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Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. I, comma I, DCB Milano
• Fallimento
La prova dell’insolvenza; gli accordi di ristrutturazione e la lo-
ro efficacia per i non aderenti
• Fatti illeciti
Responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi; il tort of
neglicence nel diritto inglese
• Società
La delega gestoria nelle società per azioni; la decadenza dei
sindaci
• Giustizia competitiva
La mediazione e l’arbitrato irrituale
• Diritto sportivo
La responsabilità contrattuale ed aquiliana dell’organizzatore
di eventi sportivi; il merchandising del marchio sportivo
Contratto e impresa
Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale
diretti da Francesco Galgano
1
4-5
ventisettesimo anno
• Fallimento
La prova dell’insolvenza; gli accordi di ristrutturazione e la loro
efficacia per i non aderenti
• Fatti illeciti
Responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi; il tort of ne-
glicence nel diritto inglese
• Società
La delega gestoria nelle società per azioni; la decadenza dei
sindaci
• Giustizia competitiva
La mediazione e l’arbitrato irrituale
• Diritto sportivo
La responsabilità contrattuale ed aquiliana dell’organizzatore
di eventi sportivi; il merchandising del marchio sportivo
2011
CEDAM - PADOVA
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la
riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettro-
nico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro.
ventisettesimo anno
INDICE SOMMARIO
DIBATTITI
1. – La questione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
2. – Gli statuti universitari nel sistema delle fonti: l’articolo 33 della Costituzione e
la normativa di attuazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
3. – L’autonomia come differenziazione. Il caso dell’eleggibilità a cariche accademi-
che dei professori a tempo definito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 67
4. – (segue) Lo status come limite all’ingerenza esterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70
SAGGI
SOCIETÀ
Dario Scarpa, La delega gestoria nella spa: architettura delle interazioni tra de-
legati e deleganti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 106
Sommario: 1. Delega gestoria nella società per azioni in funzione del persegui-
mento dell’efficacia della corporate governance e della razionalizzazione
dell’esercizio del potere gestorio. Qualificazione giuridica del rapporto giu-
ridico tra delegato e società. – 2. Concorrenza gestoria tra organo collegia-
le e singolo amministratore delegato e potere di avocazione come limiti di
estensione applicativa della delega: rapporto tra collegialità dell’organo
amministrativo e conferimento di delega. – 3. Studio delle modalità di at-
tuazione della delega e funzioni, determinazione di contenuto e limiti di
esercizio della delega, analisi della ratio delle attribuzioni indelegabili. – 4.
Sindacato dell’attività gestoria (e discrezionale) dell’organo delegato e ana-
lisi del dovere di diligenza in funzione dell’accertamento della responsabi-
lità dell’amministratore delegato. – 5. Individuazione del rapporto tra dele-
ga e flussi informativi tra deleganti e delegati all’esito dell’introduzione del
principio dell’agire in modo informato nella gestione della spa.
DIRITTO SPORTIVO
INNOVAZIONE LEGISLATIVA
Gianfranco Dosi, La mediazione e l’arbitrato irrituale nelle riforme del 2010 . . pag. 226
ENCICLOPEDIA
Giovanni Villa, Il tort of negligence nel sistema inglese dei fatti illeciti . . . . . . » 263
1990, p. 1250; Trib. Chieti, 20 maggio 1992, in Dir. fall., 1993, II, p. 545; Trib.
Roma, 15 dicembre 1974, in Dir. fall., 1975, II, p. 474; Trib. Roma, 10 feb-
braio 1992, in Fallimento, 1992, p. 645.
Né può darsi rilievo al fatto, ritenuto rilevante solo dall’App. Bari, 29 ot-
tobre 1990, ivi, 1991, p. 521, che il credito contestato sia munito di titolo ese-
cutivo. Tanto meno gli si può dare rilievo se il giudice dell’esecuzione abbia
sospeso per gravi motivi l’esecutività del titolo fatto valere dal creditore
istante. Se non si può procedere, per quel vantato credito, ad esecuzione in-
dividuale, a maggior ragione non si potrà procedere ad esecuzione concor-
suale.
Può accadere che l’istanza di fallimento sia presentata non già a seguito
dell’infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva individuale (ciò che po-
trebbe, in ipotesi, essere assunto come rivelazione di insolvenza), bensì in
concorso con l’azione esecutiva individuale e in pendenza del processo ese-
cutivo. Ciò che rende manifesto come l’iniziativa del fallimento sia stata as-
sunta dal creditore istante quale indebito mezzo di pressione sul preteso
debitore, così integrando gli estremi dell’abuso del diritto di azione in giu-
dizio (sulla cui repressione cfr. Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592, in Giur. it.,
2001, p. 1887), che può comportare, quando si sia abusato dell’istanza di fal-
limento, la revoca del fallimento dichiarato in accoglimento dell’istanza
(Cass., 19 settembre 2000, n. 12405, in Foro it., 2001, I, c. 2326).
dità e credito occorrenti alla propria attività, si trovi in una situazione di impotenza fun-
zionale e non transitoria, non essendo in grado di osservare regolarmente, tempestiva-
mente e con mezzi normali gli impegni assunti (Cass., 6 giugno 1979, n. 3198; Id., 14 feb-
braio 1980, n. 1067; Id., 11 maggio 1981, n. 3095).
Tuttavia, non è da tacere che le censure della ricorrente, in ordine della pretesa man-
canza di uno squilibrio fra attivo e passivo, si muovono nell’ambito di un inammissibile
apprezzamento diverso delle medesime circostanze di fatto valutate dal giudice del me-
rito; inammissibile anche perché muove da una critica che non è pertinente all’effettivo
decisum, in quanto la Corte d’appello ha tratto dallo stato passivo (e non dal bilancio)
l’ammontare dei crediti, che pertanto erano tutti insinuati ed ammessi per circa 27 mi-
liardi (contro un attivo comunque assai inferiore).
Il punto fondamentale della motivazione consiste nell’accertamento dell’assoluta
mancanza di liquido, che non consentiva alla S.A.S. di pagare neppure l’impresa appal-
tatrice dei lavori di costruzione; nonché nell’accertamento che 1’I.C.C.R.I. non aveva
rinnovato il fido o fatto un’ulteriore apertura di credito per dotare la società della liqui-
dità necessaria per far fronte alle sue obbligazioni.
Due sono i punti che meritano censura. Anzitutto, l’eccedenza del pas-
sivo sull’attivo patrimoniale non è fatto esteriore rivelatore dell’impotenza
dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni, come la stessa sen-
tenza ammette quando menziona eventi idonei a neutralizzarne l’efficacia
probatoria. Non si può poi invertire l’onere della prova sullo stato di insol-
venza ed addossare al debitore l’onere di provare la propria solvibilità, co-
4 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Infatti,
« ove si consentisse all’autorità giudiziaria di procedere d’ufficio ad indagini mera-
mente esplorative prima ancora che siano emersi fatti esteriori tali da generare quanto
meno il fondato sospetto di situazioni antigiuridiche, si rischierebbe di estendere la na-
tura inquisitoria dell’istruttoria prefallimentare oltre i limiti sconosciuti al pensiero del-
lo stesso ispiratore della nozione di insolvenza contenuta nell’art. 5, l. fall. » (Censoni, in
Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da Panzani, Torino, 2000, p. 98).
6 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Francesco Galgano
Efficacia erga omnes degli accordi di ristrutturazione
(art. 182 bis, l. fall.)
(1) Prima della riforma si è pronunciato per l’inapplicabilità dell’art. 168, l. fall., Trib. Udi-
ne, 22 giugno 2007, in Fall., 2008, p. 701.
10 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Tale prescrizione non è chiara e può essere letta in due modi: nel senso
che sia garantito integralmente il pagamento del credito degli estranei op-
pure che sia garantito il pagamento integrale sì, ma così come proposto nel
concordato stragiudiziale (2), ad esempio con una determinata riduzione o
rateizzazione.
La letteratura dominante si esprime in senso nettamente contrario alla
seconda ipotesi, giacché autorevolmente si insiste sul diritto dei creditori
non aderenti di essere pagati interamente, cioè senza vedere il loro credito
ridotto in forza di un accordo al quale siano rimasti estranei (3).
L’idea che il credito degli estranei sia in qualche modo toccato dall’ac-
cordo sembra ai più aberrante, perché si assisterebbe ad una “vera e propria
espropriazione dei crediti a carico degli estranei all’accordo” (4).
La giurisprudenza di merito si attesta nel medesimo senso: il pagamen-
to deve essere integrale e secondo i termini originari (5).
C’è però da chiedersi se la tesi dominante sia davvero insuperabile.
Il fatto che il legislatore abbia indicato una maggioranza in relazione al-
l’insieme complessivo dei creditori, induce a ritenere che un qualche effet-
to “esterno” debba necessariamente prodursi. Infatti, all’interno del gruppo
dei creditori che aderiscono al patto, vi è evidentemente l’unanimità e quin-
di o quel patto ha rilevanza esterna, quando aderisca il 60% di tutti i credito-
ri, oppure quella previsione si rivela inutile.
Non avrebbe poi senso alcuno che fosse stata imposta una maggioranza
pur che sia, per dar vita ad un accordo di ristrutturazione meramente inter-
no: nessuna disposizione vieta all’imprenditore di definire i propri rapporti
(2) Per la seconda lettura, in netta minoranza, v. ad es. Grossi, La riforma del diritto falli-
mentare, Milano, 2005, p. 334.
(3) Roppo, Accordi di ristrutturazione dei debiti d’impresa, e categorie civilistiche, in Studi in
onore di Giorgio Cian, Padova, pp. 2010, 2162 ss., spec. p. 2181 ma già, ad es., Frascaroli San-
ti, Gli accordi di ristrutturazione e gli effetti per coobbligati e fideiussori del debitore, in Aa.Vv.,
La riforma della legge fallimentare, a cura di Bonfatti e Falcone, Milano, 2005, p. 236; è questa
la tesi dominante in letteratura.
(4) D’Ambrosio, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Aa.Vv., Fallimento ed altre
procedure concorsuali, a cura di Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, III, p. 1812.
(5) Secondo il Trib. Milano, 23 gennaio 2007, in Giur. it., 2007, p. 1692, “gli accordi di ri-
strutturazione dei debiti disciplinati dall’art. 182 bis, l. fall., non costituiscono una forma di
concordato preventivo semplificato, ma integrano un autonomo istituto giuridico assimilabi-
le ad un pactum de non petendo e, per la pluralità di parti, ad un negozio di diritto privato qua-
lificabile come contratto bilaterale plurisoggettivo a causa unitaria”; tuttavia secondo la stes-
sa decisione i creditori dissenzienti o non aderenti al piano dovrebbero essere pagati per inte-
ro e secondo le scadenze originarie; così anche Trib. Palermo, 27 marzo 2009, Dir. banc., 2009,
I, p. 455, mentre per App. Trieste, 4 settembre 2007, Dir. fall., 2008, II, p. 297, sarebbe da esclu-
dersi anche una rateizzazione del pagamento integrale dei creditori estranei.
12 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
anche con un singolo creditore, sicché indicare una maggioranza quale re-
quisito ha un senso, se quell’accordo si riverberi anche sulla minoranza.
Ben potrebbe essere, peraltro, che l’effetto esterno consista solo nel-
l’impedire, per sessanta giorni, azioni esecutive e nuove prelazioni, come
ora vedremo, ma se la riforma si riducesse solo a questo, potremmo dire che
la montagna abbia partorito un topolino, risultando in definitiva la proce-
dura di poca utilità pratica.
A che pro introdurre gli accordi di ristrutturazione se i creditori esterni
al patto, in particolare i chirografari, devono comunque essere pagati al
100% ed in tempi rapidissimi?
Ciò detto, la regola generale per cui i contratti non producono effetti ri-
spetto ai terzi non è decisiva per risolvere il problema, perché l’art. 1372 c.c.
fa salvi i casi previsti dalla legge (6), sicché il punto da verificare è se questo
debba considerarsi o meno uno di tali casi.
In tal senso è stato ricordato con esemplare chiarezza come il principio
di maggioranza contrasterebbe intimamente con la regola aurea dell’auto-
nomia privata e se anche, in taluni casi, si potrebbe pur sempre ricondurre
quel meccanismo di disciplina dei rapporti ad una preventiva adesione del
privato – sicché in definitiva ciò varrebbe a costituire “una preventiva accet-
tazione del principio di maggioranza” – vi sono molte diverse ipotesi, tra cui
proprio quelle concordatarie, ove una tale adesione non è minimamente
postulabile (7).
Ora poiché il principio di maggioranza deve pur sempre ritenersi
“un’eccezione alla regola di determinazione dei singoli” (8), si è detto che
laddove difetti la preventiva adesione del singolo, il presupposto di operati-
vità debba essere individuato in un dato oggettivo, consistente nella “co-
munanza di interessi in cui più persone versano, sia essa da loro costituita
volontariamente (società, associazioni, consorzi) oppure emergente, anche
indipendentemente dalla loro volontà, dalla convergenza dei loro interes-
si”. Con la conclusione che, ove difetti questa comunanza, allora il princi-
pio di maggioranza non possa operare perché “nessuno può subire altera-
zioni della propria sfera giuridica indipendentemente dal concorso della
propria volontà” (9).
Tale indicazione va totalmente condivisa e costituisce il riferimento per
verificare se, nel caso dell’accordo di ristrutturazione, si possa ravvisare una
convergenza di interessi che legittimi l’operatività del principio di maggio-
ranza, inteso qui come efficacia esterna del patto.
(6) Sul punto v. Galgano, Tratt. dir. civ., Padova, 2009, II, p. 484 ss.
(7) Galgano, La forza del numero e la legge della ragione, Bologna, 2007, p. 203.
(8) Galgano, La forza del numero e la legge della ragione, cit., p. 206.
(9) Galgano, cit., p. 204.
DIBATTITI 13
A tal fine si può ricordare che, nel caso del concordato preventivo, il li-
mite insuperabile è contenuto nel capoverso dell’art. 160, l. fall., il quale
consente che i creditori siano divisi per classi e che, entro i limiti ivi indica-
ti, anche i creditori privilegiati siano pagati in misura non esaustiva, purché
la divisione per classi non sovverta l’ordine delle cause di prelazione.
Se allora anche l’accordo di ristrutturazione venga limitato negli stessi
termini, in relazione all’effetto che produce per i terzi, l’autonomia degli
estranei e dei contrari risulterebbe pur sempre salvaguardata, perché non ri-
cevebbero un trattamento deteriore. In tal senso, ad es., dovrebbe operare
nel concordato stragiudiziale il divieto per i creditori privilegiati di sotto-
scrivere l’accordo se non rinuncino al privilegio, in analogia a quanto indi-
cato dall’ art. 177, l. fall., non potendo altrimenti essere computati nella
maggioranza laddove l’accordo preveda un qualsiasi effetto sul diritto degli
estranei.
Nello stesso senso, l’accordo di ristrutturazione non potrebbe prevede-
re il sovvertimento delle cause di prelazione, sempre secondo quanto pre-
vede l’art. 160, l. fall.
In definitiva, in questi termini, la differenza tra l’accordo di ristruttura-
zione ed il concordato preventivo consisterebbe solo nelle modalità con cui
si forma la maggioranza e non in una minor tutela per i creditori estra-
nei (11), i quali lo vedrebbero perfino approvato con una maggioranza supe-
riore a quella richiesta per il concordato preventivo.
Vi è inoltre anche un rilievo ulteriore che depone per l’efficacia erga om-
nes di questi accordi e che consoliderebbe la coerenza di questa lettura.
Infatti, il diritto di opposizione all’accordo previsto dall’art. 182 bis, l.
fall., si spiega solo come tutela a favore dei terzi estranei e non certo dei cre-
ditori che abbiano accettato l’accordo, i quali evidentemente non possono
impugnarlo perché abbiano cambiato idea, giacché la legge fallimentare
non prevede alcuna forma di recesso dall’accordo stesso.
D’altro canto se si ritenesse che il diritto di opposizione serva a tutelare
(solo) i i creditori che abbiano sottoscritto l’accordo da rischi ipotetici (es. la
falsificazione di una firma, il deposito di una relazione diversa da quella esa-
minata, ecc.), si opterebbe per un’interpretazione riduttiva della regola
francamente ingiustificata.
In più, se l’accordo stragiudiziale valesse solo all’interno dei creditori
che lo approvano, i creditori estranei non avrebbero alcuna ragione di im-
pugnarlo, perché non ne verrebbero toccati. A tutto concedere l’effetto ver-
(11) Ovvero senza voler affermare l’esistenza di una matrice unitaria dei diversi concorda-
ti: Frascaroli Santi, cit., pp. 234-235, pur nell’estensibilità agli accordi di ristrutturazione, di
principi e norme del concordato preventivo: ivi, p. 237.
DIBATTITI 15
Gianluca Sicchiero
(12) Fermo peraltro il diritto degli aderenti di impugnarlo ove emerga un interesse con-
creto che non consista in un pentimento della precedente adesione.
Formalismo negoziale e nullità: le aperture delle Corti di merito
(1) Giorgianni, Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, p. 994 ss.
(2) Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concluden-
te, Milano, 1974, p. 383 ss.
(3) Il codice civile, come chiaramente emerge dalla lettura dell’art. 1350, lega la necessità
di formalizzare l’atto a pena di nullità a vicende che impegnano significativamente beni im-
mobili: per un verso ciò va addebitato al clima culturale dell’epoca in cui la proprietà ancora
rappresenta il « prototipo » dei diritti soggettivi (Rescigno, Introduzione al codice civile, Ro-
ma-Bari, 1991, p.104) e nel quale i beni che assumono preminente importanza sono quelli im-
mobili, che le parti sono libere di far circolare « ma quando li muovono conviene che faccia-
no sapere dove vanno »: Carnelutti, Teoria giuridica della circolazione, Padova, 1933, p. 13.
Per altro verso viene in rilievo la corrispondenza pressoché biunivoca tra art. 1350 e art. 2643
c.c. nonché la regola posta dall’art. 2657 c.c., sebbene formalismo e trascrizione abbiano fun-
zioni del tutto distinte cui corrisponde una netta differenziazione quanto all’apparato rime-
diale. In questo senso: Pugliatti, La trascrizione, I, 1, Milano, 1957, p. 419. Pone l’accento
sulla diversità di funzioni dei due istituti Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Comm. Sch-
lesinger, Milano, 1991, p. 99. Nel senso di una netta distinzione si pronuncia anche Maricon-
da, Gli atti soggetti a trascrizione con efficacia tipica, in Riv. not., 1981, p. 1017.
DIBATTITI 17
(4) P. Trimarchi, Appunti sull’invalidità del negozio giuridico, in Temi, 1955, p. 201.
(5) Scialoja, Negozi giuridici, Roma, 1950, p. 248.
(6) Breccia, La forma, in Tratt. del contratto diretto da Roppo, I, Formazione, a cura di
Granelli, Milano, 2006, p. 511.
(7) R. Scognamiglio, Contratti in generale, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Ro-
ma, 1970, p. 70. Cfr. altresì la raffinata voce di Ormanni, Forma del negozio giuridico, in Noviss.
dig. it., VII, Torino, p. 557 ss.
(8) Sul superamento del binomio, per tutti, Giorgianni, Forma degli atti, cit., p. 997 ss.
Ancor prima, in Francia, Flour, Quelque remarques sur l’évolution du formalisme, in Le droit
privé français au milieu du XX siècle. Études offertes à G. Ripert, Paris, 1950, I, p. 93 ss.
(9) Su cui, in luogo di molti, cfr. Orlandi, La paternità delle scritture. Sottoscrizione e for-
me equivalenti, Milano, 1997, passim.
(10) Cfr.: art. 2096 c.c. in materia di patto di prova (su cui D’Onghia, La forma vincolata
nel diritto del lavoro, Milano, 2005, p. 110 ss.); art. 1284, comma 3°, c.c. in materia di determi-
nazione per iscritto di interessi superiori alla misura legale (su cui Di Majo, La forma del tas-
so ultralegale, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Michele Giorgianni, Na-
poli, 1988, p. 125); art. 1751bis c.c. in materia di patto limitativo della concorrenza (su cui Si-
ca, Atti che devono farsi per iscritto, in Comm. Schlesinger, Art. 1350, Milano, 2003, p. 366).
(11) L’espressione, coniata da Carnelutti (Teoria generale del diritto, Roma, 1946, p. 311
ss.) e poi entrata nel lessico consueto dei civilisti, indica riassuntivamente le ipotesi normati-
vamente previste in cui il rispetto dell’onere formale non è richiesto per il perfezionamento
del negozio ma neanche rileva a fini probatori, consentendo invece all’atto di autonomia un
più alto grado di efficacia, in punto di opponibilità, pubblicità, certificazione di attività già va-
18 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
zioni del precetto formale nei contratti di società e associazioni) (12); per al-
tro verso, una giurisprudenza non folta ma significativa che, pur senza
smentire apertis verbis le linee della tradizione, tende a salvare il contratto
difettoso in punto di forma (riconvertendolo in una omologa fattispecie a
forma libera (13), qualificandone l’esecuzione come adempimento di obbli-
gazione naturale (14), richiamando il divieto di venire contra factum proprium
a filtro del concreto interesse ad agire) (15).
Essenziali per cogliere la complessità del sistema, questi segnali non si
spingono tuttavia ad incrinare davvero le « tre regole, concatenate fra di lo-
ro, del formalismo, della nullità, della insanabilità » (16).
Solo lungo un percorso assai più articolato (ma meno frammentario di
quanto abitualmente si dica) – e che vede nella cosiddetta legislazione spe-
ciale post-codicistica alcuni suoi determinanti prodromi (17) – si giunge alla
dissoluzione di tale rassicurante quadro, fino al profilarsi di un inedito rap-
(21) Art. 71, c. cons.; art. 86, c. cons.; art. 6 d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122; art. 3, l. 6 maggio
2004, n. 129.
(22) Art. 118 T.U.B., comma 2°; art. 1, comma 1°, l. 17 ottobre 2007 n. 188. Su norme di tal
fatta cfr. Lener, Forma contrattuale e tutela del contraente “non qualificato”, cit., p. 8 ss. Sul-
l’impiego di tecniche analoghe già nel sistema del codice cfr. Cian, Forma solenne e interpre-
tazione del negozio, Padova, 1969, p. 9 ss.
(23) Art. 12, comma 4°, lettera b, T.U.B.; art. 117, comma 8°, T.U.B.; art. 2 d.lgs. 21 maggio
2004 n. 170.
(24) Art. 2, comma 2°, l. 192/98; art. 118 T.U.B.
(25) Art. 52 comma 4°, c. cons.; art 71, c. cons.; art. 12 d.lgs. 9 aprile 2003 n. 70. Sulla pre-
scrizione di lingua: Memmo, Dichiarazione contrattuale e comunicazione linguistica, Padova,
1990; Cicala, Lingua straniera e testo contrattuale, Milano, 2003; Capobianco, La determina-
zione del regolamento, in Tratt. del contratto diretto da Roppo, II, Regolamento, a cura di Vetto-
ri, Milano, 2006, p. 280 ss.
(26) Art. 47, c. cons.; art. 177 comma 2°, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209. Sulla contiguità fra
simili disposizioni e precetto di chiarezza e comprensibilità di cui all’art. 35, c. cons., cfr. Ono-
rato, Decodificazione della proposta e nullità della clausola nel contratto col consumatore, in
Riv. dir. civ., 2007, p. 601 ss.
(27) Cfr. per esempio la recente dir. Ce 2008/48/ in materia di credito ai consumatori (art.
10), su cui sia dato rinviare a Modica, Il contratto di credito ai consumatori nella nuova disci-
plina comunitaria, in Europa e dir. priv., 2009, p. 785 ss. Cfr. altresì, con attenta analisi dei nes-
si tra forma e rimedi, Pagliantini, Il contratto di credito al consumo tra vecchi e nuovi formali-
smi, ne I contratti per il finanziamento dell’impresa, a cura di Dinacci e Pagliantini, nel Tratt.
dir. dell’econ. diretto da Picozza e Gabrielli, Padova, 2010, p. 1 ss. Sui riflessi che il metodo del-
la « armonizzazione piena » adottato dalla Direttiva in commento produce sul piano dell’ef-
fettività delle tutele: De Cristofaro, La nuova disciplina comunitaria del credito al consumo;
la direttiva 2008/48/Ce e l’armonizzazione « completa » delle disposizioni nazionali concernenti
« taluni aspetti » dei « contratti di credito ai consumatori », in Riv. dir. civ., 2008, p. 267 ss.
(28) Orlandi, La paternità delle scritture, cit., p. 41.
DIBATTITI 21
(29) Cass., 3 ottobre 2003, n. 14762, in Contratti, 2004, con commento di Genovese, Dirit-
to di recesso e regole d’informazione del consumatore, a proposito di contratto di vendita porta
a porta che, se concluso mediante sottoscrizione di una nota d’ordine, deve riportare le infor-
mazioni sul diritto di recesso « separatamente dalle altre clausole contrattuali e con caratteri
tipografici uguali o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento » (art. 47 c.
cons.). Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Bergamo 10 maggio 2005, in Contratti, 2006, p.
600, con nota di Vigoriti, L’obbligo di chiarezza e comprensibilità nei contratti dei consumato-
ri e le conseguenze della sua violazione; e, ancor prima, Trib. Vigevano, decr. 6 giugno 2003, in
Studium iuris, con nota di Girolami.
(30) Scalisi, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Europa e dir. priv.,
2001, p. 496. Cfr. inoltre Orlandi, Autonomia e sovranità, ne Il diritto europeo dei contratti fra
parte generale e norme di settore, a cura di Navarretta, Milano, 2007, p. 188 ss. Per un quadro di
insieme assai documentato: Mantovani, La nullità e il contratto nullo, in Tratt. del contratto,
cit., IV, I Rimedi, a cura di Gentili, p. 155 ss.
(31) Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 849.
(32) Corte giust. Ce, 4 giugno 2009, causa C-243/08, in Contratti, 2010, p. 1115, con com-
mento di Monticelli, La rilevabilità d’ufficio condizionata della nullità di protezione: il nuovo
“atto” della Corte di Giustizia.
