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Breve introduzione alla metrica italiana

1. La poesia

Caratteristiche generali
Il testo poetico, come la prosa, è costituito da proposizioni. Rispetto alla prosa
però presenta una differenza essenziale. Mentre, infatti, i testi in prosa non
hanno in genere schemi fissi, il testo in versi è costituito da due aspetti
specifici:
a) da una parte i ritmi e i metri: fenomeni che si possono definire in a livello
del verso
b) dall’altra le rime e le strofe (fenomeni che si possono definire a livello dei
rapporti fra (gruppi di) versi.

Sia i ritmi e metri che le rime e le strofe rendono il testo in versi legato ad una
certa disciplina formale a cui il poeta si attiene più o meno consapevolmente. Si
dice per esempio che Dante pensasse in terzine.

Un breve caveat terminologico


Attenzione! In italiano si utilizza il termine poesia sia come categoria generale
(la poesia vs la prosa, in neerlandese poëzie), sia per indicare i singoli
componimenti in versi (in neerlandese gedicht).
In italiano esiste anche il termine poema, che indica un testo in versi di una
certa lunghezza, e di solito di carattere narrativo o descrittivo. I poemi sono di
solito suddivisi in canti o libri. Al termine poema si aggiunge spesso un
aggettivo che indica l’argomento o il sottogenere cui appartiene il poema, ad
es. poema cavalleresco (ridderepos), poema didascalico (leerdicht), poema
eroico (heldenepos), poema sacro (termine utilizzato da Dante per definire la
Commedia).

Esempi: i sonetti di Petrarca sono poesie; la Commedia di Dante, l’Orlando


furioso di Ludovico Ariosto sono poemi. Un genere a metà strada fra la
poesia e il poema è il poemetto, piuttosto diffuso nella poesia del secondo
Ottocento e del primo Novecento (es. Giovanni Pascoli, Primi poemetti).

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2. Il verso

2.1. Sillabe toniche vs sillabe atone


Nella poesia italiana prevale sin dal Duecento il cosiddetto verso sillabico,
costituito dall’alternanza di sillabe toniche e atone.

Le sillabe toniche, rispetto a quelle atone, sono più lunghe e portano un


accento dinamico più o meno energico.
Ecco i due segni metrici fondamentali :
ӗ vocale breve in sillaba atona
ḗ vocale breve in sillaba tonica

2.2. Contare le sillabe


In generale, contando il numero delle vocali in un verso otteniamo il numero
delle sillabe. Il dittongo1 ha valore di una sola sillaba.

Vi sono però alcune regole per quel che riguarda la combinazione di vocali. Più
in particolare una giusta dizione di versi italiani si ottiene con quattro figure
metriche principali: la sineresi, la dieresi, la sinalefe e la dialefe.

a) La sineresi è il fenomeno della fusione in una sola sillaba di due vocali


vicine nella stessa parola:
«Dirò dell’altre cose ch’io v’ho scorte»

b) La dieresi è lo stacco di due vocali contigue della stessa parola.


«Dolce color d’ori ⁞ ental zaffiro» (Dante, Purgatorio, I, 13)

c) La sinalefe è un’elisione ritmica di una vocale per evitare lo iato (incontro


difficilmente pronunciabile di due vocali che non formano dittongo, es.
'spi-are’).
«torr’antica» invece di «torre antica»

d) La dialefe è invece una una pausa all’interno di uno iato.


«O | animal grazioso⁞e benigno» (Dante, Inferno, V, 87).

2.3. La clausola e i tre tipi di versi italiani


Nella metrica italiana si presta particolare attenzione alla parte finale di un
verso (detta anche clausola).

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Gruppo costituito da due vocali che si seguono nella medesima sillaba. Una delle due è vocale
sillabica, l’altra può essere sia vocale vera e propria ma asillabica, sia semiconsonante.

