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I PERCHE’ DI UN GENERE

A Roma quello della poesia didascalica era allora un genere che aveva avuto solo qualche
precedente, ma non in esametri (ad es. nell’Epicharmus di Ennio o nei Pragmatica di Accio,
perduti) e non con opere di ampio respiro. La stessa cosa vale per la letteratura greca d’età
ellenistica (quella con cui i romani entrano direttamente in contatto), dove dominavano opere
didascaliche a sfondo tecnico come i Phaenòmena et Prognòstica di Aràto di Soli, o gli
Alexiphàrmaca e i Theriacà di Nicàndro di Colofòne. Sarà nel solco di questa tradizione
didascalica greco-ellenistica che si inserirà Virgilio con le sue Georgiche. Il modello greco di
riferimento per Lucrezio sarà invece più antico e prestigioso: il poema del filosofo Empedocle di
Agrigento (V sec. a.C.) intitolato Perì phýseos (‘La natura’, stesso titolo incontrato nell’opera di
Epicuro e a sua volta ripreso dall’opera omonima di Parmenide di Elea). Empedocle, pur partendo
da base dottrinale ben diversa (la sua fisica arriva a conclusioni metafisiche), è molto vicino
contenutisticamente e formalmente al poema lucreziano – del resto è lo stesso poeta latino, nel I
libro della sua opera (vv. 716 sgg.), a tessere l’elogio di Empedocle. In particolare, ultimo ma non
meno importante, anche il Perì phýseos empedocleo è scritto in esametri dattilici. A proposito
della forma poetica in esametri, analizziamo adesso l’esametro dattilico catalettico, il metro che,
ad imitazione omerica, era già stato introdotto a Roma, come si ricorderà, da Ennio, che lo utilizza
per i suoi Annales.

L’ESAMETRO
La metrica greca e, per imitazione, quella latina - ma oggi si pensa che anche per il saturnio, il
verso ‘italico’, sia così - è una metrica quantitativa e non accentuativa, come quella tipica invece
della tradizione poetica italiana. Si tratta cioè di una metrica basata sulla durata delle sillaba
(breve o “U” =1 tempo; lunga o “—” = 2 tempi) e non sulla loro intensità accentuativa. Del resto il
latino è una lingua che, a differenza dell’italiano, usa la durata come marca soprasegmentale (cioè
non relativa ai singoli suoni, ma a ciò che vi si “mette sopra”) per distinguere il significato di una
parola da quello di un’altra, ovvero funziona a livello fonologico. L’italiano, invece, usa in questo
modo l’accento, non la durata. Ecco un esempio di cosa voglio dire:
a. le 2 parole italiane: àncora vs. ancòra
sono distinte solo dalla diversa sillaba su cui cade l’accento primario;
b. le 2 parole latine: lēvis vs. lĕvis
che valgono ‘liscio’ e ‘leggero’ rispettivamente, sono distinte solo dalla diversa durata di
e (pronuncia: [léevis] vs. [lévis])
Da qui l’importanza che assume la successione di sillabe brevi e lunghe nella metrica
latina. I versi latini presuppongono un susseguirsi di sillabe brevi o lunghe che rientra in
vari schemi di base, ciascuno corrispondente ad un verso preciso.

Lo schema del nostro “esametro dattilico catalettico” - perché questo è il nome greco completo
(esametro = ‘6 misure’; catalettico = che termina con una sillaba in meno) - comprende 6 métra
(pl. di métron) dattilici, con l’ultimo privo di una sillaba. Se infatti questo

—́UU
è un métron, cioè una ‘misura’ dattilica (detta anche ‘piede’ dattilo), 6 métra, di cui l’ultimo privo
di una sillaba, daranno:

—́UU, —́UU,—́|UU, —́ UU, —́ UU —́ X

Dove il segno “—́” = sillaba lunga con caduta dell’accento metrico; “U” = sillaba breve e “X”
= sillaba indifferens ‘indifferente’, la cui durata può cioè essere indifferente perché dovuta al
gusto dell’interprete (come la nota finale di un brano musicale). Il segno “|” indica una pausa
(cesura) che cade a fine parola ma in mezzo al métron e , infine, la lunga sopra le due UU indica
la possibile sostituzione delle due brevi con una lunga a formare uno spondeo (due lunghe di
seguito).