22 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(33) Cfr. per es. l’art. 127 T.U.B. a norma del quale le nullità che possono essere fatte vale-
re solo dal cliente sono esclusivamente quelle previste nel titolo IV, che sono tutte variamen-
te riconducibili a carenze di ordine formale. In proposito, Pret. Bologna, 4 gennaio 1999, in
Corr. giur., 1999, p. 600 ss., con nota di Gioia, Nullità di protezione tra esigenze di mercato e nuo-
va cultura del contratto conformato.
(34) Art. 76, c. cons.; art. 30 T.U.F.
(35) Il riferimento è ancora alla disciplina del T.U.B. ed al peculiare meccanismo ivi deli-
neato all’art. 117, comma 7°, lettera b.
(36) Art. 2, comma 1°, l. 192/1998.
(37) Art. 30 T.U.F., su cui v. Trib. Bologna, 19 aprile 2009, n. 2107 in Corr. mer. 2009, p.
1075, con nota di Bruno, Offerta fuori sede e ‘‘nullità’ di protezione’’ per omessa comunicazione
del diritto di recesso, e App. Milano, 10 giugno 2009, in www.ilcaso.it, doc. n. 2771/2009, en-
trambe inclini ad una interpretazione estensiva della regola di cui all’art. 30, seppure da profi-
li differenti. Cfr. altresì art. 100bis T.U.F.
(38) Art. 73, comma 2°, c. cons.
(39) Art. 13, comma 5°, l. 431 del 1998.
(40) Cass. 18 luglio 2003, n. 11256, in Contratti, 2004, p. 237, con commento di Sanvito,
Prodotto senza scadenza e nullità del contratto.
DIBATTITI 23
(41) Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 498. Nello stesso senso, Chinè, Il diritto comuni-
tario dei contratti, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, XXVI, Il diritto privato dell’Unione eu-
ropea, a cura di Tizzano, Torino, 1999, p. 627.
(42) Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività, cit., p. 41.
(43) Alla base, un fenomeno per cui il mercato non è più inteso come una prassi « ma co-
me un modello (al quale conformare la prassi degli scambi) e, in quanto tale, è stato accredi-
tato di una funzione politica, quella di garantire quel che la politica prima garantiva »: così
Barcellona, I nuovi controlli sul contenuto del contratto e le forme della sua etero integrazione:
Stato e mercato nell’orizzonte europeo, in Europa e dir. priv., 2008, p. 37.
(44) Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 1998, p. 69. Nello stesso senso Sirena, L’in-
tegrazione del diritto dei consumatori nella disciplina generale del contratto, in Riv. dir. civ., 2004,
p. 792 ss.; E. Gabrielli, Mercato, concorrenza e operazione economica, in Rass. dir. civ., 2004,
p. 1044; Camardi, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei
contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, in Europa e dir. priv., 2001, p. 715.
24 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
va del rispetto delle condizioni legali, cui consegue una semplificazione dei
criteri giudiziali di valutazione nonché una decisa riduzione della conflit-
tualità) e conformarlo a standard predeterminati (standardizzazione che as-
sicura che « tutti i contratti siano soggetti a fondamentali regole condivise
da tutti gli interlocutori » (45) e favorisce la comparabilità delle offerte sul
mercato).
Dunque: la forma quale requisito (eccezionale) la cui carenza non può che
dar luogo ad una nullità strutturale – chiaro derivato della dottrina della fat-
tispecie (49) – assoluta, totale, insanabile, sempre testuale; praticamente in-
solubile il problema della prescrizione di forma sguarnita di sanzione espli-
cita.
Si può davvero ancora ritenere adeguata, alla luce di quanto sin qui det-
to, l’impostazione fondata sul carattere « organizzativo » delle regole di for-
ma quando spostata sul terreno della legislazione nuova? Costellato da pre-
scrizioni formali imperfette che pure invocano una sanzione e nullità con-
traddistinte da una chiara inclinazione manutentiva, si presta il quadro nor-
mativo di recente conio ad essere governato da istituti e meccanismi figli
della logica del codice civile e, anche per questo, connotati da una irriduci-
bile rigidità?
È quanto sostiene, invero, chi ha criticato l’idea, già altrove espressa (50),
che le nuove forme si alienino dal paradigma per così dire classico prima de-
scritto per allocarsi fra le norme imperative di cui al primo comma dell’art.
1418 c.c., con tutte le conseguenze, in termini di nullità virtuale e ratio del-
la norma violata, che ne conseguono.
Si è paventato al riguardo un « (discutibile) iato tra forme ad evidenza
strutturale (rilevanti in termini di nullità testuale, assoluta e definitiva) e
forme standard ad evidenza informativa (serventi una nullità virtuale, rela-
tiva e di pleno iure) » (51), ed il profilarsi di un « assai improbabile » tertium
genus di forma solenne (52).
Ora, in generale, non è nella moltiplicazione delle forme che potrebbe
ss.; Irti, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985, passim; Ferri, For-
ma e autonomia negoziale, in Quadrimestre, 1987, p. 327 ss.; P. Perlingeri, Forma dei negozi e
formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, p. 54 ss.; Vitucci, Applicazioni e portata del principio
di tassatività delle forme solenni, in Sudi Giorgianni, cit., p. 821 ss. Sulla necessità di un ap-
proccio funzionale al tema della forma cfr. Di Giovanni, La forma, in Tratt. dei contratti diret-
to da Rescigno e Gabrielli, I, I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999, p. 783. Cfr.
altresì, nella stessa direzione, Liserre e Jarach, La forma, in Tratt. dir. priv. diretto da Besso-
ne, XIII, Il contratto in generale, 3, a cura di Alpa, Breccia, Liserre, Torino, 1999, p. 400 ss. Le
dispute italiane spesso si sono richiamate ad alcuni lavori d’oltralpe dei primi anni del vente-
simo secolo, fra cui, per primo, Moeneclaey, De la renaissance du formalisme dans les con-
trats en droit civile et commercial français, th., Lille, 1914, recensito in Italia da Civetta, La ri-
nascita del formalismo nei contratti, in Riv. dir. comm., 1914, p. 971 ss.
(49) Di Majo, La nullità, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, VII, Torino, 2002, p. 63.
(50) Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, cit., p. 119 ss., spec. p. 264 ss. Sul
punto Calvo, Il risparmiatore disinformato tra poteri forti e tutele deboli, in Riv. dir. proc. civ.,
2008, p. 1448.
(51) Pagliantini, Forma e formalismo nel diritto europeo dei contratti, Pisa, 2009, p. 102.
(52) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 18.
26 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
annidarsi un’incrinatura del sistema: il codice civile conosce già più generi
di forma, in un panorama assai meno compatto di quanto abitualmente si
descriva e nel quale il binomio ad substantiam/ad probationem non esauri-
sce di certo il tema, sufficientemente molteplice, del formalismo negoziale
e delle sue tante funzioni. Soprattutto se, come riteniamo, ci si debba
emancipare dall’idea di un immanente principio di libertà delle forme (53)
laddove né lo scarno enunciato dell’art. 1325 c.c. né l’elenco per nulla esau-
stivo dell’art. 1350 c.c. possono dirsi decisivi per affermare l’eccezionalità
delle forme solenni (54).
Che un ulteriore « tipo » di forma – con caratteri, rationes ed effetti pro-
pri – faccia ingresso sulla scena appare poi ancor meno eversivo delle cate-
gorie tradizionali ove si abbia riguardo al polimorfismo che interviene inne-
gabilmente a connotare la dimensione tutta postmoderna del contratto (55).
È vero che il « farsi » di un atto formale sempre si traduce in un « dover
farsi », e che, nella variegata gamma di forme vincolate che l’ordinamento
propone, soltanto quella ad substantiam descrive il farsi del contratto in
quanto elemento partecipante alla sua « ossatura strutturale » (56). Ma è pur
vero – questo è il punto – che, ben prima della forma, è proprio tale ossatu-
ra « strutturale » ad essere mutata, tanto da non risultare più (del tutto) so-
vrapponibile al paradigma della fattispecie che campeggia nel codice civi-
le (57); e che, a monte, modificate appaiono le cadenze del rapporto tra or-
dinamento ed autonomia dei privati: la regolare formazione dell’atto nel
senso dell’aderenza al modello legalmente precostituito nei suoi requisiti
essenziali, dentro un mercato che si suppone già strutturato, tipica del co-
dice, lascia il passo adesso, dentro un mercato in perenne via di struttura-
zione, ad una preminente esigenza di conformazione del regolamento ne-
goziale.
Si tratta di una trasformazione che la dottrina ha descritto come passag-
(53) Il cui fondamento è da rintracciarsi negli echi del dogma volontaristico e nella conse-
guente equivoca identificazione tra « atto » e « forma » ch’esso presuppone: Santoro Passa-
relli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 9° ed., rist., p. 135.
(54) Sia consentito, sul punto, il riferimento a Modica, Vincoli di forma e disciplina del
contratto, cit., p. 4 ss.
(55) Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1998, p. 27. Cfr. altresì Addis, Diritto comunitario e “riconcettualizzazione” del diritto dei con-
tratti: accordo e consenso, in Obbligazioni e Contratti, 2009, p. 869.
(56) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 19, che richiama Irti, Replica ai difensori de-
gli idola libertatis, in Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, X.
(57) Sulla peculiarità che le regole di struttura manifestano nel diritto europeo in forma-
zione cfr. Breccia, La parte generale fra disgregazione del sistema e prospettive di armonizza-
zione, ne Il diritto europeo dei contratti, cit., p. 82 ss.
DIBATTITI 27
(58) Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, cit., p. 847.
(59) De Nova, I singoli contratti: dal Titolo III del Libro IV del c.c. alla disciplina attuale, in
Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995, p. 507.
(60) Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 499.
(61) Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività, cit., p. 20 ss.
(62) Barcellona, Diritto, sistema e senso. Lineamenti di una teoria, Torino, 1996, p. 359.
(63) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 57.
(64) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 54.
(65) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 54.
28 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Altrove è sulla scorta della ratio del vincolo formale che si fonda la deci-
sione. Affrontando un’identica situazione processuale e concludendo nel
medesimo senso, un secondo giudice (71) motiva la scelta avendo riguardo
alla peculiare funzione che il requisito di forma sarebbe chiamato a svolgere
nella commercializzazione di strumenti finanziari: « dare certezza, nel pre-
minente interesse del cliente, dell’autorizzazione data alla banca a svolgere
un determinato servizio di investimento e, altresì, del tipo di servizio di in-
vestimento che la banca si impegna a offrire e delle informazioni di base sul
servizio e sui suoi costi ». In altre parole, si continua, « la forma scritta si po-
ne come veicolo certo di un flusso di informazioni dall’intermediaria al clien-
te e dal cliente all’intermediaria, del mandato del cliente alla banca di ese-
guire dietro suoi ordini investimenti in strumenti finanziari ».
In ciò la peculiarità del vincolo di cui all’art. 23 T.U.F. che, in quanto «di
protezione per il cliente », « si discosta dalla tradizionale distinzione di forma
scritta ad substantiam o ad probationem ».
Più che la mera reiterazione del procedimento della formazione giudi-
ziale del documento, è dunque l’adattamento delle norme alla complessiva
situazione di interessi a rilevare, come ulteriormente dimostrato dalla circo-
stanza che ai fini della decisione determinante appare che l’intermediario,
dopo il contratto, con il suo comportamento abbia dimostrato di avervi aderi-
to (72).
Così intesa la ratio dell’art. 23, T.U.F., la censura autorevolmente mossa
per cui « il fine informativo che l’obbligo di redazione per iscritto doveva ab
origine soddisfare si realizzerebbe ex post con il deposito del fascicolo della
parte convenuta in causa » (73) è destinata a perdere rilievo. Poiché, se è la
contratto quadro di negoziazione, posto che l’incontro delle volontà può dirsi perfezionato
solo se la parte del processo che ha sottoscritto il contratto al momento della produzione non
abbia già manifestato la revoca del proprio consenso, volontà di revoca che deve essere indivi-
duata nella domanda con la quale l’investitore deduca appunto la nullità del contratto per man-
canza della forma di cui si discute ».
(71) Trib. Novara 2 novembre 2009, in Giur. it., 2010, p. 606: il requisito della forma scritta
previsto dall’art. 23 T.U.F. a sanzione di nullità del contratto quadro per la prestazione di ser-
vizi di investimento è soddisfatto « anche se il modulo contrattuale è firmato dal solo cliente
e non dalla banca ». Sui problemi legati ai percorsi giurisprudenziali di individuazione dei ri-
medi nel caso di violazioni formali nell’ambito di contratti finanziari v. da ultimo Bertolini,
Risparmio tradito: una riflessione tra teoria generale del contratto e disciplina dei mercati, in
Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 344 ss.
(72) Contra Trib. Torino, 5 febbraio 2010, cit.: « il fatto che le parti abbiano dato corso ad
investimenti, dando di fatto attuazione al contratto quadro di negoziazione, non vale a rime-
diare al vizio della mancanza di forma scritta del contratto medesimo poiché il contratto nul-
lo non può essere in alcun modo convalidato o sanato » (fb).
(73) Cottino, La responsabilità degli intermediari finanziari, cit., p. 608.
30 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(74) Cass., 24 gennaio 1995, n. 801, in Mass. Giust. civ., 1995, p. 130.
(75) Patti, Documento, in Dig., Disc priv., sez. civ., Torino, 1991, p. 4 ss.
(76) Irti, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico, cit., pp. 25, 74 ss.
(77) Lener, Forma contrattuale, cit., p. 22. Vale la pena segnalare in proposito anche Cass.
3 novembre 2008, n. 26422, in Obbligazioni e Contratti, 2009, 11, p. 902, con commento di Bru-
ni, Uno per tutti e tutti per uno: al gruppo di viaggiatori basta una sola sottoscrizione per l’acqui-
sto di un pacchetto turistico. La vicenda può così essere riassunta: Tizio si reca, insieme ad al-
tri due amici, presso la Sempronio s.r.l. per prenotare un viaggio per il quale viene versato un
acconto. Successivamente Tizio conviene in giudizio, dinanzi al Giudice di Pace di Napoli, la
Sempronio s.r.l. per far dichiarare la nullità del contratto per difetto di forma scritta, addu-
cendo di non aver sottoscritto il contratto, firmato da un altro dei partecipanti, e di non avere
ricevuto copia del contratto o di altro opuscolo informativo. Il giudice di pace, con sentenza
resa secondo equità, conferma la validità del contratto accertando che, pur essendo stato sot-
toscritto da un solo partecipante, la sottoscrizione è avvenuta alla presenza degli altri che non
hanno manifestato il proprio dissenso rispetto alle condizioni del contratto rappresentate. La
Corte di Cassazione condivide simile decisione e precisa che qualora più persone intendano
effettuare, negli stessi giorni, una vacanza insieme non concludono tanti contratti individua-
li ma un unico contratto, acquistano così un unico pacchetto turistico di cui tutte risultano be-
neficiarie. Ciò comporta che il contratto possa essere sottoscritto da un solo contraente e che
sia indifferente la mancata coincidenza tra il sottoscrittore ed il soggetto che abbia versato
l’acconto per il viaggio. Assai interessante notare che né la prima né la seconda pronuncia si
pongono il problema di verificare a monte se il contratto di vendita di pacchetto turistico sia
assistito o non da una forma ad substantiam, dando del tutto per scontata la soluzione affer-
mativa pur nel silenzio delle norme.
DIBATTITI 31
(78) Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimme-
tria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, p. 773,
con riferimento all’art. 85, comma 1°, c. cons. Sulla questione v. Sicchiero, Nullità per ina-
dempimento?, in questa rivista, 2006, p. 369.
(79) Montesano, Questioni attuali su formalismo, antiformalismo e garantismo, in Riv. dir.
proc. civ., 1990, p. 12; Lener, Forma contrattuale, cit., p. 170.
(80) De Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 451. V.
altresì Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, p. 122 ss.; Passagnoli,
Nullità speciali, Milano, 1995, p. 235 ss.; D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del
contratto, Padova, 2008, p. 152. Critico rispetto alla configurabilità di nullità virtuali di prote-
zione Pagliantini, Nullità virtuali di protezione?, in Contratti, 2009, p. 1040 ss.
32 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(81) De Nova, Dal principio di conservazione al favor contractus, in Clausole e principi ge-
nerali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni ottanta, a cura di Cabella Pisu e Nanni,
Padova, 1998, p. 306.
(82) Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, cit., p. 207 ss.
(83) Trib. Rimini, 18 dicembre 2006, in Contratti, 2007, p. 893, con nota di Guerinoni,
Clausola di ripensamento non trasparente e nullità del contratto di investimento, dichiara nullo
il contratto di collocamento fuori sede di prodotti finanziari in ragione della circostanza che la
SAGGI 33
clausola che consente al cliente di recedere entro sette giorni (da inserirsi nel contratto a pe-
na di nullità relativa ex art. 30 T.U.F.) non è opportunamente evidenziata.
(84) La formula « contratto asimmetrico », coniata con successo in dottrina, individua un
nuovo paradigma contrattuale – al di là della distinzione fra contratti dei consumatori e con-
tratti fra imprese – il cui proprium si individua nel fronteggiarsi di « due soggetti di mercato ca-
ratterizzati da una significativa asimmetria di potere contrattuale: asimmetria che, per il fatto
di derivare precisamente dalle rispettive ‘fisiologiche’ posizioni di mercato, si presenta come
asimmetria di tipo per l’appunto fisiologico e non patologico »: così Roppo, Parte generale del
contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici, ne Il diritto europeo dei contratti,
cit., p. 306. L’impostazione è criticata da chi ribadisce la necessaria separatezza fra contratti
dei consumatori e contratti fra imprese, i quali ultimi configurerebbero un paradigma a sé,
compendiabile nella locuzione « terzo contratto »: cfr. Amadio, L’ipotesi del terzo contratto,
ne Il diritto europeo dei contratti, cit., p. 329 ss.; Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte ge-
nerale. Contratti di impresa e disciplina della concorrenza, ivi, p. 355 ss. Sul punto cfr. altresì Ca-
mardi, Contratti di consumo e contratti tra imprese. Riflessioni sull’asimmetria contrattuale nei
rapporti di scambio e nei rapporti ‘reticolari’, in Riv. crit. dir. priv., 2005, p. 549 ss.
(85) In un modo per cui, come nota Lener, Forma contrattuale, cit., p. 15, « la realtà non è
solo tradotta nelle “indicazioni obbligatorie”: essa è ridotta al loro contenuto ».
34 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(86) In questo senso, da ultimo Trib. Venezia 5 novembre 2009, in Contratti, 2010, p. 221
ss., con nota di Sangiovanni, Obbligazioni Lehman Brothers e tutele degli investitori.
(87) In questo senso, per esempio, Minervini, Le regole di trasparenza nel contratto di
subfornitura, in Giur. comm., 2000, p. 229 ss.; De Poli, Asimmetrie informative e rapporti con-
trattuali, Padova, 2002, p. 246.
(88) Art. 76, c. cons.; art. 125bis, comma 8°, T.U.B.
(89) Art. 73, comma 2°, c. cons.
(90) Art. 86, c. cons; art. 125bis, comma 5°, T.U.B.
(91) Art. 23, T.U.F.; art. 117, comma 6°, T.U.B.
(92) Masucci, La forma, cit., p. 589.
(93) Degna di rilievo appare in questa prospettiva Trib. Benevento 23 marzo 2010, in
SAGGI 35
www.ilcaso.it. doc. n. 1171/2010: posto che nel piano finanziario di cui l’investitore chiede la
nullità per una serie di carenze formali finanziamento e acquisto di titoli mobiliari sono col-
legati da un legame inscindibile, se ne fa discendere che la mancata indicazione del TAEG
non può essere integrata mediante l’inserzione automatica del tasso sostitutivo di cui all’art.
124, comma 5°, lettera a) T.U.B. in quanto: « il mutamento del tasso di interesse con l’appli-
cazione di quello sostitutivo, influenzerebbe, modificandoli, altri elementi essenziali dell’opera-
zione negoziale espressamente determinati dalle parti, quale l’importo e il numero delle rate
mensili da rimborsare, oltre a stravolgere il complessivo contenuto economico dell’operazio-
ne finanziaria; per cui si presenta nel caso concreto inammissibile l’applicazione automatica
del tasso sostitutivo, derivando dalla stessa non semplicemente gli effetti voluti dalla norma
imperativa, bensì effetti del tutto diversi, che possono dipendere solo dalle pattuizioni delle
parti ». Come nota De Nova, I contratti di oggi e la necessità di un elenco condiviso di divieti e di
clausole vietate: a proposito di armonizzazione del diritto europeo dei contratti, ne Il diritto euro-
peo dei contratti, cit., p. 451: « se il contratto di ieri era un contratto che produce effetti [. . .] e
per il resto era disciplinato dalla legge, che garantiva l’uniformità, il contratto di oggi è confor-
me ad un modello, il che garantisce l’uniformità, ed è un contratto che non solo produce ef-
fetti, ma altresì regola un rapporto, disapprova le sopravvenienze, regola i rimedi. Non un
contratto che vuole la disciplina legale, bensì un contratto che non vuole (non vorrebbe) es-
sere regolato dalla legge ».
(94) Si rimanda sul punto alle acute riflessioni di Alessi, I doveri di informazione, in Ma-
nuale di diritto privato europeo, II, cit., p. 403 ss.
(95) Il tema dell’informazione precontrattuale e delle sue ricadute sul regolamento con-
trattuale è stato ed ancora è al centro di un vivacissimo dibattito. Senza alcuna pretesa di com-
pletezza, e limitandoci ai contributi di taglio generale, oltre agli aa. già citati, si veda: Nazza-
ro, Obblighi di informare e procedimenti contrattuali, Napoli, 2000; Moscarini, Diritti ed obbli-
ghi di informazione e forma del contratto, in Diritto privato ed interessi pubblici, I, Milano, 2001,
p. 350 ss; Rossi Carleo, Il diritto all’informazione: dalla conoscibilità al documento informati-
vo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 349 ss.; Gentili, Informazione contrattuale e regole dello scambio,
in Riv. dir. priv., 2004, p. 575 ss.; Roppo, L’informazione precontrattuale: spunti di diritto italia-
no e prospettive di diritto europeo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 747 ss.; Febbrajo, L’informazione in-
gannevole nei contratti del consumatore, Napoli, 2006; Grisi, Informazione (obblighi di), in Enc.
giur., XIV, Agg., Roma, 2006, p. 16 ss.; Gallo, Asimmetrie informative e doveri di informazione,
in Riv. dir. civ., p. 641 ss.
36 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
rio intenzionale cui il codice subordina la salvezza del contratto appare qui
del tutto fuori contesto, come dimostra la scelta esplicitamente compiuta in
materia di clausole abusive nel senso di una nullità necessariamente parzia-
le, preclusiva di ogni percorso interpretativo volto alla ricostruzione di una
ipotetica volontà delle parti.
Neppure dirimente sarebbe una lettura della norma in termini antivo-
lontaristici, incentrata sulla perdurante attualità – verificata in termini del
tutto oggettivi – del contratto residuo rispetto all’assetto d’interessi origina-
rio: la questione tornerebbe a risolversi nella (oggettiva) valutazione di es-
senzialità o meno dell’elemento mancante in relazione alla causa in con-
creto, in un contesto però in cui lo screening di ciò che è « essenziale » è ope-
rato a monte dal legislatore e dunque trasferito fuori dall’ambito di rilevan-
za dell’interesse dei contraenti.
Il fenomeno della eterodeterminazione del contenuto appare invero in-
conciliabile con la logica stessa che innerva l’art. 1419 c.c. che è la logica, ti-
pica del codice civile, della parità fra contraenti, egualmente liberi nella de-
terminazione del contenuto del contratto e nella scelta fra conservazione o
caducazione (96). Nella contrattazione uniforme, al contrario, è la disparità
(di potere contrattuale) al centro della scena, e ciò reclama l’originaria stan-
dardizzazione e completezza dei documenti, rendendo pressoché inutile
un giudizio volto alla verifica del diverso peso della clausola nulla (assente)
nel singolo affare.
Ritenere il difetto di contenuto – che sia veicolato da una prescrizione di
forma ad substantiam dell’intero contratto e che non possa sanarsi mediante
il riferimento a informazioni, scritte, fornite in sede precontrattuale – san-
zionato alla stregua del difetto di forma tout court, appare allora soluzione,
certo dura, ma, come si è detto, tutt’altro che giuridicamente infondata (97).
Ad essa viene l’adesione di una recente decisione di merito.
Chiamato a pronunciarsi intorno ad un contratto di multiproprietà
mancante di alcuni degli elementi che il codice del consumo impone, il Tri-
bunale di Bologna ne ha dichiarato la nullità precisando che l’acquirente, in
assenza delle necessarie indicazioni, non è posto in grado, mediante l’esame
della modulistica predisposta dalla controparte, di conoscere con esattezza
l’oggetto del contratto ed il tenore dell’obbligazione assunta (98).
Rispetto ad un contratto in cui non compaia la menzione del periodo di
tempo durante il quale può essere esercitato il diritto nascente dal contrat-
(96) Mazzamuto, Brevi note in tema di conservazione o caducazione del contratto in dipen-
denza della nullità della clausola abusiva, in questa rivista, 1994, p. 1098.
(97) Roppo, Contratto di diritto comune, cit., p. 774.
(98) Trib. Bologna, 19 gennaio 2009, in Obbligazioni e Contratti, 2009, p. 751.
SAGGI 37
(99) E. Gabrielli, Teoria e dogma dell’oggetto del contratto, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 346.
(100) Gitti, L’oggetto del contratto e le fonti di determinazione dell’oggetto nei contratti d’im-
presa, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 25; Senigaglia, L’oggetto del contratto tra determinabilità e ne-
cessaria determinatezza, in Contratti, 2005, p. 853 ss.
38 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(101) Gentili, Nullità annullabilità inefficacia (nella prospettiva del diritto europeo), in
Contratti, 2003, p. 205. Sulla possibilità di usi strumentali degli obblighi informativi cfr. Sar-
tori, Autodeterminazione e formazione eteronoma del regolamento negoziale. Il problema del-
l’effettività delle regole di condotta, in www.ilcaso.it, doc. n. 159/2009.