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I versi, così, che terminano con una parola piana (con accento tonico sulla
penultima sillaba, es. “inìzio”, “continènte”) sono chiamati versi piani.
I versi che terminano con una parola tronca (con accento grafico sull’ultima
sillaba, es. “virtù’, “libertà”) sono chiamati versi tronchi.
I versi con un’ultima parola sdrucciola (con accento tonico sulla terzultima
sillaba, es. “tàvolo”, “èsile”) sono versi sdruccioli.
La grande maggioranza dei versi sono piani.

Esempi:
“Spesso il male di vivere ho incontrato” (Eugenio Montale): verso piano
“Non ho che superbia e bontà” (Giuseppe Ungaretti): verso tronco
“(…) in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo” (Cesare Pavese): verso
sdrucciolo

2.4. I versi e il numero delle sillabe


Nella poesia italiana i versi si distinguono in base al numero delle sillabe di cui
sono formati. Si hanno così: i ternari, i decasillabi, gli endecasillabi,
quindicisillabi ecc. Siccome il verso più frequente è quello piano, l’ultimo
accento del verso cade sulla penultima sillaba (l’ultimo verso dell’endecasillabo
cade sulla decima sillaba, l’ultimo verso del decasillabo cade sulla nona sillaba,
ecc.)
I versi più frequenti sono l’endecasillabo e il settenario; importanti sono anche
il decasillabo, il novenario e il quinario.

Endecasillabo
L’endecasillabo è il verso più importante nella poesia italiana. L’endecasillabo
ha l’ultimo accento sulla decima sillaba, e conta di solito 11 sillabe
(endecasillabo piano). L’endecasillabo tronco conta soltanto 10 sillabe (perché
l’ultima parola del verso è una parola tronca), l’endecasillabo sdrucciolo conta
12 sillabe (l’ultima parola ha l’accento sull’antipenultima sillaba, vd. supra).
Alcune forme metriche scritte di solito in endecasillabi sono il sonetto, la
terzina (Commedia di Dante), e l’ottava rima (Orlando furioso, Gerusalemme
liberata).

Decasillabo
Il decasillabo ha l’ultimo accento sulla nona sillaba, per cui il decasillabo piano
(la versione di gran lunga più frequente) conta dieci sillabe.
Il decasillabo è piuttosto raro.
Es. “S’ode a destra uno squillo di tromba” (Alessandro Manzoni, Il conte
di Carmagnola).

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Novenario
Un novenario è un verso con l’ultimo accento sull’ottava sillaba (e conta quindi
di solito nove sillabe). E’ un verso piuttosto raro nella poesia italiana. Lo si trova
soprattutto nella poesia dell’ultimo Ottocento e del Novecento (in Giovanni
Pascoli e in D’Annunzio, ad esempio).

Settenario
Il settenario è un verso con l’ultimo accento sulla sesta sillaba (e conta quindi di
solito sette sillabe). Dopo l’endecasillabo è il verso più diffuso nella letteratura
italiana. Il settenario è frequente in generi leggeri e musicali (la canzonetta, ad
esempio). La canzone (la forma più prestigiosa della lirica italiana, utilizzata di
solito per argomenti importanti, e canonizzata da Dante e da Petrarca) è
composta di diverse strofe di endecasillabi e settenari.

Es. Giorgio Caproni, Uscita mattutina, è una poesia basata sull’alternanza


(dall’effetto musicale) di settenari e novenari:
“Come scendeva fina settenario
e giovane le scale Annina! novenario
Mordendosi la catenina novenario
d’oro, usciva via settenario
lasciando nel buio una scia novenario
di cipria, che non finiva. novenario

Senario
Il senario è un verso con l’ultimo accento sulla quinta sillaba (e che nella
versione piana conta sei sillabe).

Es. Pietro Metastasio, da L’Arcadia in Brenta, atto III


Dal primo momento
che presi ad amarlo
tal forza mi sento
tal fede ho nel core
che piena d’amore
non posso lasciarlo
ma posso morir.

