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Dada e Surrealismo

Dada e Surrealismo

[...] perduto ogni interesse per quel grande mattatoio che era la
guerra mondiale, ci volgemmo alle belle arti. Mentre i cannoni
tuonavano in lontananza, noi dipingevamo, recitavamo,
componevamo versi e cantavamo con tutta l'anima. Eravamo
alla ricerca di un'arte elementare, capace di salvare l'umanità
dalla follia dell'epoca.
Hans Arp
Dada e Surrealismo
Il Dadaismo nasce nella neutrale a Zurigo nel 1916, per poi
diffondersi anche in Germania, a Parigi e negli USA.
La situazione storica in cui il movimento ha
origine è quello della Prima Guerra Mondiale,con un gruppo
di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per
sfuggire alla guerra: Hans Arp,TristanTzara, Marcel
Janco,Richard Huelsenbeck e Hans Richter. Il loro esordio
ufficiale è fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu
inaugurato il Cabaret Voltaire, fondato dal regista teatrale
Hugo Ball.
La corrente si esaurì nel 1923 per far posto
al Surrealismo considerato la pars construens
dopo la fine della pars destruens di Dada.

Hugo Ball recita la poesia Karawane - spettacolo dadaista


Dada e Surrealismo

Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse da quelle organizzate dai futuristi: in
entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da
proporre un’arte nuova e originale.
I due movimenti, Futurismo e Dadaismo, hanno diversi punti comuni, come l’intento
dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte, ma anche qualche punto di
notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I
futuristi, nella loro posizione interventista, sono favorevoli al conflitto, mentre ne sono del
tutto contrari i dadaisti. Inoltre, mentre i futuristi erano contro l'arte tradizionale, ma
proiettati verso l'avvenire con un progetto globale volto ad incidere sulla realtà, i dadaisti
erano contro tutto, contro il concetto stesso di arte e contro il futuro.
A partire dai primi spettacoli cabarettistici, viene via via crescendo un atteggiamento
ironico, dissacratorio e provocatorio e una poetica fondata sull'assurdo, il non-sense e la
casualità. Poiché il movimento combatte contro i significati tradizionali attribuiti alle parole,
espressione di concetti universalmente accettati, “dada”, nelle intenzioni degli esponenti,
non ha alcun significato.Tzara narra di aver trovato la parola a caso in un vocabolario
francese: la sua etimolgia è casuale e non cela ragioni psicologiche, politiche o storiche.
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Anche la “poesia” dadaista è dettata dal caso;
secondo Tzara, in polemica con la poesia ufficiale
e tutti gli alti significati che la critica le attribuisce, la
poesia dada si compone così:
“Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete dal giornale un articolo che abbia la
lunghezza che volete dare alla vostra
poesia. Ritagliate l’articolo.
Tagliate poi con cura tutte le parole dell’articolo e
mettetele in un sacchetto.
Agitate con dolcezza ed estraetele collocandole
nell’ordine di estrazione.
Copiatele con coscienza; la poesia vi assomiglierà
e sarete diventato “uno scrittore molto originale”” .
Dada e Surrealismo
Dada è contro la letteratura, contro la poesia,
contro l’arte, contro tutto ciò che si è fatto
passare per eterno, bello, perfetto; è contro le
correnti “moderniste” come cubismo,
espressionismo e futurismo.
Dada è libertà: quindi può essere anche
contro Dada.
Il Dadaismo non è un’estetica, è un modo di
concepire. Non si interessa del valore
artistico, ma dello shock che provoca nello
spettatore.
Tutto è arte: pezzi di legno inchiodati e
colorati, oppure i collage che non sono, come
per i cubisti, un modo di richiamare
direttamente la realtà ma la dimostrazione che
tutto è arte, anche ciò che non è nobile;
qualunque oggetto costruito dall’uomo, proprio
perché tale, è frutto della creatività umana .