(102) L’idea che vi sia spazio nel nostro ordinamento per un obbligo di rinegoziazione, nel
silenzio della legge discendente dal dovere di buona fede, suscita comprensibili perplessità in
dottrina e comunque, se appare in principio idonea ad una gestione successiva di profili con-
tenutistici, siano essi normativi o economici, difficilmente si attaglierebbe quale rimedio alla
mancanza di forma/contenuto/informazione, la cui funzione è peraltro significativamente ri-
ferita, dalle scelte normative, al momento genetico del contratto. In materia cfr. Barcellona
e Meli, Il mutamento delle circostanze e l’obbligo di rinegoziazione, in Manuale di diritto priva-
to europeo, cit., p. 521 ss.; Macario, Le sopravvenienze, in Tratt. del contratto, cit., V, 2, Rimedi,
a cura di Roppo, p. 493 ss.
(103) Cass., Sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Corr. giur., 2008, p. 25 ss., con com-
mento di Mariconda, L’insegnamento delle sezioni unite sulla rilevanza della distinzione tra
SAGGI 39
norme di comportamento e norme di validità; in Contratti, 2008, p. 221 ss., con commento di
Sangiovanni, Inosservanza delle norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità; in
Giust. civ., 2008, I, p. 2785 ss., con nota di Febbrajo, Violazione delle regole di comportamento
nell’intermediazione finanziaria e nullità del contratto: la decisione delle sezioni unite; in Giur.
comm., 2008, II, p. 612 ss., con nota di Bruno e Rozzi, Le Sezioni Unite sciolgono i dubbi sugli
effetti della violazione degli obblighi di informazione; in Danno e resp., 2008, p. 536 ss., con note
di Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza Rordorf, e Bonaccorsi, Le Sezioni
Unite e la responsabilità degli intermediari finanziari; in Nuova giur. comm., 2008, I, p. 445 ss.,
con nota di Salanitro, Violazione della disciplina dell’intermediazione finanziaria e conse-
guenze civilistiche: ratio decidendi e obiter dicta delle sezioni unite; in Foro it., 2008, I, p. 785 ss.,
con nota di Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanzia-
rio e le sezioni unite. Cfr. altresì le osservazioni critiche di Prosperi, Violazione degli obblighi di
informazione nei servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass., Sez.un., 19 di-
cembre 2007, nn. 26724 e 26725), in questa rivista, 2008, p. 936 ss. Prende l’avvio dalla decisio-
ne citata per sondare le innervature sistematiche del tema C. Scognamiglio, Regole di vali-
dità e di comportamento: i principi ed i rimedi, in Europa e dir. priv., 2008, p. 599 ss. Cfr. altresì,
sulla stessa posizione delle Sez. un, Cass., 25 giugno 2008, n. 17340, in Giur. it., 2009, p. 4, con
nota di Fiorio, La non adeguatezza delle operazioni di investimento al vaglio della Corte di Cas-
sazione. La sentenza attribuisce alla necessità che l’inadeguatezza sia segnalata per iscritto va-
lenza probatoria: l’intermediario non potrà provare per testimoni l’adempimento di tale ob-
bligo informativo. Ma è interessante notare che, così ricostruito il dovere di segnalare la non
adeguatezza dell’operazione, ne esce sensibilmente ridimensionata la differenza tra nullità e
responsabilità con riferimento alla prova del nesso di causalità. Qualora infatti l’investitore al-
leghi a prova dell’inadempimento la mancata segnalazione scritta della non adeguatezza del-
l’operazione, non dovrà anche provare il nesso tra inadempimento e danno in quanto la re-
sponsabilità sussiste per la stessa violazione dell’obbligo di astensione (Cass., Sez. un., 19 di-
cembre 2007, n. 26724, in Contratti, 2008, p. 229). Sul punto v. Maffeis, Discipline preventive
nei servizi di investimento: le Sezioni Unite e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono
nere, in Contratti, 2008, p. 403.
(104) Sul problema della forma degli ordini: La Rocca, La forma degli ‘ordini di borsa’ (a
proposito di App. Venezia 19 novembre 2007), in www.ilcaso.it, doc. n. 124/2008; Della Vedo-
va, Sulla forma degli ordini di borsa, in Riv. dir. civ., 2010, 2, p. 161. Per un ampio inquadra-
mento sistematico v. Galgano, I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’inter-
mediario, in questa rivista, 2005, p. 889.
(105) Regolamento Consob n. 11522 del 24 febbraio 1998, art. 29, rubricato « operazioni
non adeguate »: 1. Gli intermediari autorizzati si astengono dall’effettuare con o per conto de-
gli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. 2. Ai
fini di cui al comma 1°, gli intermediari autorizzati tengono conto delle informazioni di cui al-
40 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
insieme, norma di carattere imperativo dalla cui violazione non può che de-
rivare la nullità ex art. 1418, comma 1°, c.c. (106).
In altra pronuncia, pure successiva a quella delle Sezioni Unite e pure
dichiarativa dell’invalidità dell’ordine privo di esplicito riferimento alle av-
vertenze ricevute dall’investitore, la nullità – che la Cassazione, nell’antece-
dente immediato della pronuncia a Sezioni Unite, aveva escluso circoscri-
vendo la rilevanza del vizio all’ambito di applicazione degli articoli 1394 e
1395 c.c. (107) – è così spiegata: « l’art. 29 del regolamento Consob 11522/
1998 non ha stabilito una semplice regola di comportamento o responsabi-
lità, ponendo a carico dell’intermediario l’obbligo di informare l’investitore
dell’inadeguatezza dell’operazione e delle ragioni che ne sconsigliano l’at-
tuazione, ma ha introdotto una vera e propria regola di validità del contrat-
to di acquisto dello strumento finanziario, un elemento costitutivo del me-
desimo »; e poiché « le disposizioni contenute nel T.U.F. e nel suo regola-
mento attuativo, essendo poste a tutela di interessi pubblicistici anche di
rango costituzionale [. . .] sono norme imperative ai sensi dell’art. 1418,
comma 1°, c.c. », la loro violazione non può che dar luogo a nullità(108).
Ciò che più rileva, e d’acchito sorprende, nella pronuncia adesso citata è
che la soluzione della nullità per contrasto col primo comma dell’art. 1418
l’art. 28 e di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati. 3. Gli interme-
diari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione
non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno proce-
dere alla sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione,
gli intermediari autorizzati possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine
impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su
altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. L’ob-
bligo in parola, anche noto come suitability rule, previsto originariamente all’art. 6, comma 3°,
reg. Consob. n. 10943/1997, successivamente riprodotto senza modifiche di rilievo all’art. 29,
reg. Consob n. 11522/1998, adesso abrogato ad opera del reg. n. 16190/2007 con il quale è sta-
ta attuata la dir. Ce. 2004/39/ (MIFID), trova ancora frequente applicazione presso i giudici di
merito chiamati a valutare il rispetto degli obblighi di informazione imposti agli intermediari
nella negoziazione degli strumenti finanziari precedenti al novembre 2007. In argomento, cfr.
Roppo, Sui contratti del mercato finanziario, prima e dopo la MIFID, in Riv. dir. priv., 2008, p.
503 ss.
(106) Trib. Ravenna, 12.10.2009, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 456 ss., con nota di
Guadagno, Inadeguatezza e nullità virtuale; Trib. Bologna, 2 marzo 2009, in www.ilcaso.it,
doc. 1662/2009.
(107) Cass., 29 settembre 2005 n. 19024, in Danno e resp., 2006, p. 25, con commento di
Roppo e Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della Cassazione su
nullità virtuale e responsabilità precontrattuale. Sulla rilevanza dei vizi della volontà nel con-
tratto di investimento: Albanese, Regole di condotta e regole di validità nell’attività d’interme-
diazione finanziaria: quale tutela per gli investitori delusi?, in Corr. giur. 2008, p. 107 ss.
(108) Trib. Ferrara, 28 gennaio 2010, in www.ilcaso.it, doc. 2051/2010.
SAGGI 41
c.c. viene espressamente definita coerente con quelle stesse sentenze della
Cassazione che un simile esito avevano decisamente rifiutato.
Coerenza che in effetti si rivela assai meno improbabile di quanto appaia
prima facie. Ed invero, affermare, come fa la Corte di legittimità nella pro-
nuncia del 2005, che « la nullità virtuale ex art. 1418, comma 1°, c.c., opera
solo quando la contrarietà a norme imperative riguardi elementi intrinseci
del contratto, e cioè struttura e contenuto del medesimo » e, pertanto, salvo
che il legislatore disponga diversamente, « va esclusa quando contrari a nor-
me imperative siano comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattati-
ve o durante l’esecuzione del contratto » (109), significa per l’appunto am-
mettere, a contrario, che la violazione di norme imperative che attengano ad
elementi di struttura o contenuto – ma, c’è da credere, diversi da quelli che
già figurano al comma 2° dell’art. 1418 c.c., pena un’irragionevole sterilizza-
zione del comma 1° – possa dar luogo a nullità (virtuale) del contratto (110).
E ciò senza che ne risulti messo in discussione il principio secondo cui,
in difetto di una esplicita previsione normativa, la violazione di doveri di
comportamento attinenti alla informazione del cliente e alla corretta esecu-
zione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati in
nessun caso può determinare la nullità del contratto quadro né dei singoli
ordini ai sensi del primo comma art. 1418 c.c. (111). A patto di ammettere, ov-
viamente, che le regole di cui si discute non sono regole di comportamento,
almeno nella nozione esatta che se ne deve assumere.
Poiché infatti tutte le regole giuridiche sono regole di comportamento, e
tali devono dunque considerarsi anche le cosiddette « regole di validità », è
evidente che non è nella sua estensione letterale che l’espressione può esse-
re utilmente impiegata (112).
Si tratta invero del punto centrale della questione. L’equivoco che sta al-
la base della pronuncia delle Sezioni Unite – ma anche delle conclusioni di
taluni autori – si annida, riteniamo, nell’approccio stesso al tema delle « re-
gole di comportamento », che si vorrebbero come tali contrapposte alle « re-
gole di validità »; e che ha come corollario una rigida ed insovvertibile corri-
spondenza biunivoca tra (violazione della) regola di comportamento e re-
sponsabilità e (violazione della) regola di validità e nullità, ed una altrettan-
to rigida non comunicabilità fra le due « coppie » che si vorrebbe scolpita
nell’impianto codicistico (113). Il tutto a presidio del generale principio di
certezza del diritto che nella delicata materia dell’invalidità degli atti di au-
tonomia invoca l’applicazione di regole dal contenuto definito e predeter-
minato (114), rispetto alle quali « si giustifica una costruzione di carattere lo-
gico-formale » (115) in quanto portatrici della essenziale funzione di « garan-
tire la certezza sull’esistenza di fatti giuridici » (116).
Se è questa la ratio, le regole di validità vanno contrapposte non – come
prospettato dalla Suprema Corte, con argomentazione che da questo profi-
lo lascia a desiderare – a generiche e non meglio definite « regole di compor-
tamento », ma – specie quando si abbia riguardo alla fase genetica e non ven-
gano in evidenza direttamente le prestazioni dedotte in obbligazione – a re-
gole rispetto alle quali una medesima costruzione di carattere logico-forma-
le non opera, e non potrebbe operare, perché risultanti dalla concretizzazio-
ne di una clausola generale, come tale non formalizzabile a priori (117).
L’antinomia, « essenziale alla disciplina degli atti del traffico » (118), è
piuttosto da rintracciare tra regole di validità e regole di buona fede: per
« regola di comportamento » dovrà intendersi « regola di mero comporta-
mento », ovverosia regola di correttezza/buona fede o altra regola generale
di (mera) condotta (ragionevolezza, trasparenza, ecc.) (119). Dalla violazione
delle quali non potrà farsi discendere una conseguenza invalidante, per sod-
disfare l’esigenza – di ordine « politico », prima ancora che sistematico (120)
« In nessun caso comunque, secondo la dogmatica del nostro c.c., la violazione del dovere di
buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per danni » (cor-
sivo nostro).
(114) Di Majo, La Nullità, cit., p. 91.
(115) Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, p. 156.
(116) Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., p. 118. Castronovo, Un contratto per
l’Europa. Prefazione all’edizione italiana dei principi di diritto privato europeo dei contratti, Par-
te I e II, Milano, 2001, XXXIV, nota come far passare il giudizio di invalidità attraverso la vio-
lazione della regola di buona fede « significa spostare la qualificazione dal terreno legislativo
a quello giudiziale, con un aggravio sul piano della certezza del rapporto, sicuramente più gra-
ve di quello che la concretizzazione della clausola generale può avere quando sia adoperata in
funzione integrativa cioè su un tronco che sussiste a prescindere da essa sicché, per così dire,
essa può aggiungere o togliere un ramo, l’albero restando fuori discussione ». Per una diversa
autorevole impostazione Galgano, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, in
questa rivista, 1997, p. 423.
(117) D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto,
in Riv. dir. civ., 2002, p. 43.
(118) Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., VII. Ma v. in proposito le osservazioni
di Vettori, Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir.
priv., 2003, p. 241 ss.
(119) Così, pressoché testualmente, D’Amico, Nullità virtuale, cit., p. 735.
(120) D’Amico, Nullità virtuale, p. 736 (nota 12).
SAGGI 43
ecc. ». Ben lungi dunque dall’integrare una clausola generale quale « forma
di fattispecie che descrive con grande generalità un ambito di casi e li con-
segna alla valutazione giuridica »; per rispondere invece perfettamente al
criterio della « costruzione casistica » quale « conformazione della fattispe-
cie legale (intesa come complesso dei presupposti che condizionano la di-
sposizione legislativa di conseguenze giuridiche), tale che descriva i singoli
gruppi di casi nella loro specifica particolarità » (126).
Alla stregua del percorso ricostruttivo sopra illustrato può dirsi che – e
siamo al secondo profilo – almeno in generale, l’esito invalidante appare
giustificato.
Perché dalla violazione della norma imperativa possa derivare la nullità
del contratto è necessario invero – stabilisce il comma primo dell’art. 1418
c.c. – che la legge non « disponga diversamente ». Sintagma dal « contenuto
dilemmatico » (127), cui assumiamo di attribuire, con molta ed autorevole
dottrina, il significato di esclusione della nullità in base alla ratio della norma
imperativa violata, vale a dire tutte le volte in cui la nullità appaia soluzione
irragionevole rispetto agli obiettivi perseguiti dalla regola disattesa (128).
Si potrebbe obiettare che delegare all’interprete l’apprezzamento della
congruenza del rimedio rispetto alle finalità della norma violata significhe-
rebbe vanificare quella « fuga dai giudici » che abbiamo individuato come
tratto caratterizzante la legislazione nuova e che sta a fondamento del pro-
cesso di formalizzazione delle condotte di cui si è detto.
Il rilievo è destinato però quanto meno a ridimensionarsi ove solo si ri-
fletta sul tasso di indeterminatezza tipico della clausola di buona fede ri-
spetto al tasso di indeterminatezza tipico delle norme della cui violazione si
discute.
Poiché il potere del giudice è inversamente proporzionale alla determi-
natezza delle regole che è chiamato ad applicare, ed anche l’individuazione
della ratio di una norma è tanto meno discrezionale quanto più la stessa è
determinata; e, ancora, poiché le discipline in commento si caratterizzano
per un alto grado di determinatezza, ci sembra destinato a svanire il timore
di far rientrare dalla finestra ciò che si era cacciato dalla porta.
Allora la questione può così riproporsi: è la nullità rimedio congruente
rispetto alla ratio dei vincoli formali di nuova generazione?
(126) Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, Milano, 1970, pp. 192-193, cui si riferisce
anche la citazione precedente.
(127) Di Majo, La nullità, cit., p. 82.
(128) Così Carraro, Il contratto in frode alla legge, Padova, 1949, p. 149 (nota 9); De Nova,
Il contratto contrario a norme imperative, cit., p. 440; Villa, Il contratto contrario a norme impe-
rative, cit., p. 78; Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 43; Mantovani, La nullità e il contratto
nullo, cit., p. 47.
SAGGI 45
5. – L’« effetto utile » e l’ibridazione dei rimedi a presidio del vincolo di forma
L’esito ricostruttivo qui prospettato si sviluppa dunque, in sequenza, at-
traverso la: a) contestazione del principio di libertà delle forme; b) accezio-
(133) Libertini, Alla ricerca del “diritto privato generale”, cit., p. 276,
(134) Ma è evidente, senza essere un paradosso, che, ove muti la premessa valutativa, e si
assuma (come fa per es. Pagliantini, Forma e formalismo, cit., 46) a canone metodologico di
riferimento « lo schema logico diritto privato generale/diritti secondi, nella convinzione che
solo l’intreccio di questi due formanti possa riuscire a dar conto di alcuni dati sistemici impre-
scindibili: la caratura pervasiva del primo, il non essere generale dei secondi » e si decida con-
seguentemente che anche la forma del contratto c.d. europeo « è da costruire sulla scorta dei
principi generali, salvo non ricorrano delle disposizioni speciali [. . .] che ad essi apportino un’e-
spressa eccezione », le conseguenze ricostruttive saranno, internamente coerenti, ma opposte.
(135) Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sul-
la vendita dei beni di consumo, in La vendita dei beni di consumo, a cura di Alessi, Milano, 2005,
p. 321.
(136) Sulla diversità di valori che informa ciascun ordinamento e sul conseguente utilizzo
48 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
use any concept of national contract law which fulfils the required objective
that unfair contract terms should not be binding on the consumer puntualiz-
zava non a caso il Considerando 54 della proposta di direttiva sui diritti dei
consumatori, nella versione inglese (137).
Anche per questo, quando espliciti, gli indici normativi di originaria
matrice comunitaria hanno talvolta delineato soluzioni di primo acchito
fuorvianti, almeno per il giurista italiano. Si pensi all’allungamento dei ter-
mini per esercitare lo ius poenitendi a sanzione di una carenza informativa;
indicazione che la Corte di giustizia ha poi amplificato affermando, in as-
senza di informazione sul diritto di recesso, la recedibilità senza limiti di
tempo – fino alla completa esecuzione – perché solo ad un recesso esercita-
bile sine die può riconoscersi il valore di sanzione immanente allo scopo
quando si tratti di presidiare il diritto all’informazione (138).
In effetti, nelle ipotesi in cui la strategia di controllo sull’atto è affidata
alla trasmissione del flusso informativo, « pur quando il contratto non si
manifesti come immeritevole di tutela, la situazione materiale o lo status in
cui una parte lo ha stipulato induce l’ordinamento a consentire a tale parte
di sciogliere il vincolo, con lo stesso risultato economico che si conseguirebbe
con la nullità » (139).
E proprio lungo questa direttrice si evidenzia come a garantire il pieno
rispetto (e le relative finalità) dei vincoli di forma (ma anche di formazione)
del contratto non potranno che essere rimedi volti alla non vincolatività del
regolamento, rimessa alla decisione del contraente (che aderisce ad un re-
golamento da altri predisposto e che perciò è) protetto (140).
di categorie concettuali spesso assai distanti cfr. Costanza, Spaesamento assiologico, in Euro-
pa e dir. priv., 2006, p. 77 ss.; Giacobbe, Dimensione territoriale e sistema dei valori nel diritto ci-
vile, in Riv. dir. civ., 2006, p. 101 ss.
(137) Varata nel 2008 - Bruxelles, 8 ottobre 2008, COM(2008) 614 final - ma ad oggi rimasta
tale. Il « not be binding » si traduce nella versione italiana, di nuovo non a caso, in « nullità »:
« Gli Stati membri possono usare qualsiasi concetto di diritto contrattuale nazionale che sod-
disfi l’obiettivo prescritto della nullità per le clausole abusive per il consumatore ».
(138) Alessi, I doveri di informazione, cit., p. 404 ss. Sui « modi di uscita » dal contratto nel-
la legislazione europea alla luce degli strumenti dell’analisi economica del diritto cfr. Smorto,
Autonomia contrattuale e tutela dei consumatori. Una riflessione di analisi economica, in Con-
tratti, 2008, p. 730 ss.
(139) Castronovo, Un contratto per l’Europa, cit., XXXVI (corsivo nostro). Sui rapporti fra
recesso in chiave sanzionatoria e annullabilità, cfr. Cherubini, Tutela del « contraente debole »
nella formazione del contratto, Torino, 2005, p. 95 ss.
(140) L’idea che la legge possa prevedere delle forme « la cui adozione non condiziona la
validità del contratto ma la sua vincolatività » è già in Lener, Dalla formazione alla forma dei
contratti su valori mobiliari (prime note sul « neoformalismo » negoziale), in Banca borsa, tit.
cred., 1990, p. 789 (nota 40).
SAGGI 49
(141) Sui caratteri del recesso di pentimento v. da ultimo Rende, Il recesso comunitario do-
po l’ultima pronuncia della corte di giustizia, in Riv. dir. civ., 2009, p. 525 ss.
(142) Trib. Verona, 17 aprile 2009, in www.ilcaso.it, doc. n. 1839/2009.
(143) Su cui, di recente, Girolami, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità nego-
ziali. Per una teoria della moderna nullità relativa, Padova, 2008, p. 150 ss.
50 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(144) Sulla scorta di Trib. Roma, 5 maggio 2005, in Corr. giur., 2005, p. 1275.
SAGGI 51
me di cui alle numerose e proficue cedole incassate pur sapendo della nul-
lità del contratto-quadro [. . .] sta inequivocabilmente a significare la sim-
metrica volontà di giovarsi di quel contratto ».
Risulta dunque applicato, sebbene implicitamente, il principio nemo ve-
nire contra factum proprium, attribuendo decisivo rilievo al comportamento
che il contraente ha tenuto in epoca successiva alla conclusione del contrat-
to, utilizzato come argomento (non per negare la legittimazione ad agire
ma) per ammettere la « validazione consapevole » del contratto-quadro af-
fetto da un vizio di forma previsto a pena di nullità (relativa).
Il Tribunale precisa, vale la pena citarlo, che simile conclusione consen-
te, come effetto secondario ma assai rilevante, di evitare « il rischio che l’im-
prescrittibilità della nullità esaminata possa favorire [. . .] strategie “a geo-
metria variabile” dell’investitore con portafogli differenziati, volte a far va-
lere ex post la nullità derivata delle sole operazioni negative o insoddisfa-
centi ».
L’escamotage della convalida, in effetti, consente di risolvere (indiretta-
mente ma) in radice il problema tecnico della compatibilità fra relatività
della legittimazione e imprescrittibilità dell’azione, poiché mentre « né l’i-
nerzia né la consapevole esecuzione possono integrare una acquiescenza e
fondare una preclusione soggettiva all’impugnazione » (145), le stesse posso-
no invece, in presenza di determinati indici fattuali, addirittura sanare l’at-
to. Cosicché il contraente non potrà più azionare la nullità per la semplice
ragione che il negozio non è più nullo. E di un negozio valido (convalidato)
nessuno può chiedere la nullità, neanche il contraente che era originaria-
mente legittimato a farlo.
Qui dunque non si assiste ad un impiego della clausola di buona fede a
mo’ di filtro della legittimità del concreto interesse ad agire: la fuga, si è det-
to, prima che dai giudici è dalle clausole generali (146). E più che fare que-
stione di exceptio doli generalis ed occuparsi dell’eventuale uso pretestuoso
dell’azione di nullità (147), si approda ad un risultato che può apparire tran-
(145) Gentili, Le invalidità, in I contratti in generale, II, nel Tratt. dei contratti, diretto da
Rescigno, Torino, 1999, p. 1347.
(146) Incisivamente De Nova, I contratti di oggi, cit., p. 458: « dettare norme uniformi.
Questo è in effetti ciò di cui si ha oggi bisogno, di fronte ad una prassi contrattuale uniforme
e tendenzialmente completa. Non, sia chiaro, affermare generici principi, come quello di
buona fede ».
(147) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 33. Nello stesso senso Gentili, Nullità an-
nullabilità inefficacia, cit., p. 205: « la prima protezione del consumatore è un mercato effi-
ciente e la nullità vi cospira », mentre ciò che davvero servirebbe è un’operatività il più possi-
bile limitata quanto alla estensione oggettiva ed una legittimazione assoluta assistita da un
vaglio serio del concreto interesse ad agire.
52 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(148) Libertini, Alla ricerca del “diritto privato generale”, cit., p. 273.
(149) Gentili, Le invalidità, cit., p. 1373.
(150) Gentili, Nullità, annullabilità, inefficacia, cit., p. 201, il quale però giunge a conclu-
sioni opposte rispetto a quelle qui sostenute.
(151) Roppo, Parte generale del contratto, cit., nota 35.
(152) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 52.
SAGGI 53
(153) In questo senso Putti, La nullità parziale. Diritto interno e diritto comunitario, Napo-
li, 2002, p. 308.
(154) Trib. Ferrara, 28 gennaio 2010, cit.; Trib. Saluzzo, 28 aprile 2009, in www.ilcaso.it,
doc. n. 1729/2009; Trib. Parma 3 aprile 2008, ivi, doc. 1193/2008.
(155) Di Majo, La nullità, cit., p. 98; Monticelli, La recuperabilità del contratto nullo, in
Not., 2009, p. 180 ss.
(156) Breccia, La forma, cit., p. 541.
54 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(157) Cfr. art. 29, comma 1° bis, della l. 27 febbraio 1985 n. 52, introdotto dall’art. 19, com-
ma 14°, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, come risultante dalla l. di conversione 30 luglio 2010, n.
122: « Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferi-
mento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esisten-
ti devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazio-
ne catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in at-
ti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. Pri-
ma della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro
conformità con le risultanze dei registri immobiliari ».
(158) Breccia, La forma, cit., p. 541.
(159) Rudden, Le juste et l’inefficace; pour un non devoir de renseignement, in Rev. trim. dir.
civ., 1985, p. 91.
(160) Ove solo si consideri che « qualsiasi informazione che si debba dare, lungi dal ricon-
dursi ad essere una mera trasparenza, riassume in sé del lavoro e delle spese che hanno un co-
sto. Sarebbe ingenuo immaginare che i produttori sopporteranno questo surplus di impegni
senza reagire. Ne incorporeranno la stima nel prezzo di vendita, e gli acquirenti pagheranno
sin dalla formazione del contratto il miglioramento del servizio eventualmente atteso al mo-
mento dell’esecuzione »: Carbonnier, Flessibile diritto, trad. it., Milano, 1997, p. 131.