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Quinario
Il quinario è un verso con l’ultimo accento sulla quarta sillaba (e conta quindi di
solito cinque sillabe). È un verso piuttosto raro, utilizzato a volte anche in
forma doppia (quinario doppio).

I nomi inclusi in questa classificazione in versi non definiscono la struttura


ritmica dei metri, né mette in rilievo i legami fra certe forme metriche.

3. Le categorie dei metri italiani

I versi italiani possono essere distinti anche secondo le unità ritmiche di cui si
compongono. Per analogia con i piedi latini si può parlare di ritmi giambici
(giambo), trocaici (trocheo), dattilici (dattilo) e anapestici (anapesto).

Il giambo è un piede formato da un’arsi di una sillaba breve e di una tesi di una
sillaba lunga, secondo lo schema ∪ —; in termini ritmici significa una sillaba
atona e una sillaba tonica.
Il trocheo è formato da un elementum longum e da un elementum anceps
nella sua forma pura secondo lo schema — ∪ ; in termini ritmici significa una
sillaba tonica seguita da una sillaba atona.
Il dattilo è formato da un’arsi di una sillaba lunga e da una tesi di due sillabi
brevi, secondo lo schema — ∪ ∪; in termini ritmici significa una sillaba tonica
seguita da due sillabe atone.
L’anapesto è formato da due sillabi brevi che formano l’arsi e da una sillaba
lunga che rappresenta la tesi, secondo lo schema ∪ ∪ —; in termini ritmici
significa due sillabe atone seguita da una sillaba tonica.

I metri composti di giambi e di trochei sono poliritmici, i metri dattilo-


anapestici sono monoritmici.
I metri giambici sono il quinario, il settenario, il novenario, l’endecasillabo, il
quindicisillabo.
I metri trocaici sono il quaternario, il senario trocaico, l’ottonario.
I metri dattilici e anapestici sono il trinario, il senario, il novenario, il
decasillabo.

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4. La rima

4.1. Definizione e funzione


In generale la rima si ottiene facendo terminare due o più versi con un gruppo
di suoni uguali.
La rima presenta due funzioni principali:
a) una funzione fonetico - espressiva
b) una funzione strutturale

4.2. Il verso sciolto e la rima sciolta


Esistono anche poesie composte parzialmente o interamente di versi privi di
parole rima. In quel caso si parla di un verso sciolto. Nella tradizione poetica è
di solito un endecasillabo (un esempio è il poema Il giorno di Parini, scritto nella
seconda metà del Settecento). Nel Novecento, il verso diventa molto comune.

Di solito, l’uso della rima può essere regolato da schemi di ricorrenza e


alternanza delle parole che rimano (si vedano gli schemi presentati qui sotto
della rima baciata (AABBCC), rima alternata (ABAB) e rima incrociata (ABBA). Se
la successione delle parole rima è priva di regolarità, si parla di rima sciolta.

4.3. Rime perfette vs rime non perfette


Le rime non perfette sono rime in cui vengono ripetute soltanto alcuni elementi
della catena sonora.
Nel caso dell’assonanza, si ripetono soltanto le vocali della clausola, tra
consonanti diverse.
Es. «Fa’ la ninna, fa’ la nanna
Piccino della mamma»
(Canzone di Firenze)

Nel caso della consonanza, si ripetono in due (o più versi) soltanto le


consonanti delle parole rima, mentre le vocali sono diverse.
Es. «Fior di ginestra,
tutta s’infiora la campagna nostra,
quando s’affaccia Nina alla finestra».
(Foligno)

4.4. La rima dal punto di vista lessicale: rima univoca, rima equivoca
Una rima univoca consiste nella ripetizione della stessa parola
Es. «Quella macchia! S’adopera a lavarla
Il mare infinito; ma invano.

