbe essere la causa sia dell’insufficiente
eliminazione degli immuocomplessi che della perdita della tolleranza di linfociti B. Alcuni studi
hanno dimostrato che i leucociti circolanti dei pazienti affetti da LES hanno un preciso profillo
molecolare che riconduce all’azione dell’IFN-α. I polimorfismi dei geni che predispongono al LES
determinano l’incapacità di mantenere la tolleranza da parte dei linfociti T e B. Nuovi approcci
terapeutici prevedono l’utilizzo di anticorpi anti-IFN-α e si sta prendendo in considerazione la
possibilità di interferire con i sistemi di traduzione del TLR; è in corso anche la sperimentazione con
l’anticorpo in grado di bloccare BAFF.
2. ARTRITE REUMATOIDE (AR): è una patologia infiammatorie che coinvolge sia le piccole
articolazioni delle estremità sia le articolazioni di dimensioni maggiori. È caratterizzata da
infiammazione della sinovia associata a distruzione della cartilagine articolare e dell’osso. Nella
sinovia infiammata si riscontra le presenza di linfociti CD4+ con fenotipo Th1 o Th17, linfociti B
attivati, plasmacellule e macrofagi, nonché piccoli follicolli linfatici. Nel liquido sinoviali si
riscontrano numerose citochine, come IL-1, IL-8, IL-6, IL-17, che probabilmente stimolano il
reclutamento dei leucociti e attivano le cellule sinoviali a produrre enzimi proteolitici. Infine, in
pazienti con AR si riscontra anche un’aumentata produzione di osteoclasti. Anche gli anticorpi
potrebbero contribuire al danno articolare: i pazienti con AR presentano autoanticorpi che
prendono il nome di fattori reumatoidi che possono partecipare alla formazione di
immunocomplessi. La predisposizione ad AR è legata all’espressione dell’aplotipo HLA-DR4; inoltre,
sono stati identificati numerosi polimorfismi genici associati ad AR. I più promettenti farmaci sono
gli antagonisti del TNF e dell’IL-1, nonché una piccola molecola in grado di inibire la via di
trasduzione JAK.
3. SCLEROSI MULTIPLA (SM): è una malattia autoimmune del SNC in cui i Th1 e/o i Th17 reagiscono
contro gli antigeni self della mielina, causando neuroinfiammmazione con attivazione dei macrofagi
presenti attorno alle fibre nervose intracraniche e del midollo spinale, portando a degradazione
della mielina e deficit neurologico. Esordisce con debolezza fisica, per poi progredire con paralisi e
disturbi oculari caratterizzati da remissioni e riacutizzazioni. L’encefalomielite autoimmune
sperimentale (EAS) rappresenta il modello sperimentale meglio caratterizzato di SM; sulla base di
questi studi sperimentali, si pensa che nell’uomo la SM sia causata da cloni di linfociti T specifici per
la mielina. È stato suggerito che un’infezione virale possa attivare linfociti T autoreattivi verso gli
antigeni della mieliena attraverso un meccanismo di mimetismo molecolare. I polimorfismi genetici
associati a SM includono il locus HLA e la regione non codificante di CD25, il gene che codifica per la
catena α del recettore IL-2. Studi sull’EAS murina suggeriscono che la malattia possa essere
propagata attraverso un processo noto come diffusione degli epitopi. Di recente sono state
sviluppate terapie in grado di modulare le risposte immunitarie, come l’anticorpo contro l’integrina
VLA-4 che blocca il reclutamento leucocitario, o il farmaco fingolimod che interferisce nella
migrazione dei leucociti.
4. DIABETE MELLITO DI TIPO 1: noto anche come diabete insulino-dipendente, è una malattia
metabolica sistemica causata da un alterato metabolismo dell’insulina. Si manifesta con
iperglicemia e cheto acidosi, mentre le sue complicanze croniche includono l’aterosclerosi
progressiva e l’ostruzione micro vascolare con conseguente danno a retina, glomeruli renali e nervi
periferici. I pazienti presentano una carenza di insulina dovuta alla distruzione immunomediata
delle cellule β di Langerhans del pancreas (mediata da Th1 e CTL) e necessitano di terapia
sostitutiva continua con insulina. Molteplici geni sono associati al diabete di tipo 1, soprattutto gli
HLA. Molti polimorfismi sono anche associati a IL-2 e CD-25. Le nuove terapie mirano a indurre la
tolleranza attraverso peptidi diabetogenici derivati da antigeni isolati dalle isole pancreatiche.
5. MALATTIE INFIAMMATORIE INTESTINALI: includono principalmente la malattia di Crohn e la colite
ulcerosa: la prima è caratterizzata da infiammazione cronica e distruzione della parete intestinale,
con frequente formazione di fistole; la seconda si manifesta con lesioni per lo più confinate nella
mucosa, caratterizzate da ulcere e focolai infiammatori.

CAPITOLO 20: ALLERGIE

Svariate malattie sono causate da risposte immunitarie ad antigeni ambientali, di origine non microbica,
che coinvolgono IgE, linfociti T helper che producono IL-4, IL-5 e IL-13, mastociti ed eosinofili. Nella fase
effettrice di queste risposte, i mastociti e gli eosinofili rilasciano mediatori che causano vasodilatazione,
aumento della permeabilità vascolare e contrazione della muscolatura liscia bronchiale e viscerale. Queste
reazioni, nel loro insieme, vengono definite ipersensibilità immediata, poiché si manifestano rapidamente,
entro pochi minuti dal legame all’antigene. In associazione alla risposta immediata, si attiva anche una
risposta infiammatoria più lenta, definita reazione di fase tardiva, caratterizzata dall’accumulo di neutrofili,
eosinofili e macrofagi. In ambito clinico, le conseguenze delle reazioni di ipersensibilità sono comunemente
definite allergia o atopia; gli antigeni che scatenano l’ipersensibilità vengono definiti allergeni. Tutte le
reazioni allergiche presentano delle caratteristiche comuni:
• Il carattere distintivo delle malattie a base allergica è la produzione di IgE, che dipende
dall’attivazione dei linfociti T helper che producono IL-4. Gli individui allergici sviluppano forti
risposte agli antigeni ambientali.
• Nell’ipersensibilità immediata, la tipica sequenza di eventi che scaturisce dall’esposizione ad un
antigene consiste nell’attivazione di particolari popolazioni linfocitarie (Th2 e Tfh) a cui seguono
dapprima la produzione di IgE che si legano ai recettori Fc espressi dai mastociti e quindi la
stimolazione dei mastociti dovuta alla loro riesposizione allo stesso antigene, con conseguente
liberazione di mediatori e relativi effetti patologici. Il legame delle IgE ai mastociti è denominato
sensibilizzazione.
• L’allergia è una tipica malattia mediata da linfociti Th2. Molti degli eventi precoci e delle
caratteristiche patologiche sono scatenati da particolari citochine prodotti dai Th2 nei tessuti
oppure dai Tfh negli organi linfoidi.
• I segni clinico-patologici dell’allergia consistono nelle reazioni vascolari e della muscolatura liscia,
che si sviluppano rapidamente in seguito a ripetute esposizioni all’antigene, nonché in una reazione
tardiva di tipo infiammatorio. Alcune reazioni allergiche possono essere innescate da stimoli non
immunologici, come l’esercizio fisico o l’esposizione al freddo, che inducono de granulazione e
rilascio di mediatori in assenza di esposizione all’antigene e di produzione di IgE (reazioni non
atopiche).
• Le reazioni allergiche si manifestano con diverse modalità, in relazione al tessuto interessato. Le
principali manifestazioni cliniche consistono in rash cutanei, congestione dei sinusoidi,
broncocostrizione, dolori addominali, diarrea e shock sistemico. Nella forma più grave, si va
incontro ad anafilassi, in cui i mediatori rilasciati dai mastociti possono provocare il restringimento
delle vie aeree fino a provocare asfissia e causare collasso cardiovascolare.
• Lo sviluppo di allergie è in definitiva il risultato di una serie di interazioni genetico-ambientali
estremamente complesse e ad oggi ancora scarsamente conosciute. È noto che i parenti di individui
allergici svilupperanno più facilmente allergie, anche vivendo in ambienti diversi.

