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“Il lavoro non è una merce” con questa prima affermazione vogliamo
immediatamente significare che il contratto di lavoro, a differenza degli altri
contratti del codice civile, riguarda una persona in carne ed ossa, il lavoratore, che
si trova, di regola, in una posizione di debolezza sostanziale. È per questo che la
normativa relativa a tale soggetto subisce delle deviazioni rispetto alla tipica
relazione che si instaura tra le parti contrattuali, di norma poste su un piano di
parità.
Il diritto del lavoro si occupa in primo luogo, dei lavoratori subordinati, ma anche
dei lavoratori autonomi.
Per evitare situazioni di asimmetria tra le parti si impone così una forme di tutela
del lavoratore subordinato, in quanto soggetto debole.
Nonostante nel corso del tempo, il contesto economico e sociale sia cambiato in
modo significativo, la funzione del diritto del lavoro rimane sostanzialmente la
stesa : evitare che ci siano ricadute negative di simili cambiamenti, spesso
facilmente ricondotti ad un termine ambiguo quale “globalizzazione” sui lavoratori.
Diritto del rapporto di lavoro subordinato (le regole del contratto e del lavoro
rapporto di lavoro subordinato)
Diritto della previdenza sociale : relativo al diritto di godere, una volta persa la
capacità lavorativa, di un trattamento pensionistico; ma anche dei diversi
trattamenti previdenziali comunque collegati allo svolgimento, attuale o passato, di
una attività lavorativa.
Diritto amministrativo del lavoro : si tratta di reale attraverso le quali taluni enti
pubblici svolgono la funzione di individuare e quindi sanzionare le forme di lavoro
irregolare.
Diritto processuale del lavoro , con il quale si pongono le regole del processo del
lavoro, caratterizzato, rispetto al processo ordinario civile, dai principi della oralità,
concentrazione e speditezza.
• l’ONU
• Il diritto al lavoro liberamente scelto e non schiavistico : dal quale non risulta
immune neppure il nostro paese
• Il diritto della formazione professionale : anche qui si può criticamente riferire che
la spesa per la formazione dei lavoratori appare eccessiva rispetto a quanto,
realmente, viene ottenuto in termine di maggiore professionalità degli stessi
Vero è che l’OIL dovrebbe anche assistere gli stati e può emanare altresì
Raccomandazioni, ma essa non sembra in grado di intervenire efficacemente nei
casi di violazione delle Convenzioni : lo stato che non recepisce le Convenzioni
non è infatti soggetto a sanzioni.
Tutti gli stati membri dell’OIL però per la sola appartenenza alla organizzazione,
sono comunque vincolati a rispettare quattro principi fondamentali :
Nel caso delle direttive gli stati membri risultano liberi di scegliere gli strumenti per
la loro attuazione; non è necessaria una trasposizione letterale : la Direttiva pone
l’obbiettivo finale, ma lo stato è libero di raggiungerlo nel modo che ritiene più utile
ed opportuno.
Le leggi nazionali, così come quelle comunque attuative delle Direttive europee,
non solo possono subire una verifica da parte della Corte Costituzionale nazionale,
ma altresì un controllo della Corte di Giustizia delle Comunità Europee per quanto
riguarda il rispetto del Trattato e più in generale la corretta attuazione delle direttive
stesse.
• La formazione professionale
• Nella Costituzione;
• Nella legge;
Appare chiaro che il diritto del lavoro nasce per impedire un gioco “al ribasso”
delle condizioni di lavoro da parte del datore di lavoro. Ragione per la quale le
regole giuridiche valide “per tutti” sono quelle previste dalla legge, ma soprattutto,
dal contratto collettivo.
• Lo statuto dei diritti dei lavoratori : esso limita i poteri del datore di lavoro, fino a
prima discrezionali e liberi sulla base di un contratto tra pari stipulato tra pari
stipulato in virtù del principio di autonomia privata affermato chiaramente nel
codice civile. Dopo la crisi economica del 1973-74, le imprese necessitano di
maggiore flessibilità e non a caso nascono e si sviluppano schemi contrattuali
“atipici”, di cui oggi ancora molto si discute. Per esempio lentamente viene
allargata la possibilità di apporre un termine al contatto di lavoro subordinato,
fino ad arrivare, nel nuovo millennio, a consentire l’apposizione senza alcuna
motivazione. Per altri versi dove vi sono esuberi di personale, lo stato consente
all’impresa ed anzi favorisce, mediante strumenti di sostegno al reddito, la
riduzione di personale attraverso una serie di procedure (cassa integrazione
guadagni).
La fonte collettiva trae origine nel momento in cui le parti fissano una soglia al di
sotto della quale non è possibile scendere; in questo modo, si impedisce che il
rapporto tra domanda e offerta di lavoro pregiudichi il prezzo finale dell’attività
lavorativa. Il contratto collettivo nasce così nel momento in cui le organizzazioni dei
lavoratori sono in grado di crearlo e sostenerlo da punto di vista della forza
negoziale.
Solo nel momento in cui i lavoratori creano una reale struttura, originariamente del
tutto a-giuridica, nasce il contratto collettivo , prodotto di una continua
negoziazione tra le due parti collettive (le organizzazioni degli imprenditori e dei
lavoratori), sfociante in una determinazione condivisa delle condizioni di lavoro e
retributive.
Le tappe :
• Una mera funzione di ripartizione dei sacrifici in situazioni di crisi, simile alla
precedente ma con ulteriori profili problematici derivanti dall’assenza di una
previsione di legge sovrastante.
In definitiva, il contenuto del contratto o patto individuale può risultare a favore del
lavoratore o del datore di lavoro a seconda del posizionamento delle parti (in
particolare del lavoratore) nell’ambito del mercato del lavoro
Ciò premesso vanno segnalati i tre rapporti, con conseguenti problemi giuridici, tra
le fonti brevemente considerate :
• Derogabilità in melius : non ci sono limiti alle previsioni migliorative dei contratti
collettivo rispetto a quanto previsto dalla legge;
Le norme del contratto collettivo sono dunque equiparate alle norme della
legge, nel senso che fissano uno standard di trattamento su quale il singolo
lavoratore non può negoziare, poiché è considerato in una posizione di
debolezza dall’ordinamento giuridico.
Il contratto collettivo , che risulta costituito da due parti (obbligatoria e
normativa), pone una serie di regole che si applicano ai contratto individuale
del lavoro, i quali appaiono, frequentemente, vuoti, laddove rinviano al
contratto collettivo applicabile la disciplina dei rapporti di lavoro.
Il principio di libertà sindacale consente al datore di lavoro di applicare
qualsivoglia contratto collettivo, purché esso rispetti una retribuzione
proporzionata alla qualità della prestazione.
PARTE PRIMA
2. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione
presso uffici locali centrali, secondo le norme di legge
È solo con lo statuto dei diritti dei lavoratori che il legislatore riconosce in effetti il
diritto alla costituzione di organizzazioni sindacali; un diritto posto in capo ai singoli
lavoratori.
In particolar modo, l' art 19 St. Lav, nella sua originaria formulazione, disponeva
che: le rappresentazioni sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa
dei lavoratori in ogni unità produttiva nell'ambito:
L’art.19 St. Lav, così modificato, comporta, per poter accedere ai diritti sindacali
previsti dallo stesso statuto, la necessità di sottoscrivere un contratto collettivo
applicato all’unità produttiva.
QUANTITATIVI :
QUALITATIVI :
• Diffusione intercategoriale, intesa non solo nel senso delle categorie legali (ossia
operai, impiegati, quadri e diligenti), ma anche settoriale (metalmeccanici,
chimici, tessili, ecc.)
• infine, capacità di porsi quale interlocutore nei confronti del potere politico,
governativo e parlamentare.
In seguito al referendum del 1995, cioè che conta da quel momento in poi, è l’aver
stipulato e applicato il contratto collettivo nell’unità produttiva; sulla scorta, quindi,
di un principio rappresentativo in senso effettivo.
Con l’accordo del 1993 (Protocollo Ciampi), ancora prima del referendum,
venivano poste le premesse perché le grandi confederazioni procedessero
In definitiva :
Il vantaggio delle RSU da un punto di vista del sistema sindacale è evidente : esse
creano un maggiore collegamento fra sindacato interno di una unità produttiva (per
unità produttiva intendendosi un’impresa o parte di un’impresa) e il sindacato
esterno, il quale stipula il contratto collettivo di categoria.
Si può rinvenire situazioni nelle quali sono presenti RSU (costituite attorno a
CGIL,CISL,UIL) e RSA(costituite da altre organizzazioni sindacali ai sensi della
lettera b).
Dal 1993 in poi bisogna tenere conto di due livelli contrattuali : un contratto
collettivo nazionale e un contratto collettivo decentrato, aziendale o territoriale. In
particolare il contratto collettivo territoriale si rinviene in settori merceologici
caratterizzati da piccole imprese, viene firmato dalle associazioni dei lavoratori a
livello provinciale, e da quelle dei datori di lavoro, di regola artigiani, della
medesima provincia.
