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Alcune note sul problema della obsolescenza dei

ponti e viadotti italiani: il punto di vista del


progettista
Dopo il crollo del Polcevera si è scatenata la paura per tutte le opere
coeve che sono più della metà dei ponti italiani. Nell’articolo si
forniscono alcune indicazioni su cosa i progettisti fanno e possono
fare.

Marco Bartolomei Ingegnere- Stefano Isani Ingegnere, Studio MATILDI+PARTNERS, Bologna

Quando ci è stato chiesto un intervento sul tema del degrado dei ponti la mente è corsa a oltre venti anni di
esperienze vissute e alla attualità drammatica.
Nell’ultimo anno non c’è giornale che non abbia ospitato il parere dell’esperto ed è impossibile risolvere un
tema sconfinato, per tipologie, problematiche e risoluzioni, come quello dell’invecchiamento del nostro
patrimonio infrastrutturale; abbiamo scelto, allora, di elaborare piuttosto un racconto metodologico che
fornisca semplicemente spunti di approfondimento ed organizzi le conoscenze e le esperienze secondo un
percorso unitario.
Chiaramente alcune semplificazioni faranno sorridere i veri esperti ma l’intenzione reale è quella di
permettere una individuazione delle macrotematiche a tutti coloro che, pur tecnici del settore, non si
occupano quotidianamente di ponti.

Cosa c’è in giro oggi, il tema del degrado


L’invecchiamento dei ponti attanaglia l’intero occidente, per limitarci al mondo a noi vicino e che conosciamo
meglio anche mediaticamente.
E’ un fenomeno noto da qualche decennio sia in relazione all’incedere dell’età delle strutture sia in relazione
all’incrementarsi delle conoscenze sui materiali sia, infine, perché enfatizzato dagli episodi recenti e
drammatici che lo hanno sbattuto in prima pagina come un mostro, ricordando Bellocchio.
Poi, a ben vedere, i quattro casi recenti più famosi italiani sono molto diversi e solo a Genova si può parlare
in modo corretto di invecchiamento, molto probabilmente, ma per un’opera del tutto eccezionale sulla quale
non era in ogni caso sufficiente applicare le procedure e le attività ispettive semplici, proprie delle opere
correnti.

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Infatti il cavalcavia di Lecco sulla SS36, primo di questa recente serie, è crollato a causa del transito di troppi
carichi eccezionali; il cavalcavia 167 della A14 è crollato durante alcune attività di cantiere, probabilmente
non corrette, e il ponte sulla tangenziale di Fossano, in fondo recente, era figlio di una tecnologia di
prefabbricazione sicuramente poco conservativa e forse non correttamente applicata. Naturalmente tutti
questi casi sono oggetto di indagini e i giudizi espressi non sono esaustivi, ma servono solo per dire che oggi
chiunque vede in qualunque ponte una possibile arma letale, oltre ai reali pericoli, e non c’è giorno che
qualche giornale locale non manifesti le perplessità di qualche cercatore di funghi che, camminando sotto un
viadotto, vede una barra di armatura scoperta.

Ponti in cemento armato precompresso tipici


Rimane però oggettivo, e scientificamente provato, che il conglomerato cementizio sia tutt’altro che eterno:
che non sia, quindi, la “pietra fluida” vagheggiata dai pionieri dell’epoca d’oro ma sia, piuttosto, un materiale
che dopo 50 anni ha mutato significativamente le sue proprietà chimiche ed offra, di conseguenza, una
minore protezione al ferro che lo arma (si chiama carbonatazione ma molti di noi ne hanno compreso i reali
effetti solo di recente).
A questo si deve aggiungere che a partire dal celebre ponte sul Piave a Vallesella, collaudato nel 1949, e
grazie al contributo supremo di una generazione di ingegneri unici al mondo, la tipologia del ponte in
cemento armato è diventata necessariamente quella della travata precompressa, economica ed efficace.
Per i progettisti di ponti la tragedia di Genova, oltre al tributo orribile di vite umane, ha rappresentato nei
commenti ignoranti del giorno dopo il dolore di vedere disconosciuto il significato di una invenzione che ha
reso l’Italia un paese moderno, nell’unico modo possibile con le tecnologie economicamente disponibili.
Oggi i ponti si fanno per lo più in Verbundtraeger come spesso si diceva 50 anni fa mutuando il termine
tedesco, cioè in sistema misto acciaio calcestruzzo, ma si diceva in tedesco proprio perché era una tecnologia
straniera e costosa, del tutto sperimentale in Italia.
Purtroppo il cemento armato precompresso, che in senso assolutamente buono era autarchico, si è
dimostrato un materiale infido perché allo stato attuale, e come visto in tanti casi, non è ancora possibile con
metodi non invasivi testare lo stato di salute dei cavi in ragione affidabile, nonostante tanti studi e teorie.