In generale, la sintomatologia del soggetto allergico è divisa in due fasi: la fase di sensibilizzazione con
assenza di sintomi, e la fase di triggering, con scatenamento dei sintomi.

Gli individui atopici producono elevati livelli di IgE in risposta ad allergeni ambientali, mentre i soggetti
normali producono generalmente altri isotipi (IgM e IgG) e solo piccole quantità di IgE. La quantità di IgE
prodotte dipende dalla propensione dell’individuo a generare T helper specifici per l’allergene che
producono IL-4 e IL-13. Le IgE sono responsabili della sensibilizzazione dei mastociti e rappresentano il
meccanismo di riconoscimento dell’antigene che scatena l’ipersensibilità immediata. Gli allergeni sono
proteine o sostanze chimiche legate e proteine; ne sono esempi le proteine dei pollini, gli acari della
polvere, il pelo degli animali o anche alcuni farmaci, come la penicillina. Gli allergeni condividono due
caratteristiche: vengono ripetutamente a contatto con l’individuo e non sono in grado di stimolare
l’immunità innata, con conseguente produzione di citochine polarizzanti i linfociti Th1 e Th17. L’attivazione
cellulare cronica o ripetuta può orientare il differenziamento verso i Th2. L’allergenecità di un antigene può
anche dipendere dalla sua natura chimica. Le reazioni allergiche dipendono dai linfociti T CD4+, per cui gli
antigeni T-indipendenti come i polisaccaridi non possono provocare tali reazioni, a meno che non siano
coniugati a proteine. Alcune sostanze non proteiche, come la penicillina, possono provocare potenti
reazioni IgE-mediate poiché reagiscono chimicamente con i residui aminoacidici delle proteine self per
formare coniugati aptene-carrier in grado di attivare i T helper a produrre IL-4, con conseguente
produzione di IgE.
Nelle malattie a base allergica, la presenza di Tfh è necessaria per indurre la differenziazione dei linfociti B
che producono IgE mentre i Th2 svolgono un ruolo centrale nello sviluppo delle reazioni infiammatorie a
livello tissutale. I Th2 differenziati migrano nei tessuti dove è presente l’antigene, contribuendo alla fase
effettrice delle reazioni allergiche; i Tfh restano negli organi linfoidi dove svolgono il ruolo di attivare i
linfociti B. In risposta al ligando di CD40 e alle citohine prodotte da Tfh, i linfociti B vanno incontro a
scambio isotipico della catena pesante iniziando a produrre IgE, la cui concentrazione in corso di allergia
può salire da 1 microgrammo/litro sino a 1000 microgrammi/litro. Le IgE specifiche per l’allergene,
prodotte da plasmablasti e plasmacellule, entrano in circolo e si legano ai recettori per Fc presenti sui
mastociti tissutali. Linfociti Th2, mastociti, basofili ed eosinofili sono le principali cellule effettrici delle
risposte allergiche:

