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Il titolo è composto dai termini greci kolokynte, “zucca”, e apothéosis, “deificazione”, che uniti

insieme possono essere tradotto con un sarcastico “zucchificazione”, cioè la trasformazione in


zucca o zuccone di Claudio, che, secondo i suoi contemporanei, non brillava certo per
intelligenza, oltre ad essere affetto da una forma di zoppia. L’opera di Senca capovolge in burla la
pratica della divinizzazione post-mortem dell’imperatore 2, sottolineando l’inadeguatezza di
Claudio (che appena salito al potere nel 41 d.C. aveva esiliato Seneca in Corsica per otto lunghi
anni, secondo la pratica della relegatio in insulam) al titolo di “divo”.

Per quanto riguarda la datazione, essa oscilla tra il 54 d.C. (anno della morte di Claudio) e il più
tardo 59 d.C. (anno della morte della potente Agrippina): a far variare la data di composizione
dell’opera il fatto - ricordato anche da Tacito nei suoi Annales - che fu proprio Seneca a scrivere la
laudatio funebris per l’imperatore, il cui tono si concilierebbe male con quello crudo e amaramente
risentito della satira. Si tenga poi presente che l’Apolokyntosis si apre con un breve discorso
elogiativo circa i successi di Nerone (37-68 d.C.). In generale, è di sicuro evidente che il tono
utilizzato dall’autore è quello di una persona ancora fortemente coinvolta nella vita pubblica e
politica del suo tempo, che non perde occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa,
attaccando il responsabile del suo esilio politico. In tal senso, Seneca è qui abbastanza lontano dalle
massime filosofiche sull’equilibrio del saggio stoico o sul proficuo ritiro nell’otium privato che
troviamo, ad esempio, nel De tranquillitate animi, nel De brevitate vitae o nelle Lettere a Lucilio.

Dal punto di vista stilistico, in accordo con il genere della satira menippea, spicca l’alternanza di
prosa e versi, mentre la lingua trapassa da toni solenni ad espressioni colorite e volgari. Per
quanto riguarda il contenuto, invece, l’opera è per lo più composta di brevi scenette salaci e
sarcastiche, spesso intessute di particolari reali che, agli occhi dei contemporanei, dovevano
ricordare in maniera caricaturale tutti i difetti dell’imperatore Claudio (come la sua passione
smodata per le citazioni dall’Iliade o dall’Odissea). Non è errato pensare che questa struttura, che
alterna narrazione, recitazione e dialoghi diretti, fosse funzionale alla rappresentazione
dell’Apokolokyntosis durante ricevimenti e banchetti di corte.

Trama

La trama della satira senecana è molto semplice: Claudio, dopo la morte, sale all’Olimpo dove
suscita la curiosità e lo sconcerto delle divinità per tutti i suoi difetti, tanto da essere definito “quasi
homo”: egli è infatti balbuziente (tanto che nemmeno da morto riesce a pronunciare correttamente
il proprio nome e a farsi identificare), zoppo e stupido, come dimostra la testa sempre ciondoloni.
È addirittura Ercole, reduce dalle dodici fatiche, che si scomoda per lui. Davanti all’eroe greco,
Claudio cita un verso dell’Odissea per vantare le proprie origini troiane attraverso la gens Claudia,
ma commette il goffo errore di citare le parole di Ulisse, causa principale della sventura della città
troiana. Il confronto con il grande eroe del mito riduce insomma Claudio ad una nullità: di lui
vengono anzi messa in luce l’origine provinciale 3 e la subdola politica di eliminazione fisica dei
nemici (in particolare, i membri del Senato) attraverso l’uso politico della giustizia.

Segue quindi la proposta dell’imperatore Augusto, che già siede tra le divinità, di mandare
Claudio agli Inferi poiché che in vita si è macchiato di numerosi omicidi, che egli enumera nel
dettaglio. Il dio Mercurio lo scorta dunque nell’Ade; durante il tragitto, Claudio può assistere “in
diretta” al proprio funerale 4 e ascoltare le voci di chi si lamentava per la fine dei giochi pubblici
frequentemente indetti dal defunto. Arrivato agli Inferi, Claudio incontra le anime di coloro che ha
fatto uccidere ed è poi messo a giudizio di fronte ad Eaco, ritenuto un giudice profondamente giusto
ed equilibrato. Il processo diventa però una sorta di contrappasso per l’imperatore, che in vita
emetteva le proprie condanne senza lasciar spazio alla difesa: così avviene negli Inferi per lui.

Claudio viene condannato a giocare a dadi 5 con un barattolino forato. A strapparlo dalla pena è
l’imperaotre Caligola, anch’egli condannato laggiù, che reclama Claudio come proprio schiavo.
Come umiliazione finale, l’imperatore è affidata al suo ex liberto Menandro 6.

Il defunto imperatore Claudio, espulso dall'Olimpo, finisce agli Inferi dove è schierato tra gli schiavi di
Caligola. Da questi è assegnato ad Eaco e da quest'ultimo al liberto Menandro. Così per una sorta di legge
del contrappasso Claudio, che da imperatore si era sempre avvalso dei liberti come ministri e consiglieri di
corte, finisce per fare da servo in eterno a un liberto.

