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LUCREZIO CARO - LUCRETIUS

CARUS

TITUS LUCRETIUS CARUS

Nome: Titus Lucretius Carus


Nascita: 98 a.c., Campania
Morte: 55 a.c., Roma
Professione: Poeta e filosofo

Lucrezio - Inno a Venere - (De rerum natura 1-49)

- Madre di Enèadi, piacere di uomini e Dei, Venere


vivificante,
che sotto le mobili costellazioni celesti ravvivi il
mare portatore di navi,
la terra che reca le messi, poiché grazie a te ogni
genere di esseri animati
è concepito e vede la luce del sole:
te, dea, fuggono i venti e le nuvole del cielo,
per te la terra industriosa fa crescere fiori soavi,
per te sorridono le distese marine, e,
rasserenato, brilla di luce il cielo.
Infatti, non appena la bellezza della primavera si
svela,
ed il soffio di Zeffiro prende forza,
per prima cosa gli uccelli del cielo annunciano te e
il tuo arrivo,
o dea, colpiti in cuore dalla tua potenza.
Quindi le bestie feroci balzano per i pascoli
rigogliosi
e attraversano i fiumi vorticosi: così prese dal
fascino,
ti seguono desiderose ovunque tu voglia condurle.
Infine per mari e monti e fiumi impetuosi
e frondose dimore di uccelli e campi verdeggianti,
ispirando a tutti nel cuore un soave amore,
fai sì che con desiderio perpetuino le stirpi.
Tu puoi bastare da sola a reggere il mondo,
e solo per le tue grazie a noi è dato ammirare
tutto quello che esiste di dolce ed amabile. -

(Lucrezio - De Rerum natura - libro III)

- E spesso per la paura della morte, l'odio della vita


e della vista della luce colpisce a tal punto gli
uomini
che essi si danno la morte con animo straziato,
non ricordando che è questo timore la fonte degli
affanni,
che questo distrugge il pudore, che questo rompe i
legami d'amicizia,
e, insomma, convince a distruggere la pietas. -

Lucrezio a Venere:
"Quando tu vieni, fuggono i venti e si dileguano le
nuvole;
per te la terra la fiorire il leggiadro ornamento dei
fiori,
per te sorride lo specchio delle acque del mare,
e gli spazi lucenti del cielo splendono in silenzio ".

Tito Lucrezio Caro (in latino Titus Lucretius Carus)


nacque in Campania, nel 98 a.c. o secondo altri nel
96 a.c. e morì a Roma, nel 55 a.c. o secondo altri
nel 53 a.c.. Fu un grande poeta e filosofo romano.

Della vita di Lucrezio ci è ignoto quasi tutto: egli


non compare mai sulla scena politica romana né
sembra esistere negli scritti dei contemporanei in
cui non viene mai citato, eccezion fatta per la
lettera di Cicerone "ad Quintum fratrem II",
contenuta nella sezione "Ad familiares", dove dà
notizia dell'edizione postuma del poema di
Lucrezio, che egli starebbe curando.

Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel suo


Chronicon, in cui ci dice che circa nel 94 a.c.
"Titus Lucretius Carus nascitur, qui postea a poculo
amatorio in furorem versus et per intervalla
insaniae cum aliquot libros conscripsisset, quos
postea Cicero emendavit, sua manu se interfecit
anno 44"
("nasce il poeta Tito Lucrezio, che dopo essere
impazzito per un filtro d'amore e aver scritto alcuni
libri negli intervalli della follia, che Cicerone
pubblicò postumi, si suicidò all'età di
quarantaquattro anni").

Questo dato però non concorda con Elio Donato (IV


d.c.), maestro di San Gerolamo, secondo cui
Lucrezio sarebbe morto quando Virgilio (nato nel 70
a.c.) indossò a 15 anni la toga virile, nell'anno in cui
erano consoli per la seconda volta Crasso e
Pompeo. Si crede dunque che Lucrezio nacque nel
98 a.c. per poi morire nel 55 a.c., all'età di
quarantaquattro anni.