Quanto alla cesura (“|”), quella segnata nell’esempio sopra è una semiquinaria (= cade dopo il 5°
mezzo-piede); ma ce ne possono essere altre, al 3° mezzo-piede (semiternaria) e al 7°
(semisettenaria):

—́UU, —́|UU,—́ UU, —́| UU, —́ UU —́ X

Eccole tutte e tre nello stesso verso (Lucrezio, 3, 880):

da leggere:

cōrpŭs ŭtī | vŏlŭcrēs lăcĕrēnt | īn mōrtĕ fĕra̅ equĕ

“còrpusutì | volucrès | lacerènt | inmòrteferèque”

1. La notizia sulla "pazzia" di Lucrezio ci viene da:


a. Cicerone
b. Donato
c. Girolamo
d. Epicuro

2. Il modello per il DRN è:


a. Euripide
b. Democrito
c. Virgilio
d. Empedocle

3. L'epicureismo a Roma era per lo più:


a. apprezzato
b. disprezzato
c. ignorato
d. adorato.

4. L'esametro usato da Lucrezio è formato da:


a. 4 metra giambici
b. 6 metra trocaici
c. 6 metra dattilici
d. 6 metra dattilici catalettici

5. Una cesura è:
a. una pausa alla fine di un metron (o piede)
b. una pausa alla fine del verso
c. una pausa a metà di un metron (o piede)
d. una pausa in qualunque posizione del verso

Leggere l’esametro non è difficile, e comunque avremo modo di esercitarci insieme in sede di
seminario. Ci sono in effetti dei versi che sembrano più corti, o più lunghi rispetto allo schema dato
sopra. La ‘cortezza’ dipende normalmente dalle sostituzioni delle due brevi con una lunga a creare
un piede spondeo (cioè — — anziché —UU). Come si vede dallo schema, questa sostituzione è di
norma evitata al 5° métron/piede. Ma ecco un esempio di esametro “corto” in Lucrezio (3, 872):
a̅ ut flāmmīs īntērfīāt mālīsvĕ fĕrārŭm
da leggere
“àutflammìsintèrfiàtmalìsveferàrum”
Praticamente tutti i dattili diventano spondei eccetto, naturalmente, il quinto métron/piede che non è
mai (o quasi) sostituito. Come si vede, per la lettura basta rispettare lo schema metrico e porre
l’accento ritmico (ictus) (che noi moderni adottiamo per convezione ormai scolastica, N.B.) sulla
lunga iniziale di piede... e il gioco è fatto. Come si sarà notato non sempre ad una vocale corrisponde
una sillaba. Nel caso del verso appena visto, ad es., au(t) iniziale è un dittongo (cioè una vocale
“vera”, quella su cui cade l’accento, + una “semivocale”, ovvero una vocale chiusa come i, u, é*; in
latino la vocale è sempre all’inizio e la semivocale segue). Infatti i dittonghi (in latino: ae, oe; ai, ei,
oi, ui; au, eu) sono sempre lunghi**. *il suono è, ma non è (cfr. italiano éstivo vs. cioè).

Dunque il caso del dittongo, che apparentemente è formato da due vocali ma in realtà solo una di
esse è tale (l’altra è come se fosse una consonante), dà una prima risposta al problema dei versi che
appaiono troppo “lunghi” rispetto allo schema canonico dell’esametro. Un altro motivo è la
sinalefe cioè la ‘fusione’ di due sillabe contigue costituite da una sola vocale, rispettivamente in
fine ed inizio di parola. Ad es. (Lucrezio 3, 287):
co̅ epērĕ ēt rădĭōs īntēr qŭăsĭ rūmpĕrĕ lūcīs

“cèperétradiòsintèrquasirùmperelùcis”
La ĕ finale in coepēre si fonde con la ē inizale di et.
La stessa fusione avviene anche con la sinizèsi, con la differenza che le due vocali sono all’interno
di parola. Cfr. il celeberrimo incipit dell’Eneide:
ārmă vĭrūmqŭĕ cănō Trōia̅ e qūi prīmŭm ăb ōrīs