• LINFOCITI TH2: secernono citochine, come l’IL-4, IL-5 e IL-13 che agiscono in associazione ai
mastociti e agli eosinofili promuovendo le risposte infiammatorie agli allergeni presenti nei tessuti.
IL-4 stimola l’espressione di VCAM-1 sull’endotelio che, a sua volta, recluta gli eosinofili ed altri Th2
nei tessuti. IL-5 induce l’attivazione degli eosinofili reclutati. IL-13 stimola le cellule epiteliali a
secernere maggiori quantità di muco. Anche le cellule linfoidi innate del gruppo 2 secernono IL-5 e
IL-13.
• MASTOCITI E BASOFILI: tutti i mastociti derivano da progenitori midollari. In condizioni normali,
non sono riscontrabili mastociti circolanti; i progenitori di queste cellule migrano nei tessuti
periferici dove si differenziano in funzione dei segnali presenti nel microambiente locale, come il
fattore delle cellule staminali rilasciato dalle cellule tissutali che si lega al recettore c-Kit espresso
dal progenitori del mastocita. Una volta attivati, essi secernono un’ampia varietà di mediatori
chimici responsabili delle manifestazioni allergiche; tra questi vi sono sostanze immagazzinate nei
granuli. Esistono due categorie di mastociti: quelli mucosali, ampiamente distribuiti nelle mucose
intestinale e polmonare, che contengono alti livelli di condroitinsolfato ma bassi livelli di istamina (è
probabile che essi siano coinvolti nelle reazioni allergiche mediate da linfociti T e IgE dell’apparato
respiratorio); quelli connettivali, presenti nella pelle e nella sottomucosa intestinale, che
contengono abbondanti quantità di eparina e istamina (è probabile che siano coinvolti nelle
reazioni allergiche cutanee). I basofili sono granulociti presenti nel circolo, caratterizzati da analogie
strutturali e funzionali con i mastociti. Infatti, entrambi questi tipi cellulari esprimono un recettore
per Fc ad alta affinità specifico per le catene pesanti ξ, perciò in grado di legare le IgE, definito
FcξRI. Una volte legate le IgE a questo recettore, esse agiscono come recettori per l’antigene sulla
superficie dei mastociti e dei basofili. Essendo questo legame estremamente forte, la normale
concentrazione di IgE, per quanto bassa, è sufficiente a saturare i recettori FcξRI. Ciascuna molecola
FcξRI è composta da una catena α, responsabile del legame con l’anticorpo, da una catena β e da
due catene γ, responsabili della trasduzione del segnale. La porzione N-terminale della catena γ
contiene due domini Ig che formano il sito di legame per le IgE; la catena β contiene un singolo
dominio ITAM nella sua porzione C-terminale citoplasmatica. Le due catene γ sono identiche e
legate da un ponte disolfuro (identiche alle catene ζ del TCR); esse fungono da subunità di
trasduzione del segnale, attivata dalla fosforilazione degli ITAM presenti nelle catene γ e β,
necessaria per l’attivazione dei mastociti. Un altro recettore per le IgE è FcξRII (CD23).
I mastociti vengono dunque attivati dall’aggregazione dei FcξRI che si verifica in seguito al legame
degli antigeni multivalenti alle molecole di IgE legate al recettore. A differenza dei soggetti non
atopici, nei soggetti allergici un’elevata percentuale di IgE legate ai recettori è specifica per quel
determinato antigene. L’attivazione dei mastociti innesca tre principali tipi di risposta: la secrezione
del contenuto dei granuli tramite degranulazione, la sintesi e la secrezione di mediatori lipidici e la
sintesi e la secrezione di citochine:
1. DEGRANULAZIONE: la PKC attivata induce la fosforilazione della catena leggera della miosina,
causando il disassemblamento dei complessi actina-miosina presenti sotto la membrana
plasmatica. Nei mastociti, la fusione della membrana dei granuli con quella plasmatica è
mediata da proteine SNARE, regolate da Rab3 e altre fosfatasi/chinasi. L’aumento dei livelli di
calcio citoplasmatico e l’attivazione delle PKC che si verificano in seguito al legame con FcξRI
bloccano l’attività inibitoria delle proteine accessorie e, in seguito a fusione delle membrane, il
contenuto dei granuli viene rilasciato nell’ambiente extracellulare.
2. PRODUZIONE DI MEDIATORI LIPIDICI: la sintesi di mediatori lipidici è controllata dall’azione
della fosfolipasi A2 (PLA2) citoplasmatica tramite ERK (una Map chinasi) e aumento di ioni
Ca2+. Una volta attivata, PLA2 catalizza l’idrolisi dei fosfolipidi di membrana rilasciando
substrati che sono poi convertiti attraverso differenti cascate enzimatiche.
3. PRODUZIONE DI CITOCHINE: la secrezione di citochine da parte dei mastociti attivati è
conseguente all’induzione della trascrizione genica.

L’attivazione dei mastociti è regolata da diversi fattori inibitori che contengono nella coda
citoplasmatica sequenze ITIM, come FcγRIIB. Numerosi neuro peptidi, come la sostanza P, la
somatostatina e il peptide intestinale vasoattivo, inducono il rilascio di istamina mediando
l’attivazione neuroendocrina dei mastociti. Anche basse temperature e intenso esercizio fisico
possono indurre de granulazione dei mastociti. I mastociti esprimono anche recettori per le
porzioni Fc delle IgG.

• MEDIATORI PRODOTTI DAI MASTOCITI: le funzioni effettrici dei mastociti sono mediate da
molecole solubili rilasciate dalle cellule attivate.
1. AMINE BIOGENE: il principale mediatore di questo tipo è l’istamina. Essa ha un’azione di breve
durata e innesca eventi intracellulari, tra i quali la degradazione del fosfatidilinositolo, che
porta alla produzione di IP3, e del DAG. Il legame dell’istamina all’endotelio causa la
contrazione muscolare, con conseguente espasione degli spazi interstiziali e aumento della
permeabilità vascolare; inoltre, stimola la sintesi di prostaglandine e ossido nitrico, che
inducono rilassamento della muscolatura liscia vascolare con conseguente vasodilatazione.
L’istamina causa anche la contrazione della muscolatura liscia dell’intestino e dei bronchi,
inducendo vasocostrizione e aumento della peristalsi.
2. ENZIMI E PROTEOGLICANI: le serin-proteasi neutre, come la triptasi e la chinasi, sono i
costituenti proteici più abbondanti dei granuli secretori dei mastociti e contribuiscono al danno
tissutale durante le reazioni di ipersensibilità immediata. La triptasi degrada il fibrinogeno e
attiva la collagenasi causando un danno tissutale; la chinasi può convertire l’angiotensina I in
angiotensina II. Anche l’eparina, il condroitinsolfato e i proteoglicani sono importanti
costituenti dei granuli dei mastociti e degli eosinofili.
3. MEDIATORI LIPIDICI: il principale derivato dell’acido arachidonico nei mastociti è la
prostaglandina D2 (PGD2), che si lega ai recettori espressi sulle cellule della muscolatura liscia
inducendo vasodilatazione e broncocostrizione. Essa induce anche la chemiotassi dei neutrofii
e il loro reclutamento nel focolaio infiammatorio. Altri importanti derivati dell’acido
arachidonico sono i leucotrieni, che interagiscono con specifici recettori presenti sulla
muscolatura liscia causando una prolungata broncocostrizione. Infine, un terzo tipo di
mediatore lipidico è il fattore di attivazione piastrinica (PAF) che induce broncocostrizione
diretta, retrazione delle cellule endoteliali e rilassamento della muscolatura liscia vascolare;
tuttavia, essendo idrofobico, viene rapidamente degradato da una PAF-idrolasi.
4. CITOCHINE: le più importanti sono IL-1, IL-4, IL-5, IL-13, TNF (attiva nell’endotelio l’espressione
di molecole di adesione che si rendono responsabili dell’infiltrazione di neurofili e monociti),
CCL3 e CCL4.
• EOSINOFILI: sono granulociti di derivazione midollare abbondantemente presenti negli infiltrati
infiammatori delle reazioni di fase tardiva e partecipano a molti processi patologici allergici. Sono
normalmente presenti nei tessuti periferici, soprattutto nelle mucose; la loro attivazione viene
favorite da citochine prodotte dai Th2, come IL-5. Gli eosinofili si legano alle cellule endoteliali che
esprimono la E-selectina e VCAM-1, la cui espressione è aumentata da IL-4. Il richiamo degli
eosinofili nei tessuti dipende anche da CCL11 (eotassina) prodotta dalle cellule epiteliali in cui sta
avvenendo la risposta allergica. Gli eosinofili rilasciano proteine dei granuli che sono tossiche per i
parassiti elmintici, ma possono anche danneggiare i tessuti. Il contenuto dei loro granuli
comprende idrolasi lisosomiali, ma anche proteine specifiche come la proteina basica maggiore e la
proteina cationica, tossiche per elminti e batteri, ma anche per i tessuti circostanti; contengono
inoltre per ossidasi eosinofila (distinta dalla mieloperossidasi dei neutrofili). Analogamente a
mastociti e basofili, anche gli eosinofili producono mediatori lipidici e citochine che possono
promuovere la risposta infiammatoria.