SAGGI 55
pera il suo potenziale rigore nell’incontro con rimedi la cui attitudine di-
struttiva è forzosamente contenuta. Pur nel parziale silenzio delle norme,
infatti, la nuova forma esibisce propri tratti distintivi che – oltre ad impedir-
ne la riconduzione ai canoni consueti del formalismo quale requisito della
fattispecie – ne fanno significativo banco di prova dell’approccio rimediale
proprio del « diritto privato europeo » (161).
Non a caso è il panorama giurisprudenziale in tema di forma (rectius for-
me), fra incertezze e incongruenze (e con qualche fuga in avanti), a farsi og-
gi vivace laboratorio della nullità speciale.
Lara Modica
(161) Castronovo e Mazzamuto, L’idea, in Manuale di diritto privato europeo, cit., p. 11 ss.
La natura contrattuale dei verbali di conciliazione giudiziale
e la loro impugnabilità per illiceità della causa in concreto
(1) Ai sensi degli artt. 126, 130, 185 c.p.c. e 88 disp. att. c.p.c. è sottoscritto dalle parti, dal
giudice e dal cancelliere. La Suprema corte ha precisato che “la conciliazione giudiziale è atto
che esula dai poteri del difensore (salvo espresso conferimento del potere medesimo) e, inci-
dendo direttamente sul diritto controverso, può validamente essere compiuto dalla parte sen-
za il ministero del difensore stesso; ne consegue che il verbale di conciliazione è valido ed ef-
ficace anche quando non sia sottoscritto dal difensore, né questi abbia partecipato all’udien-
za nella quale le parti si sono conciliate” (Cass., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20236), e che
“l’ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo, che sia stata resa per effetto di conciliazio-
ne delle parti e redazione del relativo processo verbale a norma dell’art. 185 c.p.c., non osta,
qualora la conciliazione medesima risulti invalida ed inefficace per difetto dei requisiti di leg-
ge (nella specie: in quanto intervenuta con il difensore privo di specifica procura), a che il pro-
cesso venga riassunto e proseguito su istanza dell’interessato, stante la revocabilità della sud-
detta ordinanza, specie in carenza dei presupposti” (Cass., 9 luglio 1984, n. 3985).
(2) Cfr. Cass., sez. II, 22 giugno 2004, n. 11571, la quale ha statuito che “il verbale di con-
ciliazione giudiziale contiene una convenzione tra le parti di giudizio, da interpretarsi sulla
base della volontà dalle medesime espressa nelle pattuizioni ivi consacrate e di cui esso costi-
tuisce prova documentale”.
(3) Cfr. Cass., sez. III, 18 aprile 2003, n. 6288, la quale ha statuito che “poiché la redazione
di un verbale separato da quello di udienza, prevista dall’art. 88 disp. att. c.p.c. non è requisi-
to di validità dell’atto, la conciliazione giudiziale, che produce per effetto dell’accordo delle
parti effetti sostanziali e processuali, costituisce, in presenza dei requisiti di legge, titolo ese-
cutivo ex art. 474 c.p.c., anche se sia inserita nel verbale d’udienza”. A riguardo è bene segna-
lare che il verbale di conciliazione giudiziale, pur essendo titolo esecutivo ai sensi dell’art. 185
c.p.c., idoneo all’esecuzione per le obbligazioni pecuniarie, alla esecuzione specifica ai sensi
dell’art. 2932 c.c. e alla esecuzione per consegna e rilascio, non legittima alla esecuzione for-
zata degli obblighi di fare e di non fare, poiché l’art. 612 c.p.c. menziona quale unico titolo va-
lido per l’esecuzione la sentenza di condanna (dovendosi intendere estensivamente con tale
espressione ogni provvedimento giudiziale di condanna), in considerazione della esigenza di
un previo accertamento della fungibilità e quindi della coercibilità dell’obbligo di fare o di
non fare (Cass., sez. III, 13 gennaio 1997, n. 258).
(4) In dottrina si è sostenuto che per effetto del nuovo art. 474, n. 1, c.p.c., che ha equipa-
rato gli “altri atti” alle sentenze, i verbali di conciliazione dovrebbero essere ritenuti titoli ese-
cutivi giudiziali: cfr. M. Acone, Titolo esecutivo, in Il processo civile di riforma in riforma, Mila-
DIBATTITI 57
alla presenza del giudice, ha natura contrattuale (5) e, pertanto, il titolo ese-
cutivo in questione potrebbe essere impugnato sia con l’azione di nullità (6)
sia con gli altri rimedi civilistici, mediante opposizione di merito all’esecu-
zione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. (7), con richiesta, nei casi urgenti, di sospen-
sione dell’efficacia esecutiva del titolo, ai sensi dell’art. 615, comma 1°,
c.p.c. (8), ovvero del processo esecutivo, ai sensi dell’art. 624 c.p.c. (9).
no, 2006, p. 3; Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo II, in Trattato di diritto
processuale civile, diretto da Montesano e Arieta, Padova, 2007, p. 62. Questa equiparazione
formale ai fini della qualifica di titolo esecutivo ai verbali di conciliazione, non può certa-
mente comportare una equiparazione sostanziale con la sentenza, dato che il compito e il
ruolo del giudice ai fini della redazione del verbale di conciliazione è ben diverso rispetto al
compito e al ruolo che svolge il giudice ai fini della redazione della sentenza. Il giudice, infat-
ti, non esercita e non potrebbe esercitare in via preventiva e d’ufficio un accertamento ed un
controllo di merito sulle volontà delle parti riportate nel verbale di conciliazione, che rimane
sostanzialmente un contratto liberamente impugnabile. Il contenuto del verbale non può ri-
tenersi “giudicato” dal giudice e pertanto ad esso non possono essere applicati i limiti che ge-
neralmente vengono ricollegati alla sentenza quale titolo esecutivo giudiziale. La Cassazione
ha, infatti, statuito che “il potere di cognizione del giudice dell’opposizione all’esecuzione è
limitato all’accertamento della portata esecutiva del titolo posto a fondamento dell’esecuzio-
ne stessa, mentre le eventuali ragioni di merito incidenti sulla formazione del titolo devono
essere fatte valere unicamente tramite l’impugnazione della sentenza che costituisce il titolo
medesimo” (Cass., sez. III, 7 ottobre 2008, n. 24752). Nel caso del verbale di conciliazione,
dunque, le eventuali ragioni di merito incidenti sulla formazione del titolo si possono fare va-
lere con l’opposizione di merito all’esecuzione, dato che nessun giudizio di appello potrebbe
esperirsi avverso al verbale di conciliazione.
(5) Cfr. Cass., 29 aprile 1993, n. 5032; Cass., 18 luglio 1987, n. 6333; Franzoni, La transa-
zione, Padova, 2001, p. 454 ss.
(6) Cfr. Trib. Napoli, 28 giugno 1996, in Arch. locazioni, 1996, 940, che correttamente rite-
nuto nulle le pattuizioni, contenute in un verbale di conciliazione giudiziale, con le quali le
parti avevano determinato non solo la durata del contratto di locazione in violazione del prin-
cipio della durata minima legale di cui alla legge n. 392/1978, ma anche la pattuizione con la
quale il locatore si era fatto attribuire dei vantaggi in contrasto con le disposizioni della legge
n. 392/78.
(7) Cfr. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2002, p. 31; ID., Diritto processua-
le civile, III, Torino, 2002, p. 154; Massetani, Considerazioni schematiche sulle impugnative
contrattuali, in Riv. dir. civ., 1992, p. 320; Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, to-
mo II, cit., p. 1641.
(8) Cfr. Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo II, cit., p. 261.
(9) Cfr. Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo II, cit., p. 1548.
58 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(10) Cfr. Cass., sez. III, 9 novembre 2006, n. 23910, Pres. Varrone, Est. Fico; Cass., sez. III,
9 giugno 2003, n. 9197, Pres. Fiduccia, Est. Lupo; Cass., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11323, Pres.
Fiduccia, Est. Limongelli, in Giur. it., 2004, 1613, la quale ha statuito che “è nulla la transazio-
ne conclusa anteriormente alla prima scadenza del contratto di locazione, con la quale il con-
duttore rinunzi al diritto alla rinnovazione dopo la prima scadenza, in quanto configura una
pattuizione preventiva volta a limitare la durata legale del contratto stesso” e che “la sanzione
di nullità prevista dall’art. 79 l. n. 392 del 1978, per le pattuizioni dirette a limitare la durata le-
gale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello dovu-
to o altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge sull’equo canone, si riferisce
solo alle clausole del contratto di locazione e non può essere estesa, pertanto, agli accordi
transattivi conclusi dal conduttore, che già si trovi nel possesso del bene, per regolare gli ef-
fetti di fatti verificatisi nel corso del rapporto e che, perciò, incidono su situazioni giuridiche
patrimoniali già sorte e disponibili (in applicazione di tale principio la corte ha cassato la sen-
tenza impugnata, in quanto la conduttrice aveva rinunciato non solo validamente alla prose-
cuzione del rapporto locativo novennale ancora in corso al momento della transazione ma
anche al diritto alla rinnovazione, dopo la prima scadenza, del nuovo costituendo rapporto lo-
cativo)”.
DIBATTITI 59
(11) Cfr. Cass., sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4714, Pres. Preden, Rel. Lanzillo, in Foro it., 2008,
I, 1090, in Arch. Locazioni, 2008, 364; Cass., sez. III, 14 novembre 1995, n. 11806, Pres. Roma-
gnoli, Est. Duva, in Contratti, 1996, 261, con nota di Benetti, la quale ha statuito che “l’accordo
con cui le parti di un contratto di locazione definiscono transattivamente le liti giudiziarie fra lo-
ro pendenti circa la durata del rapporto e l’ammontare del canone, stabilendo una determinata
scadenza per il rilascio dell’immobile ed un corrispettivo per il suo ulteriore godimento, trova la
sua inderogabile regolamentazione nei patti del negozio transattivo e, in via analogica, nella
normativa generale delle locazioni urbane, ma si sottrae - data la sua genesi e l’unicità della cau-
sa che avvince il complesso rapporto - alla speciale disciplina giuridica che regola la materia del-
le locazioni (leggi di proroga legale, legge c.d. dell’equo canone e successive modificazioni); pe-
raltro il precedente rapporto (convenzionalmente estinto alla data della transazione) resta re-
golato dallo stesso negozio transattivo e, in mancanza di patti contrari, dalla normativa ordina-
ria e speciale previgenti”; Cass., sez. III, 26 marzo 1991, n. 3270, Pres. Quaglione, Est. Duva, in
Arch. locazioni, 1991, 537, in Corriere giur., 1991, 897, con nota di D’Ascola.
(12) Cfr. Cass., sez. III, 29 febbraio 2008, n. 5502, Pres. Vittoria, Est. Mazza, in Foro it.,
2008, I, 1089, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1184, con nota di Toresini, la quale ha altresì
precisato che “in tema di locazione di immobile ad uso diverso dall’abitazione, non è confi-
gurabile il diritto di prelazione del conduttore, ai sensi dell’art. 38 l. 392/78, allorché oggetto
della vendita non sia l’immobile locato singolarmente considerato, ma un complesso di beni
che, pur suscettibili di separata alienazione, presentino, in relazione alla loro prevista utiliz-
zazione, un nesso strutturale e funzionale unificante, l’accertamento della cui sussistenza
spetta al giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se condotto con logica va-
lutazione degli elementi emergenti dagli atti”.
(13) Cfr. Cass., sez. III, 29 aprile 2005, n. 8983, Pres. Fiduccia, Est. Di Nanni, in Giust. civ.,
60 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
2006, I, 133, la quale in motivazione enuncia che “nel sistema vigente la transazione è il con-
fine più avanzato dell’espressione dell’autonomia privata: il contenuto della transazione, in-
fatti, può essere non solo quello di eliminare una lite (art. 1965, primo comma, cod. civ.), ma
anche quello di costituire, modificare o estinguere rapporti diversi da quello che ha formato
oggetto della pretesa o della contestazione (secondo comma della norma). Secondo la norma,
il contratto di transazione, quindi, può avere un doppio effetto: preclusivo, determinato dalla
composizione della lite mediante reciproche concessioni, e creativo di vicende attinenti ad al-
tri rapporti. In altre parole, vi può essere una transazione non novativa e una transazione no-
vativa. La novazione presa in considerazione dall’art. 1976 cod. civ. è quella novativa. In essa
le parti creano un nuovo rapporto, che non può coesistere con quello precedente, oggetto del-
la lite, con il quale quello intercorso precedentemente tra le parti è rinnovato e le obbligazio-
ni che vi sono indicate nascono dalla novazione: in questi termini generali, già Cass., 1° ago-
sto 2002, n. 11439; Cass., 9 dicembre 1996, n. 10937; Cass., 12 maggio 1994, n. 4647”.
DIBATTITI 61
4. – (segue) Nullità del verbale di conciliazione e/o della transazione per frode
alla legge 27 luglio 1978, n. 392, e per mancanza di causa in concreto
Anche a volere attribuire al verbale di conciliazione in questione la na-
tura di contratto di transazione, essendosi le parti limitate a “prorogare la
data di rilascio con la rideterminazione del canone di locazione per l’ulte-
riore godimento”, tale transazione è comunque nulla, per illiceità della cau-
sa, costituendo il mezzo per eludere l’applicazione delle norme imperative
di cui agli artt. 27, 32 e 79 l. n. 392/78 (art. 1344 c.c.). Se è vero che il condut-
tore, dopo la scadenza del contratto di locazione, avvenuta il 31 dicembre
2010, avrebbero potuto disporre dei diritti acquisiti, stabilendo la data di ri-
lascio ed il corrispettivo per l’ulteriore godimento, senza per questo violare
il disposto dell’art. 79 l. n. 392/78 (14), è altrettanto vero che, attraverso le
mentite spoglie di una apparente “proroga della data del rilascio”, si è di fat-
to realmente prorogato il termine finale del contratto scaduto, o più sempli-
cemente si è costituito un nuovo duraturo rapporto di locazione, analogo al
precedente, in violazione sia della norma imperativa relativa alla durata mi-
nima di cui all’art. 27, comma 3°, l. 392/1978, sia della norma imperativa re-
lativa all’aggiornamento del canone di cui all’art. 32 l. 392/1978 (15). La pro-
prietaria dell’immobile, infatti, dopo la scadenza dell’originario contratto,
per evitare di concludere un nuovo contratto di locazione con il precedente
conduttore, con l’obbligo di osservare le norme imperative sulla durata mi-
nima, potrebbe stipulare un contratto di transazione e/o verbale di conci-
liazione avente ad oggetto la semplice proroga della data di rilascio dell’im-
mobile ed il corrispettivo per il suo ulteriore godimento, ma tale data po-
trebbe essere fissata non già in un ragionevole e limitato lasso di tempo, co-
me è naturale che sia, trattandosi di una mera proroga del rilascio (16), bensì
in un lunghissimo lasso di tempo di ben cinque anni (dal 31 dicembre 2010
al 31 dicembre 2015), che con tutta evidenza rappresenta, nelle locazioni di
immobili adibiti ad attività alberghiera, più della metà del termine legale di
(14) Cfr. Cass., sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4714, Pres. Preden, Rel. Lanzillo, in Foro it.,
2008, I, 1090, in Arch. Locazioni, 2008, 364; Cass., sez. III, 9 novembre 2006, n. 23910, Pres.
Varrone, Est. Fico; Cass., sez. III, 9 giugno 2003, n. 9197, Pres. Fiduccia, Est. Lupo; Cass., sez.
III, 21 luglio 2003, n. 11323, Pres. Fiduccia, Est. Limongelli, in Giur. it., 2004, 1613; Cass., sez.
III, 14 novembre 1995, n. 11806, Pres. Romagnoli, Est. Duva, in Contratti, 1996, 261, con nota
di Benetti.
(15) Cfr. Cass., sez. III, 27 luglio 2001, n. 10286, Pres. Nicastro, Est. Preden, in Foro it.,
2002, I, 2118, in Giur. it., 2002, 708, con nota di Barbieri; Cass., sez. III, 20 dicembre 2004, n.
23638, Pres. Giuliano, Est. Segreto, in Foro it., 2005, I, 2767.
(16) Cfr. Cass., sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4714, dove nel caso deciso la proroga della da-
ta del rilascio era di circa un anno.
62 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
9 anni previsto dall’art. 27, comma 3°, l. n. 392/78, e non può certo conside-
rarsi una vera e propria proroga del rilascio.
Orbene, poiché attraverso la semplice proroga del termine del rilascio si
è voluto in concreto eludere il termine di durata minima di nove anni di cui
all’art. 27 l. 392/1978, non vi è dubbio che il contratto di transazione e/o il
verbale di conciliazione è nullo ai sensi dell’art. 1344 c.c. Infatti, come è sta-
to anche recentemente evidenziato, si aggira inequivocabilmente l’applica-
zione della suddetta norma imperativa, qualora la proroga del termine del
rilascio sia di oltre dodici mesi, che è il termine massimo previsto dall’art.
56 l. 392/1978 (17). Qualora addirittura, come nel caso di specie, il termine di
proroga del rilascio dell’immobile da parte del conduttore sia fissato in cin-
que anni, non vi è dubbio che attraverso tale apparente proroga al rilascio,
si sia voluta effettivamente eludere, col nuovo rapporto costituito con il
verbale di conciliazione e/o transazione, l’applicazione della suddetta nor-
ma imperativa, ed il relativo contratto di transazione dovrà essere dichiara-
to nullo per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1344 c.c. (18). Al riguardo si
segnala che l’accordo simulatorio volto ad eludere l’applicazione delle nor-
me della l. n. 392/78, vertenti in tema di durata e di equo canone del con-
tratto di locazione, può essere provato, a norma dell’art. 1417 c.c., anche
con testimoni e con presunzioni (19). In accoglimento della nuova conce-
zione della causa in concreto (20), è evidente che il verbale di conciliazione
e/o il contratto di transazione in questione è nullo. Il giudice non potrà li-
mitarsi ad accertare la liceità e/o l’esistenza della causa in astratto (21), ben-
(17) Cfr. A. Riccio, Contratto di locazione d’immobili ad uso commerciale, in Azienda &
Contratti, Il Sole 24 Ore, n.3/2009, p. 57.
(18) Cfr. A. Riccio, Contratto di locazione d’immobili ad uso commerciale, cit., p. 58.
(19) Cfr. Cass., sez. III, 21 luglio 2006, n. 16759, Pres. Vittoria, Est. Mazza, in Rass. loca-
zioni, 2006, 251.
(20) Sulla nuova concezione della causa in concreto si v. Cass., sez. III, 7 ottobre 2008, n.
24769; Cass., sez. II, 24 marzo 2006, n. 6631; Cass., 22 marzo 2007, n. 6969; Cass., sez. III, 24
luglio 2007, n. 16315; Cass., sez. III, 20 dicembre 2007, n. 26958; Cass., 8 maggio 2006, n.
10490; Cass., sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932; Cass., sez. trib., 21 ottobre 2005, n. 20398,
tutte commentate da Rolli, Il rilancio della causa del contratto: la causa concreta, in questa ri-
vista, 2007, p. 416 ss.; ID., Causa in astratto e causa in concreto, in Le monografie di Contratto e
impresa, serie diretta da Francesco Galgano, Padova, 2008, p. 80 e p. 247.
(21) Cfr. Cass., sez. III, 4 aprile 2003, n. 5324, Pres. Nicastro, Est. Varrone, la quale ha sta-
tuito che “la causa del contratto si identifica con la funzione economico sociale che il negozio
obiettivamente persegue e che il diritto riconosce come rilevante ai fini della tutela appresta-
ta, rimanendo ontologicamente distinta rispetto allo scopo particolare che ciascuna delle due
parti si propone di realizzare; ne consegue che si ha illiceità della causa, sia nell’ipotesi di con-
trarietà di essa a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, sia nell’ipotesi di
utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge, qualora entrambe le parti attri-
DIBATTITI 63
buiscano al negozio una funzione obiettiva volta al raggiungimento di una comune finalità
contraria alla legge”. Negli stessi termini Trib. Bologna, ord., 15 febbraio 2010, Pres. Rel. dott.
Liccardo, inedita.
(22) Cfr. Cass., sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490, Pres. Preden, Est. Travaglino, in Corriere
giur., 2006, 1718, con nota di Rolfi, in Rass. dir. civ., 2008, 564, con nota di Rossi, in questa ri-
vista, 2007, p. 416 ss., con commento di Rolli, Il rilancio della causa del contratto: la causa
concreta.
(23) In contrasto con la giurisprudenza citata nella precedente nota 14, si è infatti disposto
di un diritto prima della sua concreta ed effettiva maturazione.
(24) Nell’esempio fatto le parti prevedono che l’indennità di avviamento dovuta al con-
duttore all’atto del rilascio al 31 dicembre 2015, sarà calcolata non già, come prevede l’art. 34
l. 392/78, facendo riferimento all’ultimo canone convenuto con il verbale di conciliazione di
Euro 4.000,00, bensì facendo riferimento al canone di Euro 1.350,00 di cui al precedente con-
tratto di locazione scaduto.
64 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Angelo Riccio
Fonti del diritto e delegificazione:
statuti universitari e potestà normativa in deroga alla legge
1. – La questione
In un momento di crisi del sistema universitario e di grandi riforme an-
nunciate (ma non ancora realizzate), la materia della delegificazione all’in-
terno delle fonti del diritto – sulla quale questa rivista da sempre ha posto
attenzione (1) – si pone in maniera significativa con riferimento agli statuti e
ai regolamenti universitari e alla potestà di questi di porre regole in deroga
alla legge (2).
Il tema è di particolare attualità in quanto il diverso grado di autonomia
riconosciuto agli atenei incide in maniera importante non solo sulla diffe-
renziazione dell’offerta formativa proposta dagli stessi, ma anche sulle scel-
te organizzative e sugli status del personale docente e ricercatore. Lo stesso
tema presenta ad ogni modo tutta una serie di aspetti problematici che non
potranno naturalmente essere trattati nel presente contributo, ma che ne ri-
chiederebbero specifici approfondimenti in relazione, ad esempio, al rap-
porto tra le norme poste con gli statuti e i regolamenti per l’amministrazio-
ne, la contabilità e la finanza e per la didattica e le norme poste con leggi so-
pravvenute (applicabili alle università) incompatibili.
Ci si limiterà, quindi, ad offrire un quadro generale su potenzialità e li-
miti del potere regolatorio degli atenei e ci si soffermerà, in particolare, sul-
la vexata quaestio dello status giuridico dei docenti universitari e sulle pos-
sibilità (precluse o aperte) riferibili a quelli che tra di essi, hanno optato per
il regime a tempo definito.
2. – Gli statuti universitari nel sistema delle fonti: l’articolo 33 della Costitu-
zione e la normativa di attuazione
L’art. 33, ultimo comma, della Costituzione riconosce alle università e
altre istituzioni di alta cultura “il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei
limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Con tale formulazione, la Costituzio-
ne enuclea prima di ogni cosa il diritto di ciascun ateneo di governarsi attra-
verso i propri organi, scelti dalla comunità dei suoi docenti: dato, questo,
(1) V. assai recentemente Riccio, Fonti del diritto e delegificazione: la Cassa Forense ha po-
testà normativa in deroga alla legge, in questa rivista, 2010, p. 839.
(2) Ho avuto modo di occuparmi della materia in L’Università e le sue fonti di regolamen-
tazione, in Miriello e Malavolta (a cura di), L’ordinamento universitario, Rimini, 2005, p. 13
ss.
66 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Una riprova di ciò può trarsi dalla legge 9 maggio 1989, n. 168: nel dare
attuazione alla direttiva costituzionale, la normativa ha ribadito l’autono-
mia “delle università” e il loro diritto di darsi “ordinamenti autonomi con
propri statuti e regolamenti” (art. 6, comma1°). Ne ha quindi tratto le logi-
che conseguenze, affermando che le università sono “disciplinate, oltre che
dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che
vi operino espresso riferimento” (art. 6, comma 2°). Inoltre, esse sono state
sottratte ai controlli preventivi della Corte dei conti (eccetto alcune classi di
provvedimenti), mentre soggiacciono ai controlli successivi della Corte,
che si aggiungono al controllo del Ministro.
A partire dalla legge richiamata, pertanto, si sono riorganizzate le fun-
zioni ministeriali attinenti all’Università e alla ricerca e si sono attribuite si-
gnificative competenze autonome alle singole università per la disciplina
della loro organizzazione di governo ed amministrativa. In tal modo la leg-
ge dà una lettura corretta della disposizione costituzionale cui fa specifica-
mente riferimento, riconoscendo che l’autonomia universitaria è un valore
costituzionale di particolare intensità.
(10) Sorace, L’autonomia universitaria degli anni novanta: problemi e prospettive, op. cit.,
p. 153.
(11) Correale, Libertà della scienza e limiti all’ordinamento universitario, in Dir. e soc.,
1988, p. 423.
(12) Lo stesso Correale nel contributo citato alla nota precedente afferma che “ciascuna
università può essere considerata titolare di una posizione d’indipendenza nei confronti an-
che dello Stato”.
68 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(13) Si registra, a metà degli anni ’90 qualche presa di posizione a favore della riconduzio-
ne della disciplina dello stato giuridico ed economico dei ricercatori e dei docenti universita-
ri alla contrattazione sindacale. Cfr. ad esempio Cammelli, Autonomia universitaria. Ovvero:
il caso e la necessità, in Diritto Pubblico, 1995, p. 161.
(14) Mi sia consentito anche qua il rinvio a L’organizzazione dell’Università, in Miriello e
Malavolta (a cura di), L’ordinamento universitario, Rimini, 2005, p. 23 ss.
(15) V. art. 4, comma 2°, l. 56/2002.
DIBATTITI 69
(16) Raimondi, Lo stato giuridico dei professori universitari tra autonomia statutaria e spin-
te corporative, in Diritto amministrativo, 2002, n. 2.
(17) Il primo è reperibile al sito www.unibo.it e il secondo al sito www.uniud.it.
(18) Reperibile al sito www.unipa.it.
(19) Reperibile al sito www.unipg.it.
(20) reperibile al sito www.unipd.it.
(21) Cassese, L’autonomia delle università nel rinnovamento delle istituzioni, in Foro it.,
1993, V, p. 10.
70 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
verno delle università. Altre norme statali hanno impresso un ulteriore im-
pulso all’autonomia normativa dei singoli atenei, rinviando agli statuti e ai
regolamenti la definizione dei profili funzionali (primo fra tutti la composi-
zione degli organi collegiali) confermando la necessaria diversità delle solu-
zioni in ragione dei diversi contesti e delle diverse realtà.