“àrmavirùmquecanòtroièquiprìmumabòris”
In virumque le due vocali brevi di –que vengono considerate, come si vede, una sola sillaba breve (il
secondo dattilo infatti si conclude sulla breve di că-). La stessa cosa avveniva nel verso lucreziano
appena sopra con le due vocali in sillabe diverse di qŭăsĭ, che invece di parola trisillabica, come nella
prosa, viene considerata parola bisillabica (come se fosse quăsĭ). In nessuno dei due casi di sinizesi
considerati i due suoni formavano dittongo, ovviamente (cfr. i dittonghi latini, tutti lunghi, visti
sopra).
La difficoltà nella lettura dell’esametro dattilico può essere appunto quella di riuscire a riconoscere
queste “licenze poetiche” (tipiche del resto anche della metrica italiana, dove al termine sinizèsi si
preferisce quello di sinèresi). Il segreto per leggere in modo “sufficientemente adeguato” è dunque
quello di individuare i singoli metra/piedi con le loro possibili varianti (le due brevi risolte con una
lunga, la sinalefe o la sineresi – che, come nella metrica italiana, non sono sempre applicate e in quel
caso di parla di dialefe e dieresi, o più in generale di iato). La regola di base è, come si sarà visto,
quella di considerare il verso un’unica lunga parola (quello che i grammatici indiani chiamavano
sandhi ‘collegamento’); ciò permette di individuare subito le sillabe chiuse (quelle in cui la vocale è
seguita da almeno due consonanti), che quasi sempre sono sillabe lunghe (a meno che la seconda
consonante non sia una sonorante come r oppure l, in quel caso i poeti si permettono di applicare la
regola a loro piacimento). Poi considerare sempre che la prima sillaba e la penultima sillaba del verso
sono sempre lunghe, e che il penultimo métron è praticamente sempre un dattilo e mai uno spondeo.
Fatto questo, la regola della sillaba chiusa dovrebbe bastare a permettere di individuare in un verso
tutti gli altri métra dattilici (— UU), con le loro eventuali sostituzioni in spondei (— —), così da
procedere alla lettura dell’esametro lucreziano. Per esempio, le prime due parole del già visto incipit
dell’Eneide: arma virumque cano, saranno metricamente: ārmă vĭrūmqŭĕ (a- di arma è lunga perché
sillaba iniziale di verso e di piede, la – um- è lunga perché alla m segue una -q, il che dà una sillaba
chiusa e quindi lunga - non importa se “per natura” la –um suffisso di acc. sing. è breve). Avremo
modo di esercitarci subito (nel caso ne aveste bisogno), con i passi lucreziani che andremo a leggere
(e comunque io son qui, anche se in questo momento “virtualmente”, sempre a disposizione per
aiutarvi...).

DE RERUM NATURA 1, 1-20

Iniziamo in nostro viaggio nella zooantropologia lucreziana dal proemio dell’opera o “inno a
Venere”. Si tratta di un brano famoso che ha spinto una lunga tradizione di interpreti a chiedersi il
perché di questo appello a una dea dato il materialismo dell’autore. A parte il fatto che Epicuro non
nega gli dei, il proemio ad una divinità ispiratrice è quanto di più classico si possa dare nella
tradizione della poesia esametrica (epica e didascalica) greca; e tanto più nell’ottica caratteristica
della "missione” lucreziana: cercare una forma prestigiosa con cui veicolare all’élite romana un
messaggio ritenuto così alto per l’umanità (ma da essa percepito come più adatto alle classi “basse”)
come quello del Giardino epicureo. Non a caso Venere, madre di Enea, è la progenitrice dei Romani.
Dopo la lettura, i punti di interesse zooantropologico. Prima il testo italiano (tr. G. Milanese).

“Madre degli Eneadi, gioia piena di uomini e dei alma Venere, sotto gli astri che
scorrono in cielo popoli il mare ricco di navi, e la terra che arreca
le messi: attraverso di te infatti ogni stirpe di viventi
5 è concepita, e scorge, nata, la luce del sole: te, o dea, fuggono i venti, e le nubi del
cielo il tuo giungere: per te la terra creatrice
sparge il suolo di fiori, per te sorride la piana del mare e, tornato sereno, brilla il cielo di luce
uniforme.
10 Poiché, appena si schiude la vista di un giorno di primavera
e, liberato, prende forza il soffio vivificante di Zefiro, nell’aria subito, gli uccelli te, o dea,
e il tuo giungere manifestano, toccati nel cuore dalla tua forza.
Quindi fiere e armenti balzano su pascoli fecondi 15 e attraverso fiumi impetuosi: così,
preso da incanto
ti segue con desiderio ogni animale, là dove lo spingi; e ancora per mari e monti e fiumi
che trascinano
e case frondose d’uccelli e campi ricchi di verde,
a tutti instillando nel petto amore che seduce, fai sì che, 20 nel desiderio, stirpe per stirpe
continuino le
generazioni.”