Si sa inoltre che Gerolamo era poco obiettivo con i


pagani, e di certo un Lucrezio che non crede negli
Dei è peggiore di quelli che ci credono, in quanto
questi ultimi sono pagani ma il primo è ateo,
pertanto molto più biasimevole, e sembra logico
che un ateo si suicidi.

Ignoto risulta anche il luogo di nascita, che tuttavia


taluni hanno creduto essere la Campania e più
precisamente Pompei o Ercolano, per la presenza
di un Giardino Epicureo in quest'ultima città. Si
ignora pure la sua condizione sociale, sebbene i
tria nomina e il suo anelito pacifista facciano optare
nascita aristocratica.

Non si conoscono neppure le sue idee politiche in


quanto il suo desiderio di pace prima non rievoca il
rimpianto rancoroso aristocratico che vede
sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma più il
desiderio dell'epicureo, che vede nella pace e il
benessere di tutti una vita serena.

« Oh misere menti degli uomini, oh animi ciechi!


[alla dottrina di Epicuro]
In quale tenebrosa esistenza e fra quanto grandi
pericoli
si trascorre questa breve vita! »
Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da
auspicare alla fine del proemio della sua opera un
"placida pace" per i Romani. Questo anelito così
forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo in
Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone,
Catone l'Uticense e perfino in Cesare: esso
rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata
da un secolo di guerre civili e lotte intestine.

LUCRETIUS (Brughes)

LE IPOTESI

«Principium cuius hinc nobis exordia sumet,


nullam rem e nihilo gigni divinitus umquam.»
«Il suo fondamento prenderà per noi l'inizio da
questo:
che nulla mai si genera dal nulla per volere divino.»
(Lucrezio - De rerum natura I)

Il latinista Luca Canali ha avanzato una tesi


piuttosto bizzarra (per alcuni da intendere come
provocazione) ripresa da un'affermazione di San
Girolamo, secondo la quale l'autore del De rerum
natura sarebbe un Cicerone giovane, mentre
Lucrezio non sarebbe mai esistito. Tale tesi però ha
il difetto di non tenere nel dovuto conto gli aspetti
stilistici, non ciceroniani, dell'opera.

Si ipotizza che Cicerone, poco convinto dell'opera,


l'avrebbe pubblicata sotto lo pseudonimo di
"Lucrezio", in una specie di rinnegamento dei suoi
scritti giovanili. La tesi si basa principalmente sul
fatto che Cicerone è l'unico contemporaneo a
parlare di Lucrezio. Inoltre: fu Cicerone a pubblicare
il "De rerum Natura" per primo, con una nota
introduttiva che disprezzava l'opera, proponendola
come esempio da non imitare, anche se, nel 54 a.c.
in una lettera al fratello Quinto cicerone scrisse:
"Lucretii poemata, ut scribis,ita sunt: multis
luminibus ingenii, multae tamen artis"
(le poesie di Lucrezio, come tu mi scrivi, sono
dotate di molti lumi di talento, e pure di molta arte).

Il prestigio del nome di Cicerone come autore,


sostenuto da San Girolamo, avrebbe così salvato
l'opera in quanto ritenuta, appunto, di Cicerone. C'è
anche da aggiungere che l'ecclesiastico San
Girolamo, cercò di denigrare Lucrezio che era
pagano, non credeva tanto negli Dei, ed essendo
un atomista, non credeva nell'immortalità
dell'anima.

Secondo Lucrezio, e non solo, le più forti correnti


stoiche, ostili all'epicureismo, avevano permeato la
classe dirigente romana in quanto più conformi alla
tradizione guerriera dell'Urbe.

VENERE

La natura poetica del De rerum natura fa sì che


Lucrezio col suo pessimismo esistenziale avanzi
profezie apocalittiche, visioni quasi allucinati,
critiche e ambigue espressioni, che accompagnano
il poema.

Alcuni teologi cristiani come San Girolamo ed altri,


hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in
preda alle forze del male.