Cesare Miriello
GIOVANNA VISINTINI
Sommario: 1. La circolazione dei modelli giuridici e i contrasti ideologici tra diritto naziona-
le e diritto comunitario in materia di proprietà. – 2. Influenza delle direttive della Corte
di Strasburgo, in particolare in materia di danno da ingiusto processo. – 3. Le distanze tra
principi europei e diritto interno in materia di poste di danno risarcibili. – 4. L’esigenza di
uno stile delle decisioni italiane fruibile anche all’estero ai fini della circolazione di un
precedente giudiziale innovativo.
(*) Relazione svolta al Seminario di Contratto e Impresa presso il Centro Studi Toscola-
no il 26 giugno 2010 dal titolo « Il diritto come fattore dello sviluppo economico ».
(1) La circulation du modele juridique français, in Travaux de l’Association Henri Capitant,
tome XLIV, 1993
74 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
l’attenzione, sulla scorta anche di altri studiosi che avevano affrontato il te-
ma (2), sul dato imprescindibile che il diritto è in continua evoluzione e che
la creatività di certe risposte ai bisogni nuovi delle società civili il più delle
volte è il risultato di imitazioni di modelli stranieri. In definitiva il diritto cir-
cola e se in qualche paese qualcuno ha la capacità di inventare nuovi e mi-
gliori modelli di soluzione di problemi reali, avvertiti anche nei paesi vicini,
il modello potrà diffondersi anche in questi.
Ma mentre in un passato non tanto lontano l’imitazione consisteva so-
prattutto nel recepire modelli legislativi (mi riferisco alla grande stagione
delle codificazioni) o nell’importare le metodologie della scienza giuridica
ufficiale (si pensi all’influenza sugli interpreti italiani dell’ottocento dei
grandi commentatori francesi e poi nella prima metà del novecento della
scienza dogmatica di origine tedesca) oggi sempre di più si avverte la ten-
denza ad uniformare il diritto sulla scorta della circolazione delle giurispru-
denze.
Come ha sovente sottolineato Francesco Galgano nei suoi scritti, sem-
pre di più gli avvocati devono esercitarsi nell’affinare la tecnica di interpre-
tazione delle sentenze e non della legge, soprattutto nell’area del diritto ci-
vile dove le disposizioni legislative (spec. quelle del codice civile) sono ar-
caiche e hanno bisogno di un adeguamento alle problematiche odierne e
dunque di integrazione dei loro contenuti da parte dei giudici.
Da qui l’importanza di una cultura dei precedenti giudiziali e della co-
noscenza delle sentenze straniere quando si presentano significativamente
più al passo dei tempi rispetto agli orientamenti dei giudici nazionali.
È in questo contesto che i giuristi devono dar prova, soprattutto nel di-
ritto civile (dalla pratica degli affari alle questioni di diritto familiare e ai di-
ritti umani), della loro capacità di proporre nuovi strumenti giuridici fonda-
ti su un razionale bilanciamento tra costi e benefici, sui valori dell’equità e
dell’efficienza. Soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalle norme l’interprete
può creare delle regole per le liti future con tecniche di decisione importate
da altri ordinamenti come, esemplificando, il criterio di ragionevolezza nel-
l’ottica dell’analisi economica del diritto, su cui ha richiamato l’attenzione
di recente, nell’ultimo fascicolo della nostra Rivista, Massimo Franzoni (3).
(2) Gaudemet, Les transferts de droit, in L’Année sociologique, 1976, p. 29; Rodière, Ap-
proche d’un phénomène: les migrations de systèmes juridiques, in Mélanges dédiés à Marty, Tou-
louse, 1978, p. 947 ss.; Watson, Legal transplants, Edimburg, 1974; Agostini, Droit comparé,
Paris, 1988, ivi i capitoli dedicati a « L’évolution des systèmes juridiques » e « Les migrations des
systèmes juridiques ».
(3) M. Franzoni, L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, in questa rivista, 2010,
pag. 367 ss.
SAGGI 75
(4) Mondo che è ben descritto nel libro di Fabio Visintini, Memorie di un cittadino psi-
chiatra, edito dalle Edizioni scientifiche italiane nel 1983. Quanto alla biblioteca di cui parlo
nel testo, mi limito a ricordare i seguenti libri quasi tutti in edizione in lingua francese: La pro-
priété, thèse comuniste par Paul Lafargue, Réfutation par Yves Guyot, Paris, 1895; La pro-
76 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
2. – Fino ad ora sul terreno del diritto immobiliare gli esempi più em-
blematici di circolazione delle giurisprudenze sono sfavorevoli alla imita-
zione del modello italiano. Si pensi al caso dell’occupazione acquisitiva.
Come è noto la Corte di cassazione ha ritenuto conforme alla Costituzione
l’appropriazione da parte della pubblica amministrazione della proprietà
privata anche se occupata illegittimamente purché giustificata da pubblico
interesse e accompagnata dalla corresponsione di un indennizzo mentre la
Corte di Strasburgo ha condannato lo Stato italiano per aver ammesso tale
sistema in violazione del diritto di proprietà così come inteso in ambito so-
vranazionale.
Altro esempio significativo è quello relativo alle modalità di calcolo del-
l’indennizzo da espropriazione. Qui il nostro legislatore con la legge n.
244/2007 e le pronunce più recenti della Corte di cassazione e della Corte
prietà sociale in due volumi di Alessandro Garelli (professore di scienza delle finanze nel-
la R. Università di Torino), ivi, Proprietà individuale o proprietà collettiva?, Torino, 1898, e una
serie di volumi sull’azione socialista, sul cattolicesimo sociale e in generale sulla “Questione
sociale” dei più famosi filosofi e cultori di scienze sociali ed economiche a partire da Rous-
seau e Jaurès.
(5) P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Giuffrè, 2002, a pag. 69.
SAGGI 77
(6) Così testualmente S. Cassese, C’è un ordine nello spazio giuridico globale? in Politica
del diritto, 2010, pag.137 ss.
78 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(7) Cfr. Cass. Sez.Un., 26 gennaio 2004, n. 1340, in Corr. giur., 2004, 5, p. 607 con nota di R.
Conti, in Giur. it., 2004, p. 944 con nota di Didone. In senso conforme Sez. Un., 26 gennaio
2004, n. 1338, in Foro it., 2004, p. 693 e in Giur. it., 2004, p. 2295 con nota di Vitelli; e Sez. Un.,
26 gennaio 2004, n.1339, in Giur. it., 2004, p. 944 con nota di Didone; Sez. Un., 23 dicembre
2005, n. 28507, in Danno e resp., 2006, p. 745.
(8) Tuttavia vi è stato in dottrina qualche autore che ha sottolineato l’ambiguità della sen-
tenza laddove, da un lato, si avalla una sorta di common law all’italiana indicando il faro dei
precedenti giudiziali di Strasburgo per la valutazione del danno e, dall’altro, si giustifica la le-
gittimità del ricorso a un diverso criterio di calcolo purché in misura ragionevole. Cfr. Sac-
chettini, Un rinvio a principi non definiti ostacola il compito del magistrato, in Guida al diritto,
2004, 43, p. 28; v. anche F. Morozzo Della Rocca, Irragionevole durata del processo: l’alli-
neamento della giurisprudenza nazionale agli standards europei, in Giust. civ., 2006, I, p. 285 ss.;
V. Esposito, Il non ragionevole contrasto del giudice italiano con quello di Strasburgo sulla ra-
gionevole durata del processo, in Corr. giur., 2004, 3, p. 378 ss.; Ferrua, Il Giusto Processo, Bo-
logna, 2005; M. Franzoni, Fatti illeciti, in Commentario codice civile Scialoja-Branca a cura di
F. Galgano, Libro quarto, Delle obbligazioni, artt. 2043, 2056-2059, Bologna-Roma, 2004, sub
art. 2043, p. 204 ss.
SAGGI 79
(9) Cass. civ., 10 gennaio 2005, n. 297, in Giust. civ., 2005, p. 1204 ss.
80 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Corte europea (10). Qui, dunque, non c’è ancora stato allineamento agli
standard europei, e non mi risulta che vi siano state a tutt’oggi censure.
(12) Cfr. Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in Corriere giur. 2007, p. 498 con nota di Fava, Pu-
nitive damage e ordine pubblico: la Cassazione blocca lo sbarco.
(13) Cass., 23 gennaio 2007, n. 1391, da CED Cassazione, 2007.
(14) V. art 304 intitolato: “Azione di prevenzione del Codice dell’ambiente” che recita:
1. Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia im-
minente che si verifichi, l’operatore interessato adotta, entro ventiquattro ore e a proprie spe-
se, le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza.
2. L’operatore deve far precedere gli interventi di cui al comma 1° da apposita comunica-
zione al comune, alla provincia, alla regione, o alla provincia autonoma nel cui territorio si
prospetta l’evento lesivo, nonché al Prefetto della provincia che nelle ventiquattro ore suc-
cessive informa il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Tale comunicazione de-
ve avere ad oggetto tutti gli aspetti pertinenti della situazione, ed in particolare le generalità
dell’operatore, le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente
coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire. La comunicazione, non appena perve-
nuta al comune, abilita immediatamente l’operatore alla realizzazione degli interventi di cui
al comma 1° . Se l’operatore non provvede agli interventi di cui al comma 1° e alla comunica-
zione di cui al presente comma, l’autorità preposta al controllo o comunque il Ministero del-
l’ambiente e della tutela del territorio irroga una sanzione amministrativa non inferiore a mil-
le euro né superiore a tremila euro per ogni giorno di ritardo.
SAGGI 83
(15) Cass. Sez. Un., 21 febbraio 2002, n. 25615 in Giur. it., 2003, 691, con note di Bona e Mi-
gliorati, e in Danno e resp., 2002, con nota di Ponzanelli.
84 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
danno e il fatto da cui è derivato. Non basta inventare nuovi diritti e nuove
categorie di danno.
In conclusione, a mio giudizio, la previsione delle decisioni in questa
materia non sarà facile per gli avvocati e oggi ci troviamo qui a darci carico
di promuovere una cultura del precedente giudiziale e dei flussi giuridici
sufficiente ad affrontare la professione in Europa e non solo a livello del di-
ritto nazionale.
Sono convinta che la “circolazione delle giurisprudenze”, cui ho intito-
lato il mio intervento, rappresenta uno strumento essenziale per capire, al
di là delle differenti concezioni, i valori e i principi che trascendono i confi-
ni territoriali e che hanno una forza vincolante universale in ogni paese ci-
vile.
SOCIETÀ
ANDREA CAPRARA
(1) In argomento v., da ultimo, Tantini, L’indipendenza dei sindaci, Padova, 2010, p. 38 ss.
Peraltro, se si accetta che la normazione “per principi” non costituisce più una remora ri-
guardo alle cause di decadenza, se si accetta, cioè, l’idea che non sono più l’immediatezza e
l’assenza di discrezionalità gli elementi caratterizzanti le ipotesi di ineleggibilità e di deca-
denza, non dovrebbero sorgere problemi nell’ammettere una clausola (generale) statutaria
che preveda, ad esempio, quale causa di decadenza, la sussistenza di rapporti di natura perso-
nale (anche, di fatto) che compromettano l’indipendenza. Cfr. già Pisani Massamormile,
Appunti sugli amministratori indipendenti, in RDS, 2008, p. 237 ss., in part. p. 246.
Maggior perplessità, invece, desterebbero quelle clausole “interpretative” dei possibili
rapporti patrimoniali che incidono sull’indipendenza. In sostanza, si dubita che sia possibile
“tipizzare”, ad esempio, le varie ipotesi di “rapporti patrimoniali” pregiudizievoli per l’indi-
pendenza. Una clausola siffatta, però, in ossequio alla regola della conservazione dell’atto
(art. 1367 c.c.), se ritenuta applicabile nell’interpretazione degli atti costitutivi (cfr. Ibba, L’in-
terpretazione degli statuti societari fra criteri oggettivi e criteri soggettivi, in Riv. dir. civ., 1995, I, p.
525 ss.; Id., L’interpretazione delle regole contrattuali nei contratti associativi, in Riv. dir. civ.,
2006, I, p. 271 ss.; in giurisprudenza v. Cass., 1 marzo 1973, n. 561, in Dir. fall., 1973, II, p. 915),
potrebbe essere intesa come esemplificativa e non esaustiva delle cause di decadenza.
86 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Peraltro, già nella disciplina previgente si ammetteva, seppur con il limite della necessa-
ria determinatezza della fattispecie, la creazione di ulteriori ipotesi di decadenza per via sta-
tutaria. In questo senso v. Libertini, Note in materia di ineleggibilità e decadenza del sindaco
consulente della società, in Giur. comm., 2002, I, p. 270 ss., in part. p. 272, mentre per Fazzutti,
La nomina dei sindaci nelle società “quotate” (e non), in Giur. comm., 2000, I, p. 25 ss., in part. p.
55 s., non sussistono ostacoli normativi insuperabili che precludano l’ammissibilità della
clausola simul stabunt simul cadent con riferimento al sindaco di minoranza nelle società quo-
tate.
Secondo Providenti, in Società per azioni-amministrazione e controlli, a cura di Lo Ca-
scio, Milano, 2003, sub art. 2399, p. 242, l’apertura all’introduzione di clausole statutarie di de-
cadenza è sintomo della consapevolezza dell’insufficienza di quelle legali contenute nell’art.
2399. Svaluta la portata innovativa dell’apertura all’autonomia privata Rigotti, Collegio sin-
dacale. Controllo contabile, Comm. diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano,
2005, sub art. 2397, p. 129 ss.
Infine, nessuna obiezione sembra doversi riscontrare in una procedimentalizzazione
dell’accertamento delle clausole di decadenza, attraverso l’indicazione di un organo idoneo
all’accertamento.
(2) Nel vigore del nuovo testo dell’art. 2399 c.c., Montalenti, Conflitto di interessi e fun-
zioni di controllo: collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, revisori, in Giur. comm., 2007, I, p.
555 ss., in part. p. 558 ritiene, però, che “le disposizioni in tema di incompatibilità del sindaco
siano di stretta interpretazione, non suscettibili di letture analogiche”.
(3) Cass., 15 febbraio-9 maggio 2008, n. 11554, in Guida dir., 2008 31, p. 64 ss., con nota di
M. Leo, La causa d’ineleggibilità dei componenti prescinde da un procedimento di verifica; in
Riv. notariato, 2008, 5, p. 1120 ss., con nota di Ancillotti, Principio di chiarezza e funzione
informativa del bilancio sociale. Decadenza di un membro del collegio sindacale e conseguenze
sugli atti del collegio e degli altri organi sociali; in Foro it., 2009, I, c. 2175 ss., con nota di Naz-
zicone, Sindaco decaduto ed invalidità, diretta e derivata, di deliberazioni societarie; in Giur.
comm., 2009, II, p. 924 ss., con nota di I. Russo, La rilevanza esterna dei chiarimenti forniti da-
gli amministratori in sede di approvazione del bilancio d’esercizio.
La decisione è commentata altresì da Romolotti, Decadenza automatica e atti collegiali
illegittimi: la gestione del rischio, in Dir. e prat. società, 2008 17, p. 58 ss., e da Pastori, Deca-
denza del sindaco ed illegittimità della deliberazione del collegio sindacale, in Giur. comm., 2009,
II, p. 1110 ss.
SAGGI 87
ma, e conscia del dibattito ancora vivo in dottrina, che la stessa opera ipso
iure e non necessita di alcun atto di accertamento (9).
In passato, per giustificare l’automaticità della decadenza, si è ricono-
sciuto, nelle varie ipotesi previste dall’art. 2399 c.c., un comune carattere di
immediata percezione dell’incompatibilità che non richiederebbe, perciò,
alcun giudizio di valore. Si tratterebbe di un meccanismo diretto a garanti-
re l’“efficienza dell’organizzazione societaria” e che risponde all’“esigenza
di certezza, che [. . .] è implicita nella ricostruzione delle fattispecie rilevanti
ai fini della determinazione dei requisiti di ineleggibilità e decadenza” (10).
Una spiegazione siffatta mal si concilia con il nuovo testo dell’art. 2399
c.c., e in particolare con la fattispecie dai confini indeterminati prevista dal-
la sua lett. c, tanto che la miglior dottrina, pur confermando l’impostazione
precedente, ha sostenuto che la decadenza opererebbe talvolta ex lege, tal-
volta a seguito dell’accertamento del verificarsi della fattispecie (11); accer-
modifiche letterali (cfr. sul nuovo testo Cavalli, Il collegio sindacale, in Il nuovo diritto socie-
tario, a cura di Ambrosini, Torino, 2004, I, p. 267 ss., in part. p. 272 s.); ipotesi cioè di decaden-
za c.d. ordinaria (art. 2399 c.c.), normalmente contrapposta, in dottrina, a quella c.d. sanzio-
natoria (v., tra i tanti, Cavalli, I sindaci, in Tratt. delle s.p.a, diretto da Colombo e Portale, 5,
Torino, 1988, p. 56 ss.; Domenichini, Il collegio sindacale nelle società per azioni, in Tratt. dir.
priv., diretto da Rescigno, 16, Torino, 1985, p. 552, Libertini, Note in materia di ineleggibilità e
decadenza del sindaco consulente della società, cit., in part. p. 281 ss.), che si ricollega a meri fat-
ti oggettivi e assenza di profili valutativi, come la mancata partecipazione del sindaco alle riu-
nioni del consiglio di amministrazione o dell’assemblea (cfr. art. 2405 c.c.).
(9) Per i riferimenti, anche giurisprudenziali, si veda Cavalli, Collegio sindacale, in Ca-
valli, Marulli, Silvetti, Le società per azioni, II, 2, Torino, 1996, p. 734 ss.
(10) Così Libertini, Note in materia di ineleggibilità e decadenza del sindaco consulente del-
la società, cit., p. 270 ss., in part. p. 272, da dove è tratto il virgolettato. Per la tesi in parola,
l’“esigenza di certezza” si traduce nella necessità di poter “definire sufficientemente a priori,
ipotesi di incompatibilità e decadenza” (Libertini, Note in materia di ineleggibilità e decaden-
za del sindaco consulente della società, cit., in part. p. 277).
V. anche Angelici, Cavalli, Libertini, Parere pro veritate in materia d’ineleggibilità del
sindaco e società tra professionisti (4 febbraio 2005, indirizzato al Consiglio Nazionale Ragio-
nieri e Periti Commerciali) e Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di società per
azioni, in Giur. comm., 2005, I, p. 237 ss. La tesi sembra peraltro già presente in nuce già nelle
parole di Sasso, A proposito dell’indipendenza del sindaco, in Giur. comm., 1999, I, p. 220 ss., in
part. p. 221, nota 2, ove si esprimono i timori che derivano da un’interpretazione troppo am-
pia delle ipotesi previste dall’art. 2399 c.c., e, con riferimento alla famiglia di fatto, significati-
vamente precisa che se si accetta una tale apertura “si finisce con l’introdurre elementi d’in-
certezza circa l’area di operatività della norma”. Tuttavia, l’a. è conscio che è possibile rinve-
nire molte situazioni di pericolo “astrattamente idonee ad incidere sulla capacità di controllo
del sindaco”, ma ritiene che il problema andrà risolto “sulla base della diligenza prestata e se-
condo gli obblighi che fanno carico all’organo di controllo”.
(11) Cfr. Angelici, Cavalli, Libertini, Parere pro veritate in materia d’ineleggibilità del
SAGGI 89
sindaco e società tra professionisti, cit., p. 22 per i quali dalla decadenza prevista dalla lett. c del-
l’art. 2399 sarebbe “meno plausibile [. . .] trarre la conseguenza di una decadenza automatica,
a prescindere da ogni accertamento”; Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di so-
cietà per azioni, cit., p. 239 s., per il quale la “tesi dell’operatività solo a seguito di un atto di ac-
certamento costitutivo rimane ragionevolmente sostenibile solo nei casi in cui vi possano es-
sere oggettive incertezze sulla compatibilità delle situazioni concrete”.
(12) Tant’è vero che lo stesso Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di società
per azioni, cit., p. 240, nota 6, si vede costretto ad affermare che la “deliberazione sulla deca-
denza si avvicinerebbe pertanto a quella di revoca per giusta causa (art. 2400, comma 2°), con
la differenza che non richiederebbe l’approvazione del Tribunale”. Una distinzione che, al
più, potrebbe trovare qualche (solo apparente) riscontro per il sistema tradizionale, non già in
quelli alternativi, dove la revoca dei soggetti deputati al controllo non è soggetta ad approva-
zione del tribunale.
(13) Si noti come con la riforma sulla revisione legale dei conti, approvata il 27 gennaio
2010 (d.lgs. 39/2010), è stato abolito anche l’art. 2409quater, c.c., che prevedeva il decreto del
tribunale per l’approvazione della delibera di revoca dell’incarico di revisione.
90 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
no); ii) si materializza in un atto (la delibera) i cui effetti, una volta approva-
ta dal tribunale, non hanno bisogno di ulteriori atti di esecuzione.
Altra cosa è la decadenza che, in quanto norma secondaria (ossia san-
zionatoria), opera direttamente sugli effetti dell’atto (l’atto di nomina) pree-
sistente ed efficace.
La qualificazione della decadenza come sanzione (14), ossia come conse-
guenza che l’ordinamento ricollega alla violazione di una regola di condotta,
permette di collocare su due piani distinti elementi (la fattispecie e la sanzio-
ne) che, dal punto di vista funzionale, sono dotati di reciproca autonomia (15).
Infatti, come si è in parte anticipato, non solo non ha alcun riscontro la
definizione come “eccezionali” delle ipotesi di ineleggibilità e decaden-
za (16), ma, anzi, essa è il sintomo dell’inversione, da un punto di vista inter-
pretativo, del rapporto tra mezzo e fine; di aver visto, cioè, nell’elencazione
delle cause di ineleggibilità e decadenza non dei possibili strumenti per fa-
vorire (in particolare) l’indipendenza, ma degli istituti dotati di una propria
finalità: quella di garantire un’esigenza di certezza assicurata dalla modalità
tecnica del loro operare (ipso iure). In sostanza, per la tesi tradizionale: i) la
decadenza (la sanzione) non era più un mezzo per favorire (tra l’altro) l’in-
dipendenza (la norma primaria), ma era essa stessa la fattispecie a cui piega-
re le varie “cause” che la potevano originare: il modo di operare della deca-
denza imponeva di leggere le varie cause in modo “coerente” con tale “fat-
(14) Talvolta si parla anche di norma secondaria. La contrapposizione tra norma primaria
e norma secondaria ha avuto, in dottrina, molto seguito, anche se ha spesso assunto signifi-
cati assai diversi. Per una ricostruzione, nonché per i necessari riferimenti bibliografici v. Fer-
rajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 1, Teoria del diritto, Bari, 2007, p.
679 ss., e nota 50, E. Russo, L’interpretazione delle leggi civili, Torino, 2000, p. 278 ss.
(15) Cfr. già Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., diretto da Vas-
salli, XV, Torino, 1960, p. 468, che ritiene opportuno “tenere distinti i due ordini di problemi:
quelli concernenti la diagnosi delle anormalità (la patologia) e quelli concernenti il loro trat-
tamento giuridico”, ma la scissione tra precetto e sanzione si riscontra anche nelle concezio-
ni normativistiche che vedono nell’invalidità il trattamento sanzionatorio dell’atto viziato. Su
questi temi si veda Ascarelli, Inesistenza e nullità, in Scritti giuridici, Milano, 1959, p. 225 ss.;
Irti, La nullità come sanzione civile, in questa rivista, 1987, p. 541 ss.; per un accenno v. Sacco,
De Nova, Il contratto, II, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 496.
(16) La dottrina non si è preoccupata di dimostrare il carattere eccezionale delle disposi-
zioni circa l’ineleggibilità e decadenza, limitandosi ad affermare che “[. . .] si ritengono essere
[disposizioni eccezionali] quelle che pongono limiti alla capacità di assumere cariche od uffi-
ci di qualsiasi tipo”. Così Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 686. L’eccezionalità di una norma
presuppone l’individuazione di un sistema di valori collocato in una posizione poziore nella
catena kelseniana, contraddetta dal disvalore insito, nel caso di specie, nel meccanismo dell’i-
neleggibilità e decadenza. Per un’analoga argomentazione, seppur riferita all’elencazione
delle cause di recesso previste dall’allora vigente art. 2437 c.c., cfr. Galletti, Il recesso nelle
società di capitali, Milano, 2000, p. 305 ss., ove riferimenti di teoria generale.
SAGGI 91
(17) Su tali questioni ci si è già intrattenuti nel nostro Le funzioni dei sindaci tra principi ge-
nerali e disciplina, Padova, 2008, p. 281 ss.
(18) Così, commentando la sentenza della S.C., Leo, La causa d’ineleggibilità dei compo-
nenti prescinde da un procedimento di verifica, cit., p. 71 ss., in part. p. 73.
(19) Con riferimento alle possibili aperture statutarie v. quanto si è osservato supra in no-
ta 1.
Sul piano legislativo regole speciali sono previste, ad esempio, per le società bancarie (e
finanziarie capogruppo di gruppi bancari), per gli intermediari e per le società quotate (v. il ri-
chiamo della S. C. al punto 5.1 della decisione del 2008, nonché il commento di Nazzicone,
Sindaco decaduto ed invalidità, diretta e derivata, di deliberazioni societarie, cit., c. 2182 s.).
Peraltro nulla esclude, anche se non fosse previsto dallo statuto, che si proceda, ferma la
sua efficacia ipso iure, ad un accertamento della decadenza per consentire, da un lato, il pro-
dursi dei meccanismi automatici ad essa riconnessi (il subentro del sindaco supplente ex art.
2401 c.c.) e, dall’altro, la tutela dello stesso sindaco decaduto. In questo senso v. già Cavalli,
I sindaci, cit., p. 64. Per ulteriori riferimenti, anche alla dottrina e giurisprudenza contrari, cfr.
Id., Collegio sindacale, cit., p. 734 ss., in part. p. 736 ss.