Le RSA e le RSU sono destinate a diritti sindacali nei luoghi di lavoro “ulteriori”
rispetto alle “altre” organizzazioni sindacali.
• Diritto al referendum
I sindacati di comodo, sono organizzazioni sindacali vicine alle istanze del datore
di lavoro, in questo caso è prevista la sanzione dall’articolo 17 St.Lav.
A sua volta appare difficile che un lavoratore rifiuti l’applicazione dello stesso
contratto nazionale del lavoro, posto che esso disciplina per interno il rapporto di
lavoro. Il contratto collettivo nazionale di lavoro configura invero il contenuto dei
singoli contratti individuali.
4. La contrattazione collettiva
I livelli della contrattazione collettiva sono :
3. Il contratto decentrato :
• Quanto al protocollo del 23 luglio del 1993 in esso si prevede un doppio livello di
contrattazione :
NAZIONALE, con durata di due anni per la parte retributiva e di 4 anni per la parte
normativa
Il 22 gennaio 2009 viene siglato un “Accordo Quadro per la riforma degli assetti
contrattuali”, senza la partecipazione di CGIL. Il 15 aprile le medesime parti
concludono un “Accordo Interconfederale per l’attuazione dell’Accordo Quadro”
• La durata dei contratti che torna ad essere di 3 anni sia per la parte normativa
che per quella economica
• Si prevede last but not least, possono essere stipulate clausole di tregua
vincolanti solo per i soggetti dei sindacati
Infine l’accordo del 10 gennaio 2014 insiste sulla questione della rappresentanza,
raccogliendo, quale testo unico quanto previsto negli accordi precedenti.
• Una modifica delle regole consolidate del sistema della contrattazione collettiva
Una prima risposta può essere ricava nella teoria della rappresentanza, trattandosi
di un contratto, occorre a questo proposito partire dal contratto collettivo
nazionale di lavoro (CCNL) :
• Si tratta di contratti che hanno ad oggetto appunto la “gestione” dei poteri del
datore di lavoro; e ai quali sono equiparati i contratti aziendali
Nel corso degli ultimi anni l’ordinamento sindacale (non giuridico), mediante
numerosi accordi interconfederali, hanno previsto alcuni casi nei quali risulta
possibile parlare di efficacia “erga omnes” del contratto collettivo aziendale :
A) la prima ipotesi è regolata dal citato accordo interconfederale del 2011, per il
quale il contratto collettivo aziendale risulta vincolante per tutti i lavoratori
presenti nell’impresa interessa se approvato dalla maggioranza dei componenti
delle RSU.
Soltanto con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 lo sciopero è stato
riconosciuto con diritto individuale. Ne consegue che l’esercizio del diritto di
sciopero si configura come lecito sia sul piano penale, sia sul piano civile, il datore
di lavoro non potrà in alcun modo ritenerlo inadempimento contrattuale - nello
specifico, una assenza ingiustificata - e irrogare sanzioni disciplinari nei confronti
dei scioperanti; si potrà solo limitare a non compiere la controprestazione.
Per quanto riguarda il primo profilo la corte costituzionale ha compiuto una
progressiva operazione di depenalizzazione dello sciopero.
Anche lo sciopero politico in senso stretto, con cui i lavoratori agiscono come
gruppo organizzato con l’obbiettivo di condizionare le politiche generali
governative, viene infine interpretato come penalmente lecito.
Quanto invece alla effettiva portata del diritto di sciopero la Corte di Cassazione ha
affermato che con la parola sciopero, nel nostro contesto sociale, suole intendersi
nulla più che un’astensione collettiva dal lavoro, disposta da una pluralità di
lavoratori, per il raggiungimento di un fine comune.
Se la nozione giuridica di sciopero coincide allora con la sua accezione sociale,
essa non può essere in alcun modo delimitata in base all’ampiezza dell’astensione
del lavoro o agli effetti che determina; in altre parole, non vi sono limiti interni al
diritto di sciopero riconosciuto nel nostro ordinamento.
Diverso discorso va invece fatto per i limiti esterni, ovvero quei limiti che derivano
da norme che tutelano posizioni soggettive concorrenti, poste su un piano quanto
meno paritario rispetto al diritto di sciopero. Un primo limite è stato rilevato dalla
giurisprudenza nell’art. 41 Cost., ovvero nella protezione costituzionale della libertà
dell’iniziativa imprenditoriale : il danno provocato al datore di lavoro dallo sciopero,
per quanto naturale e legittima conseguenza dell’istituto, non può ritenersi
illimitato. Bisogna pertanto distinguere tra il “danno alla produzione” e il “danno
alla produttività” arrecati dallo sciopero : il primo, ovvero il mancato utile per
l’impresa, è ritenuto ammissibile a prescindere dall’entità del sacrificio economico
subito dal datore di lavoro; il secondo qualifica invece lo sciopero come illegittimo,
perché incide sulla capacità produttiva dell’impresa, ovvero sulla possibilità per il
datore di lavoro di continuare la propria iniziativa economica al termine dello
sciopero, compromettendone cioè la capacità di rimanere sul mercato.
Un secondo limite esterno è rappresentato dai diritto della persona (diritto alla vita,
alla saluta, alla libertà, ecc.). L’astensione collettiva può infatti compromettere il
godimento di tali diritti, nella misura in cui, oltre che causare un danno al datore di
lavoro, determina potevi disagi nei confronti dell’utenza (scioperi dei trasporti
locali). La legge ha introdotto a riguardo precisi obblighi procedurali ed il vincolo di
garantire comunque “prestazioni indispensabili” individuate nei contratti collettivi
nazionali per i lavoratori subordinati e nei codici di autoregolazione per i lavoratori
autonomi (le fasce garantite dei trasporti pubblici).
Le legge prevede anche meccanismi di monitoraggio e controllo della corretta
attuazione degli obblighi, affidato ad un organo apposito e indipendente, e
specifiche sanzione nei confronti dei soggetti coinvolti nell’astensione in caso di
violazione.
Va da ultimo ricordato come anche nella prassi sindacale l’istituto dello sciopero
conosca una sua regolamentazione in stretta connessione alla stipulazione ed al
rinnovo del contratto collettivo, è il caso delle già citate clausole di tregua
sindacale attraverso cui i sindacati “negoziano” lo sciopero per ottenere benefici
contrattuali relativi ad altri istituti. In assenza di un intervento legislativo sul punto,
la dottrina maggioritaria ritiene che dette clausole non possano produrre effetti nei
confronti dei singoli lavoratori, ma solo nei confronti dei soggetti sindacali che le
hanno sottoscritte.
L’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori fa riferimento non tanto agli interessi dei
singoli lavoratori, bensì alle istanze dell’interesse collettivo, rappresentato dalle
organizzazioni sindacali.
La norma attribuisce alle medesime una innovativa e quasi rivoluzionaria
legittimazione ad agire per la tutela dei “propri” interessi. Legittimate ad agire sono
le organizzazioni sindacali, e più precisamente gli organismi locali delle
associazioni nazionali che vi abbiano interesse.
I beni protetti dalla disposizione sono la libertà e l’attività sindacale e il diritto allo
sciopero. Va segnalato come la condotto antisindacale possa assumere un
carattere di plurioffensività : lesiva cioè al contempo di beni individuali e collettivi.
PARTE SECONDA
Questi tre pilastri sono crollati lentamente nel corso del tempo perché fondavano
una regolazione del mercato del lavoro probabilmente obsoleta
A tale stregua :
• La chiamata dei lavoratori iscritti alle liste del collocamento si trasforma nel corso
del tempo da esclusivamente numerica a del tutto nominativa : viene assunto il
lavoratore iscritto, ma esso può essere a quel punto individuato dal datore di
lavoro; il percorso trova un momento di svolta con lo statuto dei diritti dei
lavoratori, dove si affermano la chiamata nominativa e l’assunzione diretta,
ovvero la possibilità di passaggio di un lavoratore da un datore di lavoro a un
altro, senza passaggi per gli uffici del collocamento, se non comunicativi;
• Il sistema di collocamento non viene più gestito solo dallo Stato centrale, ma
altresì dalla istanze territoriali del ministero e soprattutto dalle regioni.
Con il d.lgs.n. 276/2003 vengono previste le agenzie del lavoro interinale (oggi per
il lavoro), debitamente autorizzate dal ministero del lavoro, con un patrimonio e
forme societarie predeterminate e ulteriori vincolati.
• La somministrazione; fermo restando che di. Regola le parti del contratto del
lavoro sono due, nel contatto di somministrazione esse diventano tre : l’agenzia,
il lavoratore e l’utilizzatore. Il lavoratore risulta formalmente dipendente
dall’agenzia e sostanzialmente dipendente dall’impresa utilizzatrice;
• La intermediazione
Un altra modifica allo status quo concerne il conferimento alle Regioni e alle
Province delle funzioni e dei compiti relativi al collocamento ed alle politiche attive
del lavoro. La conseguenza è stata dunque la creazione di un sistema di servizi
regionali e provinciali per l’impiego.