Le reazioni che vengono attivate dalle IgE e dai mastociti comprendono:

1. REAZIONE IMMEDIATA: i cambiamenti vascolari che si verificano precocemente durante le reazioni


di ipersensibilità immediata sono ben evidenziabili nella reazione pomfoide che avviene in risposta
all’inoculo di un allergene. Un pomfo è una tumefazione liquida che si forma quando un individuo,
già precedentemente esposto ad un determinato allergene, viene nuovamente sottoposto ad esso,
con richiamo delle IgE già prodotte. I vasi sanguigni ai margini del pomfo si dilatano e appaiono
congestionati per la presenza di globuli rossi, fino a produrre una caratteristica formazione
arrossata detta eritema. Sia la reazione pomfoide che quella eritematosa dipendono dalle IgE e dai
mastociti. La reazione pomfoide deriva dalla sensibilizzazione dei mastociti del derma da parte di
IgE legate a FcξRI, dall’aggregazione delle IgE dipendente dall’antigene e dall’attivazione dei
mastociti con rilascio di mediatori, principalmente istamina.
2. REAZIONE DI FASE TARDIVA: entro 2-4 ore dalla formazione del pomfo, avviene la reazione tardiva,
che consiste nell’accumulo di neutrofili, basofili e linfociti helper. L’infiammazione raggiunge il suo
apice entro 24 ore per poi recedere gradualmente. I tipi di leucociti principalmente presenti in
questa fase sono gli eosinofili e i T helper (soprattutto Th2); anche i neutrofili sono spesso presenti.
Le reazioni di fase tardiva possono verificarsi anche in assenza di una precedente e conclamata
reazione immediata, come nel caso dell’asma bronchiale e dell’eczema.

in generale, dunque, possiamo dire che le principali cause delle allergie sono delle basi genetiche di
predisposizione all’antigene e l’esposizione a microrganismi, soprattutto nel corso della prima infanzia. Le
infezioni respiratorie virali e batteriche sono un fattore predisponente allo sviluppo di asma ed
esacerbazione di episodi asmatici ricorrenti.

La degranulazione dei mastociti rappresenta l’evento cruciale di molte allergie; d’altra parte, le
manifestazioni clinico-patologiche di tali patologie dipendono dai tessuti in cui agiscono i mediatori
rilasciati dai mastociti e dall’eventuale cronicizzazione del processo infiammatorio. Nei diversi tessuti,
dunque, potremo avere:
• ANAFILASSI SISTEMICA: reazione allergica di tipo sistemico caratterizzata da edema diffuso e
ipotensione dovuta a intensa e diffusa vasodilatazione. È generalmente determinata da antigeni
introdotti tramite infezioni, punture di insetto o assorbimento intestinale. La riduzione del tono
vascolare e la perdita di plasma provocate dai mediatori mastocitari possono portare ad una
significativa riduzione della pressione arteriosa, definita shock anafilattico, spesso fatale. Gli eventi
a livelllo cardiovascolare sono accompagnati da costrizione delle vie aeree superiori e inferiori,
ipersensibilità dell’intestino, ipersecrezione di muco nell’intestino e nei bronchi e manifestazioni
orticarioidi della cute. La terapia d’obbligo in questi casi è la somministrazione di adrenalina per via
sistemica che interrompe gli effetti broncocostrittori e vasodilatatori, migliorando anche la gittata
cardiaca.
• ASMA BRONCHIALE: è una malattia infiammatoria causata da ripetute reazioni di ipersensibilità
immediate e reazioni tardive del polmone che causano una triade clinico-patologica caratterizzata
da epidosi reversibili, ma intermittenti, di ostruzione delle vie aeree, infiammazione bronchiale
cronica con eosinofilia e ipertrofia delle cellule muscolari lisce bronchiali (causata da mediatori di
derivazione leucocitaria) con iperattività ai broncocostrittori. Coesiste spesso con
broncopneumopatia cronica ostruttiva. È innescata dall’attivazione dei mastociti in risposta al
legame dell’allergene alle IgE e dall’attivazione dei Th2 in risposta all’allergene. I mediatori portano
al reclutamento di eosinofili, basofili e ulteriori Th2; tuttavia, l’infiammazione cronica nell’asma può
anche avvenire senza l’attivazione dei mastociti. L’attuale terapia ha come obiettivo la profilassi e il
controllo dell’infiammazione, tramite trattamento con agenti antinfiammatori, come corticosteroidi
(per inalazione o, in caso di crisi allergica acuta, anche per via sistemica).
• RINITE ALLERGICA: definita anche febbre da fieno, comprende edema della mucosa associato a
inflitrazione leucocitaria, ipersecrezione di muco, tosse e difficoltà respiratorie.
• CONGIUNTIVITE ALLERGICA: prurito oculare associato spesso a rinite.
• ALLERGIE ALIMENTARI: causate da reazioni di ipersensibilità immediata nei confronti di alcuni
alimenti che inducono il rilascio di mediatori da parte dei mastociti mucosali e submucosali del
tratto gastrointestinale. Includono manifestazioni come prurito, edema tissutale, aumento della
peristalsi e aumento della secrezione di liquidi, associata a diarrea, gonfiore e vomito.
• ORTICARIA: reazione pomfoide acuta indotta dai mediatori dei mastociti in risposta a contatto
diretto con l’allergene.
• DERMATITE ATOPICA: disturbo cutaneo comune causata da una reazione di fase tardiva ad un
allergene cutaneo.

L’immunoterapia più efficace è la desensibilizzazione: si tratta della somministrazione cutanea di quantità


minime ma crescenti di antigene, ottenendo come risultato la diminuzione della concentrazione di IgE
specifiche e l’aumento di IgG, che potrebbero contribuire a inibire la produzione di IgE neutralizzando
l’antigene e inducendo una reazione di feedback anticorpale.