(20) Per le società quotate, similmente a quanto già accade per le banche (v. Freni, Requi-
siti di professionalità e di onorabilità, in Ferro Luzzi-Gastaldi (a cura di), La nuova legge ban-
caria, I, Milano, 1996, p. 381 ss., in part. p. 430 ss.), il legislatore ha ritenuto opportuno chiari-
92 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
vrà sfociare in una delibera di un organo collegiale (21), data l’efficacia (ipso
iure) con cui opera la decadenza che, dunque, potrebbe essere rilevata me-
diante un qualsiasi atto formale, anche del presidente del collegio o da altro
sindaco (22). Sarà perciò sufficiente una comunicazione che dovrà essere in-
viata sia al sindaco decaduto, sia al supplente chiamato a subentrare (23).
Non è da escludere, inoltre, che tale accertamento possa essere pro-
mosso anche da parte del singolo socio (24) e forse anche del terzo (25) e sen-
re quale sia l’organo competente per l’accertamento. Infatti, l’art. 148 T.U.F., al comma 4°qua-
ter, così come novellato dalla l. risp. (l. 262/2005), attribuisce tale compito al consiglio di am-
ministrazione e, “nelle società organizzate secondo i sistemi dualistico e monistico, [all’]as-
semblea [. . .]”, nonché, in caso di inerzia, la Consob su richiesta di qualsiasi interessato o d’uf-
ficio. La disposizione, che si apre con una clausola che ne limita la portata ai “casi previsti dal
presente articolo”, sembra dettare una regola speciale, agevolando la conclusione per la qua-
le è proprio l’organo di controllo a dover dichiarare la decadenza dei propri membri per i casi
non riconducibili, neppure in via analogica, all’art. 148 T.U.F. (Cfr. Sasso, L’ampliamento dei
poteri di informazione di convocazione dei componenti l’organo di controllo, in De Angelis-Ron-
dinone (a cura di), La tutela del risparmio nella riforma dell’ordinamento finanziario, Torino,
2008, p. 93 ss., in part. 103 ss.).
Più in generale la legislazione speciale sembrerebbe confermare che, in mancanza di di-
versa indicazione, sia proprio il collegio, il cui componente è decaduto, a dover accertare, mo-
tivare e comunicare la causa di cessazione dall’incarico.
In giurisprudenza v. Trib. Milano, 16 marzo 1956, in Foro it., 1957, I, c. 1348; in Riv. dir.
comm., 1957, II, p. 52, per il quale “le cause di decadenza dei sindaci, al pari di quelle degli am-
ministratori [. . .] devono essere rilevate dall’organo sociale competente [. . .]”.
(21) Come, invece, sembra sostenere Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 736 ss.
(22) Anzi costituisce un vero e proprio obbligo giuridico da parte degli altri componenti
del collegio acclarare la verificazione di una causa di decadenza, in quanto rappresenta un do-
vere ricollegabile alla vigilanza sul rispetto della legge e dello statuto. Pertanto il mancato ri-
lievo della decadenza potrebbe fondare anche la promozione dell’azione di responsabilità (se
ne deriva un danno) da parte dell’assemblea o della minoranza ex art. 2393bis c.c. o la revoca
per giusta causa (inadempimento).
(23) La comunicazione andrà estesa a tutti gli interessati, seppur in forme diverse: ai soci,
poiché l’assemblea successiva dovrà “provvedere alla nomina dei sindaci effettivi e supplenti
necessari per l’integrazione del collegio, nel rispetto dell’art. 2397, comma 2°” (2401, comma
1°, c.c.); agli amministratori, affinché adempiano agli oneri pubblicitari (art. 2400, comma 3°,
c.c.). Cfr. a tal proposito il Trib. Mantova, 25 luglio 2009, inedita ma reperibile sul sito www.il-
caso.it, dove, seppur con riferimento alle dimissioni, discostandosi dichiaratamente dall’o-
rientamento della corte di legittimità, si afferma che “[. . .] le dimissioni, per essere efficaci, de-
vono essere comunque comunicate ai sindaci supplenti; la conoscenza dell’effettività della
funzione costituisce, infatti, il presupposto indefettibile [. . .] per l’adempimento dei doveri e
l’esercizio dei poteri che la carica comporta [. . .]” (p. 7 ss. del documento).
(24) Per una rassegna dei diritti individuali di controllo intesi come “verifica della legalità
e regolarità dell’attività della società ed in particolare dell’amministrazione, al fine di assicu-
rare legittimità ed efficienza dell’agire sociale a partire dalla gestione, a protezione in definiti-
SAGGI 93
za che ciò pregiudichi o limiti la tutela del sindaco (26), il quale potrà co-
munque ottenere dal giudice l’accertamento della mancata verificazione
della causa di decadenza e il reintegro nella carica, sgombrando così il cam-
po da dubbie costruzioni soprattutto in tema di impugnazione delle delibe-
re del collegio sindacale che abbia dichiarato (rectius: accertato) la decaden-
za (27).
va dell’interesse stesso della società, nella sua dimensione collettiva ed unitaria”, si veda Per-
rino, Il controllo individuale del socio di società di capitali: tra funzione e diritto, in Giur.
comm., 2006, I, p. 639 ss., in part. p. 647 ss. L’a., però, non considera, nella sua analisi, la fatti-
specie che si sta analizzando nel testo.
(25) Soprattutto “nelle ipotesi in cui l’indipendenza implichi un giudizio (o una valutazio-
ne giuridica sull’applicazione estensiva o analogica dell’incompatibilità relativa agli status)
[. . .]”; in questi casi “è più consona alla fattispecie e, di fatto, più realistica, una valutazione da
parte del giudice su iniziativa del singolo socio o terzo”. Così Poli, La nuova disciplina del col-
legio sindacale, Padova, 1997, p. 183, nota 109.
È pur vero che nella disciplina positiva non vi sono disposizioni che espressamente legit-
timino il singolo socio ad adire il giudice per ottenere, in contraddittorio con la società, una
tale pronuncia, ma la soluzione ben si attaglia all’efficacia (ipso iure) della decadenza (e alla
natura dichiarativa della pronuncia) e consente, sul piano organizzativo, l’attivazione dei
meccanismi automatici di sostituzione.
(26) Cfr. Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 740. Peraltro la giurisprudenza ammette la le-
gittimazione del sindaco all’impugnazione della delibera assembleare che ne abbia accertato
e dichiarato la decadenza (v. Trib. Milano, 9 giugno 1975, in Giur. comm., 1976, II, p. 551). Ri-
guardo l’onere della prova con riferimento, ad esempio, alla mancata partecipazione alle riu-
nioni assembleari, si è precisato che dovrà essere il sindaco a fornire la prova del giustificato
motivo della sua assenza. Cfr. Trib. Genova, 19 luglio 1993, in Giur. it., 1994, I, 2, c. 327, con
nota di Cottino, Questioni in tema di decadenza (e funzionalità) del Collegio sindacale; Trib.
Genova, 27 aprile 1995, in Società, 1995, p. 1605, con nota di Bonavera.
(27) In caso di delibera del collegio che accerti la decadenza, il sindaco cessato non dovrà
impugnare la delibera chiedendone l’annullamento o la dichiarazione di nullità, perché il giu-
dice non dovrà soffermarsi sulla validità o invalidità della delibera, bensì accertare se vi è sta-
ta o meno una causa legittima di decadenza. In sostanza, proprio per l’automaticità del suo
operare, la decadenza trascende l’atto in cui è contenuto il suo accertamento, che, perciò, ben
potrà essere una delibera o una mera comunicazione. Pertanto quand’anche la delibera non
fosse stata adottata in ossequio alle regole sulla collegialità dell’attività sindacale, il giudice
che accertasse la decadenza, non potrebbe, ponendo nel nulla la delibera, reintegrare il sin-
daco decaduto.
L’intervento del giudice non è condizione di efficacia, né elemento costitutivo e ciò ben
si coordina con l’assenza di un termine per proporre “opposizione” al provvedimento moti-
vato di decadenza e con il limite degli effetti organizzativi già prodotti.
94 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
dicate nell’art. 2399 c.c. (e 148 T.U.F.) va inclusa l’indipendenza (in senso so-
stanziale) (28), da intendersi non solo come principio generale, ma come ve-
ra e propria clausola generale, occorre, seppur brevemente, capire che ruo-
lo svolge l’ineleggibilità e il rapporto con la decadenza.
L’impulso all’indagine proviene proprio dalla fattispecie considerata
dalla Cassazione e dalla funzione che quest’ultima sembra assegnare alla
decadenza nell’ambito dei presidi posti a tutela dell’indipendenza. Infatti,
da un lato l’incompatibilità legata, nel caso sottoposto ai giudici di legitti-
mità, alla sussistenza di un “rapporto continuativo di prestazione d’opera
retribuita” tra sindaco e società viene letta alla luce della tutela dell’indi-
pendenza, intesa come principio cardine del sistema dei controlli (29); dal-
l’altro si precisa che quella accertata è una causa per la quale l’art. 2399 (sia
vecchio che nuovo testo) “fa discendere l’ineleggibilità – e quindi la deca-
denza – del sindaco” (30): la decadenza pertanto opera, nel ragionamento se-
guito dalla Corte, anche per il caso di sindaco eletto ancorché privo del re-
quisito.
Il primo aspetto porta a leggere quella evidenziata come una mera “fat-
tispecie sintomatica” di assenza di indipendenza, ossia una fattispecie che
non assume rilevanza in se e per sé, ma solo in quanto diretta a tutelare l’in-
dipendenza del controllore in presenza di possibili “indici di rischio” (31).
Che poi l’indipendenza sia l’oggetto immediato della tutela è confermato
dalla lettera c dell’attuale formulazione dell’art. 2399 c.c. In sostanza, l’indi-
pendenza troverà sanzione sul piano obbligatorio e della responsabilità in
quanto, se intesa come clausola generale, come fattispecie generatrice di
obbligazioni, consente di individuare uno specifico obbligo di agire indipen-
(28) Si allude ad una qualificazione dell’indipendenza dal punto di vista del contenuto; al-
tra cosa la funzione che essa è deputata a svolgere, su cui v. infra. Su questi temi ci sia consen-
tito il rinvio al nostro Le funzioni dei sindaci tra principi generali e disciplina, cit., p. 143 ss.
(29) Visto che altrimenti “risulterebbe sin troppo agevole aggirare la norma e ne verrebbe
comunque palesemente tradita la ratio, che risiede nell’esigenza di garantire l’indipendenza
di chi è incaricato di delicate funzioni di controllo, in presenza di situazioni idonee a compro-
mettere tale indipendenza quando il controllore sia direttamente implicato nell’attività sulla
quale dovrebbe in seguito esercitare dette funzioni di controllo” (punto 5.2 della motivazio-
ne).
(30) Loc. cit., corsivo nostro, sottolineando implicitamente l’equivalenza tra le due figure.
(31) Circostanze che, cioè, possono maggiormente favorire la lesione del requisito del-
l’indipendenza dei sindaci. Una delimitazione di tali indici di rischio sotto il profilo organiz-
zativo può essere favorita dalla delimitazione dell’area del controllo disegnata dall’art. 2403
c.c.: l’indipendenza andrà assicurata rispetto a quanti, intervenendo in quell’area, potranno
incidere sul corretto esercizio della funzione di controllo, cui l’agire indipendente è valore es-
senziale, ancorché strumentale. Ulteriori riferimenti in Caprara, Le funzioni dei sindaci tra
principi generali e disciplina, cit., p. 143 ss.
SAGGI 95
(32) L’indipendenza svolge, infatti, una pluralità di funzioni. In argomento si rinvia, per
una più ampia trattazione, il nostro La clausola generale dell’indipendenza: nozione e declina-
zioni operative (in part. § 9), in Tantini-Meruzzi (a cura di), Le clausole generali nel diritto socie-
tario, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., diretto da Galgano, Padova, in corso di pub-
blicazione.
(33) Così Salanitro, L’invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione di so-
cietà per azioni, Milano, 1965, in part. p. 108 ss.; recentemente Franzoni, Gli amministratori e
i sindaci, in Le società, Tratt. diretto da Galgano.
(34) Tra gli altri, Frè, Le società per azioni, cit., 1982, p. 549, ma già nel vigore del codice di
commercio, De Gregorio, Delle società e delle associazioni commerciali, Torino, 1938, p. 625;
ma v. anche Domenichini, Il collegio sindacale nelle società per azioni, cit., p. 558, che costrui-
sce la “nullità relativa” della delibera, attraverso i tradizionali schemi negoziali, limitando l’in-
validità solo alla nomina di quel, o quei, soggetti privi dei requisiti previsti dall’art. 2399 c.c.
Dopo la riforma preferisce parlare di delibera “parzialmente nulla”, Rigotti, Collegio sinda-
cale. Controllo contabile, cit., sub art. 2397, p. 32.
(35) È il modo di operare dell’istituto (sul piano dell’atto) che probabilmente ha portato a
considerare eccezionali le ipotesi di ineleggibilità/decadenza, ossia la caratteristica di “tra-
96 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Infatti, se è vero che per le ipotesi previste dall’art. 2399 c.c. (e dall’art.
148 T.U.F) è difficile superare il dato letterale che sembra comminare la de-
cadenza anche per il sindaco ineleggibile una volta nominato, è altrettanto
vero che vi possono essere anche altre ipotesi a queste non riconducibili.
In altre parole, l’impossibilità di contenere l’indipendenza in senso so-
stanziale entro i confini tracciati, a monte, dall’ineleggibilità e, a valle, dalla
decadenza, spinge ad interrogarsi sulle conseguenze della nomina di un
sindaco senza tale requisito al di fuori delle fattispecie tipizzate.
Rispetto alle tesi tradizionali, elaborate con riferimento al caso di nomi-
na di un sindaco ineleggibile, quella che considera come decaduto il sinda-
co eletto senza i necessari requisiti per ricoprire l’ufficio, incontra, oltre i già
opposti ostacoli di ordine concettuale (36), il rischio che, facendo riferimen-
to a fattispecie che non sono riconducibili, nemmeno in via analogica, a
quelle previste dalla legge, si determinerebbe, a livello pratico, una situa-
zione che favorirebbe la conflittualità tra i soci (37).
Si potrebbe pensare, sempre nel solco delle tesi tradizionali, all’invali-
dità dell’atto di nomina.
In astratto si possono considerare due fattispecie: da un lato la violazio-
ne del dovere di informazione preassembleare e, dall’altro, l’illiceità del-
l’oggetto della delibera.
Rispetto alla prima, la violazione del dovere di informazione, che dirige
verso l’annullabilità della delibera di nomina, trova un aggancio normativo
nel nuovo ult. cpv. dell’art. 2400 c.c., con il quale si impone al candidato di
rendere noti all’assemblea gli “incarichi di amministrazione e di controllo
da essi [i.e. dai candidati sindaci] ricoperti presso altre società” (38). Questo
durre” una regola di comportamento in regola (talvolta) di validità dell’atto (di nomina). Ele-
mento, però, per nulla decisivo in quanto, ancorché sia possibile cogliere un profilo di “spe-
cialità” (non certo l’eccezionalità), questo andrà riferito, come si è già sottolineato in prece-
denza, al modo di operare dell’istituto (ineleggibilità e, rispettivamente, decadenza) e non al-
le fattispecie che trovano tutela mediante esso.
(36) È nota l’obiezione che la decadenza presupporrebbe la regolare costituzione del rap-
porto; circostanza che non ricorre nel caso di specie, poiché il sindaco sin dall’origine difetta-
va dei requisiti necessari per l’assunzione dell’incarico. Cfr. per i riferimenti Cavalli, Collegio
sindacale, cit., p. 699 ss.
(37) Sull’importanza e sui limiti dell’utilizzo dell’argomento conseguenzialista nell’inter-
pretazione cfr. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1994, p. 1 ss.
(38) Disposizione introdotta solo recentemente grazie alla legge sul risparmio (l.n.
262/2005), che, però, ha un chiaro precedente nella disciplina tedesca v. Baums, Il sistema di
« corporate governance » in Germania ed i suoi recenti sviluppi, in Riv. soc., 1999, p. 1 ss., in part.
p. 17. Una disposizione che, secondo un’accreditata dottrina, va estesa “a tutti i requisiti di in-
dipendenza” (Salanitro, Nozione e disciplina degli amministratori indipendenti, in Banca,
borsa, tit. cred., 2008, I, p. 1 ss., in part. p. 8, nota 11).
SAGGI 97
Nelle società quotate, poi, il dovere di rendere noti gli incarichi già ricoperti (v. anche art.
144duodecies ss. reg. emitt.) è rilevante anche per una nuova ipotesi di decadenza, dichiarata
dalla Consob, introdotta anch’essa dalla legge risparmio con il nuovo art. 148bis T.U.F. (v. an-
che le sanzioni previste nell’art. 193, comma 3bis, T.U.F.).
(39) Nella relazione alla l. 262/2005 (v. in Nigro-Santoro (a cura di), La tutela del rispar-
mio: comm. della l. 28 dicembre 2005, n. 262 e del d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, Torino, 2007,
p. 39) sembrano emergere entrambe. Infatti, questa “disposizione tende a consentire all’as-
semblea di valutare l’idoneità del soggetto rispetto al cumulo degli incarichi rivestiti (e, inci-
dentalmente, di conoscere relazioni con altri soggetti che possano configurare situazioni di
conflitto)”.
(40) Il dovere di informazione preventivo è stato valorizzato, seppur con riferimento al-
l’operatività di una polizza assicurativa per responsabilità professionale da Trib. Milano, 7
febbraio 2003, in Società, 2003, p. 1385, con nota di Redeghieri Baroni, Questioni in tema di
responsabilità degli organi sociali: quantificazione dei danni, omessa vigilanza dei sindaci e co-
pertura assicurativa, per il quale l’omessa “comunicazione di un evento [la dichiarazione di
fallimento della società ove i contraenti operavano come sindaci], il cui significato (in genera-
le e nell’economia del contratto di assicurazione) non poteva sfuggire al contraente facente
uso dei normali canoni di diligenza, anche e soprattutto perché istituzionalmente munito del-
le specifiche nozioni professionali necessarie ad apprezzarlo, integra, a parere del tribunale,
gli estremi della colpa grave di cui all’art. 1892 c.c. [. . .]. L’omissione rileva anche sul versante
oggettivo, poiché incide « sulla reale rappresentazione del rischio », nel senso che appare « di
tale natura (da doversi ritenere) che l’assicuratore non avrebbe dato il suo consenso o non l’a-
vrebbe dato alle medesime condizioni, se avesse conosciuto l’esatta e completa verità » (Cass.
n. 5115/1994)”. I giudici, però, non hanno potuto disporre anche l’annullamento dei contrat-
ti di assicurazione, richiesto in via riconvenzionale, poiché la comparsa di costituzione era
stata depositata solo il giorno precedente all’udienza, in violazione dei termini ex artt. 167 e
171 c.p.c.
La sentenza è significativa perché evidenzia un generale dovere informativo in relazione
alle finalità della clausola contrattuale: l’esatta rappresentazione del rischio corso dall’assicu-
rato. Nel nostro caso il dovere informativo indicato dall’art. 2400 c.c. è espressione parziale e
minima dell’obbligo di rendere edotti i soci di tutte le circostanze che potrebbero incidere
sull’esatto adempimento dell’incarico di vigilanza. In dottrina su questi temi v. Gallo, Asim-
metrie informative e doveri di informazione, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 641 ss., in part. p. 670.
98 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(42) Cfr. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 2004, p. 345 ss.; Id., Simula-
zione, nullità del contratto annullabilità del contratto, in Codice civile, Comm. Scialoja-Branca,
Bologna-Roma, sub art. 1418, p. 81 s.; Bianca, Il contratto, 3, Milano, 2000, p. 618. Per un’appli-
cazione specifica di queste distinzioni v. in giurisprudenza, Cass. sez. un., 19 dicembre 2007, n.
26725, in Contratti, 2008, p. 2008, 221 ss., con commento di Sangiovanni, Inosservanza delle
norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità e commentata, tra gli altri anche da
Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni unite della Cassazione,
in questa rivista, 2008, p. 1 ss., in part. p. 8 ss.; Prosperi, Violazione degli obblighi di informazione
nei servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass. sez. un., 19 dicembre 2007, nn.
26724 e 26725), in questa rivista, 2008, p. 936 ss. e Autelitano, La natura imperativa delle regole
di condotta degli intermediari finanziari, in I Contratti, 2008, p. 1157 ss. Su questi temi v. già Sar-
tori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari: disciplina e forme di tutela, Milano, 2004.
(43) In tal caso, la soluzione potrebbe passare dall’impugnazione della delibera negativa e
al ricorso a forme di tutela risarcitoria. Cfr. in proposito Cian, La deliberazione negativa del-
l’assemblea nella società per azioni, Torino, 2003, p. 186, che, dopo aver analizzato criticamen-
te le varie teorie (di impronta negoziale e di impronta organizzativo-procedimentale) accoglie
una concezione intermedia che ha le sue radici in una visione negoziale dell’atto deliberativo,
ma aperta ai riflessi organizzativi dell’atto (p. 77 ss.) e, proprio su quel piano, dimostra la rile-
vanza della delibera a contenuto negativo come “delibera in senso tecnico” suscettibile, per-
ciò, di impugnazione. Ma è in quella sede che emergono tutte le difficoltà ad ammettere una
tutela “reale” per l’impugnante; una tutela di tipo “costitutivo-esecutiva” che passa dall’am-
missibilità di una decisione giudiziale che tenga luogo della delibera “positiva” non adottata,
100 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
soprattutto nei casi in cui il rigetto sia determinato da conflitto di interessi (p. 139 ss. e, per l’in-
vocabilità dello specifico rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., p. 157 ss.). L’a. è tornato recente-
mente sulla questione commentando la pronuncia di Trib. Catania, sez. IV, 10 agosto 2007
(Cian, Abus d’égalité, tutela demolitoria e tutela risarcitoria, in Corriere giur., 2008, p. 399 ss.).
(44) Cfr. punto 6 della motivazione.
(45) Loc. cit. Un’interpretazione che per Romolotti, Decadenza automatica e atti collegia-
li illegittimi: la gestione del rischio, cit., in part. p. 68 ss., finisce per frenare l’attività del collegio
senza favorire la certezza del diritto.
(46) Questione su cui si sofferma Pastori, Decadenza del sindaco ed illegittimità della deli-
berazione del collegio sindacale, cit., p. 1122. V., però, Trib. Milano, 16 marzo 1956, in Foro it.,
1957, I, c. 1348; in Riv. dir. comm., 1957, II, p. 52, per il quale “le cause di decadenza dei sinda-
ci [. . .] non possono essere addotte dal socio per invalidare l’atto, compiuto da uno degli orga-
ni sociali sul presupposto della decadenza di uno dei suoi membri, salvo il caso di collusione,
se tale decadenza non sia stata resa pubblica nel modo dalla legge stabilito”.
(47) In argomento Sodi, Riunioni e deliberazioni del collegio sindacale: profili procedimen-
tali, in Il collegio sindacale, Milano, 2007, p. 125 ss., in part. p. 131 ss., ove si analizzano altre
giustificazioni della collegialità nell’azione dei sindaci.
(48) Cfr., anche per gli ulteriori riferimenti, Pastori, Decadenza del sindaco ed illegittimità
della deliberazione del collegio sindacale, cit., p. 1114.
SAGGI 101
(49) Un tipico esempio è rappresentato dalle delibere di approvazione del bilancio d’eser-
cizio. Parla di “delibere procedimentali”, che si spiegano all’interno di un più ampio procedi-
mento e i cui vizi si traducono in motivi di impugnazione del “provvedimento finale” e non
dell’“atto endoprocedimentale”, Angelici, voce Società per azioni e in accomandita per azio-
ni, in Enc. dir., Milano, 1990, XLII, p. 977 ss., in part., p. 1003 s. L’impostazione risente dell’e-
laborazione teorica sviluppata nei contributi sul procedimento amministrativo, dove si è so-
stenuto che “la struttura seriale del procedimento implica che l’omissione [. . .], così come l’in-
validità di un elemento della serie procedimentale, si rifletta sui successivi e sull’atto finale in-
validandoli in via derivata”. Così Villata, Sala, voce “Procedimento amministrativo”, in Di-
gesto disc. pubbl., XI, Torino, 1996, p. 574 ss., in part., p. 597. Cfr., anche per gli ulteriori riferi-
menti, Butturini, L’impugnazione del bilancio d’esercizio, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. del-
l’econ., diretto da Galgano, XLIV, Padova, 2007, p. 60 e p. 87.
Seppur per diverse ragioni, condivide l’opinione anche Cesqui, I poteri individuali dei
sindaci, Parma, s.d. (ma 1984), p. 256, per il quale lo scarso interesse della dottrina per l’impu-
gnativa delle delibere del collegio sindacale è da ricollegare non solo all’“elasticità del funzio-
namento dell’attività di controllo sulla gestione sociale [. . .]” ma anche “all’inevitabile conse-
guenza di un sistema di controllo sull’amministrazione sociale qualificata dall’essere [. . .] a
carattere eminentemente individuale”.
(50) Peraltro sono assai scarse le occasioni in cui la giurisprudenza ha avuto modo di pro-
nunciarsi sulla stessa impugnabilità di tali delibere. Sembra propendere per l’impugnabilità
Pret. Roma, 2 febbraio 1978, in Riv. dott. comm., 1978, p. 1055; in Foro it., 1978, I, c. 761. In
quell’occasione il consiglio di amministrazione richiedeva la concessione di un provvedi-
mento ex art. 700 c.p.c. per paralizzare la delibera del collegio sindacale con cui si era disposta
la convocazione dell’assemblea per deliberare, tra l’altro, la revoca del consiglio di ammini-
strazione. Il Giudice respinse la domanda, affermando, però, che, in caso di contrasti interor-
ganici, “si ritiene sussistente la legittimazione all’azione, sia attiva che passiva di entrambi gli
organi”.
Un accenno si trova anche in Cass., 5 aprile 1973, n. 2489, in Giur. comm., 1974, II, p. 271
ss., con nota di Portale, Problemi in tema di valutazione e revisione della stima dei conferimenti
in natura (con postilla sul sindaco “minorenne”), per la quale, in un caso di conferimento in na-
tura in cui veniva impugnata dal conferente la delibera di revisione della stima operata da am-
ministratori e sindaci ex art. 2343 c.c., “l’impugnazione separata della deliberazione degli am-
ministratori e dei sindaci [. . .] è [. . .] inammissibile, perché non da essa deriva direttamente e
immediatamente il danno al socio conferente, ma dalla deliberazione assembleare, che riduce
il numero delle azioni da assegnare al socio come controprestazione del conferimento”.