In questo contesto, si è poi inserita, nel 2001, la riforma costituzionale del titolo V,
parte II, della costituzione, che attribuisce alle regioni una potestà legislativa
concorrente in materia di tutela e sicurezza sul lavoro.
Una volta caduti i pilastri di cui si diceva, appare altresì evidente che al centro del
mercato del lavoro non può esservi solo il contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato e pieno : si parla, sempre più, di flessibilità, per rispondere alle
fluttuazioni del mercato stesso; e il fattore-lavoro, sempre riguardato come
“rigido”, viene al contrario reso più “flessibile”, mediante la previsione e disciplina
di figure contrattuali “atipiche”
Le parole chiave del “nuovo” mercato del lavoro divengono dunque flessibilità e
atipicità.
A ben vedere, tuttavia, la flessibilità può riguardare anche la fase dell’uscita del
lavoratore dell’impresa.
Il datore di lavoro poteva licenziare il lavoratore, come previsto già dalla legge
604/1966, per motivi oggettivi. In quel caso la giurisprudenza riteneva necessario
dimostrare che il lavoratore non avrebbe potuto essere adibito in altra posizione e
se settore dell’azienda. Così che il lavoratore poteva essere licenziato solo in casi
estremi, con l’inevitabile conseguenza, per il datore di lavoro che operava in modo
improprio, di una condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro,
secondo quanto previsto, appunto, dall’art. 18 del testo originario dello Statuto dei
Lavoratori.
A partire dal 2012, con il governo Monti, si ha una netta inversione di tendenza, e
non solo in materia di recesso. Il diritto del lavoro diventa meno rigido e, come si
diceva, più flessibile.
L’idea di un nuovo diritto del lavoro si fonda sul presupposto che non debba più
essere tutelato “un posto” di lavoro, e così indirettamente il lavoratore che quel
posto “occupa”. Ma che, invece, occorra creare forme di tutela diretta del
lavoratore, in specie nelle fasi cosiddette di transazione da un lavoro ad un altro.
Il lavoro subordinato è dunque un contratto tipico, la cui disciplina trova origine nel
codice civile; codice che tuttavia presuppone che le parti considerate si trovino su
un piano di parità.
A proposito del tipo di attività concretamente svolta dal lavoratore, l’art 2095
individua le categorie legali, ovvero dirigenti, quadri, impiegati e operai, ai quali la
legge fa spesso riferimento per l’applicazione o meno di parte della normativa di
tutela.
Pur essendo distinti nel codice civile, peraltro, le categorie dei lavoratori citate
sono altresì disciplinate dalla contrattazione collettiva, che accorpa in un unico
sistema di inquadramento e conseguente disciplina dei singoli rapporti di lavoro
Tutte le categorie di cui all’art. 2095 risultano inquadrabili nell’ambito del lavoro
subordinato.
L’art. 2222 inserisce il lavoratore autonomo sotto l’egida del contratto d’opera,
definendolo “una persona che si obbliga a compiere un’opera o un servizio”
dunque qualcosa di finito, “con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di
subordinazione nei confronti del committente”, dunque non alle dipendenze e
sotto direzione. La disciplina di tale contratto risulta residuale rispetto alla tutela
vieppiù attribuita ai lavoratori subordinati non solo nel codice civile ma anche e
soprattuto nelle leggi speciali; il lavoratore autonomo, o prestatore d’opera, anche
intellettuale, appare debole dal punto di vista tecnico-giuridico, e solo talora
competitivo dal punto di vista socio-economico, come d’altro canto dimostra
quanto poco previsto ora in termini di tutela per il lavoratore autonomo. Ciò che
conta, in questi casi, sarà dunque il possesso di rilevanti competenze da parte del
lavoratore.
Le due tipologie contrattuali scolpite dal codice civile sono state oggetto di un
ulteriore tentativo di distinzione, che non è però riuscito a superare i problemi
pratici e anzi li ha enfatizzati, ad esempio con riguardo alla ulteriore e classica
distinzione tra obbligazioni di mezzi (lavoratore subordinato) e obbligazioni di
risultato (lavoratore autonomo); posto che è ormai assodato in dottrina e in
giurisprudenza che anche nelle obbligazioni di mezzi è possibile scorgere un
risultato, quantomeno parziale, atteso dal creditore della prestazione.
Dibattendo infine del profilo del rischio, tipico del lavoro autonomo è da
considerare anche nello schema tipico del lavoro subordinato si sono introdotti
elementi di tale fatta : ad esempio il tendenziale spostamento della retribuzione, da
variabile indipendente a variabile dipendente.
Il vero problema sta in ciò, che l’obbligazione lavorativa dedotta in contratto, sia
esso autonomo o subordinato, è sempre più frequentemente la medesima e che
“ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto
di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda della modalità
di svolgimento”.
All’esito della qualificazione non è necessario sussistano tutti gli elementi appena
richiamati, che vanno valutati invero mediante un giudizio di prevalenza : la
fattispecie concreta, dunque, può non coincidere perfettamente con quella
astratta. La qualificazione del rapporto risulta assoggettata ad una buona dose di
incertezza, non sempre dipendente dalla configurazione formale del contratto.
Anche perché spesso, per motivi diversi, il datore di lavoro e il prestatore cercano
di evitare la stipulazione di un contratto subordinato.
L’art. 409 del cod. proc. civ., modificato dalla l.533/1973, introduce invero, come
destinatari delle norme processuali specifiche per i rapporti di lavoro subordinato
anche “altri rapporti di collaborazione che ci concretino in una prestazione di opera
continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere
subordinato” ciò che la giurisprudenza definisce come CONTRATTO
PARASUBORDINATO :
Va rilevato che nel 2003 il legislatore aveva cercato di colmare l’innegabile spazio
tra le fattispecie inquadrabili ai sensi dell’art. 2094 e 2222 cod.civ. con
l’introduzione delle collaborazioni a progetto.
La c.d. riforma Biagi intendeva creare una sorta di terza via introducendo
coerentemente, a differenza delle collaborazioni di cui l’art. 409, due limiti alla loro
evidente proliferazione : l’indicazione di una durata predeterminata e la sussistenza
di un “progetto”.
Si aggiunge così al c.d. Jobs Act il quale abrogando le norme del d.lgs. 276/2003
relative alle collaborazioni a progetto, e facendo così “rivivere” le vecchie
collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409. Riapre la quesitone
relativa all’area grigia tra subordinazione e autonomia, accogliendo in primo luogo
l’idea di far traghettare i contratti di lavoro a progetto esistenti verso la fattispecie
del lavoro subordinato; e prevedendo in secondo luogo che i contratti di lavoro
È tuttavia sempre nel d.lgs. 81/2015, parte fondamentale del Jobs Act, che è
collocata una norma rilevante per il tema qui affrontato.
L’art.2 del d.lgs. prevede che “ dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del
rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si
concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai
tempo e al luogo di lavoro”
Nell’ambito dei poteri del datore di lavoro vanno senz’altro menzionati il potere
direttivo, il potere di conformazione, e quello che risulta essere più “eversivo”, il
potere disciplinare, che invero caratterizza massimamente il contratto di lavoro
subordinato rispetto ai contratti di cui alla disciplina codicistica in genere.
Il potere direttivo spetta dunque al datore di lavoro. Esso rappresenta lo spettro più
ampio del potere organizzativo del lavoro e, a sua volta, si articola in una serie di
ulteriori poteri, regolati e limitati solo con lo Statuto del Lavoratori.
Fin dal 1970 sono stati posti dei limiti all’esercizio del potere di conformazione : ai
sensi della visione originaria dell’art. 2103 cod. civ. Il datore di lavoro poteva
modificare unilateralmente le mansioni assegnate al lavoratore al momento della
conclusione del contratto, successivamente sono stati introdotti il divieto di
addizione a mansioni inferiori (demansionamento), salvo il caso in cui l’alternativa
sarebbe il licenziamento; e soprattutto il principio di equivalenza delle mansioni
successivamente assegnate al lavoratore, per cui le mansioni potevano essere
mutate in senso orizzontale assegnando al lavoratore mansione equivalenti a
quelle previste dal contratto o precedentemente svolte.
In una parola il lavoratore non poteva essere adibito a mansioni che, seppure
equivalenti, pregiudicavano ogni ulteriore sviluppo della sua professionalità,
ledendo così non solo la professionalità medesima ma altresì la dignità del
lavoratore.
Diverso ancora risulta il principio, sempre accolto nell’art. 2103 per il quale il
datore di lavoro può assegnare al lavoratore mansioni appartenenti ad una
qualifica superiore “nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha
diritto al trattamento corrispondente dell’attività svolta, e l’assegnazione diviene
definitiva”, questo salvo il caso in cui il lavoratore si astato assegnato alle mansioni
superiori per sostituire un altro lavoratore con diritto alla conservazione del posto.
Entrambe le modifiche citate sono state oggetto di modifiche normative nel Jobs
Act.