CAPITOLO 21: IMMUNODEFICIENZE CONGENITE E ACQUISITE

Deficit a carico di una o più componenti del sistema immunitario possono condurre a malattie gravi e
spesso fatali, definite malattie da immunodeficienza. Tali malattie sono raggruppate in due classi, le
immunodeficienze innate (primarie o congenite) e le immunodeficienze acquisite (secondarie). In generale,
le immunodeficienze presentano le seguenti caratteristiche:
1. Determinano un’aumentata suscettibilità alle infezioni da batteri capsulati, germi piogeni e virus
(nel caso di deficit dell’immunità umorale) e alle infezioni virali e da microrganismi intracellulari (in
caso di deficit dell’immunità cellulare), in generale infezioni che possono essere affrontate senza
conseguenze dagli individui normali.
2. Predispongono anche all’insorgenza di alcuni tipi di neoplasie. Molti dei tumori che si
accompagnano alle immunodeficienze sono dovuti all’effetto di virus oncogeni (es. virus di Epstein-
Barr) e HPV.
3. Possono associarsi ad un aumento delle manifestazioni autoimmuni.
4. Possono essere causate da difetti a carico della maturazione o dell’attivzaione dei linfociti o a carico
dei meccanismi effettori dell’immunità innata e specifica.

Vediamo nel dettaglio le due classi di immunodeficienze.

• IMMUNODEFICIENZE CONGENITE (PRIMARIE)

Le alterazioni primitive che causano le immunodeficienze congenite possono essere riscontrate a carico
dell’immunità innata, a livello della maturazione o della risposta dei linfociti. Spesso le alterazioni ereditarie
coinvolgono l’attivazione del complemento e il processo di fagocitosi. Le alterazioni a carico dello sviluppo
dei linfociti possono essere causate da mutazioni a livello dei geni codificanti enzimi, proteine adattatrici,
proteine di trasporto e fattori di trascrizione. Le alterazioni a carico dello sviluppo o della funzione dei
linfociti B causano deficit della produzione di anticorpi con conseguente aumento della suscettibilità alle
infezioni da patogeni extracellulari. Le alterazioni a carico dello sviluppo o della funzione dei linfociti T
causano invece deficit dell’immunità cellulo-mediata, nonché una ridotta produzione di anticorpi di tipo T-
dipendente.

Vediamo quali sono i principali deficit da immunodeficienza innata:

1. Malattia granulomatosa cronica (CDG): è causata da mutazioni a carico dei geni che codificano per
le componenti del complesso enzimatico dell’ossidasi (phox) del fagociti. È una malattia genetica
molto rara, nella cui forma più comune è anche X-linked. La mutazione causa un deficit della
produzione dell’anione superossido, una specie reattiva dell’ossigeno che rappresenta uno dei
principali meccanismi microbicidi dei fagociti, in particolare dei neutrofili. È caratterizzata da
infezioni di miceti e batteri (come lo Staphylococcus), in genere presenti già dalla prima infanzia; la
principale causa di morte è l’infezione da fungo Aspergillus. Ovviamente, i microrganismi più
pericolosi per i pazienti con CDG sono quelli dotati di attività catalitica nei confronti del perossido di
idrogeno. Dal momento che i patogeni non vengono adeguatamente debellati, essi stimolano le
risposte T cellulo-mediate croniche che, a loro volta, stimolano l’attivazione dei macrofagi e la
formazione di granulomi (da qui il nome della malattia).
2. Deficit di adesione leucocitaria di tipo 1 (LAD1): è una malattia rara a trasmissione autosomica
recessiva caratterizzata da ricorrenti infezioni batteriche e fungine, accompagnate da incapacità di
cicatrizzazione. L’adesione all’endotelio, l’aggregazione, la chemiotassi, la fagocitosi e l’attività
citotossica dei neutrofili risultano notevolmente difettive. In questa malattia, viene ridotta
espressione delle integrine β2 a causa di una mutazione genetica a carico del gene che codifica per
il CD18.
3. Deficit di adesione leucocitaria di tipo 2 (LAD2): è un’ulteriore malattia rara ereditaria
clinicamente simile a LAD1, che però non coinvolge un deficit delle integrine. È causata dall’assenza
di sialil-Lewis-X, un tetra saccaride espresso dai neutrofili che agisce da ligando per la E- e la P-
selectina. Ciò determina difetto di legame dei leucociti all’endotelio, assenza del processo di rolling
leucocitario e, in alcuni casi, fenotipo sanguigno di tipo Bombay.
4. Deficit di adesione leucocitaria di tipo 3 (LAD3): consiste di un difetto di trasduzione del segnale
responsabile dell’attivazione delle integrine in seguito all’attivazione da parte di chemochine. I
pazienti presentano un elevato rischio di sanguimento a causa del difetto di funzionamento delle
integrine espresse dalle piastrine.
5. Sindrome di Chédiak-Higashi: rara malattia autosomica recessiva caratterizzata da ricorrenti
infezioni da parte di batteri piogeni, parziale albinismo e infiltrazione di linfociti non neoplastici in
vari organi. È causata da mutazioni a carico del gene che codifica per la proteine LYST che regola il
movimento intracellulare dei lisosomi, conducendo a: ridotta capacità di fusione tra fagosomi e
lisosomi; ridotta formazione di melanosomi (causa dell’albinismo); anomalie dei fagosomi nelle
cellule del sistema nervoso. I lisosomi giganti si formano nei neutrofili durante la maturazione di
queste cellule; i neutrofili che riescono a sopravvivere contengono comunque una ridotta attività
microbicida. Anche la funzione delle NK è compromessa, a causa di anomalie dei granuli
citoplasmatici che normalmente contengono le protene ad azione citotossica.
6. Deficit nella trasduzione del segnale da parte dei TLR: causano ricorrenti infezioni, dovute a deficit
nella trasduzione del segnale da parte dei TLR e di CD40, nonché della ridotta produzione di INF-1.
Sono dovute a mutazioni a carico dei geni che codificano per NEMO, UNC93B, MyD88, IКBα e IRAK-
4, che compromettono l’attivazione di NF-kB a valle dei TLR.
7. Suscettibilità mendeliana alle malattie micobatteriche: malattia grave causata da micobatteri
ambientali non tubercolari e da BCG (Bacillus Calmette-Guérin). È dovuta a mutazioni a carico di IL-
12p40, IL-12RB, IFNGR1, IFNGR2, STAT1, NEMO e ISG15.
8. Difetti nello sviluppo della milza (asplenia congenita isolata): dovuta a mutazioni eterozigotiche
missenso a carico di NBX2.5; questi pazienti soffrono di infezioni gravi di batteri capsulati,
soprattutto da Streptococcus pneumonia.