Raul Hausmann, ABCD, 1923
Dada e Surrealismo
Con l’arrivo a New York di Marcel Duchamp (1887-
1968) divampano fermenti e idee analoghe a quelle
del Dada svizzero.
Già da due anni Duchamp aveva sovrapposto a uno
sgabello bianco una ruota di bicicletta
facendola poi ruotare liberamente: due oggetti
eterogenei uniti solo perché il primo facesse da
supporto al secondo, ambedue usuali nella vita
quotidiana, che creano la coppia oppositiva fisso-
mobile, allusione al maschile-femminile, tipica
antinomia alchemica.
Sono quelli che Duchamp chiamò READY-MADE,
oggetti d’uso comune isolati dal loro contesto, messi
in mostra ed elevati provocatoriamente al ruolo di
opere d’arte.
L'opera non è frutto dell'abilità manuale dell'autore,
non è il prodotto del suo virtuosismo tecnico, ma è
tale per la scelta operata dall'artista che
decontestualizza l'oggetto dal suo ambiente
orginario per ricollocarlo e ridefinirne, quindi,
l'identità: è il contesto che “significa” l'opera. Arte
non è più fare (mostrare bravura e competenza
tecnica) ma scegliere (operare a livello di puro
intelletto): per la prima volta, l'idea è più importante
della sua realizzazione concreta. Duchamp, ruota di bicicletta, 1913
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Dirompente fu l’invio da parte di Duchamp,
sotto lo pseudonimo di Richard Mutt, di una
scultura intitolata Fontana allall'esposizione
della Society of Independent Artists di New
York del 1917. Era un orinatoio maschile in
maiolica bianca, capovolto e collocato su un
piedistallo di legno. Lo scandalo fu immenso; la
“scultura” venne rifiutata e Duchamp (che
faceva parte del comitato oraginizzatore e
l’aveva inviata sotto falso nome per mettere
alla prova l’apertura mentale dei colleghi) si
dimise clamorosamente.
Restava, tuttavia l’idea fondamentale: un
ready-made capace di scandalizzare la
borghesia benpensante. L’originale della
fontana non esiste più perché durante un
trasloco gli operai lo gettarono erroneamente
via: Duchamp ne fu felice; l’oggetto orinatoio
tolto dal suo contesto diventava fontana, quindi
arte, ma una volta tornato oggetto, poteva
anche essere distrutto.
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La potenza iconoclasta di Duchamp trova la sua piena
espressione nel 1919 col pizzetto disegnato sulla
Gioconda, l’icona dell’arte mondiale, il capolavoro
pittorico per antonomasia. Si tratta di un ready made
“aiutato” o “rettificato”, cioè un oggetto sul quale l'artista
opera apportando piccole modifiche.
Sotto il quadro una misteriosa scritta riporta solo alcune
lettere L.H.O.O.Q che in francese suona “elle a chaud au
cul” (lei ha caldo al sedere...).
Dieci anni prima Freud aveva dichiarato la probabile
omosessualità di Leonardo e la strana androginia di Monna
Lisa: il ritratto di Duchamp si riallaccia appunto all’ analisi
freudiana, aggiungendovi un pizzico di “humor” tipicamente
parigino, ma mantenendone intatti i parametri.
Duchamp protesta contro il concetto sacrale e storico di
arte, parodiando e sbeffeggiando l'opera per eccellenza e
deridendo l'ammirazione che le viene passivamente
tributata dall'opinione comune.
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Altri ready made rettificati sono l'Oggetto
indistruttibile e Cadeau, dello statunitense Man
Ray.
Il primo è un metronomo al quale è stato
applicato un occhio: da strumento atto a
misurare il lavoro del musicista, a oggetto che
scandisce e controlla l'attività del pittore.
Cadeau è un ferro da stiro sulla cui piastra è
disposta una fila di chiodi, esempio della
giustapposizione sintagmatica di elementi
senza alcun legame logico, ma solo “mentale”,
paradossale, uniti da una fortissima analogia al
negativo: un dono singolare, che fa il contrario
di ciò a cui sarebbe preposto, esprimendo una
critica al concetto di design e di oggetto utile,
alla mercificazione delle necessità quotidiane.