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Foto 1 – La traccia di “umidità” fa supporre che nella guaina del cavo, forse non correttamente iniettato, sia
presente acqua; cosa rimanga dell’acciaio è un mistero

D’altronde ogni ingegnere sa che non è neppure facile individuare l’entità delle armature superficiali di
normali elementi edili se non per la posizione e con molti saggi visivi.

Le famigerate selle gerber


L’ingegner Heinrich Gottfried Gerber ha brevettato il suo sistema costruttivo nel 1866, inventando il ponte a
travata moderno e rendendo possibili opere sublimi come il Firth of Forth Bridge. Il solo fatto che abbia
permesso questo lo iscrive nel Gotha dei geni della Umanità per la capacità di superare, con semplicità
lodevole, i limiti delle capacità analitiche e delle conoscenze scientifiche a lui coeve. La sella Gerber è
diventata poi per un secolo uno standard produttivo impiegato spesso con insufficiente perizia e in ogni caso
senza curarsi dei campi reali di applicazione. Nessuno ha pensato che, ad esempio, un ponte ferroviario
metallico (le prime applicazioni) richiede prestazioni assai diverse da un ponte stradale in cemento armato
(le ultime applicazioni, dopo l’invenzione del cemento armato che all’epoca di Gerber non esisteva) in merito
alla regimentazione delle acque di piattaforma che nel primo caso, ipso facto, non esistono e nel secondo
caso, al contrario, portano oggi a centinaia di opere danneggiate da fenomeni di degrado locale ma spesso
critico.

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Foto 2 – La più grande sella Gerber italiana realizzata 35 anni fa, a doppio effetto, ancora funzionante;
purtroppo un’errata valutazione dell’accorciamento delle campate per effetto del ritiro e viscosità dei getti
ha portato gli appoggi al limite della loro corsa.

Le cose strane
Se le travate gerber sono state la palestra progettuale e la soluzione più frequente delle opere normali (non
dimentichiamo però il viadotto Costaviola di Riccardo Morandi con una luce di 180 m, purtroppo oggi
demolito) il panorama dei ponti italiani presenta anche opere uniche come alcuni ponti gemelli del Polcevera
oppure il mitico viadotto di Potenza sul Basento, oggi chiamato giustamente col nome del suo Progettista
Sergio Musmeci. Se però andiamo a vedere nel dettaglio quest’ultimo scopriamo che anch’esso è una
successione quasi isostatica di campate gerber sostenute dalle iconiche “corna di cervo” equitensionali e
vediamo pure che il degrado è ancora una volta concentrato nei giunti di impalcato.

Foto 3 – Il degrado del ponte di Potenza si concentra al di sotto dei giunti di dilatazione dell’impalcato e le
percolazioni aggrediscono anche le “corna di cervo”.

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Non è necessario osservare, quindi, come tutte le opere “strane”, laddove la fisiognomica addurrebbe a
interpretazioni particolari, trovino in realtà sostanza di degrado sempre, o quasi, nei giunti di dilatazione che
diventano accessi per l’acqua forieri di danno in tempi sempre più brevi rispetto all’invecchiamento delle
superfici correnti, né più né meno delle comuni travate in semplice appoggio.
In questa ottica i ponti ad arco sono intrinsecamente i più durevoli per la loro inevitabile continuità strutturale
anche se poi (si pensi al Romita di Zorzi sulla A1) quasi sempre l’impalcato è ancora una teoria di campate
appoggiate.