Esistono poi delle particolari immunodeficienze, dette immunodeficienze combinate gravi (SCID), causate
da difetti nella differenziazione dei linfociti T, a volte associati anche a difetti dei linfociti B. La
manifestazione clinica consiste in infezioni gravi potenzialmente fatali, tra cui polmonite, meningite e
batteremia diffusa. Le mutazioni dei geni coinvolti nelle diverse fasi dello sviluppo dei linfociti possono
essere causa di SCID. Circa il 50% delle SCID risulta essere a trasmissione autosomica recessiva. Tra le SCID;
le più importanti da conoscere sono:

1. Sindrome di DiGeorge: si tratta di un deficit completo o parziale dello sviluppo dell’abbozzo timico,
dovuto a malformazione congenita. Di conseguenza, si osservano irregolare sviluppo dei vasi,
deformità facciali e assenza di ghiandole paratiroidi, ipoplasia o agenesia del timo, non compatibili
con una normale maturazione di linfociti T. il difetto genetico è riconducibile ad una delezione nella
regione cromosomica del gene TBX1. I linfociti T del sangue periferico risultano essere assenti o
comunque ridotti di numero; il livello di anticorpi è solitamente normale, ma può essere ridotto in
forme gravi della malattia. Questa immunodeficienza può essere corretta con trapianto di timo
fetale o di midollo osseo, che spesso non si rende necessario, dal momento che la funzione T tende
a migliorare con il passare del tempo. Un difetto ancora più raro può riguardare una mutazione del
gene CORONIN-1A: questi pazienti presentano infezioni ricorrenti e possono addirittura sviluppare
linfomi in seguito a infezione da Epstein-Barr virus (malattia del paziente nella bolla).
2. Deficit dell’adenosina deaminasi (ADA): deficit dell’enzima ADA causa una forma frequente di
SCID. ADA interviene nel catabolismo delle purine, catalizzando in particolar modo la deaminazione
irreversibile dell’adenosina a inosina. Il deficit di questo enzima porta ad accumulo di
deossiadenosina e suoi precursori, che esercitano effetti tossici, come l’inibizione della sintesi di
DNA. I linfociti in corso di maturazione saranno meno efficienti nel degradare i precursori. Alcune
caratteristiche della malattia sono sordità, anormalità costocondrali, epatopatia e disturbi
comportamentali. Un’altra forma di SCID simile è causata dal deficit dell’enzima PNP (fosforilasi
nucleosidica purinica). Una forma particolarmene grave è la disgenesia reticolare, caratterizzata da
completa assenza di linfociti T e B.
3. SCID X-linked: sono causate da mutazioni nel gene codificante per la catena comune γ dei recettori
per le interleuchine IL-2, IL-4, IL-7, IL-9 e IL-15. Questa forma di SCID è caratterizzata da blocco della
maturazione dei linfociti T e delle NK, accompagnato a deficit della risposta umorale. La causa della
malattia è l’incapacità di IL-7 di promuovere la crescita dei timociti immaturi. Generalmente queste
mutazioni sono recessive. Alcuni pazienti affetti da una forma di SCID identica a quella X-linked
mostrano un’ereditarierà di tipo autosomico recessivo.
4. SCID grave causata da deficit della ricombinazione V(D)J: l’assenza della ricombinazione V(D)J
porta ad un difetto nell’espressione del pre-TCR e del recettore pre-BCR e nel blocco dello sviluppo
dei linfociti T e B. Mutazioni dei geni RAG1 e RAG2 o ARTEMIS comportano un difetto nel processo
di ricombinazione. Nei bambini portatori di queste mutazioni, i linfociti B e T sono assenti e la
risposta immunitaria è gravemente compromessa. Una sindrome del tutto particolare è quella di
Omenn, in cui l’immunodeficienza coesiste con attivazione abnormi e autoimmunità.
5. Sindrome del linfocita nudo: dovuto a deficit di espressione di molecole MHC II. I pazienti
mostrano una ridotta o assente espressione delle molecole HLA-DP, -DQ e –DR sui linfociti B,
macrofagi e DC.
6. SCID causate da deficit di attivazione dei linfociti T: causate da mutazioni a carico di Orai1,
componente del canale del calcio CRAC.

Immunodeficienze innate possono anche essere associate a deficit anticorpali:

1. Agammaglobulinemia di Bruton: legata al cromosoma X, è causata da mutazioni o delezioni del


gene che codifica per un enzima noto come tirosin-chinasi di Bruton, che comporta un arresto della
differenziazione dei linfociti B nel midollo osseo allo stadio di pre-B; questo blocco può anche
essere causato delezioni del gene Btk, coinvolto nella trasduzione del segnale del pre-BCR
necessario per la sopravvivenza e la maturazione dei linfociti B. E’ caratterizzata da completa
assenza di γ-globuline nel siero. Questi pazienti presentano: livelli sierici di Ig molto bassi; riduzione
numerica o assenza di linfociti B nel sangue; mancato sviluppo dei centri germinativi nei linfonodi e
assenza di plasmacellule nei tessuti.
2. Deficit autosomico recessivo della trasduzione del segnale durante il checkpoint pre-BCR:
particolari forme di agammaglobulinemia.
3. Deficit selettivi di isotipi immunoglobulinici: il più frequente è il deficit selettivo di IgA, che si
manifesta con sintomi molti vari, che vanno dalla completa asintomaticità a occasionali infezioni
respiratorie e diarrea. Il deficit consiste nel blocco della differenziazione dei linfociti B in
plasmacellule secernenti IgA.
4. Immunodeficienza comune variabile (CVID): individua un gruppo di disordini caratterizzati da
ipogammaglobulinemia, inefficiente risposta anticorpale alle infezioni e alle vaccinazioni e
aumentata incidenza delle infezioni, tipicamente da Haemophilus influenzae e Streptococcus
pneumoniae. Le cause potrebbero essere: anomalia intrinseche al linfocita B, alterazioni delle
funzioni dei T helper, mutazioni dei geni TAC1 e ICOS.
5. Sindrome iper-IgM: legata al cromosoma X, è una malattia rara causata da un’alterazione del
linfocita B che ne compromette la capacità di portare a termine lo scambio isotipico verso IgG e IgA,
con conseguente aumento di IgM circolanti. I pazienti manifestano un deficit dell’immunità cellulo-
mediata, spiccata suscettibilità ll’infezione da Pneumocystis jiroveci. Esistono delle forme rare di
sindrome iper-IgM causate da mutazioni localizzate sui geni codificanti per CD40 e per AID. Le
mutazioni dei geni AID e UNG influenzano il processo di ricombinazione della classi isotipica.