Appoggiandosi impropriamente alla psicoanalisi


qualcuno ha sostenuto che in certi bruschi
cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i
sintomi di una pazzia delirante. Strano che nessun
psicoanalista abbia invece diagnosticato la follia
dell'Apocalisse di San Giovanni che è chiaramente
psicotica.

In realtà l'ipotizzata pazzia di Lucrezio potrebbe


essere un tentativo di mistificazione per screditare il
poeta, così come la presunta morte per suicidio
sarebbe stato l'esito di un modo di pensare
perverso, che travia chi lo segue.

L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla


base dell'arcaica credenza che il poeta fosse
sempre un invasato; elemento quest'ultimo da
collegare alla credenza che gli epilettici fossero
sacri ad Apollo e da lui ispirati nelle loro creazioni.
Del resto si disse che anche Cesare era epilettico
senza averne una prova.

Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio e


Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e
che non si fosse ucciso. L'ipotesi della follia e del
suicidio attestata dal Chronicon di San Girolamo si
fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile
verifica.

Potrebbe anche esserci stata una confusione


dovuta all'abbreviazione Luc., impiegata
indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi
di Lucillius, Lucullus e Lucretius. Plutarco scrisse
infatti di un certo Licinio Lucullo, politico, generale e
cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito
a causa di un filtro d'amore. L'errore di
interpretazione dell'abbreviazione Luc. potrebbe
così aver prodotto lo scambio dei due personaggi.

L'intento di Lucrezio nel "De rerum natura", è di


divulgare la filosofia epicurea, invitando il lettore
alla pratica di essa, nonchè il tentativo di spingerlo
a liberarsi dall'angoscia della morte e degli Dei. Nel
contempo Lucrezio è ottimista, vi sono guerre e
conflitti ma nel futuro la situazione politica
migliorerà.

Egli dunque si prospettava di rivoluzionare il


cammino di Roma, riportandolo all'epicureismo che
aveva declinato in favore dello stoicismo. La prima
cosa da distruggere era la convinzione
provvidenzialistica stoica e più propriamente
romana: non c'era un dovere romano di civilizzare il
mondo; egli crede in un mondo che non è unico
nell'universo, che peraltro è infinito, anzi esso
stesso è uno dei possibili mondi tutti esistenti o che
esisteranno.

Non c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma,


essa è una Grande fra le Grandi, ed un giorno
perirà nel suo tempo. La religione, considerata
come Instrumentum regni, deve essere non
distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile
come utile ma falsa. Egli afferma fin dal I libro del
De rerum natura:

« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche


tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati,
forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti,
quante favole sanno inventare, tali da poter
sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo
benessere con vani timori! »
( De rerum natura, vv. 101-106)

Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli Dei


latini sostenendo che non c'è preghiera che schiuda
le fauci di una tempesta, giacché essa è regolata
da leggi fisiche e gli Dei, seppur esistenti e anche
loro composti da atomi così sottili che ne
assicurano l'immortalità, non si curano del mondo
né lo reggono; ma la religione deve essere
inglobata nella scoperta e nello studio della natura,
che rasserena l'animo e fa comprendere la vera
natura delle cose: infatti l'unico principio divino che
regge il mondo è la Divina Voluptas: il piacere, la
vita stessa intesa come animazione regge
l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo
sfacelo che sta portando Roma alla fine: Marte,
ovvero la Guerra.

Proprio per questo, egli elogia Atene, creatrice di


quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la
natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza
Epicuro, sole invitto della conoscenza
rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi
un poeta rasserenatore delle tempeste umane e
proprio per questo affine ai poeti delle origini,
soprattutto ad Empedocle (secondo per elogi solo a
Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli
non è portatore di una verità divina fra le umane
genti, ma di una verità prettamente umana,
universale e per tutti, che diventerà ben presto per
la salvezza di Roma.

Il dedicatario dell'opera è il Claris Memmiadis


Propago, ovvero il rampollo della famiglia dei
Memmi, che solitamente si fa indicare con Gaio
Memmio. Più in generale, si può dire che il
destinatario che l'autore si prefigge di conquistare è
proprio il giovane aperto e pronto ad ogni
esperienza che un giorno prenderà il posto dei
politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con
così tanto fervore da Lucrezio.