Con riferimento alla modifica sul piano orizzontale viene eliminato il principio della
equivalenza della mansioni, sostituito dal rinvio, ben più ampio, al medesimo livello
e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte : pertanto il
concetto di equivalenza si trasforma, indicando ora non più un’equivalenza in
senso sostanziale, ma un’equivalenza esclusivamente formale. La modifica
legislativa ha il chiaro intento di estendere i casi in cui possano essere lecitamente
mutate le mansioni di addizione del lavoratore, eliminando, al contempo, uno
spazio di discrezionalità, e conseguentemente incertezza, nella valutazione
giudiziale dell’equivalenza della nuova mansione. In questo modo si rischia di
compromettere la professionalità del lavoratore che potrà vedersi assegnata una
mansione totalmente estranea rispetto al suo bagaglio di esperienza professionale
e alla sua formazione, solo perché rientrante nello stesso livello e nella stessa
categoria legale precedente.
La modifica più importante apportata all’art. 2103 cc, tuttavia, viene effettuata in
relazione alle possibilità di adibire i lavoratori a mansioni inferiori. Si prevede ora
che i lavoratori possano essere assegnati a mansioni appartenenti ad un livello di
inquadramento inferiore, senza modifica della retribuzione, in caso di modifica
degli assetti organizzativi dell’impresa, insindacabili in ossequio al principio di
libertà economica e privata sebbene il nesso causale tra la modifica dell’assetto e
la posizione del lavoratore continui comunque ad essere sindacabile dal giudice.
La norma, inoltre, attribuisce alla contrattazione collettiva, di qualunque livello, non
solo di categoria, ma anche aziendale, purché sottoscritta dai sindacati
comparativamente più rappresentativi, il potere di individuare ulteriori ipotesi di
assegnazioni a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, con il
diritto di conservare il medesimo trattamento economico.
“Possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello
di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla
conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al
miglioramento delle condizioni di vita”.
La norma esplicita ora la sussistenza, in capo al datore di lavoro, di un obbligo di
formazione del lavoratore nel caso di esercizio della ius varianti, obbligo che viene
posto al fine di rendere possibile per il lavoratore lo svolgimento delle nuove
mansioni assegnate, che risulteranno presumibilmente estranee alla sua
precedente esperienza professionale.
Infine è stata modificata anche la disciplina della mobilità verticale, nel senso che
la qualifica superiore ora è acquisita dopo 6 mesi, e non più dopo 3, e parlandosi
però, questa volta, nell’escludere tale diritto, genericamente di ragioni sostitutive di
“altro lavoratore in servizio”
Alla fine di tutelare la dignità e, specialmente, la riservatezza del lavoratore, precisi
limiti al potere di controllo del datore e al trattamento dei dati sono stati disposti, in
particolare, dallo Statuto dei Lavoratori e dalla normativa generale sulla privacy.
Sotto un primo profilo, è riconosciuto al datore il potere di controllare e perquisire i
lavoratori all’uscita del luogo di lavoro, ma in modo casuale e dunque non
Il limiti posti dal legislatore statuario ai poteri del datore di lavoro, mirano
fondamentalmente ad evitare controlli occulti, e dunque interventi lesivi della
dignità del lavoratore subordinato, non più assoggettato a poteri discrezionali.
Anche gli accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro risultano vietati se
“sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendenti”. I
controlli delle assenze per infermità devono essere svolti “attraverso servizi
ispettivi degli istituti previdenziali competenti”, tenuti a compierli su richiesta del
datore medesimo, che può altresì “far controllare la idoneità fisica del lavoratore da
parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico” idoneità, da
intendersi riferita sia ad un momento preliminare rispetto alla costituzione del
rapporto sia al periodo di svolgimento dello stesso.
In definitiva sulla scorta per i controlli su malattie ed infortuni vigono i seguenti
principi :
• Gli accertamenti sono effettuati tramite servizi ispettivi degli istituti previdenziali
competenti
• Gli istituti citati sono tenuti ad eseguire i controlli su richiesta del datore di
lavoro.
L’art 4 St.Lav. nella sua formazione originaria faceva divieto di utilizzare strumenti
esclusivamente finalizzati al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e
consentiva, invece, di utilizzare strumenti volti al controllo ambientale del luogo di
lavoro che possano comportare anche il controllo sull’attività di lavoro, ma solo a
condizione che : a) sussistessero esigenze organizzative, produttive o di sicurezza
sul lavoro; b) autorizzazione delle rappresentanze sindacali o, in difetto,
dell’ispettorato del lavoro.
A causa della sua eccessiva rigidità procedurale, nell’ambito del Jobs Act il
legislatore ha ritenuto di intervenire sulla formulazione della norma, anche al fine di
adattarla al mutato contesto.
In seguito alla modifica l’art 4 St.Lav. registra una mancata apertura verso la
possibilità di effettuare i controlli a distanza, posto che, a differenza del passato in
Viene poi confermata la presenza dei limiti sostanziali e procedurali per
l’installazione e l’impiego degli “impianti audiovisivi” e degli “altri strumenti dai
quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori” ma
si sussiste al riconoscimento, tra le finalità, della tutela del patrimonio aziendale.
Rimane fermo il principio per cui il controllo sulla prestazione lavorativa dev’essere
esclusivamente conseguenza di un controllo finalizzato ad altri scopi e non può
dunque essere l’unico motivo per il quale vengono installati o utilizzati gli impianti
audiovisivi.
Al datore di lavoro, in definitiva, non deve interessare ciò che il lavoratore pensa.
Nel momento in cui vengono raccolti dati relativi alla persona del lavoratore, la
disciplina lavoristica di cui allo Statuto dei lavoratori trova un rafforzamento nella
normativa in tema di riservatezza/privacy raccolta nel codice della privacy.
Come visto, il datore di lavoro godeva infatti di una serie di poteri nei confronti dei
quali lo Statuto dei Lavoratori ha indotto notevoli limiti : poteri discrezionali. Con lo
Statuto del Lavoratori tali poteri vedono invece assoggettati a limiti che tengono
nel debito conto la dignità del lavoratore, posto che nel codice civile non emergeva
giuridicamente il pieno significato della “persona” del lavoratore. Tuttavia, nella
misura in cui lo Statuto limita i poteri del datore di lavoro nel contempo li
riconosce, confermando così la particolarità del contratto di lavoro subordinato,
rispetto ad altri contratti a prestazioni corrispettive, come un contratto nel quale un
soggetto può esercitare poteri limitati ma sconosciuti ad altre relazioni contrattuali.
D’altro canto, è il codice civile stesso che riconosce in capo al datore di lavoro un
ampio potere di comando, nei cui confronti lo Statuto dei Lavoratori oppone una
serie di norme che ne mutano il senso, ovviamente a tutela del contraente debole,
nell’ottica di un bilanciamento tra l’interesse del datore di lavoro e la tutela della
dignità della persona.
Il potere disciplinare costituisce dunque una sorta di “braccio armato” del potere
direttivo. Costituisce cioè la norma secondaria, sanzionatoria rispetto a quanto
disposto in tema di potere direttivo; l’altra faccia del potere direttivo.
Ovviamente anche questo potere è stato limitato dallo Statuto dei Lavoratori,
soffrendo fondamentalmente di due limiti :
a. Affissione del codice disciplinare, o della parte del contratto collettivo o del
regolamento aziendale attinente al tema, deve essere affisso in un luogo
accessibile ai lavoratori
b. Contestazione dell’infrazione;
Quanto alle sanzioni anche se l’art. 7 St.Lav. risponde che non possono essere
disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di
lavoro” anche un caso di licenziamento per motivi disciplinari il datore di lavoro
dovrà sempre applicare la procedura sopra descritta.
Così che le sanzioni previste tipicamente dalla contrattazione collettiva, ma in
verità desumibili anche dalla lettera dello statuto dei lavoratori sono normalmente :
• Il rimprovero verbale
• Il licenziamento
“I provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono esser
applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del
fatto che vi ha dato causa”. Ebbene tale termine è considerato dilatorio, cioè
oggetto di possibile modifica da parte della contrattazione collettiva.
Le sanzioni disciplinari sono legate alla violazione degli articoli precedenti il 2106
c.c., ovvero l’inadempimento contrattuale del lavoratore. Per fare un esempio il
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo coinvolge appunto
la sfera dell’inadempimento contrattuale. E dunque al licenziamento per giusta
causa o per giustificato motivo soggettivo, come per le altre possibili infrazioni
disciplinari cui è connesso un inadempimento del lavoratore sarà buona norma
applicare sempre l’art. 7 St.Lav. Tale questione è stata invero affrontata e risolta da
una decisione della corte costituzionale, la quale ha dichiarato la “illegittimità
dell’art.7 nella parte in cui non prevede che i commi 1,2,3 su applichino al
licenziamento disciplinare”.
Più precisamente, dopo il Jobs Act ad esso si applicherà una “indennità non
assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto
per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore
a dodici mensilità”.