IN LATINO:

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas, alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis concelebras, per te quoniam genus omne
animantum
5 concipitur visitque exortum lumina solis: te, dea, te fugiunt venti, te nubila
caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
10 nam simul ac species patefactast verna diei

et reserata viget genitabilis aura favoni, aëriae primum volucres te, diva,
tuumque significant initum perculsae corda tua vi. inde ferae, pecudes
persultant pabula laeta
15 et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis. denique per maria ac montis fluviosque
rapacis frondiferasque domos avium camposque virentis omnibus incutiens blandum per
pectora amorem
20 efficis ut cupide generatim saecla propagent

Prima di studiare la traduzione esercitatevi nella lettura, anche non metrica: si cerchino eventuali
figure foniche arcaizzanti, tipiche della tradizione dei carmina orali e poi ereditati, da Livio
Andronìco in poi, dalla tradizione della poesia latina (mi riferisco ad allitterazioni, omoteleuti,
anafore = rispettivamente: parole di solito contigue che iniziano con lo stesso suono; parole che
terminano con gli stessi suoni; parole uguali usate in versi o in cola - ‘pezzi di frase’ – successivi).

NOTE A DRN 1, 1-20

NB. Nota preliminare: per approfondire ulteriormente o leggere più agevolmente i testi, ricordo che
il testo d’esame contiene sia testo latino che, in appendice, la traduzione di tutti i passi.
Note: 1. Aeneadum= arcaico per Aeneadarum; divom=arcaismo per deorum. 2. subter, arcaismo per
sub, qui usato con l’accusativo. 3. frugiferentis=frugiferentes (da frux ‘messe’ + fero ‘produco’).
4. quoniam= ‘dato che’, nesso causale tipico di Lucrezio, in particolare nei passi più didattici ed
esplicativi. Qui segue anziché anticipare per te (si tratta di un’anastrofe); animantum, forma non
attesa: la delinazione ‘regolare’ vorrebbe animantium, ma quest’ultima crea problemi sul piano
metrico (infatti costituirebbe una successione di sillabe — U —, ovvero un ‘cretico’, impossibile da
fare entrare nello schema esametrico). 5. exortum, da exorior, part. pass. riferito a genus. 7.
daedala, grecismo di uso poetico; il verbo daidàllo ‘variare’ rimanda al mitico Dedalo, costruttore
del labirinto di Cnosso. 10. simul ac ‘non appena’; patefactast=patefacta est, per sinalefe anche
“grafica” (prodelisione) da patefacio; verna, concorda con species anziché dies con cui va
logicamente (enàllage); 11. genitabilis=genitalis. 13. inĭtum, da initus,us meno comune di initium;
corda =acc. di relazione (lett. ‘quanto ai cuori’, cioè ‘nei cuori’). 14.persultant, qui transitivo; laeta,
cfr. laetāmen. 15. amnis=amnes. lepore ‘dal fascino’, ablativo di causa efficiente. 16. sequitur ecc.
ha come sogg. sottinteso quaeque (fera) ‘ciascuna fiera’, deducibile dal seguente quamque, acc.
fem. di quisque ‘ciascuno’, ma qui=eam (riferito al quaeque di cui sopra). 17. montis=montes. 18
virentis=virentes. 19. incutio, da in +quatio, lett. ‘scuotere dentro’. 20. propāgo,are da pro + pango,
quest’ultimo vale ‘attecchire’, detto di piante.

COMMENTO A DRN 1, 1-20

Ciò che immediatamente colpisce di questo proemio sono due sezioni. L’inno a Venere,
naturalmente, e quindi il quadro descrittivo “dipinto” da Lucrezio a proposito del vero e proprio
corteo di organismi viventi che vengono elencati come protagonisti, ma anche come esecutori
dell’energia di cui la dea popola mari e terre. È chiaro infatti che qui Venere, oltre a tutto ciò che
abbiamo detto sui debiti pagati da L. alla tradizione di genere letterario in cui la sua opera si
inscrive, è simbolo del principio vitale che ad ogni primavera, la stagione degli amori, si infonde
nell’omne genus animantium permettendo la propagazione delle generazioni di tutti gli esseri
viventi nel tempo. Venere si fonde con essi e vi penetra sotto forma di amore. Tutto il brano è infatti
giocato sul tema chiave del piacere (la dea è anzitutto voluptas hominum divomque, v. 1) e
dell’attrazione sessuale, diremmo noi, attraverso cui gli animantia realizzano la funzione
generatrice propria in quella della dea. C’è dunque, già in questi primi versi, espresso il nucleo della
fisica e della cosmologia epicurea, quello che troppo superficialmente è stato chiamato
materialismo e che è, in effetti, semmai, un materialismo organico, che fa della terra un unico
organismo vivente funzionante secondo certi principi che sono gli stessi per tutti, e dove tutto, cielo,
mare, terra, esseri viventi (questo è l’ “ordine di apparizione”, di entrata in scena), sono correlati.
Mettendo Venere come protagonista del proemio, Lucrezio compie un passo geniale che sposa
tradizione e ‘militanza’ filosofica.

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