Deficit di attivazione e funzionalità dei linfociti T possono portare alle seguenti immunodeficienze:

1. Deficit nella trasduzione del segnale del TCR: deficit dell’immunità cellulo-mediata e umorale
dipendente da linfociti T. E’ causata da mutazioni nei geni CD3, CD45, STIM1 e ORAI1.
2. Sindrome di Wiskott-Aldrich: malattia ereditaria legata al cromosoma X caratterizzata da eczema,
trombocitopenia e aumentata suscettibilità alle infezioni batteriche. Dipende da deficit
nell’attivazione e nella migrazione dei leucociti. Con il progredire dell’età, il numero di linfociti
circolanti diminuisce notevolmente, con aggravamento dell’immunodeficienza. Il gene mutato
codifica per un proteine definita WASP, che interagisce con il complesso Ap2/3 coinvolto nella
polimerizzazione di actina e proeine G.
3. Malattia linfoproliferativa legata al cromosoma X: è caratterizzata da abnorme proliferazione dei
linfociti T indotta dall’EBV, abnorme attivazione di macrofagi e CTL e deficit nella funzionalità di NK
e CTL. È causata da mutazioni a carito del gene SAP.
4. Linfoistiocitosi emofagocitica familiare: consiste in un gruppo di immunodeficienze in cui le NK e i
CTL non sono in grado di uccidere le cellule infettate. Come conseguenza, le infezioni virali non
vengono controllate, con conseguente eccessiva attivazione macrofagica compensatoria. È causata
da mutazioni del gene della perforina, così come di geni che codificano per le proteine cellulari
coinvolte nell’esocitosi dei granuli come RAB27A o MUNC13-4.

L’immunodeficienza solitamente rappresenta solo uno dei sintomi della costellazione che caratterizza
numerosi disordini ereditari:

1. Atassia-telangiectasia: è una malattia autosomica recessiva caratterizzata da alterazioni della


postura (atassia), malformazioni vascolari (telangiectasia), lesioni neurologiche e aumentata
incidenza di tumori. Il difetto umorale più comune è il deficit di IgA e IgG2; i deficit più comuni a
carico dei linfociti T sono meno pronunciati e si accompagnano a ipoplasia timica. I pazienti
soffrono di infezioni batteriche ricorrenti delle vie aeree, sviluppano diversi tipi di reazioni auto-
immunitarie e aumenta l’incidenza dei tumori.

Gli approcci terapeutici per immunodeficienze congenite hanno lo scopo di controllare le infezioni e
reintegrare la componente difettosa o assente del sistema immunitario attraverso trasferimento adottivo o
trapianto. In linea teorica, la migliore terapia rimane quella genica, che consiste nella sostituzione del gene
difettoso/assente con il gene normale a livello dei precursori midollari.

• IMMUNODEFICIENZE ACQUISITE (SECONDARIE)

I meccanismi patogenici tramite i quali si sviluppano le immunodeficienze acquisite sono diversi: in primo
luogo, l’immunosoppressione si verifica come conseguenza di una malattia pregressa; in secondo luogo, si
può sviluppare la complicanza di terapie somministrate per la cura di altre patologie; infine, si può acquisire
tramite infezione, come quella da HIV che è la più importante. L’AIDS, causata dall’infezione da HIV, p
caratterizzata da un grave deficit immunologico, cui si accompagnano infezioni opportunistiche ricorrenti,
tumori maligni, degenerazioni del sistema nervoso centrale e un grave deperimento organico. L’HIV è in
grado di infettare diverse cellule del sistema immunitario, come i T CD4+, i macrofagi e le DC. Si tratta di un
retrovirus appartenente alla famiglia dei lenti-virus, che comprende anche il virus dell’immunodeficienza
bovina, felina e della scimmia. Sono stati finora identificati due tipi di HIV (HIV-1 e HIV-2) strettamente
correlati tra loro, ma diversi per genoma e antigenicità. L’HIV-1 è di gran lunga la causa più comunedi AIDS.
Una particella infettante (virione) dell’HIV è composta da due eliche identiche di RNA contenuto all’interno
di nucleo di proteine virale circondato a sua volta da un rivestimento (envelope) a doppio strato
fosfolipidico, derivante dalla membrana della cellula ospite ma contenente anche proteine codificate dal
genoma virale. L’infezione da parte dell’HIV inizia con l’interazione del complesso glicoproteico gp120 con
due proteine dell’ospite, CD4 e i corecettori appartenenti alla famiglia dei recettori per le chemochine
espressi su un linfocita T helper. I virioni dai quali inizia l’infezione sono solitamente presenti nel sangue,
nello sperma o in altri liquidi corporei e possono essere trasmessi da un individuo all’altro per contatto
sessuale, punture con aghi infetti o passaggio transplacentare da madre a figlio. Il complesso glicoproteico
virale è chiamato Env, è espresso sulle superficie del virione in forma trimerica e media una serie di tappe
sequenziali che si concludono con la fusione dell’envelope virale con la membrana della cellula bersaglio:

A conclusione del ciclo vitale del virus, nella cellule infettata verranno liberati nuovi virioni in grado di
legarsi ad altre cellule infettate, propagando l’infezione. I più importanti recettori per le chemochineche
agiscono da corecettori per HIV sono CXCR4 e CCR5. Tutti i ceppi di HIV possono infettare e replicarsi in
linfociti T CD4+; al contrario, alcuni ceppi virali infettano colture primarie di macrofagi umani, ma non le
linee di linfociti T stabilizzate (ceppi macrofago (M)-tropici -> esprimono una gp120 che lega CCR5), altri
invece infattno le linee T ma non i macrofagi (ceppi T-tropici -> legano CXCR4); infine, alcun ceppi infettano
sia le cellule T che i macrofagi (ceppi a doppio tropismo).