Anche se il rapporto di lavoro subordinato è ancora a tempo indeterminato, nel
momento in cui il datore di lavoro intende liberarsi del lavoratore non incontrerà
molte difficoltà, potendo porre tra i costi l’eventualità di un licenziamento
illegittimo, con costi oggi qualificabili ex ante.
L’obbligo del prestatore di lavoro di usare la diligenza richiesta dalla natura della
prestazione dovuta.
Ai sensi dell’art 2105 c.c. il prestatore di lavoro “non deve trattare affari, per conto
proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da
poter recare ad essa pregiudizio”.
a. Nella costituzione
b. Nell’art. 2087 del c.c. norma di riferimento del sistema di protezione del
lavoratore nell’ambiente lavorativo.
Tale norma fondamentalmente, vincola infatti il datore di lavoro ad un obbligo
di sicurezza nei confronti del lavoratore, imponendoli di adottare tutte le misure
possibili che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono
necessarie alla tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei
prestatori di lavoro.
Essa tra le altre cose, è stata utilizzata anche per sanzionare il mobbing,
giacché in tali ipotesi il datore di lavoro crea o comunque consente una
situazione che non garantisce l’integrità fisica ed anzi pregiudica la personalità
morale del lavoratore. Tali misure sono continuamente alimentate dai
mutamenti dell’organizzazione del lavoro e produttiva, dalle stesse modifiche
della struttura dell’impresa e delle stesse attività lavorative.
“I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare
l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie
professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le
misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.
Oggi disponiamo di un testo unico in materia di tutela della salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro che ha attuato una vera e propria “rivoluzione” nella concezione
della sicurezza nei luoghi di lavoro fondata su :
• Datore di lavoro
• Dirigenti
• Preposti
• ASL
• Il medico competente
• I lavoratori
Viene in tal modo posto nella dovuta evidenza come anche i lavoratori abbiano
specifici obblighi che, se non rispettati, comportano una corresponsabilità degli
stessi, quale concause dell’infortunio sul lavoro, ovvero rendono il lavoratore
partecipe dell’evento infortunistico, liberando in parte il datore di lavoro dalla
responsabilità, ma solo sul piano risarcitorio.
All’interno del D.lgs n 66/2003 l’orario di lavoro viene definito come “qualsiasi
periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e
nell’esercizio delle sue funzioni”. L’orario normale di lavoro viene “fissato in 40 ore
settimanali”. Si attribuisce invece ai contratti collettivi, stipulati dalla
organizzazione sindacali comparativamente più rappresentative, la facoltà di
“stabilire una durata minore” rispetto a quella legale e di “riferire l’orario normale
alla durata media” delle prestazioni lavorative per periodi ultra settimanali non
superiori all’anno.
Al contempo i contratti collettivi possono prevedere i cosiddetti orari multiperiodali,
ossia calcolati rapportando l’orario normale alla durata media delle prestazioni
lavorative, in un arco temporale, che può estendersi, al massimo, a un anno. In tali
fattispecie l’orario normale è rispettato se viene rispettata la media delle 40 ore
nell’arco temporale fissato.
Al fine di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, la legge prevede che venga
fissato anche un orario massimo settimanale da calcolare includendo le ore di
lavoro straordinario.
Tale soglia non deve necessariamente essere rispettata settimana per settimana,
ma anche in questo caso con riferimento a una durata media dell’orario di lavoro,
da calcolarsi in un arco temporale non superiore a quattro mesi. La contrattazione
collettiva ha però facoltà di elevare a sei oppure a dodici mesi tale periodo, ma a
fronte di “ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro,
specificate negli stessi contratti collettivi”.
In caso di lavoro eccedente le sei ore, il lavoratore ha inoltre diritto ad una pausa
non inferiore a dieci minuti, da godersi anche sul posto di lavoro.
Una disciplina specifica è dedicata al lavoro notturno. Per tale si intende il lavoro
svolto durante il periodo notturno. Questi ultimi fissano anche i requisiti dei
lavoratori che possono essere esclusi dall’obbligo di effettuare il lavoro notturno,
ed è comunque espressamente previsto dalla legge il divieto di adibire al lavoro
dalla 24 alle 6 le donne dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al
compimento di un anno di età del bambino.
Il d.lgs. 66/2003 prevede anche una serie di obblighi procedurali per il datore di
lavoro che voglia far ricorso al lavoro notturno : informare e consultare
sull’introduzione del lavoro notturno le RSA (o RSU) aderenti alle organizzazioni
firmatarie del contratto collettivo applicato in azienda.
L’orario di lavoro notturno non può comunque superare le 8 ore in media nelle 24
ore, salva l’individuazione, da parte della contrattazione collettiva, di un periodo di
riferimento più ampio sul quale calcolare tale limite come media.
Sono previste infine misure specifiche di tutela della salute del lavoratore notturno,
in virtù delle quali, qualora sopraggiungano condizioni di salute, il lavoratore deve
essere assegnato al lavoro diurno, in altre mansioni equivalenti, se esistenti e
disponibili.
Per quanto attiene al riposo settimanale l’art. 9 del d.lgs. 66/2003 dispone che il
lavoratore abbia diritto ogni sette giorni a un periodo di almeno 24 ore
consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di
risposo giornaliero, ossia per un totale di 24 più 11 ore, cioè 35 ore di riposo
consecutive a settimana.
La ratio del riconoscimento delle ferie annuali è connessa non solo a una funzione
di corrispettivo dell’attività lavorativa, ma anche al soddisfacimento di primari
bisogni fisici e personali.
Per quanto attiene al concreto godimento delle ferie, esso può comportare conflitti
in seno all’organizzazione. Infatti, se talvolta l’accumulo di ferie non godute da
perte dei dipendenti, è riconducibile a problematiche organizzative, può anche
accadere che il lavoratore voglia esaurire il monte ore a disposizione, in modo da
monetizzarne il valore. In tale ipotesi spetterà al datore di lavoro sollecitare il
dipendente.
Una deroga al principio di indisponibilità delle ferie è peraltro prevista dal Jobs Act,
che ha previsto, in ottica di conciliazione vita-lavoro la possibilità per il lavoratori di
cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie maturati ad altri dipendenti dello stesso
datore di lavoro. Tale istituto, definito “cessione solidale” dei periodi di ferie e dei
riposi, è infatti ammesso solo se finalizzato a consentire al lavoratore beneficiario
di assistere figli minori che necessitino di assistenza per ragioni di salute.
Con la l.n.81/2017 viene introdotta una nuova modalità di esecuzione del rapporto
di lavoro subordinato, il lavoro agile o smart work.
L’art 18 della l.n. 81/2017 demanda ad un accordo individuale tra le parti, la
previsione delle modalità di svolgimento del lavoro agile. In tale accordo verranno
determinate le modalità operative : tempi di svolgimento della prestazione e di
riposo,…
Il contenuto dell’accordo, però, sarà più ampio : si prevede infatti che questo
“Disciplina l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione
resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali” e che “individua le condotte,
connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali,
che danno luogo all’applicazioni di sanzioni disciplinari”.
Un principio fondamentale nell’ambito della disciplina del lavoro agile è quello di
parità di trattamento, per cui i lavoratori che svolgono la prestazione in tale
modalità hanno “diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a
quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le
Il lavoratore inoltre avrà diritto alla “tutela controllo gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa” e
“alla tutela contro gli infortuni sul lavoro occorsi durante il normale percorso di
andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della
prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali”.
11. LA RETRIBUZIONE
Norma fondamentale in materia è l’art. 36 cost. che prevede il diritto di ogni
lavoratore ad una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro
e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia una esistenza libera e
dignitosa”
La norma dell’art. 36 Cost. è riconosciuta come immediatamente precettiva, e
dunque il giudice può sindacare se la retribuzione spettante al lavoratore sia
conforme al dettato costituzionale, utilizzando come parametro i CCNL di
categoria.
La giurisprudenza, invero, ha elaborato il principio generale secondo il quale la
retribuzione equivalente a quella prevista dai contratti collettivi applicabili alla
categoria o al settore produttivo cui appartiene il prestatore di lavoro è conforme ai
requisiti costituzionali della proporzionalità e della sufficienza. Pertanto, la
retribuzione base prevista dai contratti collettivi della categoria del settore
Rimane tuttavia possibile che il giudice si distacchi dalle tabelle contenute nei
contratti collettivi applicando il contratto di un settore merceologico diverso.
Tra i principi costituzionali in tema di retribuzione devono essere annoverati anche
quelli di non discriminazione e di uguaglianza.
La forma retributiva di gran lunga più usata è quella a tempo, in cui la retribuzione
è determinata in rapporto ad un’unità temporale, ed è l’unica forma adottata in
maniera esclusiva.
La retribuzione a cottimo si distingue dal lavoro a tempo perché la quantificazione
del trattamento retributivo è proporzionale ai risultati prodotti. A garanzia del diritto
costituzionale ad una retribuzione sufficiente i contratti collettivi escludono che il
cottimo possa costituire l’unica forma di retribuzione, inoltre la retribuzione a
cottimo, anche parziale, è vietata nel contratto di apprendistato. Il cottimo integrale
rappresenta invece la regola nel lavoro a domicilio.