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E la stella che vede, ne parla
Al cielo infinito; ah! Invano»
(Pascoli, L’anello)

La rima equivoca consiste nella ripetizione della stessa parola ma con


significato diverso; di solito le rime equivoche vengono utilizzate in giochi di
parole o in artifici retorici.
Es. «Lo viso e non diviso da lo viso,
e per aviso credo ben visare;
però diviso viso da lo viso,
ch’altr’è lo viso che lo divisare».
(Jacopo da Lentini, esempio di un “bisticcio”, o gioco retorico)

4.5. La posizione della rima


La rima baciata (AABBCC…) è usata soprattutto nella poesia popolare o in
poesia narrativa.
Es. «Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia»;
(Giovanni Pascoli, La cavallina storna)

La rima alternata (ABAB) prevede un incrocio di due coppie di rime. È una rima
comune in molti generi.
Es. « Da sé il più vecchio le spese faceva,
per risparmio, e più forse per diletto.
Con due fiorini un cappone metteva
nel suo grande turchino fazzoletto».
(Umberto Saba, Sonetto autobiografico 2)

La rima incrociata (ABBA) si trova spesso nelle quartine del sonetto.


Es. « Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato».
(Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto)

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La rima rinterzata (ABA CBC) è caratteristica delle terzine del sonetto.
Es. « Il Tempo chiama dalla torre
lontana… Che strepito! | È un tren,
là, se non è il fiume che corre.

O notte! Né prima io l’udiva,


lo strepito rapido, il pieno
fragore di treno che arriva».
(Giovanni Pascoli)

La rima incatenata (ABA BCB CDC DED ecc.) è caratteristica delle terzine
dantesche.
Es. «Per me si va nella città dolente,
per me si va nell'eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e'l primo amore».
(Dante, Inferno, III, 1-6)

5. La strofa

Nella maggior parte delle poesie i versi si susseguono secondo schemi più o
meno regolari, che spesso si ripetono più volte nelle stesso componimento. I
diversi tipi di strofe si distinguono secondo il numero di versi.

Il distico
Il distico è una strofa di due versi, di solito due versi della stessa lunghezza, e
legata dalla rima (di solito una rima baciata, del tipo AABBCCDD…. Il distico è il
verso tipico dell’epigramma (componimento poetico mirante a fermare in
breve il ricordo di una vita o di un’impresa), e in generale di poesie più lunghe,
di taglio narrativo.
Es. La cavallina storna di Giovanni Pascoli è una poesia composta di distici
con rima baciata (AABBCCDD)

La strofa di tre versi


Esistono diverse forme metriche composte di tre versi. La più famosa è
indubbiamente la terzina o terza rima

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La terzina è una strofa di tre endecasillabi. Una forma particolare, diventata
famosa e fortunata nella letteratura italiana, è la cosiddetta terzina dantesca,
utilizzata da Dante per la Commedia. Nella terzina il primo endecasillabo fa
rima con il terzo, mentre il secondo fa rima con il primo e il terzo verso della
terzina successiva. (ABA BCB CDC...).

Es. Dante, Inferno, canto V:


Così discesi del cerchio primaio A
giù nel secondo, che men loco cinghia, B
e tanto più dolor, che punge a guaio. A
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: B
essamina le colpe ne l'intrata; C
giudica e manda secondo ch'avvinghia. B
Dico che quando l'anima mal nata C
li vien dinanzi, tutta si confessa; D
e quel conoscitor de le peccata C

La terzina viene utilizzata anche nel Novecento per poesie di lunghezza media e
di carattere narrativo, descrittivo o riflessivo. Oltre a Pascoli, anche poeti come
Pasolini e Sanguineti hanno utilizzato la terzina.

Esistono anche terzine in altri generi poetici. Il sonetto è composto di due


quartine e di due terzine.

Un altro genere composto di strofe di tre rime è lo stornello, composto di un


quinario e due endecasillabi. Si tratta di un genere antico, diffuso in particolare
nell’Italia centrale.