Ma, almeno con Memmio, egli fallì. Questi infatti da


adulto divenne un dissoluto, fraintendendo il
significato di piacere catastematico epicureo, e fu
allontanato dal Senato "Probi Causa", ovvero per
immoralità. Dopo di ciò si riparò in Grecia, dove
scrisse poesie licenziose, e dove lo cita anche
Cicerone (Ad Familiares), pronto a voler
distruggere la casa e il giardino dove proprio
Epicuro risiedette, suscitando lo sdegno degli
epicurei che fecero istanza a Cicerone di
intervenire per impedirglielo, cosa in cui anche
Cicerone fallirà.

In un simile progetto Lucrezio scelse di doversi


rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in
Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in
Pacuvio i modelli emuli, per motivi fra loro quanto
meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua),
lo vede costretto a dover arrangiare le lacune
terminologiche e tecnicistiche con l'arcaismo, per
quanto proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia
uno dei fondatori del lessico astratto e filosofico
latino, e a colmare e ancor meglio comprendere
l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della
poesia.

Dovette affrontare il problema di tradurre i termini


filosofici greci in latino, evitando la semplice
translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατοµος),
usando invece termini latini dandogli altra
accezione, o ricorrendo all'arcaico neologismo.
Lucrezio non si limitò a trasmettere il messaggio di
Epicuro con un razionale scritto filosofico, ma
attraverso un poetico mondo di immagini.

DE RERUM NATURAE

EPICURO

Poema didascalico, di natura scientifica-filosofica,


in esametri, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi),
dedicato a Gaio Memmio, sul modello prosastico e
filosofico epicureo e la struttura del poema di
Empedocle, insomma un soggetto che erano stato
trattato molti secoli prima da Empedocle, filosofo e
poeta di Agrigento.

Secondo i filologi l'opera corrisponderebbe ad un


gusto alessandrino.

L'opera infatti è suddivisa in tre diadi, che hanno


tutte un inizio solare ed una fine tragica. Ogni diade
comincia con un inno ad Epicuro e l'ultimo libro
termina con un altro inno ad Epicuro, mentre il II
libro inizia con un inno alla scienza e il III libro con
l'esposizione dell'estetica di Lucrezio.

Essendo un poema didascalico, ha come modello


Esiodo ed Empedocle, che aveva preso il modello
esiodeo come massimo strumento per
l'insegnamento della filosofia. Altri modelli
potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e
Nicandro di Colofone, che usavano il poema
didascalico come sfoggio di erudizione letteraria.

Critiche

Per molti critici il De Rerum Natura sarebbe un libro


incompiuto. Lucrezio era un partigiano zelante di
Democrito e di Epicuro, una setta epicurea, i cui
principi riguardanti l'eternità della materia, la
materialità dell'anima, e la non-esistenza di uno
stato futuro di ricompense e punizioni, diventano
una certezza pari a quello della dimostrazione
matematica.

Fortemente avverso alle altre dottrine, e ignorante


del sistema fisico dell'universo, Lucrezio si sforza di
dedurre dai fenomeni delle conclusioni sul mondo
materiale non supportate da teorie legittimo, e
ripugnanti ai principi della più alta disquisizione
metafisica.

Ma nonostante le sue nozioni di speculativa come


degradanti alla natura umana, e sovversiva degli
interessi più importanti del genere umano, si deve
ammettere che egli perseguì la sua ipotesi
visionaria con ingegno non comune. Lo stile è
elevato, e la versificazione in generale armonioso.
Dalla miscela di parole antiquate, trae un'aria di
solennità ben adattato alle astruse ricerche, e al
tempo stesso nell'uso frequente di dittonghi,
infonde in latino le potenze sonore e melodiche
della lingua greca.