La partecipazione ai prodotti, per lo più usata nelle attività di lavoro agricolo e nella
pesca sotto forma di retribuzione parziale, è una specie particolare di provvigione.
Da queste ultime due forme si distingue infine la partecipazione agli utili, ove la
partecipazione segue il risultato dell’impresa.
Fra gli elementi retributivi compresi nella retribuzione normale dei lavoratori i
contratti collettivi prevedono gli scatti di anzianità che, unitamente al trattamento
di fine rapporto, costituiscono il principale automatismo retributivo legato
all’anzianità.
I superminimi costituiscono gli incrementi rispetto alle retribuzioni contrattuali
standard assegnati collettivamente oppure individualmente.
L’art. 2094 c.c. è la norma di riferimento dell’intero sistema del diritto del lavoro, ha
come paradigma un contratto ed un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Tuttavia esistono altri modi in cui un lavoratore subordinato può collaborare
all’interno dell’impresa, queste tipologie si sono succedute nel tempo per
rispondere ad una esigenza di flessibilizzazione riguardo alla struttura classica del
lavoro subordinato.
In linea generale l’orario di lavoro si è vieppiù ridotto nel corso del tempo, con
particolare riferimento alla sua ampiezza : così, secondo le previsioni legislative
che si sono succedute, si è passati da un orario massimo di 48 ore ad un orario
massimo, seppure modulabile, di 40 ore.
Le deviazioni rispetto al modello standard possono evidentemente riguardare :
Così, nella legge n. 230/1962 sono state individuate una serie di ipotesi tassative
per le quali è ammessa la possibilità e legittimità di apporre un termine al rapporto
di lavoro. Le ipotesi risultato tassative perché il legislatore non vuole ampliare
eccessivamente tale possibilità, emergendo nel contempo la volontà dei lavoratori
di avere un lavoro per tutta la vita presso la stessa impresa.
Il punto è che da eccezione essa si trasformerà via via che il tempo passa quasi in
una regola per motivi legati alla flessibilizzazione nell’utilizzo della forza lavoro.
In particolare la norma del 1962 parlava in proposito di specialità del rapporto.
Questi contratti di lavoro vengono cioè definiti speciali in quanto trovano una
propria specifica disciplina, diverso rispetto a quella comune.
All’esito della legge del 1962, in assenza di una delle ipotesi da essa previste, il
contratto si trasformava in un contratto a tempo indeterminato.
Le legislazioni degli stati membri dovevano dunque prevedere che in caso di
ricorso al contratto a termine venissero specificate :
Circa i contenuti della clausola generale occorrono alcune precisazione sui diversi
elementi della stessa :
L’interpretazione più frequente della giurisprudenza è quella per la quale risulta
giustificata la ragione dotata del carattere della temporaneità. Se le esigenze,
seppur di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo, non sono
temporanee il datore di lavoro deve assumere a tempo indeterminato perché il
contratto a tempo indeterminato continua ad essere la forma “comune” di rapporto
di lavoro.
Ne consegue che il datore di lavoro deve essere chiaro e puntuale nell’indicare per
iscritto le ragioni che giustificano l’assunzione a tempo determinato, in modo da
mettersi al riparo da particolari complicazioni.
La legge 133/2008 propone così una espansione qualitativa delle ragioni che
giustificano l’apposizione del termine; rimane il requisito delle ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, ma si innova prevedendo che può
trattarsi anche di un’attività lavorativo/organizzativo straordinaria.
Viene meno così il carattere della temporaneità delle esigenze che prima
legittimava il ricorso al contratto a termine.
Con le riforme successive, la a-causalità del contratto a tempo determinato diviene
la regola, indipendentemente dalla durata del rapporto.
Stabilito che tre anni costituiscono un orizzonte di vita sufficiente e non superabile
per i contratti di lavoro a tempo determinato, da lì in poi sarà vietato stipulare
ulteriori contratti a termine tra le stesse parti; ma rimane aperta la strada di
contratti di somministrazione che dunque possono affiancare in contratto a
termine quale ulteriore strumento di flessibilizzazione.
A sua volta i c.d. Jobs Act delinea una sorta di “riassunto” della disciplina del
contratto a termine ma con qualche ulteriore precisazione sulle sanzioni
conseguenti alla violazione dei limiti in caso di :
b. Presso unità produttive nelle quali si sia proceduto entro i sei mesi precedenti,
a licenziamenti collettivi che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse
mansioni di cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato.
c. Presso unità produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o
una riduzione dell’orario che interessino lavoratori adibiti alle mansioni di cui si
riferisce il contratto a termine
• Il contratto stipulato per una durata superiore ai 12 mesi o che superi per effetto
di proroghe o rinnovi i 12 mesi, debba essere sorretto da una causale tra le due
tassativamente individuate dalla norma
• Anche tutti i rinnovi, rientranti nei primi 12 mesi o successivi debbano essere
sorretti dalla causale.
Sempre il decreto Dignità ha modificato la disciplina con riguardo alla durata
massima del contratto e della successione dei diversi contratti a termine, che oggi
non potranno avere, in entrambi i casi, durata superiore (non più a 36) ma a 24
mesi.
La modifica legislativa, infine, ha interessato la disciplina delle proroghe e dei
rinnovi, limitando il numero delle prime, che divengono al massimo quattro, fermo
restando il limite temporale complessivo, ora di 24 mesi.
La causale di cui alla lettera a) si caratterizza in quanto l’esigenza alla base
dell’assunzione a termine dovrà essere estranea rispetto all’attività ordinaria,
oltreché, ovviamente, temporanea ed oggettiva.
Nel secondo caso, di cui alla lettere b, invece, viene ammessa la possibilità di
stipulare contratti a tempo determinato anche attività rientranti nell’ordinaria attività
del datore di lavoro; tuttavia si prevedere allora che le esigenze alla base della
necessità di assumere debbano essere connesse ad incrementi temporanei,
significativi e non programmabili.
Dalla ratio e dalla formulazione della norma sembra che i tre requisiti debbano
sussistere congiuntamente, e risulta particolarmente significativo il fatto che
l’esigenza debba derivare da incrementi “non programmabili” : dovrà escludersi la
possibilità di far ricorso a tale casuale per giustificare assunzioni a tempo
determinato di personale da impiegare nelle punte stagionali, casi nei quali
l’incremento di attività risulta invece programmabile.
Anche per questo tipo di contratto, l’orario normale è di 40 ore settimanali e la sua
riduzione dovrebbe
Oggi non è più possibile distinguere le “vecchie” tipologie del part-time :
Quanto alle sanzioni conseguenti alle diversi violazioni, il d.lgs. ribadisce che :
a. Nel primo caso si parla di lavoro supplementare, tale orario deve muoversi
all’interno del limite legale delle 40 ore. Alla contrattazione collettiva spetta
definire il numero massimo di ore e le causali per il ricorso al lavoro
supplementare. Solo in assenza di previsione dei contratti collettivi il datore di
lavoro potrà richiedere unilateralmente lo svolgimento di prestazioni di lavoro
supplementare, ma in misura non superiore al 25% delle ore di lavoro
settimanali originariamente concordate e con una maggiorazione retributiva del
15%.
Dal canto suo il lavoratore potrà comunque rifiutare lo svolgimento del lavoro
supplementare provando l’esistenza di esigenze familiari, di salute, o di
formazione professionale che non gli consentono di aderire alla richiesta.
Perché la clausola elastica sia legittima occorre che essa, caratterizzata in primo
luogo luogo dalla forma scritta :
Lavoro ripartito è il lavoro che si caratterizza per la presenza di due lavoratori che
assumevano in solido l’adempimento di un’unica prestazione lavorativa. Questo
tipo di lavoro è stato abrogato con il Jobs Act.
Il contratto di lavoro intermittente sembrava mancare dell’oggetto (elemento tipico
del contratto) collegabile in una futura ed eventuale prestazione lavorativa.
Il decreto pone anche dei limiti quantitativi al ricorso di tale contratto : per ciascun
lavoratore con il medesimo datore di lavoro non si può invero eccedere un periodo
complessivamente superiore alle quattrocento giornate di effettivo lavoro nell’arco
dei tre anni solari.
Nel caso di violazione dei limiti quantitativi o dei presupposti sostanziali viene
prevista la conversione del contratto in un contratto di lavoro a tempo pieno e
indeterminato.
Si prevede che prima dell’utilizzo della prestazione si rispetti, da parte del datore di
lavoro, l’obbligo di comunicazione alla direzione territoriale del lavoro della
assunzione e soprattutto della durata della prestazione, pena una sanzione
amministrativa.
Per evitare abusi e favorire controlli in tempo reale, l’utilizzatore professionale è
però tenuto a trasmettere almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione,
attraverso il portale informatico dell’INPS.
a. Per ciascuno prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, compensi
di importo complessivamente non superiore a 5000 euro
b. Per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, compensi di
importo complessivamente non superiore a 5000 euro
Rimane invece chiara la sua valenza di contratto a causa mista, modulabile
secondo le tre tipologie previste :
Esso viene prevalentemente letto come una mera occasione di riduzione del costo
del lavoro, riduzione ottenuta mediante l’inquadramento del lavoratore fino a 2
livelli inferiori.