102 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(51) Nel punto 5.2 della motivazione si legge, infatti, che “appare arbitraria la pretesa di fa-
re applicazione della cosiddetta prova di resistenza anche per le deliberazioni di tale organo”.
(52) Non ricorrono, a quanto consta, precedenti editi specifici sull’applicabilità della pro-
va di resistenza a delibere del collegio sindacale. Tuttavia la giurisprudenza ha fatto ampio ri-
corso a questo principio anche in assenza di una disposizione puntuale. Cfr. Trib. Udine, 8 ot-
tobre 2001, in Società, 2002, p. 364, con commento di Gennari, Adozione, con voto di soggetti
non legittimati, di delibera per il ripianamento delle perdite mediante versamenti dei soci, con ri-
chiami anche alla giurisprudenza della S.C., ove, seppur con riferimento all’approvazione di
una delibera cui partecipino soggetti non legittimati, si afferma che è “principio consolidato e
pienamente condivisibile che la c.d. prova di resistenza [. . .] costituisca un principio di più am-
pia applicazione in materia di funzionamento degli organi collegiali [. . .]”.
Peraltro uno specifico riferimento alla prova di resistenza si ricava dall’art. 2373 c.c.; di-
sposizione ritenuta non eccezionale dalla dottrina che ne ammette l’applicazione analogica
anche a fattispecie non contemplate. Cfr. Guerrera, La responsabilità “deliberativa” nelle so-
cietà di capitali, Torino, 2004, p. 184.
Condivide l’opinione dei supremi giudici, Nazzicone, Sindaco decaduto ed invalidità, di-
retta e derivata, di deliberazioni societarie, cit., c. 2186 s., rifacendosi anche ai principi espressi
dalla giustizia amministrativa.
(53) Riferimenti in Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 759 ss., Magnani, Collegio sindaca-
le. Controllo contabile, Comm. diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano, 2005,
sub art. 2404, p. 233, Sodi, Riunioni e deliberazioni del collegio sindacale: profili procedimenta-
li, cit., in part. p. 142 s.
(54) Sul “fenomeno di imputazione” si rinvia a Angelici, La società nulla, Milano, 1974,
p. 88 ss.
(55) Il contrasto (o la non conformità) tra norma e azione (rispetto ad un comportamento
violato o omissione rispetto a un comportamento dovuto) non è un dato storicamente suffi-
ciente per cogliere le conseguenze dell’antinomia: è l’ordinamento che predispone quei mec-
canismi ritenuti idonei per la sua conservazione; è l’ordinamento che prevede le “sanzioni”,
come misure cui ricorrere “[. . .] per ottenere la massima osservanza delle sue norme [. . .]” e
tra le quali può trovare spazio anche la nullità (o annullamento) e il risarcimento del danno
per violazione del neminem laedere (v. Bobbio, voce Sanzione, cit., p. 530 ss., in part. p. 535 ss.).
SAGGI 103
Cfr., inoltre, sui concetti di illegalità (antigiuridicità) e illiceità Trimarchi, voce Illecito
(dir. priv.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 90, e Scognamiglio, voce Illecito, in Noviss. dig.
it., VII, Torino, 1972, p. 164 ss.
(56) Con riferimento alle delibere assembleari, non si è spezzata la corrispondenza specu-
lare tra validità e invalidità delle delibere (Cfr. Sacchi, Tutela reale e tutela obbligatoria, in
Abadessa-Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società, 2, Torino, 2006, p. 133 ss.; Stagno
d’Alcontres, L’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea di s.p.a. La nuova disciplina, ivi, p.
167 ss.), ma si è operata, attraverso l’istituto della legittimazione attiva, una compressione del
possibile contenuto della domanda. Rispetto al collegio sindacale, il problema è diverso, in
quanto se l’atto deliberato è in realtà solo una modalità di esecuzione di un’attività, è su quel
piano, ossia della violazione della regola di comportamento, che occorre trovare la sanzione.
(57) Diversa l’opinione di Nazzicone, Sindaco decaduto ed invalidità, diretta e derivata, di
deliberazioni societarie, cit., c. 2185 s.
(58) Questa concezione è presente anche in quella dottrina che nega l’impugnabilità del-
la delibera del collegio sulla base del fatto che i sindaci non operano collegialmente o che af-
ferma la non impugnabilità per mancanza di un’espressa previsione di legge.
(59) La tesi è stata sviluppata nello studio sulla patologia delle delibere assembleari e del
consiglio di amministrazione da Ferro Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari
alla legge e all’atto costitutivo, Milano, 1993, rist., p. 183 ss., in part. p. 197 ss.
Ad analoghe conclusioni si deve giungere anche in presenza di un interesse particolare di
un sindaco nell’esercizio dell’attività di controllo. V., però, per il dovere di astensione, Liber-
tini, Note in materia di ineleggibilità e decadenza del sindaco consulente della società, cit., in
part. p. 289; Desideri, Indipendenza e collegialità dell’organo di controllo, in Società, 1997, p.
104 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
144 ss.; Tedeschi, Il collegio sindacale, in Codice civile, Comm. diretto da Schlesinger, Milano,
1992, sub art. 2404, p. 267.
Inoltre, con riguardo alle società con azioni quotate, il codice di autodisciplina del 2006
prevede, al criterio applicativo 10.C.4, che il sindaco il quale, “per conto proprio o di terzi, ab-
bia un interesse in una determinata operazione dell’emittente informa tempestivamente e in
modo esauriente gli altri sindaci e il presidente del consiglio di amministrazione circa natura,
termini, origine e portata del proprio interesse”.
(60) L’argomento è già stato impiegato in dottrina per spiegare l’inefficacia delle delibere
assembleari, ma anche del consiglio di amministrazione che incidano su diritti individuali dei
soci, cercando di portare la tutela sulla (assoluta) inefficacia dell’atto prima ancora che sulla
sua validità, in quanto così si individuano dei limiti all’esercizio del “potere”, non dei para-
metri cui rapportare il suo esercizio per valutarne la validità. Parla di “limite esterno all’ope-
ratività del procedimento che determina l’inefficacia della delibera assunta in loro violazio-
ne”, Ferro Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari alla legge e all’atto costitutivo,
cit., p. 138, nota 32.
(61) In proposito v. Chizzini, Modifiche al controllo giudiziale sulla gestione del novellato
art. 2409 c.c., in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 727 ss., in part. p. 738; Dalmotto, in Il nuovo diritto so-
cietario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Bologna, 2004, sub art. 2409, p.
1252; Montagnani, Il controllo giudiziario: ambito di applicazione e limiti dell’attuale tutela, in
Riv. soc., 2004, p. 1105 ss., in part. p. 1133. In giurisprudenza, prima della riforma, si è ritenuto
costituiscano gravi irregolarità anche, tra l’altro, “il mancato funzionamento del collegio sin-
dacale” (cfr. Trib. Palermo, 1 dicembre 1972, in Giur. merito, 1974, II, p. 104, affermazione ri-
badita anche nel successivo grado di giudizio di App. Palermo, 20 luglio 1973, in Giur. comm.,
1974, II, p. 106).
(62) Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Monza, 16 febbraio 1993, in Dir. fall., 1993, II,
p. 873.
SAGGI 105
dai sindaci, ma non incide necessariamente sul valore informativo a cui l’at-
to stesso è deputato: un piano, dunque, procedurale che, se trasportato su
quello procedimentale di approvazione del bilancio, porterebbe all’inevita-
bile invalità della delibera assembleare. Questa soluzione diventa peraltro
un mero automatismo se si considera la rigida combinazione tra efficacia
ipso iure della decadenza ed inammissibilità della prova di resistenza.
Sul piano pratico-operativo la conseguenza potrebbe essere il favorire
impugnazioni delle delibere assembleari (soprattutto di approvazione del
bilancio) per cause legate alla decadenza di un sindaco per violazione, ad
esempio, del criterio (regola di comportamento) dell’agire indipendente ex
art. 2399, lett. c, c.c., agevolando per tal via la conflittualità e le manovre ri-
cattatorie. Senza trascurare che parlare di un organo giuridicamente inesi-
stente implica che anche gli atti che esso emana sono giuridicamente inesi-
stenti con la conseguenza, aberrante ma non remota, secondo taluni orien-
tamenti, di considerare addirittura nulla la delibera assembleare (63), con
quel che ne consegue sul piano della legittimazione e dei termini per l’im-
pugnazione (artt. 2377 ss., c.c.).
In definitiva, la mera decadenza del sindaco non consente, di per sé,
l’accesso a rimedi di tipo invalidativo dell’atto assembleare, ma solo di na-
tura obbligatoria.
(63) Per i riferimenti v. Butturini, L’impugnazione del bilancio d’esercizio, cit., p. 81 ss.
DARIO SCARPA
Sommario: 1. Delega gestoria nella società per azioni in funzione del perseguimento dell’ef-
ficacia della corporate governance e della razionalizzazione dell’esercizio del potere ge-
storio. Qualificazione giuridica del rapporto giuridico tra delegato e società. – 2. Concor-
renza gestoria tra organo collegiale e singolo amministratore delegato e potere di avoca-
zione come limiti di estensione applicativa della delega: rapporto tra collegialità dell’or-
gano amministrativo e conferimento di delega. – 3. Studio delle modalità di attuazione
della delega e funzioni, determinazione di contenuto e limiti di esercizio della delega,
analisi della ratio delle attribuzioni indelegabili. – 4. Sindacato dell’attività gestoria (e di-
screzionale) dell’organo delegato e analisi del dovere di diligenza in funzione dell’accer-
tamento della responsabilità dell’amministratore delegato. – 5. Individuazione del rap-
porto tra delega e flussi informativi tra deleganti e delegati all’esito dell’introduzione del
principio dell’agire in modo informato nella gestione della spa.
(1) Sulla delega la dottrina commercialistica è ampia, per un riferimento classico si veda
Fanelli, La delega di potere amministrativo nella società per azioni, Milano, 1952 e Minervi-
ni, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956. Ed inoltre Frè, Società per azioni,
Artt. 2325-2461, in Comm. Scialoja-Branca, 1951, (ora Frè-Sbisà, Della società per azioni, to-
mo I, Artt. 2325-2409, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, 1997, p. 34 ss.; Desario,
La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, Cacucci, 2007, p. 5 ss.; Pesce,
Amministrazione e delega di potere amministrativo nella società per azioni (Comitato esecutivo e
amministratore delegato), Milano, 1969, p. 69; Ferri, Le società, in Tratt. Vassalli, X, tomo III,
Torino, 1987, p. 684; Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze, 1982, p. 132 ss.; Desario,
La gestione delegata nelle società di capitali, Bari, 2007, p. 5 ss.; Barachini, La gestione delega-
ta nella società per azioni, Torino, 2004, p. 82 ss.; Pisani, Le obbligazioni, in Liber amicorum
Gian Franco Campobasso, Torino, 2004, vol. 1, p. 778. Si conviene sul divieto di delega di ta-
lune materie, quale tecnica di corporate governance al fine di rafforzare l’effettività della fun-
zione consiliare, cfr., per una visione comparatistica, Esteban Velasco, La renovación de la
estructura de la administración en el marco del debate sobre el gobierno corporativo, in Aa.Vv.,
El gobierno de las sociedades cotizadas, Esteban Velasco (Coordinador), Madrid-Barcelona,
1999, p. 180; e, nella nostra dottrina, Montalenti, L’amministrazione sociale dal testo unico al-
SAGGI 107
la riforma del diritto societario, in La riforma del diritto societario (Atti del Convegno, Cour-
mayeur, 27-28 settembre 2002), Milano, 2003, p. 73 ss., p. 78 ss.
(2) In tema si legga Desario, L’amministratore delegato nella riforma delle società, in So-
cietà, 2004, p. 940, il quale afferma che: “Sono fin troppo cognite le motivazioni sottese alla
nascita, nonché all’indiscusso successo, della figura dell’amministratore delegato perché
adesso vi si debba ritornare sopra. Nelle più complesse organizzazioni imprenditoriali collet-
tive, nelle quali si registrano corposi investimenti a opera di un numero non trascurabile di
sodali, questi ultimi a ragione ottengono di poter esprimere personalità di propria fiducia nel-
l’organo gestorio, che in conseguenza tende a divenire pletorico e a configurarsi conclusiva-
mente come stanza di compensazione e di ponderazione di un più o meno ampio ventaglio di
interessi e istanze sovente non coincidenti. Ne discende un’articolazione collegiale del detto
organo, non ottimale sotto il profilo dell’efficienza e della rapidità decisionale, per ovviare al-
la quale si ricorre allora – appunto – alla figura dell’amministratore delegato. Questi si muove
entro uno spazio operativo condizionato dalla latitudine della delega rilasciatagli, nonché dal
legame che sempre continua ad astringerlo all’organo collegiale delegante, non senza il pro-
dursi, quanto meno sotto la vigenza della disciplina or ora profondamente riformata, di gravi
e vicendevoli equivoci, massimamente in punto di responsabilità per gli atti posti in essere e
per gli effetti conseguitine. Mi è spesse volte capitato, nello svolgimento della mia attività pro-
fessionale di avvocato, di assistere a un patetico “scaricabarile” tra amministratori deleganti e
delegati, che, per schivare gli strali delle azioni risarcitorie loro intentate contro, valorizzava-
no, gli uni, proprio la delega accordata e, gli altri, le vincolanti direttive ricevute ai fini dell’e-
spletamento delle funzioni delegate. Ecco, allora, che la nuova regolazione appena entrata a
regime proprio questo obiettivo si prefigge, di contribuire a definire – come recita la relazio-
ne di accompagnamento – un quadro sufficientemente chiaro delle rispettive responsabilità,
di modo che possa non doversi più assistere al triste spettacolo dei capponi di manzoniana
memoria”. Ed ancora l’autore afferma che: “Per quanto concerne, poi, il potere di impartire
direttive, esso – a ben guardare – è intrinseco e immanente al rilascio stesso della delega. Co-
sa vuol dire, infatti, se non impartire direttive, additare al delegato, come detto, il quomodo
dell’esercizio delle funzioni demandategli? Da un’angolazione prettamente ricostruttiva si
mostra, invece, interessante sottolineare come le direttive eventualmente impartite debbano
stimarsi vincolanti e ciò perché, diversamente, il legislatore non si sarebbe scomodato con
un’espressa previsione. L’autonomia del delegato non ne esce, in ogni caso, dimidiata: ove
egli reputi le direttive ricevute pregiudizievoli e deleterie, vi si atterrà compiendo l’atto ma, fa-
cendo constare a verbale il proprio dissenso e informandone per iscritto il presidente dell’or-
gano interno di controllo, fruirà dello scarico di responsabilità di cui all’ultimo comma del-
l’art. 2392”.
108 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(3) D’Alessandro, Il diritto delle società da “i battelli del Reno” alle “navi vichinghe”, in Fo-
ro it., 1988, V, c. 48 ss.; Mignoli, Interesse di gruppo e società a sovranità limitata, in questa ri-
vista, 1986, p. 753 ss.; Gambino, Responsabilità amministrativa nei gruppi societari, in Giur.
comm., 1993, I, p. 841 ss.; Bin, Gruppi di società e diritto commerciale, in questa rivista, 1990, p.
507 ss.; Salafia, Patologia dei gruppi di società, in Società, 1995, p. 1141 ss.
(4) In tema Cagnasso, Il dovere di vigilanza degli amministratori e “la delega di fatto” tra
norme “vecchie” e “nuove”, in Giur. it., 2004, p. 557 e Id., L’amministrazione collegiale e la dele-
ga, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, 4, Torino, 1991, p. 311.
(5) All’organo amministrativo spetta la gestione della società e cioè l’esercizio di un’atti-
vità continuativa che mal si presta ad essere svolta da un organo collegiale. Di qui la necessità
di delegare, quanto meno in parte, le attribuzioni del consiglio di amministrazione ad uno o
più dei membri di questo, ponendoli in condizione di decidere ed agire in luogo del consiglio:
l’espressione delega vuole appunto significare come il delegato debba supplire con la propria
volontà, la propria decisione e la propria iniziativa a ciò che altrimenti sarebbe compito del
consiglio. V. Minervini, Gli amministratori di s.p.a., Milano, 1956 ed inoltre Frè, Società per
azioni, 1, Artt. 2325-2461, in Comm. Scialoja-Branca, 1951, p. 32 ss.
SAGGI 109
i fatti e gli atti del particolare segmento gestorio delegato. Se si ragiona sul-
l’ultima affermazione, si comprende la ratio dell’esigenza legislativa di un
consenso dei soci alla delega. Questi, infatti, mediante la previsione di un
consiglio di amministrazione per l’esercizio del potere amministrativo,
hanno fatto affidamento sulla responsabilità solidale di tutti gli amministra-
tori, a garanzia del corretto svolgimento dell’attività di gestione.
Di guisa, risultando necessaria ed imprescindibile un’autorizzazione, la
delega non è rimessa ad un atto meramente discrezionale del consiglio di
amministrazione, ma, al contrario, laddove la previsione statutaria manchi,
non vi è possibilità da parte del consiglio di amministrazione di delegare le
proprie funzioni a singoli amministratori (6).
Efficienza della gestione ed efficacia della corporate governance rappre-
sentano il prodromo della prosperità della società per azioni; nell’ottica del-
la tutela endo-societaria, la disciplina della responsabilità costituisce l’ele-
mento di stabile congiunzione tra potere di gestione e risultato della gestio-
ne, ciò al fine di raggiungere sia l’obiettivo prioritario di favorire la nascita,
la crescita e la competitività delle imprese, anche attraverso l’accesso ai
mercati interni ed internazionali dei capitali, e quindi facilitare la valorizza-
zione del carattere imprenditoriale della società, con affermazioni tanto ge-
neriche quanto difficilmente discutibili, sia la prospettiva, meramente pra-
tica, di semplificare la disciplina delle società, tenendo conto delle esigenze
delle imprese e del mercato concorrenziale in ordine alla necessità di am-
pliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di
tutela dei diversi interessi coinvolti, precetto, quest’ultimo, che il legislato-
re trova utile rimarcare proprio in relazione alla disciplina dell’amministra-
zione delle spa, stabilendo che la riforma è diretta ad attribuire all’autono-
mia statutaria un adeguato spazio con riferimento all’articolazione interna
(6) Al riguardo si legga Denozza, Norme efficienti. L’analisi economica delle regole giuridi-
che, Milano, 2002, p. 39 e Guidantoni, La riforma societaria e i nuovi obblighi di informativa:
le comunicazioni infrannuali, in Società, 2004, p. 1352; Fauceglia, Note in tema di rappresen-
tanza nelle società per azioni (nota a Cass. civ., 9 novembre 1983, n. 6621), in Giur. comm., 1985,
II, p. 482; Id., Profili del potere degli amministratori in tema di aumento del capitale sociale (no-
ta a Trib. Palermo, 11 ottobre 1983), in Giur. merito, 1985, p. 626; Ferrari, Opponibilità ai ter-
zi delle limitazioni al potere di rappresentanza (nota a Cass., 8 novembre 2000, n. 14509), in So-
cietà, 4/3001, p. 418. In tema Jaeger, Dell’obbligo degli amministratori di dichiarare alla CON-
SOB le proprie partecipazioni, in Giur. comm., 1985, I, p. 635; Lo Cascio, La responsabilità del-
l’amministratore di fatto di società di capitali, in Giur. comm., 1986, I, p. 189; Salafia, Durata
dell’incarico amministrativo difforme dallo statuto (nota a Trib. Milano, 6 marzo 1986), in So-
cietà, 1986, p. 616 e Id., L’amministrazione delle società di capitali, in Società, 1998, p. 129; San-
tini, Proposte per un’assicurazione “all risks” degli amministratori di società, in Giur. it., 1985,
IV, p. 465.
110 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(7) Cfr. Desario, L’amministratore delegato nella riforma delle società, cit., p. 941 ss.:
“Qualcosa, in effetti, si mostra ancora non completamente condivisibile e, quindi, suscettibi-
le di perfezionamento. Penso ad esempio, al reporting cadenzato ogni sei mesi, che è lasso
temporale obiettivamente significativo, nel quale, a motivo di insistite operazioni dissennate,
può registrarsi l’affossamento delle sorti delle imprese anche più floride e pingui. Sarebbe poi
stato probabilmente meglio se i deleganti avessero dovuto non solo esaminare bensì pure ap-
provare i piani. Immagino, infatti, piani non condivisi dal consiglio di amministrazione, che
addirittura si spinga a esigerne talune modifiche, tuttavia non accettate da un testardo e per-
vicace delegato. All’evidenza s’ingenera una situazione deleteria di stallo, cui si ovvierà esclu-
sivamente attraverso la revoca della delega a suo tempo accordata o, quanto meno, mediante
l’estemporaneo riassorbimento di essa da parte dell’organo collegiale. Non v’è dubbio, però,
che nell’interregno la società, in quanto sprovvista di piani di riferimento, sarà a rischio di
sbandamento. Al di là di queste menome critiche, non è chi non veda come tutta la nuova im-
palcatura poggi – assai positivamente – sul flusso informativo che deve scorrere dai delegati
(ivi compresi gli “irregolari”) verso i deleganti. Anzi, vi è addirittura di più: la circolarizzazio-
ne delle informazioni tra delegati e deleganti si mostra cruciale per il dimensionamento del-
l’ambito di eventuale responsabilità dei deleganti. Nel vecchio sistema questi rispondevano
dei fatti dannosi compiuti dai delegati, qualora avessero tenuto condotte improntate a culpa
in vigilando; ma oltre questa generica previsione sinceramente non s’andava. Adesso la previ-
sione è confermata, però fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art. 2381 (v. art. 2392,
comma 2°). Ne discende, a mio parere, che il delegante risponde del fatto dannoso del dele-
gato, se, non informatone, non si sia preoccupato comunque di richiedere le notizie dovute-
gli. Il delegante ne risponde anche quando, informatone, dall’informativa la dannosità emer-
geva agevolmente (come potrà appurarsi attraverso l’opera di preziosi consulenti d’ufficio nel
relativo contenzioso) e, ciò nonostante, nulla si sia fatto per porvi rimedio. Escluderei, vice-
versa, ogni addebito allorché l’informativa, effettuata e fruita, nulla lasci trapelare, nel qual
caso la responsabilità non potendosi appuntare che sul solo delegato. In questo senso ragio-
navo poc’anzi di crucialità del flusso informativo. E posso stilizzare ancora di più: – l’infor-
mativa deve esserci (in difetto, l’operato del delegato collocandosi in una luce di discutibilità,
poi facile a scivolare in responsabilità); – essa deve essere completa e, soprattutto, la si deve
saper leggere, estraendone tutte le relative conseguenze, con gli occhiali che possono preten-
dersi – in termini di competenza, perizia e diligenza – dai deleganti; – ipotetiche perplessità
non possono permanere tali, ma vanno fugate attraverso supplementi d’informativa che il de-
legante ha il potere-dovere di richiedere, in funzione del suo agire informato (e cfr. l’art. 2381,
ult. cpv.)”.
SAGGI 111
storia anche al di fuori del procedimento formale dell’art. 2381 c.c. e la legit-
timità delle disposizioni statutarie o della determinazione assembleare che
eccedessero il limite del semplice consenso indicato dall’art. 2381 c.c. (8).
Atteso il fondamento dogmatico della delega, quale forma di autorizza-
zione consiliare, è certo, in linea di principio, che i delegati non possono
agire se non vi sia una preventiva investitura degli altri, dato che questi a lo-
ro volta di regola non interferiscono nelle determinazioni di carattere ope-
rativo assunte dai membri delegati (9).
La vastità dell’area relazionale tra le diverse articolazioni interne del-
l’organo amministrativo necessita, ad indiscutibile evidenza e nonostante
l’assenza di alcuna prescrizione normativa pre riforma, dell’adozione di un
sistema di necessarie informazioni di cui disporre da parte degli ammini-
(8) Si legga Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, dalla Collana Quaderni
del Dipartimento di Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Salerno, Napoli, 2006, p.
199 ss. e Id., Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi 3°
e 5°, del c.c., in Giur. comm., 2006, p. 6. L’a. sostiene che “si percepirà quanto sia mutato il qua-
dro raffigurante l’organizzazione interna della società per azioni ed in particolare quanto sia
valorizzato il potere degli amministratori e quanto cambieranno contenuto e confini della re-
sponsabilità di questi e dell’impresa-società.” Ed ancora: “Con l’art. 2381 la legge non si ac-
contenta di imporre all’impresa – come pure è accaduto sovente in passato – una data forma
ovvero di prescrivere minimi di capitale sociale ovvero ancora di imporre la tenuta di deter-
minate scritture contabili, ma interviene per incidere sulle concrete modalità di organizza-
zione interna dell’attività d’impresa, che è campo tradizionalmente lasciato all’autonomia de-
cisionale dell’imprenditore”.
(9) In argomento si veda Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., in
Società, 2004, per il quale: “La recente riforma societaria ha confermato, nell’ambito del mo-
dello tradizionale di amministrazione, la facoltà del consiglio di amministrazione di delegare
in tutto, nei limiti espressamente indicati dall’art. 2381, comma 4°, c.c., o in parte le proprie
funzioni a singoli propri componenti o a gruppi dei suddetti componenti, che la legge deno-
mina, rispettivamente, amministratori delegati o comitati esecutivi. Tuttavia, la suddetta fa-
coltà viene subordinata all’espressa previsione statutaria o al consenso dell’assemblea,
espresso o in occasione dell’elezione del consiglio di amministrazione o successivamente,
mediante specifico intervento (cfr. art. 2381, comma 2°, c.c.). La stessa facoltà viene ricono-
sciuta al consiglio di gestione, nominato dal consiglio di sorveglianza, nell’ambito del sistema
alternativo di amministrazione e controllo regolato dagli artt. 2409 octies ss., c.c., senza tutta-
via subordinarla alla previsione statutaria o al consenso assembleare. Lo statuto o l’assemblea
potrebbero, però, non attribuire espressamente al consiglio di gestione la facoltà di delega, di
cui si tratta, dato che all’autonomia dei soci questo potere può essere riconosciuto in quanto
non contrasta con alcun interesse generale. Per quanto riguarda il modello alternativo di am-
ministrazione e controllo cosiddetto monistico, l’art. 2409 noviesdecies richiama, fra le norme
applicabili, l’intero art. 2381 e, quindi, riconosce al consiglio di amministrazione il potere di
delegare le proprie funzioni con gli stessi limiti, che la norma richiamata indica con riferi-
mento al modello tradizionale di amministrazione”.