Man RAY, Oggetto indistruttibile, 1923, 1933, 1963. assemblaggio


metronomo e foto, 22,5 x 10,7 cm. Gerusalemme, Israel Museum
Cadeau (1921,1963,1970,1972,1974)
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Man Ray fotogramma 1923


collezione MoMa NY

Man Ray è stato uno sperimentatore anche in campo fotografico: con Le Violon
d'Ingres per la prima volta la fotografia viene intesa non come mera
documentazione del reale, ma come pratica creativa. L'immagine della cantante
e modella Alice Prin (in arte Kiki) viene manipolata in fase di stampa con
l'aggiunta di due “F” sulla schiena, che la rendono simile ad un violino. Le
Violon d'Ingres è una frase idiomatica francese che indica un hobby, in quanto
il violino era il passatempo preferito di Ingres: l'artista pare suggerire,
provocatoriamente, che il suo passatempo fosse Kiki. Man Ray inventa anche le
rayografie (o rayogrammi), fotogrammi ottenuti esponendo oggetti a contatto
con del materiale sensibile, di solito della carta fotografica, senza fare uso di
una fotocamera.
Le Violon d'Ingres, 1924. Fotografia alla gelatina
d'argento modificata in fase di stampa
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Nel 1924, dalle ceneri del Dada, nasce il
Surrealismo, il cui manifesto è redatto dallo
scrittore francese André Breton che esplicita la
definizione del nome del movimento:
“SURREALISMO, s.m. Automatismo psichico
puro, mediante il quale ci si propone di esprimere
sia verbalmente, sia per iscritto o in altri modi, il
funzionamento reale del pensiero; è il dettato del
pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato
dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione
estetica e morale”.
Il surrealismo è dunque il tentativo di esprimere
l’ Io interiore in piena libertà senza l’intervento
della ragione che, mettendo in atto meccanismo
inibitori dovuti all’educazione, ci condiziona,
obbligandoci a reprimere istinti e sentimenti
seppellendoli nel più profondo di noi stessi e
facendoci apparire come la società vuole che
siamo.
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L'opera d'arte dovrà rifarsi ad un modello interiore, o non sarà.