Infatti se Lucrezio voleva trasmettere un'etica, egli


non ne rese note le leggi o le caratteristiche.
Questa fu invece la grandezza di Lucrezio:
trasmettere, attraverso l'analisi del cosmo, un'etica
implicita che proponesse valori predefiniti, ma l'arte
del pensare e dell'avere dubbi, cercando non solo
le verità ma cosa sia più onesto credere.

« S'ignora infatti quale sia la natura dell'anima,


se sia nata o al contrario s'insinui nei nascenti,
se perisca insieme con noi disgregata dalla morte
o vada a vedere le tenebre di Orco e gli immani
abissi,
o per volere divino s'insinui in animali d'altra specie
»

La Legge sui Corpi

Sul piano teorico l'opera di Lucrezio è geniale


perchè più che assicurare teorie si fa domande:
« Perciò è sempre più necessario che i corpi
deviino un poco; ma non più del minimo, affinché
non ci sembri di poter immaginare movimenti
obliqui che la manifesta realtà smentisce. Infatti è
evidente, a portata della nostra vista, che i corpi
gravi in se stessi non possono spostarsi di
sghembo quando precipitano dall’alto, come è
facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non
compiono affatto alcuna deviazione dalla linea retta
del loro percorso? »
( Lucrezio, La natura delle cose)

E aldilà delle leggi della fisica:


« Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri e
quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine
certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non
determinano un qualche inizio di movimento che
infranga le leggi del fato così che da tempo infinito
causa non sussegua a causa, donde ha origine
sulla terra per i viventi questo libero arbitrio, donde
proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai
fati, in virtù della quale procediamo dove il piacere
ci guida, e deviamo il nostro percorso non in un
momento esatto, né in un punto preciso dello
spazio, ma quando lo decide la mente? Infatti
senza alcun dubbio a ciascuno un proprio volere
suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si
irradiano nelle membra. »

Anima e Corpo

Geniale anche l'intuizione che nella separazione tra


corpo e anima vi può essere solo morte. Non è un
caso che gli psicotici gravi tendano sempre al
suicidio.
« Così è difficile rescindere da tutto il corpo le
nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto si
dissolva. Con particelle elementari così intrecciate
tra loro fin dall’origine, si producono insieme fornite
d’una vita di eguale destino: ed è chiaro che
ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le
facoltà del corpo e dell’anima separate, non
potrebbero aver senso: ma con moti
reciprocamente comuni spira dall’una e dall’altra
quel senso acceso in noi attraverso gli organi. »
(De rerum, vv.329-336 )

La Religione

Ancora fuori degli schemi è il suo concetto sulla


religione:
Secondo Lucrezio, che riprende Epicuro, la
religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua
ignoranza. Egli ritiene che la religione offuschi la
ragione impedendo all'uomo di realizzarsi
degnamente e, soprattutto, di poter accedere alla
felicità.

Il poema osserva la lacerante antinomia fra ratio e


religio. La ratio è vista da Lucrezio come quella
chiarità folgorante della verità «che squarcia le
tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla
natura del mondo e dell'uomo, quindi la dottrina
epicurea, mentre la religio è ottundimento
gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso
Lucrezio denomina spesso "superstitio", come
insieme di credenze e comportamenti umani
"superstiziosi" nei confronti degli Dei.

Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa


e pericolosa, Lucrezio denuncia le nefaste
conseguenze della religione portando ad esempio
esempio Ifigenia, ed afferma che il mito è una
rappresentazione falsata della realtà (cfr.
Evemerismo). La religione è perciò la causa
principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli
uomini.

« Tanto male poté suggerire la religione. Ma anche


tu forse un giorno, vinto dai terribili detti Dei vati,
forse cercherai di staccarti da noi. Davvero, infatti,
quante favole sanno inventare, tali da poter
sconvolgere le norme della vita e turbare ogni tuo
benessere con vani timori! Giustamente, poiché se
gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli,
in qualche modo potrebbero contrastare le
superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste
tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo
occorre che non i raggi del sole né i dardi lucenti
del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la
scienza... E perciò, quando avremo veduto che
nulla può nascere dal nulla, allora già più
agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle
nostre ricerche, da cosa abbia vita ogni essenza, e
in qual modo ciascuna si compia senza opera
alcuna di dèi. »