Quartina
Una strofa di quattro versi a rima baciata, alternata o incrociata. La quartina
compare già nelle poesie delle antiche civiltà come l’antica Grecia e l’antica
Roma.
I primi otto versi del sonetto sono composti di due quartine. In particolare
nell’Otto-Novecento si trovano anche poesie composte di quartine (es. Alla
stazione una mattina d’autunno di Giosuè Carducci, o Non chiederci la parola di
Eugenio Montale).

La quinta rima
Una strofa di cinque versi.

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La strofa di sei versi (sestina)
Sei versi, a volte secondo lo schema ABABAB, ma lo schema più frequente è
però ABABCC. Altre varietà risultano dallo spezzamento del quindicisillabo.
Sotto il nome di sestina si può distinguere tra:
Sestina narrativa: una stanza composta da sei versi endecasillabi.
Sestina lirica: è caratterizzata da stanze indivisibili e dalle seguenti
regole (il componimento è formato da sei stanze di sei endecasillabi
ciascuno; nessun verso rima all’interno della stanza; i versi che rimano
tra loro terminano con la stessa parola-rima; nel congedo di tre versi
ricompaiono tutte e sei le parole rima; i versi sono ordinati secondo la
retrogradatio cruciata secondo lo schema ABCDEF, FAEBDC, CFDABE,
ECBFAD, DEACFB, BDFECA. La sestina lirica fu utilizzata per es. da
Francesco Petrarca che la inserì nove volte nel suo Canzoniere.

La settima rima
Una forma molto rara che si ottiene dalla sestina tradizionale (ABABCC) per
mezzo dell’introduzione di un verso sdrucciolo sciolto dopo il quinto.

L’ottava rima
Dopo la terzina, è la strofa più famosa della poesia italiana. La sua forma
primitiva era probabilmente l’ottava siciliana, secondo lo schema ABABABAB.
L’ottava rima ha ricevuto la sua forma codificata nel Trecento (in alcune opere
di Giovanni Boccaccio) con lo schema ABABABCC.
Fino al Settecento è rimasta la forma metrica dei poemi epici. I poemi di
Matteo Maria Boiardo (Orlando innamorato), Ludovico Ariosto (Orlando
furioso), Torquato Tasso (Gerusalemme liberata) e Giovan Battista Marino
(Adone) sono tutti stati scritti in ottava rima.

La nona rima
La nona rima, piuttosto rara, si può considerare un’ottava a cui si è aggiunto un
altro verso.

La decima rima
E’ una strofa formata di tre coppie di endecasillabi a rima alterna seguite da tre
endecasillabi monorimi e un endecasillabo che si rima col secondo delle coppie:
ABABABCCCB. Usata in componimenti di argomento sacro o di carattere
popolare.

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6. Dalla strofa al genere: forme strofiche fisse e composte

In alcuni casi certe forme strofiche vengono combinate in uno schema


complesso che diventa un genere letterario autonomo.

La ballata
La ballata è un genere apparso intorno alla metà del XIII secolo nell’Italia
centrale. Il genere viene perfezionato dagli stilnovisti e dal Petrarca.
È formata di tre parti: il ritornello, la parte centrale con la stanza e la volta, e la
ripresa.
Secondo il numero di versi nel ritornello si può distinguere tra la ballata grande
(ritornello con quattro versi), la ballata mezzana (ritornello con tre versi);
ballata minore (ritornello con due versi) e la ballata piccola o minima
(ritornello con un verso).

Esempio: Guido Cavalcanti, Era in penser d’amor quand’i’ trovai

Era in penser d’amor quand’ i’ trovai


due foresette nove.
Ritornello L’una cantava: «E’ piove
(ripresa) Gioco d’amore in noi»

Era la vista lor tanto soave


Stanza e tanto questa, cortese e umile,
ch’i dissi lor: «Vo’ portate la chiave
di ciascuna vertù alta e gentile.