Per raggiungere questa libertà occorre lasciarsi guidare dall’inconscio, come accade nel sogno, quando le immagini si
susseguono senza un legame apparente, rivelando la nostra realtà più recondita, molte volte ignota a noi stessi.
È il metodo della psicanalisi: e, del resto, Breton riconosce apertamente l’apporto fondamentale delle scoperte di
Sigmund Freud.Tuttavia il Surrealismo non si limita a trascrivere passivamente il sogno, non si esprime attraverso
simboli, né è ingenuo. Cerca piuttosto di scoprire il meccanismo con il quale opera l’inconscio, mettendo a nudo il
processo interiore durante la veglia mediante l’ automatismo psichico.
““Trasformare il mondo”, ha detto Marx; “cambiare la vita”, ha detto Rimbaud. Per noi queste due parole d'ordine fanno
un tutt'uno.” Il surrealismo nasce dopo la guerra, in una situazione totalmente deficitaria che aveva dimostrato il
fallimento di tutte le strutture logiche su cui si fondava la società dell'epoca. I surrealisti sono animati dalla necessità di
cambiare un mondo fallimentare, ed esortano i contemporanei a farlo partendo da se stessi, riaccendendo la capacità
di immaginare e desiderare per costruire autonomamente la propria vita e poter incidere positivamente sulla realtà.
Mentre i dadaisti non si proponevano di intervenire nella società concretamente con un progetto, il Surrealismo vuole
creare una realtà migliore: la surrealtà.
Il Dadaismo, che è il precursore più immediato del Surrealismo, ha avuto il grande merito di distruggere la
convenzionalità di tutto ciò che è stato stabilito da secoli di presunta civiltà, liberandone completamente l’uomo.
Ma l’azione dadaista è esclusivamente negativa e legata al drammatico momento storico vissuto dall’Europa negli anni
della guerra.
Mutata la situazione, il Surrealismo, riprendendo il tema della libertà totale da ogni condizionamento esteriore, intende
opporre alla distruzione dadaista, la ricostruzione, esaltando l’interiorità dell’uomo. Accanto al Dadaismo è
fondamentale per la formazione del Surrealismo anche la pittura di De Chirico che, malgrado crei un’atmosfera
perenne di inquietudine e sospensione che non è necessariamente presente nel Surrealismo, vuole cogliere l’ essenza
intima della realtà al di là della sua apparenza sensibile, sciogliendo il singolo oggetto dai nessi logici che lo legano agli
altri oggetti e al suo ambiente, secondo la celebre frase del conte di Lautréamont, Isidore Ducasse: “bello come
l'incontro casuale di una macchina per cucire e un ombrello su un tavolo operatorio”.
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Il Surrealismo è una delle poche
avanguardie storiche che non si sia
esaurita rapidamente ma che, anzi,
abbia rivestito un ruolo primario
nello svolgimento della pittura del
Novecento. Fra i principali surrealisti
si ricordano (oltre Duchamp e Arp)
Man Ray, Joan Mirò, René Magritte
Mirò
e Salvador Dalì. Anche Picasso
ebbe il suo periodo surrealista tant’è
che spesso, nelle mostre dedicate
al Surrealismo, si usa esporre la
terna spagnola Dalì-Mirò-Picasso.
Si tratta di artisti molto differenti
raggruppabili in due filoni: quelli che
Dalì
utilizzano immagini tratte dalla
realtà quotidiana o comunque
“realistiche” e quelli che giungono ai
limiti delle forme astratte, per scelta
istintiva e automatica. Picasso
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Max Ernst è il maggior esponente dell'automatismo pittorico: egli sperimenta il dripping (sgocciolamento), utilizzato
poi sistematicamente da Pollock, il frottage e il grattage, alla cui base c'è sempre l'interrogazione della materia
come fonte d'ispirazione.
Il frottage si ottiene sfregando grafite, pastelli o carboncini su un foglio sovrapposto ad una superficie che presenti
asperità, per ricavarne la texture ed “intensificare le capacità visionarie dell'artista”: le immagini formatesi stimolano
le fantasie inconsce , evocando altre immagini per aggregazione alogica. Il grattage consiste nel grattare dalla tela il
colore ancora fresco: il risultato cambia a seconda della spatola e del supporto. Lwe forme, le raffigurazioni, gli
ambienti sono in continua trasformazione dell'uno nell'altro; interno ed esterno sono immagini complementari di una
realtà sconosciuta e inconoscibile.
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RENÈ MAGRITTE
È importante sottolineare che Magritte è un artista belga (1898-1967). Sebbene,
infatti, abbia conosciuto a Parigi il movimento surrealista, è anche vero che le
Fiandre (di cui il Belgio è una parte) hanno sempre avuto una forte tradizione della
rappresentazione fantastica dei sogni e degli incubi, da Bosch a Bruegel fino a
Ensor. È da questa tradizione culturale che muove
Magritte. Ma il precedente più immediato è la pittura metafisica con la differenza
che, mentre in De Chirico l’inquietudine nasce dall’accostamento di oggetti comuni
o anche storici (statue, tempi, castelli, muse) Magritte preferisce le cose banali di
tutti i giorni e i suoi personaggi sono convenzionalmente borghesi con abito scuro,
bombetta, camicia bianca e cravatta.
Nel dipinto “I valori personali”, all'interno di una stanza troviamo oggetti che fanno parte
della nostra quotidianità, resi sensazionali dal sovradimensionamento:un pettine, un
fiammifero, un bicchiere ed un pennello da barba, ingigantiti fino ad occupare tutto
l'ambiente, per esprimere il dominio che esercitano sulle nostre vite. La
decontestualizzazione degli oggetti e i loro accostamenti stranianti generano quello che
Magritte definisce “shock poetico”, una sensazione di sorpresa ed incanto che induce lo
spettatore a riflettere sull'immagine,sullo status di immagine, sui limiti della percezione,
portando alla luce il mistero dell'esistenza che non può essere spiegato, ma solo suggerito
dallo spaesamento.
La sua pittura precisa, meticolosa, veristica fino al limite del trompe-l’oeil , gli
permette di creare una realtà più “reale” del reale, appunto sur-reale. Tuttavia, pur
dipingendo la banalità degli oggetti d'uso comune, come per una lezione di scuola
elementare, tutto cambia e comincia a vacillare, perché Magritte ce li presenta
secondo ua logica poetica che li fa apparire come inediti, dotati di una nuova forza.