Tutto invecchia
Come ogni cosa viva anche le strutture hanno un ciclo vitale intrinseco ma godono, a differenza degli uomini,
della possibilità di estendere questo ciclo di alcuni ordini di grandezza mediante quelle attività che
comunemente chiamiamo manutenzione.
Ovviamente questo implica che dette attività siano progettate e condotte secondo pianificazioni efficaci ed
effettive.
Sintetizzando i materiali da costruzione in poche categorie noi sappiamo che alcuni materiali sono
sicuramente abbastanza stabili (pietre e mattoni ad esempio), alcuni molto meno (il legno) mentre altri si
degradano a vista come il ferro.
La conoscenza del degrado progressivo è in realtà una grossa risorsa perché permette attività certe di
manutenzione.
In questi casi si ricorda sempre che la torre Eiffel, la più celebre e remunerativa struttura metallica del pianeta
ha già 130 anni e viene verniciata ogni 7 anni integralmente ed esistono persone che vivono appese ad essa
a tale scopo. Questa verità rende bene l’idea di come un grosso pezzo di ferro ben mantenuto possa essere
di fatto eterno ma nasconde, ad un occhio poco attento, come questo risultato sia figlio di una tecnologia (la
verniciatura) matura già alla fine del diciannovesimo secolo quando la torre fu realizzata.
Oggi noi scontiamo, invece, l’entusiasmo adolescenziale nei confronti della pietra fluida, il calcestruzzo, che
ha caratterizzato tutto il novecento.
Solo le norme tecniche del 2008, ma già quelle “fantasma” del 2005, ci hanno insegnato, in pratica, che esiste
una vita di progetto e ci hanno insegnato che su questa vita si devono progettare i copriferri e i mix design,
grazie anche alla EN206 ed alla evoluzione tecnica dei conglomerati che nei casi migliori sono diventi prodotti
industriali, pur rimanendo, nelle realtà meno avanzate, ancora oggi l’esito di miscele vernacolari.

Cosa sappiamo di quello che vediamo


In teoria esistono sistemi di indagine evoluti applicabili sull’esistente ma quasi sempre l’anelito tecnologico
sopravanza la reale necessità o l’utilità dei risultati ottenuti.

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Foto 4 e 5 – Il pulvino così scoperto incidentalmente è stato prontamente ricostruito; in questo caso il rilievo
dei ferri era estremamente agevole, ma essi erano del tutto inutili.

È facile fare un rilevo laser scanner 3d con un drone, pure scenografico per il committente, ma dal punto di
vista pratico ci si ritrova poi con un file dwg da 400 megabytes.
Ma come sempre non esiste una unica strada.
Ci sono strutture dove un rilievo geometrico di questo tipo permette di ricostruire anche la geometria statica
(si pensi ad una reticolare metallica o ad un arco in pietra), ma ci sono strutture (in pratica tutte le altre a
dire il vero) dove un errore anche di centimetri sulle geometrie esposte non muta l’esito delle verifiche in
ragione significativa.
Rimane poi tutto il tema di quello che non si vede.
Di norma questo riguarda le opere di fondazione ma qui il principio del “è sempre stato su e ci starà sempre”
acquisisce una sua piccola valenza se le azioni sono simili a quelle di progetto e se non sono in atto fenomeni
di instabilità geotecnica o idraulica che trascendono l’oggetto di questo scritto.
Più serio e grave è il tema delle strutture in calcestruzzo che nascondono il proprio nucleo di armatura
fondamentale per caratterizzarne la resistenza e, potremmo dire con amara ironia, se non lo nascondono
sono in condizioni inadeguate comunque.
Esistono tante metodiche per vedere, nel senso di misurare, le armature inglobate nel calcestruzzo ma sono
possibilità limitate agli strati superficiali di getti relativamente sottili e con una precisione spesso
insoddisfacente, soprattutto in strutture estese centinaia o migliaia di metri quadrati.
Di sicuro in ogni caso il tema diventa estremamente complesso nel caso del cemento armato precompresso
laddove la conservazione dei cavi, la loro tensione e anche la loro iniezione è davvero incerta, quale che sia
la tecnica di indagine usata.