L'Apokolokýntosis (Ἀποκολοκύντωσις), Apocolocyntosis o Ludus de morte Claudii o ancora Divi


Claudii apotheosis per saturam (traduzione italiana: Satira sulla morte di Claudio), è l'unico testo
di carattere satirico attribuito a Lucio Anneo Seneca.

Indice
Il componimento inizia situando, in modo parodico, l'ora della morte di Claudio (capp. 1–2), narrata
secondo la versione ufficiale diffusa da Seneca e Agrippina, mentre le Parche tagliano lo stame
della vita dell'imperatore ed Apollo celebra l'ascesa al trono di Nerone e l'avvento di una nuova età
aurea (capp. 3–4).
Dopo un secondo proemio (cap. 5,1), Claudio ascende all'Olimpo, alle porte del quale è bloccato da
Ercole, portinaio degli dei che, non essendo riuscito a capire chi o cosa sia quell'uomo, che si
esprime balbettando e con citazioni dotte (capp. 5,2-7), lo conduce nel concilio degli dei perché egli
pretende di essere assunto fra le divinità[1].
Dopo una lunga disputa, in cui intervengono Giano a favore dell'imperatore e Augusto stesso, che
deplora il nipote come erede degenere, Claudio è condannato all'unanimità ad essere gettato, come
tutti i mortali, agli inferi (capp. 7–11) e, accompagnatovi da Mercurio, assiste al suo funerale, dove
gli avvocati e i poetastri si disperano per la morte di un imperatore appassionato di processi e di
poesia da strapazzo, intonando un coro funebre in anapesti (cap. 12).
Arrivato nell'Ade, Claudio viene accolto dalla folla inferocita delle sue vittime e, dopo essere stato
processato dal giudice dei morti, Eaco, finisce schiavo del nipote Caligola e, successivamente, viene
assegnato al suo liberto Menandro, che lo costringe a lanciare dadi da un barattolo forato nel fondo
(capp. 13–15).

Caratteristiche dell'opera
Seneca scrive quest'opera non solo per motivazioni personali (infatti Claudio, influenzato dalla
moglie Messalina, lo aveva condannato all'esilio), che poco si sarebbero adattate alle caratteristiche
del "saggio" che egli ci descrive come modello nei suoi scritti filosofici, ma anche e soprattutto per
ragioni di carattere politico e sociale: Claudio, infatti, era stato un imperatore autoritario, che aveva
reso il Senato un burattino nelle sue mani ed aveva condannato persone con processi sommari.
Il titolo implica un riferimento al termine greco κολόκυνθα (kolókyntha, "zucca", probabilmente
Lagenaria siceraria), forse come emblema di stupidità, ed è intesa come "trasformazione in zucca",
cioè "deificazione di una zucca, di uno zuccone", con riferimento alla fama non lusinghiera di cui
l'imperatore Claudio godeva[2]. L'opera contiene la parodia della divinizzazione di Claudio,
decretata dal senato subito dopo la sua morte (nel 54 d.C.), evento che, dietro la maschera di
ufficialità, aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell'opinione pubblica[3].
L'opera rientra nel genere della satira menippea (così detta da Menippo di Gadara, l'iniziatore di
questa forma letteraria, al quale sembrano rimandare alcune analogie del libello senecano con alcuni
dialoghi dello scrittore greco Luciano) ed alterna prosa e versi (anche greci) -

- www.loescher.it/mediaclassica -
Seneca e l’apoteosi al rovescio
Nicola Cadoni
L’agonia da avvelenamento (funghi) dell’imperatore Claudio terminòall’alba
del 13ottobre 54. Artefici della sua morte furono, con ogni probabilità, la
moglie Agrippina e su figlio Nerone, nuovo princepsappena diciassettenne.
Fu proprio quest’ultimo a pronunciarein pubblico l’elogio funebre per
l’imperatore; glielo scrisse
però Seneca, ché Nerone nonpossedeva, fra le sue attitudini, quella per
l’arte retorica
L’orazione non ci è pervenuta ma,stando a ciò che dice Tacito, pare fosse
elegante e raffinata come il suo autore – di cui certorifletteva anche la
tendenza all’opportunismo e alla doppiezza. Racconta ancora Tacito che ci
fu un momento in cui le lodi al defunto furono così smaccate e fuori luogo
da non poterl’uditorio trattenere le risa (Ann. XIII 3, 1).
Seneca, in realtà, aveva forti motivi per detestare Claudio, responsabile
del suo esilio inCorsica dal 41 al 49. Mentre componeva un elogio funebre
di pura circostanza ad uso diAgrippina e Nerone che si accingevano a
divinizzare l’imperatore assassinato, anch’eglipartecipava al clima di gioia
e derisione che accompagnò la morte di Claudio.
A cortefioccarono battute maligne sulla fine di un imperatore che, in vita,
aveva sempre mosso al risoper i suoi difetti fisici (era zoppo e pieno di tic
nervosi, tartagliava) e le sue ossessioni:Nerone, alludendo con macabro
umorismo alla divinizzazione del patrigno morto, sentenziò
che i funghi erano il cibo degli dèi e Claudio, grazie a un fungo, era
diventato dio. Proprio l’apoteositributata a Claudio fu l’occasione, per
Seneca, di fornire il suo brillantecontributo alla definitiva demolizione post
mortemdi un sovrano tanto avversato. La DiviClaudii a)pokoloku&ntwsiv
quasi certamente scritta subito dopo la morte dell’imperatore
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