Giorgio De Chirico, Canto d'Amore, 1914


René Magritte, I Valori Personali, 1952
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La condizione umana, 1933

Nell’ Impero delle luci (1953) il senso di sottile angoscia ed inquietudine è espresso dal
contrasto tra il cielo azzurro diurno, con nubi bianche, generatore di luce serena, e la cupa
notte misteriosa in cui è sommersa la parte inferiore della composizione, rischiarata appena
da un lampione posto davanti alla casa. Magrritte gioca coi contrasti, scardinando le nostre
strutture logiche che, come ha evidenzatio Levi-Strauss, hanno bisogno di pensare per
“coppie binarie oppositive”.
L’inquietudine è accresciuta dalla netta precisione con cui è rappresentato ogni elemento
della composizione e dal fatto che la coesistenza di notte e giorno non sia immediatamente
percepibile: sono il lampione e la luce dietro le finestre a dirci che non si tratta della
silohuette di un'abitazione.
Nel dipinto “La condizione umana”, una tela continua perfettamente il paesaggio su cui
L' Impero delle luci affaccia la finestra: la nostra percezione ci fa apparire uguali un'immagine tridimensionale ed
(1953) una bidimensionale che sono in verità distinte, ma ambedue false, perché dipinte entrambe.
C'è qualcosa che divide l'immagine dall'oggetto a cui rimanda, così come esiste uno scarto
tra le parole e le cose che designano.
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L'uso della parola I, 1928-29 .

Magritte, forse suggestionato dagli studi del semiologo Ferdinand De Saussure, riflette sui limiti e l'arbitrarietà del linguaggio,
quello verbale quanto quello visivo, giocando con la confusione tra realtà e rappresentazione, per proporci un nuova
riflessione sul confine, non sempre coscientemente chiaro, tra i due termini. L'autonegazione dell'oggetto, data altrimenti per
scontata, è scioccante e provocatoria.
In proposito scrisse “La famosa pipa...? Sono stato rimproverato abbastanza in merito.
Tuttavia la si può riempire? No, non è vero, è solo una rappresentazione: se avessi scritto sotto il mio quadro: “Questa è una
pipa”, avrei mentito.”
Approfondimento
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Lo shock poetico può essere generato anche mutando le proprietà


dell'oggetto, come nel caso del Castello dei Pirenei (1961), che
scardina il rapporto leggero-pesante, o attraverso l'occultamento,
come nell'opera Gli amanti (1928), in cui i visi nascosti dalle
lenzuola alludono alla condizione stessa dell'innamoramento, oltre
a rimandare al suicidio della madre, trovata dal dodicenne Magritte
con la camicia da notte sul volto dopo essersi gettata nella
Sambre.
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Il tema del volto celato è molto


ricorrente ed attiene alla
questione del visibile e invisibile,
su cui Magritte torna più volte e
nel 1929 scrive in Le parole e le
immagini : " Un oggetto può
implicare che vi sono altri oggetti
dietro di esso". Per l'artista,
dunque, l’invisibilità è
esclusivamente sinonimo di
qualcosa di “coperto”, di
“occultato” da un altro oggetto.

La grande guerra, 1964


Il figlio dell'uomo, 1964
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JOAN MIRÓ
La pittura di questo artista catalano
(1893-1983) nasce spontaneamente, in uno
stato di grazia chegli permette di immaginare forme,
accostarle, colorarle vivacemente,
con la fantasia di un fanciullo e una
felicità espressiva unica.
Trasferitori a Parigi da Barcellona
aderisce subito al Surrealismo.
L’opera più rappresentativa è il
Carnevale di Arlecchino: non si tratta
di oggetti reali combinati insieme
al di fuori del loro ambiente, non è
“l’incontro casuale di una macchina per cucire con un
ombrello su un tavolo operatorio”
secondo la definizione del conte di Lautréamont. La realtà
è ancora riconoscibile ma è
frammentata e fluttuante in una dimensione irreale,
popolando lo spazio di fantasmi e figure nate nell’inconscio
del pittore, che rivelano l'amore verso l'immensamente
piccolo, “la carne minima del mondo” (Garcia Lorca). Mirò
crea dei piccoli meccanismi formali basati su sistemi di
forze precisi: non solo ogni dettaglio è ben curato, come la
calligrafia di un albero, di un tetto, di una foglia, ma ogni
elemento è in rapporto dialettico e con l'insieme,
generando un sistema circolatorio che crollebbe
spostando anche solo uno di essi.
Dada e Surrealismo
Alla guerra civile spagnola Mirò
reagisce evadendo, con
raffigurazioni fantastiche fatte
di musica, di notte, di stelle.
La serie delle Costellazioni
(1940) nasce quasi per caso:
l'artista acquista un album per
pulire i pennelli e colpito dal
risultato decide di utilizzarlo
come sfondo per un dipinto,
inziando a dipingere di volta in
volta su carta preparata
involontariamente pulendo i
pennelli dopo un'opera
precedentemente realizzata.
Ogni Costellazione è perciò
legata all'altra da un filo
cromatico che le rende coerenti
e omogenee.