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La ricerca di metodi non invasivi ed economici diventa fondamentale stante il fatto che le campate da
indagare sono spesso decine e ciascuna può contenere a sua volta una decina di travi in ogni modesto
viadotto.

La successione delle norme sui carichi


Quando crolla un ponte il primo indagato è il traffico e spesso è condannato senza processo perché vediamo
tutti che ci sono più macchine nelle strade rispetto a 50 anni fa.
La storia dei carichi mobili che dimensionano un ponte, però, è un poco diversa da questo sentire comune.
È utile in tal senso esporre un breve regesto delle normative che si sono succedute nel tempo, confrontando
i carichi in esse definite.
A parte il coefficiente dinamico, che sparisce nelle NTC2008 e incrementava i carichi fino al 40%, la situazione
è questa:
• Normale n. 8 del 15/9/1933: durante il fascismo c’erano 3 tipi di strade, per i ponti afferenti alle strade di
grande traffico (statali, autostrade e di collegamento con futuro sviluppo di traffico) era previsto, oltre alla
colonna indefinita di autocarri da 12 t e il rullo compressore da 18 t, un veicolo con traino del peso
complessivo di 92 t.
• Normale n. 6018 del 9/6/1945: appena finita la guerra la norma divideva le strade in 2 tipi, venivano
considerati solo la colonna indefinita di autocarri da 12 t e il rullo compressore da 18 t. Tale norma, che di
fatto, “alleggeriva” i carichi gravanti sul ponte rispetto alla normale del 1933, fu oggetto di alcune critiche
immediate e in particolare si osservò come essa apparisse studiata con il solo scopo di facilitare la
ricostruzione a basso costo dei ponti stradali distrutti dalla guerra. Il ministero dei lavori pubblici pubblicò nel
giugno 1946 un documento nel quale si respingevano tali critiche esibendo un confronto tra i carichi di
normativa e quelli più gravosi all’epoca circolanti. Rimase, nei più sagaci, il sospetto che ci fosse, a motivo
nascosto, una implicita forma di difesa nei confronti di eventuali eserciti invasori, laddove i ponti non
avrebbero potuto reggere il peso dei tank o panzer nemici.
• Circolare n. 384 del 14/02/1962: è la norma del miracolo economico e considerava due categorie di ponti,
ancora con carichi civili e militari; come carichi civili erano previsti ancora la colonna indefinita di autocarri
da 12 t e il rullo compressore da 18 t, mentre come carichi militari erano previsti il treno indefinito di carichi
militari da 61.5 t, il treno indefinito di carichi militari da 32 t e il carico militare isolato da 74.5 t. Nella norma
erano riportate delle tabelle che indicavano, per ciascuno degli schemi previsti, il valore dei carichi, taglianti
e flettenti, ripartiti equivalenti in funzione della luce, per agevolare il calcolo.
La norma del 1962 è stata l'ultima nella la quale fosse evidente il significato fisico dei vari carichi previsti.
• DM n. 308 del 2/8/1980: il decreto divideva i ponti in tre categorie con la comparsa dei ponti pedonali e, a
parte il carico a traino da 3 assi di 55 t, proponeva carichi ripartiti linearmente il cui valore era in funzione