PARTE TERZA
La normativa di cui ci si occupa consente comunque il mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento d’impresa. In particolare :
• Tutti i diritti e gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro presso il cedente sono
trasferiti in capo al cessionario
dunque anche della tutela nei confronti dei lavoratori : l’azienda risulta essere una
entità predefinita materialmente, mentre l’impresa potrebbe non essere neppure
composta da beni, ma da soli uomini e donne.
Va poi ancora più attentamente considerato, anche per le prassi seguite dalle
imprese, il c.d. trasferimento di ramo d’azienda.
Quanto alla definizione del trasferimento d’azienda nella disciplina vigente riguarda
“qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un’attività
economica”: rientrano in tale ambito l’usufrutto, la cessione, la fusione, l’affitto. Per
attività economica va intesa “una entità organizzata, con o senza scopo di lucro,
preesistente al trasferimento e che conserva la propria identità nel trasferimento”.
Il ramo d’azienda va inteso con la modifica introdotta dalla riforma Biagi “una
articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata,
identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento”.
Occorre ricordare la accennata responsabilità solidale delle parti nei confronti dei
lavorati, ma anche l’auspicato intervento di un accordo tra le organizzazioni
sindacali e il datore di lavoro che disciplini tutta la vicenda.
Già nel 1990 era stata introdotto un massiccio coinvolgimento delle organizzazioni
sindacali : “quando si intende effettuare un trasferimento d’azienda il cedente ed il
cessionario devono darne comunicazione per iscritto alle organizzazioni sindacali,
se sono presenti alle rappresentanze sindacali all’interno dell’impresa, altrimenti ai
sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi”.
Infine, per i casi di identità aziendali in stato di crisi, il legislatore ha previsto una
deroga alla norma civilistica, con l’obbiettivo specifico di conservare la vita
dell’impresa stessa, impedendone la cessazione e lo stato di disoccupazione dei
lavoratori.
Attraverso l’esame delle novità introdotte dal Governo dell’estate del 2013, alla
luce delle quali è oggi possibile per le reti di imprese accedere a quattro modalità
specifiche per una gestione più flessibile del personale al loro interno :
Le citate modalità di gestione del personale nella rete si pongono, peraltro, in una
prospettiva di vantaggio non solo per le imprese, ma anche i lavoratori coinvolti; e
ciò sotto il duplice aspetto, da un lato, dell’acquisizione di nuove competenze,
dall’altro lato, di una maggiore garanzia di stabilità del proprio impiego. Tanto lo
sviluppo di nuove professional skils, quanto l’estensione dell’impresa/rete
sembrano rendere più angusti gli spazi per un licenziamento individuale per ragioni
economiche (c.d. giustificato motivo oggettivo), legato alla soppressione di un
posto, posto non più “fisso e predeterminato”, ma, a questo punto, flessibile e
dinamico.
Da ultimo, vanno evidenziati gli innegabili vantaggi fiscali legati allo strumento della
rete, in particolare relativamente alla gestione del personale impiegato all’interno di
quest’ultima.
13.3 IL DISTACCO
Le norme di legge, che “riconoscono” normativamente l’istituto richiedono tuttavia
la sussistenza di due requisiti :
a. La temporaneità
Come avvisato la difficoltà dell’utilizza dell’istituto risiede nella individuazione e
costruzione, nel contratto stesso, dell’interesse del distaccante; nella prassi
dunque il distaccante è costretto sovente a “inventare” un proprio interesse.
Tra gli istituti più controversi, in quanto utilizzabili per una riduzione dei diritto dei
lavoratori subordinati, si trova il contratto di appalto, a rigore un contratto
commerciale ma con evidenti ricadute sul piano dei rapporti di lavoro.
L’art 1655 c.c. disciplina tale contratto “L’appalto è il contratto col quale una parte
assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il
compimento di una opera o di un sevizio verso un corrispettivo in denaro”.
I protagonisti del contratto sono dunque due parti, di regola sotto forma di
Requisiti necessari ai fini della liceità del contratto sono l’organizzazione dei mezzi
da parte dell’appaltatore e il rischio posto a suo carico.
La ratio della norma del decreto Biagi è quella di evitare che, in tali ipotesi di
appalto di attività di lavoro intensivo, i dipendenti dell’appaltatore siano quasi
automaticamente imputati quali dipendenti del committente/appaltante, secondo i
meccanismi sanzionatori già previsti dall’art 1676 c.c.
Con l’introduzione del contratto di somministrazione nel diritto del lavoro italiano fa
il suo ingresso una vera e propria dissociazione tra datore di lavoro formale
(agenzia) e sostanziale utilizzatore della prestazione lavorativa (impresa
utilizzatrice).
Il legislatore impone alle c.d. Agenzie per il lavoro taluni requisiti soggettivi per
svolgere l’attività di somministrazione. Tuttavia la caratteristica del contratto di
Gli obblighi retribuitivi e contributivi nei confronti dei lavoratori sono posti dalla
legge in entrambi i casi, sia di somministrazione a tempo determinato che
indeterminato, a carico dell’Agenzia.
Laddove l’impresa utilizzatrice decida, alla luce del percorso lavorativo svolto sino
a quel momento e dunque all’esito di una sorta di prova lunga, di assumere il
lavoratore inviato dall’agenzia per il lavoro, la legge vieta rigorosamente
l’apposizione di vincoli alla medesima assunzione.
Il numero dei lavoratori somministrati a tempo indeterminato non può costituire più
del 20% del numero dei lavoratori assunti a tempo indeterminato in forza presso
l’utilizzatore.
dei limiti, va certamente menzionata la mancanza della forma scritta del contratto
di somministrazione, nonché il superamento dei tetti percentuali nell’assunzione di
lavoratori somministrati.
La cessazione del rapporto di lavoro può avvenire per volontà del datore o del
lavoratore : nel primo caso si parla di licenziamento, individuale o collettivo; nel
secondo di dimissioni.
La materia del recesso dal 1942 era disciplinata dagli art. 2118 e 2119 c.c.; il
codice fingeva che datore e lavoratore fossero su un piano di parità. Ai fini della
legittimità del recesso non era obbligatoria una giustificazione, e quindi qualunque
recesso risultava valido, con l’unico onere del preavviso.
A questa regola generale il legislatore prevedeva un’eccezione, quella della giusta
causa : il ricorrere di quest’ultima consente che il datore ed il lavoratore non
devono giustificare il recesso senza alcun onere di preavviso.
Nel 1970, con la approvazione dello Statuto dei lavoratori, soprattuto dell’art. 19,
sulle rappresentanze sindacali, nonché la previsione di limiti al potere del datore,
appare quasi logica conseguenza la disciplina del regime reintegratorio in caso di
licenziamento illegittimo.
Da un punto di vista dei vizi del recesso l’art. 18 tratta i diversi vizi dell’atto
(inefficacia, annullabilità e nullità) allo stesso modo.
Il recesso con preavviso trova la sua disciplina nell’art 2118 c.c., ove pure viene
previsto che, in assenza del preavviso, la parte recedente debba corrispondere
“un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il
periodo di preavviso”.
Viene inoltre prevista una eccezione al regime di cui all’art. 2118 : poiché il
rapporto di lavoro si configura come un rapporto fiduciario, coinvolgente da un lato
la persona del lavoratore e dall’altro la persona del datore di lavoro, viene infatti
prevista la possibilità di recedere senza preavviso, laddove “si verifichi una causa
che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.
Appare evidente, dunque, che almeno fino al 1966, anno di approvazione della
legge 604, il licenziamento e le dimissioni non necessitavano di una motivazione,
se non per il caso, appena visto, della sussistenza di una giusta causa, di
licenziamento ma anche di dimissioni.
Quanto alle diverse mozioni si qui richiamate, va subito riferito come quella di
giusta causa, consista in un gravissimo inadempimento contrattuale; qualcosa
cioè che rende intollerabile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.
in presenza di giusta causa, inoltre, l’art. 2119 c.c. esclude la necessita di un
preavviso, anche se va comunque rispettato il citato principio di proporzionalità tra
infrazione e sanzione.
Per quanto riguarda il giustificato motivo oggettivo va detto si d’ora che, fino alle
recenti riforme, la giurisprudenza, nonostante il principio di insindacabilità delle
scelte di merito imprenditoriali si è spesso intromessa ed ha sindacato le stesse
scelte organizzative delle imprese, con la conseguenza che licenziare per
giustificato motivo risulta pressoché impossible. Questo, da un lato per l’istituto di
origine prettamente giurisprudenziale del c.d. obbligo di repechage, secondo il
quale, in presenza di una diversa posizione, anche in mansioni inferiori, nella quale
utilizzare il lavoratore, il licenziamento veniva considerato illegittimo; dall’altro
perché in caso di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo si
sarebbe applicata la reiterazione “attenuata”.