Costellazione: la stella del mattino, 1940.


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Negli anni '60, influenzato dall'Informale, Mirò dipinge opere composte da un unico colore di fondo e pochi segni
grafici, con una forza prima inedita ed approdando alla sintesi estrema con Blu III, l'apice dell'essenzialità di
forme e colori.

Blu I, Blu II, Blu III. 1961


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SALVADOR DALÍ
Artista catalano (1904-1989), Dalì è stato l'unico surrealista integrale, nell'arte
come nella vita. Eccentrico, sopra le righe, inviso agli altri esponenti del gruppi
per le sue continue provocazioni, rappresenta con minuzia ossessiva ogni
oggetto entro spazi conclusi dalla linea d’orizzonte.
Come Magritte non inventa forme nuove ma compone immagini reali,
collocandole in posizioni irreali e spesso deformandole
innaturalisticamente; tuttavia, diversamente da lui, si perde nei meandri
del sogno e della metamorfosi. Il suo è un autentico surrealismo, la
trascrizione poetica della realtà interiore.
Gli oggetti presenti nelle tele alludono ai segreti dell’inconscio:cassetti
da aprire per sondare il profondo della psiche, occhi scrutatori,
stampelle che sorreggono una traballante figura onirica.

“Non sono io il clown, ma questa società


mostruosamente cinica e così ingenuamente
incosciente che gioca a far la seria per meglio
nascondere la propria follia”

Intervista a Salvador Dalì


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Giraffa in fiamme, 1935 Autoritratto molle con pancetta fritta, 1941

Rotti i freni inibitori della coscienza razionale, la sua arte portava in superficie tutte le pulsioni e i desideri inconsci, dando loro l’immagine di allucinazioni iperrealistiche. Il
metodo di cui si serve, definito paranoico-critico, gli consente di dipingere “le immagini dell'irrazionalità concreta”: le visioni nate dall'inconscio (paranoia) prendono forma
grazie alla razionalizzazione del delirio (momento critico), necessaria per restituire nel modo più lucido ed esatto i fenomeni deliranti.
In Dalí non esiste limite o senso della misura, così che la sua sfrenata fantasia, unita ad un virtuosismo tecnico notevole, ne fecero il più intenso ed eccessivo
dei surrealisti al punto che nel 1934 fu espulso dal gruppo dallo stesso Breton.
Ciò tuttavia non scalfì minimamente la produzione artistica di Dalí, il quale, dopo essersi professato essere lui l’unico vero artista surrealista esistente,
intensificò notevolmente l’universo delle sue forme “surreali”. L' atavismo materialista e culinario induce Dalì a dipingere forme dalla consistenza molle, che
derivano dall'amore per il camembert, formaggio francese colante: ma il ricorso frequente alla fluidità si spiega anche con un evento biografico. Prima della
nascita di Dalì, la meningite uccise il fratello maggiore, che allora aveva sette anni: i due erano identici, tanto che i genitori pensarono di chiamare il secondo
figlio allo stesso modo, Salvador. Il furto sistematico dell'identità dell'artista, costretto a vivere e pensare in funzione dell'altro dai continui paragoni in famiglia,
ridussero la sua immagine corporea all'apparenza, ad un simulacro, un doppio disegnato nella consistenza del molle (il che spiegherebbe anche il suo
narcisismo, la tendenza a voler apparire, il dandysmo e l'esibizionismo); ed essendosi identificato con un morto, la sua immagine è quella di un cadavere in
putrefazione, mangiato da vermi ed insetti, anche'essi molto ricorrenti nelle opere del pittore. Solo grucce e stampelle riescono a fornirgli un sostengo per non
precipitare nella follia e vincere la morte.
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“Accadde una sera in cui mi sentivo stanco e avevo un leggero
mal di testa, il che mi succede alquanto raramente. Volevamo
andare al cinema con alcuni amici e invece, all’ultimo momento,
io decisi di rimanere a casa. Gala però uscì ugualmente mentre
io pensavo di andare subito a letto. A completamento della cena
avevamo mangiato un Camembert molto forte e, dopo che tutti
se ne furono andati, io rimasi ancora a lungo seduto a tavola, a
meditare sul problema filosofico della ipermollezza di quel
formaggio. Mi alzai, andai nel mio atelier e, com’è mia abitudine,
accesi la luce per gettare un ultimo sguardo sul dipinto su cui
stavo lavorando. Il quadro rappresentava una vista del
paesaggio di Port Lligat. Sapevo che l’atmosfera che mi era
riuscito di creare in quel quadro doveva servirmi come sfondo
ad un’idea ma non sapevo ancora minimamente quale sarebbe
stata. Stavo già per spegnere la luce quando, d’un tratto, ‘vidi’ la
soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva
miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa
fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la
tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò
dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei miei più
famosi, era terminato.”
Gli orologi flosci rappresentano il tempo elastico della nostra
memoria, che non può essere scandito e misurato
La persistenza della memoria, 1931
matematicamente, ma che scorre soggettivamente nella
percezione umana: la durata di un evento è dilatata o contratta
nella memoria, secondo quanto sosteneva Bergson. L’unico
orologio non deformato è quello ricoperto di formiche, che
sembrano divorarlo, quasi ad indicare l’annullamento di un
tempo cronologico e dello strumento razionale per eccellenza
che ha sempre permesso di misurare il tempo e di dividerlo in
modo da piegarlo alle esigenze pratiche e quotidiane.
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In Sogno causato dal volo di un'ape (1944),