Deh! Foresette, no m’abbiate a vile


Volta per lo colpo ch’io porto;
questo cor mi fue morto,

Ripresa poi che ‘n Tolosa fui.

La canzone
La canzone è un genere composto di un numero indeterminato di strofe,
caratterizzate da un’alternanza di endecasillabi e settenari. Secondo lo schema
concreta si hanno tre varietà principali:
Nella canzone antica o petrarchesca le strofe, di numero variabile, presentano
lo stesso schema strutturale (stesso numero di versi, stessi tipi di versi, di solito
endecasillabi alternati a settenari). L’unica strofa che può avere uno schema

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diverso è il cosiddetto congedo o commiato, una strofa conclusiva con un
numero limitato di versi.
Le strofe regolari sono costituite da due elementi: la fronte (suddivisa in piedi)
e la sirima/coda (suddivisa in volte); spesso tra i due si trova anche la
diesi/chiave. Nella sirima alla fine si trova spesso un distico finale.
La canzone leopardiana o libera è caratterizzata da una libertà parziale o totale
nella struttura delle strofe. Si può avere un certo numero di versi sciolti
intercalati negli schemi tradizionali, ma si possono avere anche strofe diseguali
tra loro per il numero di versi. Nel canto A Silvia di Leopardi le strofe vanno da
sei a quindici versi e quasi in ciascuna più della metà dei versi sono senza rima.

Il sonetto
Nella forma più generale è costituito da quattordici endecasillabi, raggruppati
in due quartine e due sestine. Esiste una similitudine strutturale fra questa
struttura interna del sonetto e la suddivisione delle strofe di una canzone in
fronte e sirima: le quartine corrispondono ai due piedi della fronte, mentre le
due terzine corrispondono alle due volte della sirima. Tra le quartine e le
terzine c’è quasi sempre una forte cesura sintattica.
Vi sono anche sonetti minori in ottonari e settenari e minimi in quinari.
Dal punto di vista della lunghezza si possono distinguere:
- Il sonetto caudato (con coda di uno o più versi)
- Il sonetto doppio (con un settenario dopo ciascuno dei versi dispari
delle quartine e dopo ciascuno dei versi pari delle terzine)
- Il sonetto reinterzato (con settenario dopo ciascuno dei versi dispari
delle quartine e dopo il primo e il secondo verso di ciascuna terzina)
- Il sonetto con fronte di dieci versi

Alcuni esempi di sonetti novecenteschi:

Mio padre è stato per me "l'assassino";


fino ai vent'anni che l'ho conosciuto.
Allora ho visto ch'egli era un bambino,
e che il dono ch'io ho da lui l'ho avuto.

Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,


un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d'una donna che l'ha amato e pasciuto.

Egli era gaio e leggero; mia madre

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tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.

"Non somigliare - ammoniva - a tuo padre":


ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.
(Umberto Saba)

Donna bambina ma di troppe brame


o donna di dolori e di buriane,
sempre presa da trippe e budellame,
non so uscire dal buio stamane,

dal cavo della mia notte catrame,


e sollevarmi e via con voglie grame
tra geli duri e colpi di caldane,
fingendo quieti, cose lievi e piane,

per i giorni di guerra e bulicame


e per predar le prede piene e vane,
e a vedere come senza esche o trame

poco lega l'amoroso legame…


Oh cuore che mi caschi! Che rimane?
Un annientato niente. E ho anche fame.
(Patrizia Valduga)

Verso libero
Il verso libero, che si è affermata nella poesia italiana dal primo Novecento in
poi, si caratterizza per un uso libero di accenti e sillabe. Il poeta non segue
quindi gli schemi metrici della tradizione, né per i singoli versi (endecasillabo,
settenario, ...), né (soprattutto) per l’organizzazione dei versi in forme metriche
(canzone, sonetto, sestina,...). Da questo punto di vista, forse è più corretto
parlare di poesia libera, piuttosto che semplicemente di verso libero.

(ultimo aggiornamento: 14 / 02/ 2013)

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