Infine tra i requisiti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
vi era la sussistenza di un nesso di casualità tra motivo oggettivo e conseguente
licenziamento. Tornando alla nozione di giustificato motivo oggettivo, sono
egualmente ricomprese in essa le ragioni inerenti alla persona del lavoratore che
incidono sull’organizzazione aziendale (es. idoneità fisica sopravvenuta); a
differenza che nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo, le ragioni non
rilevano come inadempimento contrattuale del lavoratore ma in quanto rendono
inutilizzabile la prestazione dello stesso nell’ambito dell’azienda, giustificando così
il suo licenziamento.
Invero a tutela del lavoratore sono stati previsti specifici divieti di licenziamento nel
caso in cui il lavoratore si trovi in situazioni tali per cui necessiti di particolare
protezione (divieto di licenziare una lavoratrice madre, dal momento in cui la donna
è in stato di gravidanza fino al compimento da parte del bambino del primo anno
di età).
Per quanto attiene alle conseguenze sanzionatorie nei confronti dei licenziamenti
Si è passati da una assenza di tutta ad una prima fase di tutele specifiche, quali
quelle contemplate nella l. 604/1996, che tuttavia riguardava solo datori di lavoro
con più di 35 dipendenti, successivamente estesa a tutte le aziende,
indipendentemente dal requisito dimensionale, che pertanto potevano permettersi
la scelta tra il pagamento di una indennità o la riassunzione del lavoratore.
Dal 1970, e dunque in seguito all’approvazione dello statuto dei lavoratori, si opta
per un diverso requisito numerico di applicazione della disciplina limitativa dei
licenziamenti individuali e altresì per un altro ambito di riferimento : si parla invero
di unità produttive con più di 15 dipendenti.
Nell’ambito della tutela reale dunque, e dimostrata la sussistenza del vizio, nonché
in caso di contestazione da parte del lavoratore, il giudice ordina di reintegrare il
lavoratore nel posto di lavoro e condanna altresì il datore di lavoro al pagamento di
un’indennità risarcitoria commisurata alla reintegrazione dal giorno del
licenziamento fino alla effettiva reintegrazione.
Dal 2012 al 2015 tali forme di tutela, ad eccezione di quella reintegratoria forte,
rimangono appannaggio dei lavoratori impiegati in unità produttive con più di 15
dipendenti, mentre in unità produttive minori continua ad applicarsi la alternativa
posta dalla l. 604/1966.
Parecchio cambia con l’introduzione delle modifiche apportate dal d.ls. 22/2015,
parte del più ampio Jobs Act, e che riguarda in punto di licenziamento, solo i
lavoratori assunti dopo il 17 marzo 2015 ma dipendenti delle imprese di qualunque
dimensione, dunque anche quelle che si muovono sotto la soglia dei 15
dipendenti, ai quali prima si applicava l’alternativa tra la riassunzione e indennità;
nei loro confronti adesso si applica la tutela reintegratoria forte, indennitaria forte o
indennitaria attenuata, a seconda dei vizi riscontrati e con la sola esclusione della
tutela reintegratoria attenuata, con importi dell’indennità dimezzati.
La nuova norma quindi tratteggia per la prima volta una regolamentazione unitaria
delle sanzioni applicabili al licenziamento legittimo, regolamentando anche le
sanzioni per le ipotesi di licenziamento collettivo e superando la differenza di
trattamento riservata ai lavoratori impiegati nelle c.d. organizzazioni di tendenza.
a. La tutela reintegratoria forte viene dunque prevista per i soli casi di nullità del
licenziamento. Nullità che consegue pero oggi non solo al licenziamento
discriminatorio in senso stretto, anche agli atri casi di nullità espressamente
previsti dalla legge.
In proposito vanno fatte due considerazioni : la prima riguarda il fatto che nella
pratica, al fine di rendere applicabile ancora la tutela reintegratoria forte, le
difese dei lavoratori tendono a recuperare ogni ipotesi di legge dalla quale
possa emergere un caso di “nullità”; la seconda attiene alla nozione stessa di
licenziamento discriminatorio o, meglio ancora, di “discriminazione”
b. La tutela reintegratoria attenuta, già introdotta con la riforma del 2012, viene
invece applicata ai casi di annullabilità del licenziamento disciplinare, in cui
“sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione
circa la sproporzione del licenziamento”. Rispetto a quanto previsto dall’art. 18
precedente, viene quindi eliminata la possibilità di applicare tale tutela sia in
ogni caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo che nell’ipotesi in
c. Con il d.lgs. 23/2015 la tutela indennitaria forte viene prevista, in primo luogo,
nel caso in cui venga accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento
per giustificato motivo oggettivo; invero con il d.lgs. n23/2015 si sceglie di
sanzionare con la tutela meramente indennitaria (debole o forte) ogni caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo ritenuto in via giudiziale
illegittimo, escludendo l’applicazione in questi casi della tutela reale. La tutela
indennitaria forte, inoltre, trova applicazione nel caso in cui si accerti
l’insussistenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, salvo
quanto previsto nel punto b).
Nelle intenzioni del legislatore questo appare il modello generale di tutela nei
confronti del licenziamento annullabile accolta ora nel nostro ordinamento.
In tali ipotesi la norma originaria prevedeva che il giudice, dichiarando estinto il
rapporto, condannasse il datore di lavoro al pagamento di una indennità di
importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo
del t.f.r. per ogni anno di servizio, tra un minimo di 4 e un massimo di 24
mensilità. La norma è stata successivamente modificata, in quanto si è ritenuto
che non approntasse una tutela sufficiente per il lavoratore, dal c.d. decreto
dignità (l.87/2018), inalzando minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità.
La modifica più significativa è arrivata successivamente per effetto della
sentenza della Corte Costituzionale, n.194/2018, che ha dichiarato illegittima
l’art.3 d.lgs. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità
dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del t.f.r. per ogni anno di
servizio”, e quindi nella perte in cui prevede un meccanismo rigido di
determinazione dell’indennità, ancora esclusivamente all’anzianità di servizio.
L’indennità, sulla base delle indicazioni fornite dalla corte, sarà
presumibilmente calcolata utilizzando il numero dei dipendenti, dimensioni
dell’impresa e/o dell’attività economica, comportamento e condizioni delle
parti.
Prima delle legge nazionali i licenziamenti collettivi erano solo “nominati” dal
legislatore per essere esclusi dalla disciplina sul licenziamento individuale e il
legislatore non era mai intervenuto perché si trattava di una materia tipica di
negoziazione collettiva.
Nella legge sono oggi presenti due distinte nozioni e una unica procedura.
È prevista un unica procedura perché essa deve tenere conto delle direttive
comunitarie, che impongono a colui che attira un qualsivoglia licenziamento
collettivo alcune regole, formali e procedurali.
b. Un presupposto temporale :
c. Un presupposto spaziale :
Infine, sebbene la procedura attenga, come visto, ad una collettività di lavoratori, il
provvedimento di licenziamento conclusivo consiste in un vero e proprio
licenziamento individuale, formalizzato dunque in un atto scritto unilaterale e
recettizio di recesso.
Nel primo caso si parla di mobilità perché i lavoratori non vengono espulsi
immediatamente, prevedendosi al contrario un passaggio per periodi di
sospensione del rapporto con conseguente integrazione salariale. Nel secondo
invece (riduzione del personale), come visto sopra, il recesso avviene
immediatamente, senza alcuna ulteriore incombenza sul datore di lavoro, ad
eccezione del rispetto della citata procedura.
Come avvisato, l’omissione anche di uno solo di tali destinatari comporta
l’invalidità del licenziamento. La comunicazione deve in ogni caso contenere :
• I motivi dell’eccedenza
Il contenuto della comunicazione non può essere generico perché deve consentire
alla parte sindacale di prepararsi all’esame congiunto, per questo motivo spesso
tale comunicazioni vengono redatte da professionisti, proprio per evitare che la
procedura sia inficiata un errore e che quindi il licenziamento risulti illegittimo.
Il datore di lavoro non è obbligato a concludere tale accordo, solo incentivato dalla
previsione legislativa, mentre, come visto, è obbligatorio il confronto, anche
serrato, con le parti sindacali.
In caso di mancato raggiungimento dell’accordo o, mediante l’accordo sindacale,
dell’individuazione di un numero di licenziamenti inferiore al previsto, occorre
comunque determinare concretamente i lavoratori da licenziare.
I lavoratori licenziati, fino al 1 gennaio 2017, venivano inseriti nella lista di mobilità.
Era infatti previsto un percorso preferenziale di rioccupazione che ovviamente era
in grado di funzionare solo laddove il mercato del lavoro risultasse
sufficientemente dinamico.
Così non si fa più riferimento ai vizi del recesso, ma sono previste anche in questo
caso sanzioni diverso in caso di mancanza della forma scritta (tutela reintegratoria
forte), violazione della procedura (tutela indennitaria forte), e violazione dei criteri di
scelta (tutela reintegratoria attenuata)