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della lunghezza di calcolo delle stese di carico considerate; il carico lineare è figlio delle prime applicazioni di
calcolo automatico. E’ la prima norma che introduce le verifiche a fatica.
• D.M. 4/5/1990: il decreto divideva i ponti in tre categorie, considerava un mezzo convenzionale da 60 t (a
tre assi estremamente vicini) e un carico ripartito linearmente pari a 3 t/m per la prima colonna e con carichi
ridotti per le altre colonne di carico. Il mezzo convenzionale da 60 t (impossibile nel mondo reale e presente
in tutte le norme successive) nasce come azione concentrata per la verifica delle solette, che già all’epoca si
dimostrano elementi critici.
• NTC 2008-2018: nella norma omnicomprensiva che impone gli stati limite il capitolo 5 è dedicato ai ponti e
si confermano le tre categorie tipologiche. Il mezzo convenzionale da 60 t è ridotto a 2 soli assi ancora più
vicini e c’è un carico ripartito linearmente pari a 0.90 t/m2 per la prima colonna e con carichi ridotti per le
altre colonne di carico, oltre che ad altri carichi concentrati per le verifiche locali. Nelle NTC 2018 sparisce
solo la seconda categoria di ponti, rimanendo il resto immutato.

Oggi c’è il sisma


In seguito alla ordinanza numero 3274 del 2003 quasi tutta l’Italia è diventata zona sismica con parametri di
accelerazione orizzontale sovente severi e in ogni caso significativi.
Questo significa che a parte le opere dell’ultimo decennio gran parte dei ponti costruiti non dispongono di
capacità di assorbimento delle azioni dei terremoti adeguate ai requisiti odierni.
In realtà il ponte (si intendono i viadotti a travata soprattutto) è un oggetto intrinsecamente poco sensibile
ai terremoti poiché, per il suo comportamento naturale a pendolo rovescio (a lollipop secondo gli anglofoni
poetici) caratterizzato da masse rilevanti poste ad alta quota, beneficia spesso di periodi propri
tendenzialmente elevati che contengono naturalmente le accelerazioni orizzontali.
Senza arrivare ai 20 secondi del primo periodo del Golden Gate, periodi di un paio di secondi sono comuni a
molti dei viadotti medi a travata degli anni sessanta-novanta e questo fa si che il sisma si approssimi al vento
utilizzato storicamente nel dimensionamento di appoggi e pile (i celebri 250 kg/m2).
Il discorso è evidentemente generalizzato ai limiti dell’irresponsabilità ma rappresenta efficacemente una
realtà che la pratica progettuale finisce per confermare sovente.
L’adeguamento sismico dei ponti esistenti coincide quasi sempre in un loro adeguamento legislativo
(assolutamente necessario, sia chiaro) piuttosto che in un incremento analitico di sicurezza, poiché questa
sicurezza, magari involontariamente è spesso già presente.
Si pensi a tutto il tema del vincolamento offerto dall’attrito che, pur negato giustamente dalle norme
ingegneristiche moderne e quindi da emendare, costituisce il fermo oggettivo di tutte le cose, compresi gli
ingegneri che camminano per strada.

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Sappiamo tutti che, riassumendo con brutale semplicità e trascurando innumeri eccezioni, da 20 anni
(ordinanza 3274) si fanno analisi sismiche dinamiche dei ponti, nei 20 anni precedenti si usava l’analisi statica
equivalente e prima ancora non si faceva nulla.
Non è proprio vero, alcuni ingegneri ormai anziani potrebbero confermare che nei ponti della Salerno-Reggio
di 50 anni fa si facevano alcune “verifiche sismiche” adottando tensioni ammissibili maggiorate in una forma
di SLU antelitteram, ma è sicuramente vero che per tante opere gli interventi di retrofitting sono stati fatti
già a partire dagli anni 90 del secolo scorso e pertanto, almeno negli assi viari importanti, cioè le autostrade,
non esiste un problema di adeguamento sismico, per lo meno su scala globale.
Potremmo dire, poi, che le azioni sismiche sono aumentate di alcune volte come intensità dal DM96 alle
NTC2008, ma come hanno rilevato tutti coloro che si occupano di questi temi, anche la resistenza di una
struttura è aumentata assai tra un calcolo semplificato alle tensioni ammissibili e una verifica moderna allo
SLU e i due effetti si compensano. Non interamente, è chiaro, ma in ragione sufficiente per fare sì che dopo
un terremoto ci siano tanti ponti danneggiati ma pochi o nessuno crollato a testimonianza del rispetto
sostanziale dello stato SLV.
Il tema dell’adeguamento, anche parziale secondo le indicazioni delle NTC2018 (p.to C8.8.7), va visto quindi
in termini di strategicità dell’opera inserita nel suo contesto (ovviamente una strada deve avere tutte le sue
opere di pari e adeguato livello prestazionale e purtroppo questo non avviene mai per motivi comprensibili
ma non giustificabili) oppure per quelle opere minori che allo stato attuale non hanno mai goduto neppure
di una verifica sismica sommaria.