Dalì rappresenta le visioni scaturite dalla
puntura di un'ape avvenuta mentre stava
sognando: una baionetta appuntinta sta per
trafiggere Gala, compagna dell'artista
fluttuante su uno scoglio piatto, mentre due
tigri feroci sono sul punto di assalirla saltando
fuori da un pesce che emerge da una
melagrana spaccata. La percezione del dolore
è intensificata dal sogno, la cui logica è
diversa da quella cosciente: ecco apparire un
elefante con le zampe di ragno che regge un
obelisco sulla groppa e cammina leggiadro
sull'acqua.
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L'enigma di Hitler, 1939.

L'interesse di Dalì per Hitler, che lui professava apolitico e totalmente surrealista, procurò a Dalì problemi con gli altri membri del gruppo,
i quali lo accusarono di nutrire simpatie per il dittatore. L'artista replicò: “Ho dipinto L’enigma di Hitler che, a prescindere da qualsiasi
intento politico, ha riunito tutti gli elementi della mia estasi. Breton era indignato. Egli non era disposto ad ammettere che il signore del
nazismo per me non fosse altro che un oggetto di delirio inconscio, una forza prodigiosa autodistruttiva e catastrofica”.
Il dipinto è un rimando (o una preveggenza, come sostiene Dalì) alla Conferenza di Monaco: la cornetta del telefono con il filo interrotto e
il ricevitore spezzato, dal quale scende una goccia, rappresenta i vari tentativi di pace falliti, il dialogo impossibile; l' ombrello pendente dal
ramo d' olivo alluderebbe invece al primo ministro inglese Neville Chammberlain, che tentò di riportare alla ragione Hitler; i pipistrelli
potrebbero indicare le tenebre che incombevano su tutta l' Europa.
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Scena da Un chien andalou,


con Luis Bunuel, 1929
Destino, per Disney, 1945

Con il successo che arriva negli anni Trenta,


Dalì si trasferisce in America, dove allarga il
suo campo tecnico occupandosi di
illustrazione, animazione, regia
cinematografica,scenografia, collaborando
anche con Disney, Bunuel e Hitchcock.

Un Chien Andalou
Destino- Walt Disney e Salvador Dalì
Scenografie per le scene dell’incubo, da Io ti salverò, Hitchcock, 1945
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Viso di Mae West utilizzabile come appartamento surrealista 1934-1935

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