Una volta che l’HIV è penetrato nella cellula, gli enzimi contenuti nel core virale si attivano avviando il ciclo
biologico del virus:
Il genoma virale integrato nella cellula ospite prende il nome di provirus, che può rimanere inattivo per
mesi o anni senza essere trascritto, gerenando un’infezione latente. La trascrizione dei geni del provirus è
regolata dalle sequenze LTR situate a monte dei geni strutturali del virus; le citochine e altri stimoli che
attivano i linfociit T e i macrofagi potenziano la trascrizione dei geni virali. Le LTR contengono sequenze per
i segnali di poliadenilazione, la sequenze promotrice TATA box e i siti di legame per i due fattori di
trascrizione NF-kB e SP1. La proteina Tat agisce da principale fattore trans attivante dell’HIV ed è necessaria
alla trascrizionedell’mRNA virale completo, permettendo all’RNA polimerasi DNA-dipendente di rimanere
legata alla molecole di DNA virale abbastanza a lungo perché si completi la trascrizione e si produca un
mRNA virale funzionante. Una volta prodotti, gli mRNA virali vengono tradotti in proteine che vengono
assemblate a formare virioni maturi infettanti. Il processo di trascrizione viene suddiviso in una fase
precoce, in cui vengono espressi i geni regolatori, ed una fase tardiva, in cui vengono espressi i geni
strutturali e viene assemblato il genoma virale completo. La proteine Rev segna il passaggio da una fasse
all’altra legando i geni virali non clivati dei geni “tardivi” e trasportandoli al di fuori del nucleo. Dopo la
trascrizione e la sintesi delle relative proteine, inizia il processo di assemblaggio dei virioni: il trascritto di
RNA genomico provirale completo viene impacchettato nel complesso nucleo proteico formato dalle
proteine codificate dal gene gag e dagli enzimi codificati dal gene pol, tutti necessari per il successivo ciclo
di integrazione del virus. Il complesso nucleo-proteico viene rivestito da un involucro contenente la
glicoproteina Env e le glicoproteinte dell’ospite e il suo rilascio avviene per gemmazione.

La malattia da HIV comincia con l’infezione acuta che può essere controllata solo in parte dalla risposta
immunitaria dell’ospite; essa è accompagnata dall’infezione dei linfociti T CD4+ della memoria (che
esprimono CCR5) dei tessuti linfoidi mucosali e dalla morte di queste cellule. Il passaggio dalla fase acuta a
quella cronica è caratterizzato da viremia, disseminazione del virus e sviluppo della risposta immunitaria. Le
DC degli epiteli dove è penetrato il virus lo catturano e migrano ai linfonodi, dove trasferiscono il virus ai
CD4+ tramite contatto diretto cellula-cellula. Già entro pochi giorni dal contagio, nei linfonodi è rilevabile la
replicazione virale che causa viremia. Ciò si accompagna a sintomi aspecifici comuni e disseminazione
sistemica del virus, cui il sistema immunitario reagisce con risposte umorali e cellulo-meiate dirette contro
gli antigeni virali. Tali risposte riescono a controllare solo parzialmente l’infezione e la replicazione virale.
Nella fase cronica della malattia, nel linfonodi e nella milza si assiste ad una continua replicazione virale e
alla morte cellulare, anche se il sistema immunitario riesce ancora a contrastare eventuali infezioni
opportunistiche (fase di latenza clinica). Nelle fasi iniziali della malattia, l’individuo è ancora in grado di
produrre nuovi T CD4+, ma il risultato del protrarsi per diversi anni dei continui cicli di infezioni virale riduce
drasticamente il numero di linfociti T CD4+ sia nei tessuti linfoidi che in circolo.

Nei pazienti sieropositivi, un’importante causa della diminuzione dei linfociti CD4+ è l’effetto diretto
esercitato su queste cellule dall’HIV:

• Il processo di produzione del virus può aumenare la permeabilità plasmatica della cellula infettata,
determinando l’ingresso di ioni calcio a concentrazioni letali che induce apoptosi o lisi osmotica.
• La replicazione virale può interferire con la normale sintesi proteica della cellula, provocandone
morte.
• L’infezione da HIV non-citopatica attiva la via dell’inflammasoma e porta ad una forma di morte
detta piroptosi.
• La membrana plasmatica delle cellule infette può fondersi con quella dei linfociti T CD4+ non
infettati formando cellule giganti plurinucleate, dette sincizi.

Oltre deficit di linfociti T CD+, nei pazienti sieropositivi si osservano anche altri deficit, come quello delle
risposte T agli antigeni e quello delle risposte umorali, nonostante i livelli di Ig possano anche rimanere
elevati. Macrofagi, DC e DC follicolari sono infettati da HIV, contribuendo all’immunodeficienza:

• I macrofagi esprimono CD4 a livelli molto più bassi rispetto ai Th, ma continuano ad esprimere
CCR5, mantenendo la suscettibilità all’infezione da HIV. I macrofagi infettati possono rappresentare
un importante serbatoio del virus a causa della loro resistenza agli effetti citopatici dell’HIV.
• Le DC infettate instaurano forti legami con i linfociti T naive.
• Le DC follicolari della milza e dei centri germinativi linfonodali intrappolano grandi quantità del
virus da cui non vengono infettate con efficienza, ma contribuiscono comunque alla patogenesi.

A seguito dell’infezione, si attivano sia la risposta umorale sia quella cellulo-mediata, che possono
comunque garantire solo una limitata protezione contro il virus:

1. La prima risposta specifica è caratterizzata da un’imponente espansione dei linfociti CD8+ specifici
per i peptidi dell’HIV. Questi CTL riescono a controllare l’infezione durante la fase acuta. Anche
un’attiva risposta dei T helper è necessaria per favorire la formazione di linfociti CTL della memoria.
2. Nel periodo compreso tra le 6 e le 9 settimane dal contagio, si possono riscontrare risposte
anticorpali dirette contro una varietà di antigeni virali. Le strutture dell’HIV maggiormente
immunogene sembrano essere le glicoproteine dell’envelope. Gli anticorpi prodotti precocemente
non sono neutralizzanti e generalmente inibiscono solo debolmente l’infettività virale e gli effetti
citopatici. Gli anticorpi neutralizzanti anti-gp120 si sviluppano solo 3 mesi dopo il contagio, ma
perfino tali anticorpi non sono in grado di controllare il virus.
L’HIV è caratterizzato da un tasso di mutazione estremamente elevato a causa della scarsa precisione della
trascrittasi inversa. In questo modo può sfuggire al riconoscimento da parte degli anticorpi o dei linfociti T
generati contro le proteine virali prima che queste subiscono la mutazione.

La maggior parte degli individui infettati da HIV progredisce verso l’AIDS, sebbene circa l’1% dei soggetti
infettati non sviluppi la malattia. Questo perché tali individui possono essere dei long-term-non-
progressors, ossia hanno una viremia variabile, oppure degli elite-controllers, che presentano una viremia
di circa 50 copie o anche minore. Ad oggi, l’unica prospettiva di cura è una combinazione di inibitori degli
enzimi virali necessari al ciclo biologico del virus.

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