Costa più rifare o recuperare?


La valutazione tecnico economica del tipo di intervento proponibile è sempre multifattoriale; a volte si
richiede un mero adeguamento sismico e a volte un mero adeguamento statico, senza in verità una
discriminazione giustificabile che non sia il solo costo dell’intervento o il suo inquadramento burocratico. Noi
riteniamo che l’intervento debba essere sempre completo anche se le due tematiche risultano di fatto
indipendenti. Tante volte abbiamo incontrato la difficoltà di adeguare un’opera sismicamente mentre si
facevano interventi di puro restauro così come l’adeguamento sismico è spesso visto come una sostituzione
degli appoggi e basta.
Ovviamente non esiste una sola risposta a questa questione esiziale che riassume tutto quanto in precedenza
accennato.
Nella nostra esperienza tanti interventi appaltati come “restauri” sono diventati ricostruzioni e non è stata
solo la capacità dell’impresa esecutrice che abilmente ha saputo incrementare il volume venale dei lavori,
pro domo sua; spesso, infatti, è difficile garantire la vita di progetto di un’opera nuova (50 o 100 anni)
intervenendo su un’opera che ha già 50 anni.
Il problema è semplicemente questo.

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È difficile perché oltre ai limiti dei materiali sussiste comunque spesso una concezione antiquata dell’opera
e, sommando tutte le incertezze che avviluppano le caratterizzazioni, diventa sovente una operazione un
poco arbitraria e avventurosa salvare le strutture in essere. Anche questo approccio impone un
approfondimento, tuttavia.
I ponti a travata più comuni sono costituiti da impalcati e pile, i primi in cemento armato precompresso e le
seconde in cemento armato ordinario; i primi sono più critici per il degrado delle acque percolanti, spesso
risultano stretti per le nuove richieste di geometria stradale e spesso sono realizzati con i copriferri e gli
spessori tipici degli anni sessanta. Quasi sempre non hanno dispositivi di vincolo. Le pile sono massicce.
Risulta opportuno pertanto rifare gli impalcati e recuperare le pile, ciò è a dire dosare l’intervento di
adeguamento del ponte secondo due tipologie diverse ma ben adese alle problematiche reali delle opere.
L’impiego poi di impalcati in sistema misto acciaio calcestruzzo consente di allargare effettivamente le sezioni
stradali fino ad alcuni metri (così è stata tante volte inserita la corsia di emergenza sulla autostrada A2) e il
nuovo impalcato pur di maggiore larghezza riesce anche a competere col vecchio in termini di peso, grazie
all’acciaio, e può essere sostenuto dalle medesime sottostrutture.
La sostituzione dell’impalcato permette, infine, l’inserimento di dispositivi di isolamento sismico e contiene
le azioni sulle pile che tante volte non vengono rinforzate ma solo ricoperte con materiali adeguati a sanare
le superfici carbonate.
Questo è l’intervento ideale, e come tale raro, ma è un intervento di massima flessibiltà e ben si adatta a
tante situazioni.
Quasi sempre nel caso di impalcati con più luci si può, ad esempio, eliminare alcune pile e poggiare, a volte,
direttamente sulle spalle le travate in acciaio, rispondendo così ai requisiti delle NTC che indicano luci minime
di 40 m in presenza di alvei.