La Dottrina Epicurea

Epic
uro
è
per
lui il
som
mo
che
non
ha
para
goni
:
"E
dun
que
trion
fò la
vivid
a
forz
a
del
suo
animo. E si spinse lontano, oltre le mura
fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore e
la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi
vittorioso quel che può nascere, quel che non può,
e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere
definito e un termine profondamente connaturato.
Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione
è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo. "

Lucrezio riprende i temi principali della dottrina


epicurea, che sono:
- l'aggregazione atomistica
- la parenklisis (che egli ribattezza clinamen),
- la liberazione dalla paura della morte,
- la spiegazione dei fenomeni naturali in termini
meramente fisici e biologici.

Vi associa però un elemento di pessimismo,


assente in Epicuro, dovuto probabilmente a un suo
stato depressivo.

Per Lucrezio, tutte le specie viventi (animali e


vegetali) sono state "partorite" dalla Terra grazie al
calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche
un nuovo criterio evoluzionistico: le specie così
prodotte sono infatti mutate nel corso del tempo,
perché quelle malformate si sono estinte, mentre
quelle dotate degli organi necessari alla
conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. il
che in un certo senso è vero, anche se alcune
specie si estinguono non perchè malformate ma
perchè sono cambiate le condizioni dell'ambiente.

Il Progresso dell'Uomo

Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di


provvidenza e di beatitudine originaria e afferma
che l'uomo si è affrancato dalla condizione di
bisogno tramite la produzione di tecniche, che sono
trasposizioni della natura. Tuttavia il progresso non
è positivo a priori, ma solo finché libera l'uomo
dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione
morale, è da condannare.
Anima e Animus

Lucrezio chiarisce nel III libro del De rerum il


concetto di animus in rapporto a quello di anima:
« Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza
stessa del corpo, che abbandona i nostri arti
morenti. Perciò, trovata quale sia la natura
dell'animo e dell'anima - quasi una parte dell'uomo
-, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già
dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto
d'altrove e trasferito a una cosa che prima non
aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora
affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra
loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il
capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il
corpo: quello che noi denominiamo animo e mente
e che ha stabile sede nella zona centrale del petto.
Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui
intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque
la mente, l’animo. La restante parte dell’anima,
diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al
volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola
prende conoscenza, e da sé gioisce, quando
nessuna cosa stimola l’anima e il corpo. »
(De rerum natura, III, vv. 130-146)

Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come


"soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i
greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade
tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo
“con l’ultimo respiro". L’"animus" invece è
identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino
con mens. Dunque animus e mens paiono essere o
la stessa cosa o due elementi coniugati dell’unità
mentale. L’indicazione della “zona centrale del
petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”,
ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per
indicare la sensibilità umana, centro dell’emozione
e del sentimento. Parrebbe allora che l’animus sia
insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima
è soffio vitale.

BIBLIO

- Luciano Canfora - Vita di Lucrezio - Palermo -


Sellerio - 1993 -
- Lucrezio Caro - De rerum Natura -
- Guido Della Valle - Tito Lucrezio Caro e
l'epicureismo campano - Napoli - Accademia
Pontaniana - 1935 -
- Luciano Perelli - Lucrezio, poeta dell'angoscia -
Firenze - La Nuova Italia - 1969 -
- Luca Canali - Nei pleniluni sereni. Autobiografia
immaginaria di Tito Lucrezio Caro - Milano
- Longanesi - 1995 -
- E. Cetrangolo - Lucrezio - Tragedia - Roma -
Edizioni della Cometa - 1982 -
- Alieto Pieri - Non parlerò degli dèi. Il romanzo di
Lucrezio - Firenze - Le Lettere - 2003 -
- Sofronio Eusebio Girolamo - Chronicon -

1 commento:

Unknown 27 ottobre 2021 alle ore 09:35


lucrezio ed ennio vanno cercati nella villa dei pisoni
di ercolano
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