Progettare per la durabilità e non per la resistenza


Il semplice invecchiamento o il reale degrado sono fenomeni inaccettabili nelle opere moderne che devono
godere delle esperienze maturate sulle opere storiche che abbiamo trattato.
Alla triade vitruviana di utilità, bellezza e resistenza oggi è necessario associare due nuovi concetti destinati
a slivellare l’approccio consueto della progettazione strutturale.
Si tratta del binomio durabilità e robustezza che incarna sinteticamente l’anelito di realizzare strutture che
superino in sé stesse le problematiche finora ricordate, già nella loro progettazione.
Non si può negare che il progettista abbia un ruolo importante anche in questo binomio ma, come sempre,
esso coinvolge la costruzione e soprattutto la gestione dell’opera.
Come tutti i concetti relativamente nuovi bisognerà che durabilità e robustezza entrino nella cultura
condivisa e diffusa per diventare effettivamente operativi, altrimenti rimarranno medaglie da esporre nelle
relazioni metodologiche delle gare di progettazione, senza influire poi sui processi produttivi.

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Ma iniziare a parlarne ha già indotto effetti visibili sulla attenzione ai dettagli ed alla ridondanza.
Oggi, difatti, i validatori migliori incentrano il proprio riesame dei progetti anche su questi temi, scovando
abilmente i tanti progettisti obsoleti.

La scelta dei materiali


I materiali da costruzione “comuni” sono decisamente tecnologie mature ma hanno negli ultimi decenni
avuto un progresso reale nel mondo delle realizzazioni infrastrutturali che come tutti gli ambiti edili è sempre
renitente all’innovazione.
Non parliamo dei compositi o dei pultrusi fibrorinforzati o cose del genere che 50 anni dopo la loro massiccia
introduzione diventeranno le criticità del 2100 (non vuole essere una affermazione oscurantista ma uno
stimolo a partire col piede giusto e a non ripetere gli errori del calcestruzzo di un secolo fa); parliamo
piuttosto dei calcestruzzi ad alta resistenza di classe maggiore del C50 o degli acciai di classe S460.
I ponti si dimensionano anche a deformabilità e la deformabilità è nemica dell’incremento tensionale ma in
alcuni casi questi materiali possono essere usati. Nella ricostruzione di impalcati in cap, spesso
originariamente snelli, l’impiego di acciaio S460, per impalcati in sistema misto acciaio-calcestruzzo, può
risolvere molti problemi a un costo solo di poco superiore al comune S355.
Una tematica rilevante è, anche, l’accoppiamento di nuovi getti a getti vecchi di decine di anni, sia che si tratti
di un cordolo ricostruito e di un piccolo baggiolo ma anche della fodera di una pila alta più di 100 m.
Qui poiché il volume di calcestruzzo aggiunto è spesso minimo diventa fondamentale lo studio dei fenomeni
di ritiro impedito e di viscosità ed è uno studio specialistico complesso.
Purtroppo tante volte questa tematica è ignorata o sottovalutata (“in fondo è solo un poco di cls in più, cosa
vuoi che succeda”) ma dopo pochi anni il nuovo getto è troppo spesso in condizione peggiori del getto
vecchio.

Foto 6 – Il calcestruzzo vecchio, dopo 40 anni, pare migliore di quello gettato un lustro fa per allargare il
cordolo e già segnato in ogni staffa

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Conclusione
Sicuramente, pur limitandoci ad un approccio a volo di uccello, ma dovremmo dire a volo di drone oggi,
abbiamo scritto troppo e molti lettori si saranno persi per strada pur non avendo nemmeno sfiorato tanti
temi possibili.
Tutto quanto riportato, deliberatamente senza nomi, è frutto in ogni caso di esperienze professionali reali.
Ponti veri, progettisti veri e tematiche affrontate.
Come detto in premessa speriamo di aver suscitato qualche piccola rianalisi critica in qualche collega e molta
voglia di approfondire in tutti gli altri, perché il tema dell’invecchiamento delle infrastrutture ci riguarda tutti
come tecnici e come meri utenti delle stesse.

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