112 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(10) Cfr. Cass., 28 gennaio 1997, n. 1427, la cui massima sostiene che “l’amministratore di
società (ovvero l’amministratore delegato) di s.p.a. ex art. 2384 c.c. è titolare del potere di ge-
stione nonché del potere di rappresentanza per tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale,
e quindi di compiere quell’attività economica che la società si propone per ritrarne un utile. E
tale attività necessariamente comprende ogni azione che tenda al raggiungimento del fine di
vantaggio economico rientrante nell’oggetto sociale, compreso quindi il potere di presentare
querela a tutela di posizioni patrimoniali dell’ente. Sicché non necessita, al predetto scopo, la
preventiva deliberazione del consiglio di amministrazione”.
(11) In materia si veda Santagata, Del mandato. Disposizioni generali. Artt. 1703-1709, in
Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1985, p. 3 ss.; Scardulla, voce Interposizione di perso-
na, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1972, p. 143 ss.; Settesoldi, Il mandato ad acquistare e ad
alienare in Alcaro, (a cura di), Il mandato, Milano, 2000, p. 68 ss.; Tilocca, Il problema del
mandato, in Riv. trim. civ., 1969, p. 872 ss.; Visalli, In tema di acquisti del mandatario (art. 1706
c.c.), in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 73 ss. Sul tema del rapporto di cooperazione tra organo ammi-
nistrativo e società cfr. Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, 5a ed., vol. III,
Torino, 1958, p. 54 ss.; Battaglia, Rilievi critici in tema di mandato e regime di circolazione dei
beni giuridici, in Giust. civ., I, 1995, p. 2166. In tema Pugliatti, La rappresentanza indiretta e la
morte del rappresentante (1953), ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 449; Id., Ri-
levanza del rapporto interno nella rappresentanza indiretta (1959), ora in Studi sulla rappresen-
tanza, Milano, 1965, p. 458. Cfr. Colombatto, Patto bilaterale d’interposizione e suoi effetti nei
confronti del terzo contraente, in Riv. dir. comm., 1981, II, p. 71 ss.; De Angelis, Trust e fiducia
nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 353 ss.; Id., voce Fiduciaria (Società), in
Digesto delle Discipline Privatistiche. Sezione commerciale, vol. VI, Torino, 1991, p. 91; De Lo-
renzi, Il mandato alla luce dell’analisi economica del diritto, in questa rivista, 1993, p. 965 ss.;
Carbone, “Pactum fiduciae” ed interposizione reale, in Corr. giur., 1993, p. 855 ss.; Caredda,
Intestazione fiduciaria di quote di s.r.l. e mandato, in Banca borsa e tit. cred., 1994, II, p. 540 ss.;
Carnevali, Intestazione fiduciaria, in Irti (a cura di), Dizionari del diritto privato, tomo I, Dirit-
SAGGI 113
to civile, Milano, 1980, p. 457. Cfr. in tema Salamone, La c.d. proprietà del mandatario, in Riv.
dir. civ., 1999, p. 77 ss.; Salafia, Note in tema di mandato conferito dai fiducianti a società fidu-
ciaria, in Giust. civ., 1999, I, p. 2641 ss. Cfr. Papanti, Pelletier, Rappresentanza e cooperazione
rappresentativa, Milano, 1984, p. 180; Id., (a cura di), Codice civile annotato con la dottrina e la
giurisprudenza, vol. I, Napoli, 1991, p. 10 ss.; Id., Introduzione alla problematica della « pro-
prietà », Camerino, 1971, p. 203. Id., Manuale di diritto civile, Napoli, 1997, p. 71. E infine Per-
segani, Trimarchi, Acquisti di beni mobili del mandatario, in Giur. merito, 1994, p. 393; Mon-
talenti, Il contratto di commissione, in Cottino, (a cura di), Contratti commerciali, vol. XVI del
Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., Padova, 1991, p. 554 ss. Conf. Maccarone, Considera-
zioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, in questa rivista, 1998, p. 627;
Mari, Interposizione fittizia e reale, in Foro pad., 1992, I, c. 413; Marino, Riorganizzazioni perso-
nali internazionali, trusts ed elusione fiscale, in Riv. dott. comm., 1998, p. 29. In tema si legga, an-
che, Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano, 1968, p. 5 ss. Da ul-
timo, si veda Graziadei, Mandato, in Riv. dir. civ., 1997, II, p. 147 ss.; Id., voce Mandato, in Di-
gesto discipline privatistiche. Sezione Civile, vol. XI, Torino, 1994, p. 154 ss.; Id., voce Mandato in
diritto comparato, in Digesto discipline privatistiche. Sezione civile, vol. XI, Torino, 1994, p. 192 ss.
(12) In tema Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit.,
p. 5 ss. Cfr., in giurisprudenza, Trib. Firenze, 15 febbraio 2005, in Giur. merito, 2007, c. 397: “di
fronte all’inerzia dell’amministratore delegato rispetto alle direttive, da lui conosciute, essen-
ziali al proficuo ed efficace svolgimento del ruolo di direzione unitaria da parte della società
capogruppo, il rapporto tra quest’ultima e il primo può incrinarsi, fino a condurre alla revoca
dell’amministratore stesso fatta secondo criteri di giusta causa”. Ed ancora App. Milano, 21
gennaio 1994, in Società, 1994, p. 923: “I componenti del consiglio di amministrazione di una
società di capitali, i quali abbiano delegato la funzione amministrativa ad uno di loro stessi,
non si privano delle funzioni delegate e possono quindi sempre dare istruzioni al delegato,
con la conseguenza che, ove abbiano omesso di vigilare ed intervenire con ragionevole tem-
pestività sull’operato del delegato, rispondono del danno provocato al patrimonio sociale dal-
la gestione di quest’ultimo, che essi avrebbero potuto evitare”.
114 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(13) La l. 11 agosto 1973, n. 533, che ha disciplinato il processo del lavoro nel nostro ordi-
namento, ha introdotto una nuova figura di rapporto di lavoro, distinto sia dal rapporto di la-
voro subordinato che dal contratto d’opera. Si tratta dei cd. rapporti di collaborazione che, se-
condo l’art. 409, n. 3, c.p.c., si concretano in una prestazione d’opera continuativa e coordina-
ta prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato. Ancor prima la l. 14 lu-
glio 1959, n. 741 (norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e norma-
tivo ai lavoratori), all’art. 2 indicava anche i rapporti di collaborazione che si concretino in pre-
stazioni d’opera continuativa e coordinata degni di tutela. Una parte della dottrina riconduce
a tale figura non qualsiasi rapporto di collaborazione caratterizzato dagli elementi ivi indicati
ma soltanto quelli in cui il prestatore di lavoro possa apparire come debole: non, ad esempio,
i rapporti di alta consulenza. Rimarrebbero così soggette alla tutela in discorso le prestazioni
di lavoro che presentino un tratto in comune con quelle rese in regime di subordinazione.
(14) Cfr. Cass., 2 marzo 1999, n. 1726, in Giust. civ. 1999, c. 1354: “La qualifica di lavorato-
re subordinato non è compatibile con quella di amministratore delegato di società di capitali,
né con quella di amministratore che abbia comunque la titolarità effettiva di tutto il potere ge-
stionale (nella specie, in quanto appartenente alla famiglia azionista di riferimento della so-
cietà controllante la società amministrata), non essendo configurabile il vincolo di subordi-
nazione ove manchi la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e di-
sciplina, escluso dall’immedesimazione in un unico soggetto della veste di esecutore della
volontà sociale e di quella di organo competente ad esprimerle; con la conseguenza che la
competenza a conoscere dell’azione sociale di responsabilità proposta nei confronti dei pre-
detti amministratori spetta in primo grado al tribunale ed in secondo grado alla Corte d’ap-
pello, non al giudice del lavoro”.
SAGGI 115
espressamente dall’art. 2381 c.c., e prescritte come non delegabili: non pos-
sono essere delegate la redazione del bilancio (art. 2423 c.c.), la facoltà di
aumentare il capitale (art. 2443 c.c.) nonché le incombenze attribuite agli
amministratori in caso di riduzione del capitale sociale per perdite (art. 2446
c.c.) o al di sotto del limite legale (art. 2447 c.c.), materie che il dato norma-
tivo, attesa la rilevanza societaria delle evenienze per la vita e la crescita del-
la società, riserva inderogabilmente all’organo consiliare nella sua interez-
za, vietandone la delegabilità a uno o più amministratori e richiedendo
dunque che, nelle indicate situazioni, tutti gli amministratori operino in
modo collegiale.
La previsione determinativa della delegabilità dei poteri ad un singolo
amministratore (delegato), geneticamente presente nell’atto costitutivo o
inserita in seguito con deliberazione assembleare che introduca nello statu-
to sociale la facoltà di delega, consente al consiglio di amministrazione di
valutare l’opportunità della delega nonché la sua ampiezza, determinando i
modi di operatività dell’organo delegato.
All’esito della valutazione da parte dell’organo consiliare nel senso del-
la traduzione effettiva in una delibera di delega, tale delega di funzioni am-
ministrative al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori determina
la nascita di un ulteriore organo della società dotato di competenza concor-
rente con quella del consiglio di amministrazione, di modo che quest’ulti-
mo non viene privato delle funzioni che sono oggetto di delega (15).
(15) In tema Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, in So-
cietà, 2005, p. 711 ss., il quale sostiene che: “I compiti del consiglio di amministrazione non si
esauriscono alla costituzione dell’organo delegato ed alla nomina del suo titolare, perché, co-
me risulta dal terzo comma del novellato art. 2381 c.c., il consiglio di amministrazione deter-
mina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega. Inevitabile, come
si vede, è la determinazione del contenuto e dei limiti della delega, mentre è facoltativa la fis-
sazione delle modalità di esercizio della stessa. Vigente la disciplina pregressa, l’art. 2381 c.c.
richiedeva unicamente la determinazione dei limiti della delega. Sembra giusto che la delibe-
razione consiliare si occupi, innanzitutto, del contenuto della delega, da formare, ovviamen-
te, attingendo all’insieme dei poteri consiliari che risultano delegabili. In concomitanza al-
l’individuazione del contenuto, sono da fissare, come sempre, i limiti della delega, ed ora an-
che – se si vuole – le modalità per il suo concreto esercizio da parte di ciascun delegato. In de-
finitiva la delega è da modellare secondo le necessità operative della società. In ordine al con-
tenuto ed ai limiti della delega, dalla lettura del novellato congegno normativo si evince che,
seguendo un indirizzo osservato in precedenza (per la parte dei limiti) il legislatore della ri-
forma societaria non ha sentito la necessità di specificare quali attribuzioni possono formare
oggetto di delega, compito, peraltro, quanto mai arduo in relazione all’estrema varietà dei
compiti che si incontrano sol che si prendano in attento esame le attività di un limitato nu-
mero di consigli di amministrazione. Molte sono le circostanze che influiscono sulle scelte
per il contenuto ed i limiti, in sostanza per la divisione del lavoro fra consiglio nel suo com-
116 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
plesso e singoli amministratori delegati. Nella grande maggioranza dei casi, ha maggior peso
il contenuto della delega o delle deleghe rispetto a quello che il consiglio avoca alla sua col-
lettiva competenza. Questa “esuberanza” dei poteri delegabili è stata tenuta presente dal legi-
slatore, che, al posto di indicare i (molti) poteri delegabili, si è soffermato sui (pochi) poteri
non delegabili. Le materie non delegabili formano oggetto di un apposito paragrafo nel se-
guito della presente trattazione. All’amministratore che diventa delegato, dunque, il consi-
glio di amministrazione attribuisce una parte più o meno notevole dei propri poteri, quali si
desumono dallo statuto e dalle deliberazioni assembleari, poteri che sono ad un tempo di ca-
rattere decisionale o di rappresentanza. Ne discende che l’attività dell’amministratore dele-
gato si colloca sullo stesso piano di quella del consiglio di amministrazione (tutti i compiti, in-
fatti, appartengono alla stessa matrice). Ed egli, entro i limiti della delega ricevuta, ha piena li-
bertà di muoversi nel modo ritenuto più opportuno ma conveniente nell’interesse della so-
cietà, come, d’altronde, il consiglio nella sua interezza ed i singoli amministratori, ancorché
non delegati, che lo compongono. In altre parole, non esiste una subordinazione fra l’ammi-
nistratore delegato ed il consiglio di amministrazione, proprio perché il primo è investito di
facoltà che sono del secondo. È da tener presente, tuttavia, che dal consiglio “derivano” i po-
teri che portano all’operatività dell’amministratore delegato. Il consiglio, sotto questo profi-
lo, si pone quanto meno nella posizione di “primus inter pares”, circostanza che si è accentua-
ta attraverso la riforma societaria in quanto dal consiglio non deriva soltanto il conferimento
di poteri; dal terzo comma dell’art. 2381 c.c., infatti, risulta che il consiglio può sempre impar-
tire direttive agli organi delegati, quindi all’amministratore delegato. Questo rende più com-
posito il quadro operativo, ma non è capace di alterare la natura del rapporto tra il consiglio e
l’amministratore delegato, che è profondamente diverso rispetto al rapporto intercorrente fra
l’amministratore delegato ed i dirigenti della società, i quali – pur esercitando anch’essi un’a-
zione direttiva e godendo di una certa libertà di decisione e di iniziativa – sono pur sempre dei
prestatori di lavoro subordinato”.
(16) Cfr., in tema, ancora, Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli compo-
SAGGI 117
nenti, cit., p. 713: “Pur disponendo di un’ampia latitudine discrezionale, il legislatore delegato,
nel complesso, si è allontanato di poco dalla pregressa regolamentazione dell’attività gestoria,
relativamente alla definizione del modello tradizionale di governance (così è denominato dal-
la relazione governativa di accompagnamento al testo divenuto il d.lgs. n. 6/2003). Le disposi-
zioni sugli amministratori (si è ora nel comparto delle s.p.a.) sono contenute in uno dei sei pa-
ragrafi che formano la Sezione VI bis del Capo V, intitolata “Dell’amministrazione e del con-
trollo”; il par. 2 è dedicato agli amministratori secondo tale configurazione. L’art. 2380 bis, di
apertura, racchiude le regole generali: vengono confermate alla lettera alcune norme del so-
stituito art. 2380 c.c. e precisamente: a) possibilità che l’amministrazione possa essere affidata
anche a non soci; b) possibilità che l’amministrazione sia affidata ad un amministratore unico
o a più amministratori, i quali, in tal caso, costituiscono il consiglio di amministrazione; c) po-
tere dell’assemblea di determinare, al momento della nomina, il numero degli amministrato-
ri, se lo statuto ne indica solo un numero massimo e minimo. Il c.c. del 1942 usava la locuzio-
ne “atto costitutivo”, ma la modifica è da mettere in rapporto al maggior rilievo dato dalla ri-
forma allo statuto come corpus di regole per il corretto funzionamento dell’organismo socie-
tario; il terzo ed ultimo comma dell’art. 2328 c.c., infatti, dopo aver affermato che lo statuto
contenente le norme relative al funzionamento della società, anche se forma oggetto di atto
separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo, stabilisce che in caso di contrasto tra
le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde; d) potere del con-
siglio di amministrazione di nominare il proprio presidente tra i suoi componenti (il testo del
c.c. del 1942 usava il termine “membri”), quando la nomina non sia avvenuta ad opera dell’as-
semblea dei soci. È decisamente innovativa – anche se manifesta principi già affermati – la re-
gola esposta nel primo comma dell’art. 2380 bis, secondo la quale la gestione dell’impresa (rec-
tius: della società) spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni
necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. Non si leggeva tale regola nell’art. 2380 c.c. del
previgente regime. La relazione governativa ne dà esplicita conferma, precisando che: – la ge-
stione dell’impresa sociale spetta in via esclusiva agli amministratori (art. 2380 bis, comma 1°,
c.c.), i quali hanno poteri di gestione estesi a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale (art.
2380 bis, comma 1°, c.c.) e una rappresentanza generale per tutti gli atti compiuti in nome del-
la società (art. 2384, comma 1°, c.c.); – lo statuto o l’atto di nomina o di delega possono limita-
re in vario modo questi poteri di gestione o di rappresentanza, o entrambi, anche prevedendo
una dissociazione tra rappresentanza generale (ad esempio attribuita al presidente) e poteri di
gestione (ad es. attribuiti al consiglio, al comitato esecutivo o ad amministratori delegati). La
previsione del comma 1° dell’art. 2380 bis, c.c., non ha soltanto una funzione descrittiva dei
compiti degli amministratori, ma rende l’attività gestoria un dovere previsto e delineato dalla
legge. Fatte queste constatazioni, non possiamo andare oltre nell’analisi dell’art. 2380 bis, c.c.,
di natura propedeutica e programmatica; abbiamo visto a sufficienza la parte che serve per af-
frontare la problematica delle deleghe. È fondamentale, al riguardo, l’art. 2381 c.c., su presi-
dente, comitato esecutivo e amministratori delegati. È un insieme di regole di grande rilevan-
za, in linea con quella – vero e proprio principio base – secondo la quale la gestione intesa co-
me attuazione dell’oggetto sociale è di esclusiva spettanza dell’amministratore o degli ammi-
nistratori (gestione unipersonale e gestione collegiale). L’art. 2381 c.c. ha il pregio di definire i
compiti del presidente (comma 1°), di occuparsi con larghezza della problematica delle dele-
ghe (commi 2°, 3° e 4°) e di stabilire delle correnti di informazioni, in particolare dagli organi
delegati verso gli amministratori deleganti ed il collegio sindacale”.
118 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(17) Cfr. Rovelli, Limiti alla delega di poteri amministrativi (nota a Trib. Bologna, 10 otto-
bre 1989, - decr.), in Società, 12/1989, 1319; Salafia, Durata dell’incarico amministrativo
difforme dallo statuto (nota a Trib. Milano, 6 marzo 1986), in Società, 6/1986, p. 616; Id., L’am-
ministrazione delle società di capitali, in Società, 2/1998, p. 129; Santini, Proposte per un’assi-
curazione “all risks” degli amministratori di società, in Giur. it., 1985, IV, p. 465; Cabras, L’am-
ministratore - dipendente nelle società per azioni, in Cons. impresa, 1987, p. 1341; Calandra
Buonaura, Amministrazione bipersonale, metodo collegiale e clausola di prevalenza del voto del
presidente (nota a Trib. Milano, 18 luglio 1984), in Giur. comm., 1985, II, p. 653.
(18) Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p. 716: “Con
riferimento all’art. 2381, comma 6°, c.c., si nota il ricorso ad una soluzione intermedia per il
SAGGI 119
Di guisa, sembra corretto ritenere che esista ampia autonomia dei soci o
del consiglio d’amministrazione nella determinazione delle modalità di
esercizio del potere delegato. Non basta, l’ammissibilità della modalità di
esercizio disgiunto del potere delegato risulta rafforzata dalla considerazio-
ne, logico-pratica prima che giuridica, che la continuità della gestione socia-
le è garantita dalla competenza concorrente del consiglio e dai poteri di vi-
gilanza e di intervento normativamente previsti (19).
II, p. 562. Cfr. in arg. Desario, Numero degli amministratori e clausola di stile, in Riv. dir.
comm., 1991, II, p. 42; Ferraro, Le delibere del Consiglio di amministrazione, in Società,
11/1983, p. 1368; Id., Rapporto di amministrazione e rapporto di lavoro subordinato: un proble-
ma ancora molto discusso, in Nuovo dir., 1985, p. 317; Id., Variazione della composizione del-
l’organo amministrativo in sede di assemblea ordinaria di s.r.l., in Le Società-Casi e questioni,
1990. Ancora Pacchi Pesucci, Gli amministratori di società per azioni nella prassi statutaria,
in Riv. soc., 1974, p. 606; Piccini, Evoluzione delle idee sull’amministrazione delle società - Le re-
sponsabilità degli amministratori e dei principali azionisti di una società, in Rass. forense, 1981,
p. 461; Portale, Postille in tema di competenza a variare il numero degli amministratori di s.p.a.
nel corso del “primo triennio”, in Giur. comm., 1990, II, p. 458.
(20) “Dato che la legge (art. 2381, comma 2°, c.c.) non impone che la delega delle attribu-
zioni proprie del consiglio di amministrazione debba necessariamente essere disposta in fa-
vore del comitato esecutivo, la delibera consiliare adottata a maggioranza che attribuisca de-
leghe gestorie ad uno o più amministratori delegati non può ritenersi per ciò stesso contraria
al precetto dell’art. 1375 c.c., quand’anche questa delibera contempli ulteriori rimunerazioni
per i consiglieri titolari di particolari cariche”, così Trib. Roma, 18 dicembre 2006, in Riv. dir.
comm., 2007, p. 133.
SAGGI 121
(21) Cfr. Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., 1376, il quale so-
stiene che: “La delegazione delle funzioni proprie del consiglio di amministrazione è un isti-
tuto classico del nostro ordinamento, e non solo di esso, elaborato allo scopo di conciliare
l’interesse dei soci ad una direzione collegiale della gestione dell’impresa con quello dell’effi-
cienza e duttilità della direzione stessa. È, infatti, evidente che la collegialità della gestione
delle imprese, se risponde all’esigenza di adeguata ponderazione delle decisioni, ne ostacola
la tempestività; donde, la delega ad organismi più semplici e più rapidi nella decisione serve,
appunto, per correggere la necessaria lentezza della direzione collegiale dell’impresa. Nella
prassi societaria, però, l’istituto è stato in passato spesso utilizzato per deresponsabilizzare il
consiglio e trasferire sui delegati tutta intera la responsabilità per le scelte gestionali e per la
loro attuazione, trascurando l’interesse dei soci. Questi, infatti, nel consentire al consiglio di
delegare in tutto o in parte le proprie funzioni, non intendeva privarsi dei benefici della dire-
zione collegiale della gestione, ma solo rendere più agile la direzione stessa, nell’intesa che, in
ogni caso, il consiglio avrebbe dovuto sovrintendere alla gestione dei delegati, dirigendoli e
sorvegliandoli. Nell’ordinamento precedente, l’art. 2392 aveva scarnamente disciplinato il
predetto interesse dei soci in relazione al predetto modello di amministrazione collegiale, di-
sponendo solo che gli amministratori non operativi dovevano vigilare sull’andamento gene-
rale della gestione; formula precettiva questa ambigua e suscettibile di interpretazioni anche
opposte fra di loro. Nella prassi corrente, la formula veniva interpretata anche nel senso che il
consiglio dei deleganti attendeva alla fine di ogni esercizio un resoconto dei delegati sul qua-
le esprimeva le proprie valutazioni, rinunciando in tal modo sostanzialmente a quella funzio-
ne di indirizzo, che la legge e i soci, invece, all’intero consiglio attribuivano”.
122 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
nistratore delegato dovrà attenersi senza peraltro che si possa affermare per questo che l’am-
ministratore delegato sia subordinato al consiglio o che si verifichi in tale ipotesi una revoca
parziale della delega”.
(24) Cfr. Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p. 715:
« Appare pienamente giustificata la scelta del legislatore con la formula, riferita al consiglio di
amministrazione, “può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé opera-
zioni rientranti nella delega”, sol che si abbia presente quanto viene dopo nello stesso art.
2381 c.c., cioè “sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto orga-
nizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strate-
gici, industriali e finanziari della società; valuta sulla base della relazione degli organi delega-
ti, il generale andamento della gestione”. Alla luce di questo innovativo corpus di norme, nes-
sun dubbio può sorgere in merito al ruolo sovraordinato del consiglio rispetto al delegato. Il
consiglio “valuta” l’andamento della gestione: ne può derivare un’iniziativa o nel senso di in-
tervento diretto o di istruzioni al delegato. Il legislatore ha utilizzato la parola “valuta”, inve-
ce di “vigila”, per indicare l’attività compiuta dal consiglio di amministrazione con riguardo
alla sorveglianza sugli atti degli organi delegati. Gli estensori del testo dell’art. 2381 c.c. han-
no, nel corso dei lavori della commissione ministeriale, ragionato nel senso che occorresse
restringere le affermazioni di responsabilità dei delegati, ove sganciata dall’effettivo concorso
della condotta causativa del danno. Si è quindi ritenuto che l’obbligo di vigilanza sugli organi
delegati fosse troppo gravoso e che, invece, la mera valutazione dell’altrui attività (sia essa la
predisposizione dell’organizzazione societaria o il generale andamento della gestione) potes-
se meglio delineare il dovere residuale, ma ugualmente importante, dell’organo delegante ».
124 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(25) In argomento si veda Marulli, La delega gestoria tra regole di corporate governance
e diritto societario riformato, in Giur. comm., 2005, p. 85 ss.: “Il giudizio non è tuttavia propria-
mente puntuale se si resta nel quadro previsionale descritto dall’art. 4, comma 8°, lett. a), da-
to che in questo ambito il mandato affidato al legislatore delegato riguarda solo “contenuti e
limiti” della delega gestoria, mentre per ogni altro aspetto e segnatamente per quel che attie-
ne al funzionamento dell’organo amministrativo e alla circolazione delle informazioni al suo
interno dovrebbe probabilmente riprendere quota il voto di principio in favore dell’autono-
mia statutaria; e ciò tanto più se, esegeticamente, si convenga sul fatto che mentre l’indica-
zione concernente i “contenuti” della delega potrebbe forse rivestire una qualche portata in-
novativa, ove si fosse pensato al contenuto della delega come a qualcosa di diverso dalle ma-
terie oggetto di essa, non altrettanto si potrebbe dire per i “limiti”, posto che quello dei limiti
era, a ben vedere, nel previgente regolamento dell’art. 2381 l’unico aspetto della delega dei
poteri di amministrazione di cui il legislatore del ‘42 si era compiutamente occupato. Questo
giudizio diviene però meno discutibile non appena si allarghi il raggio di osservazione oltre il
principio citato e si passi a considerare, giusta quanto si è più sopra osservato a proposito del
reticolo motivazionale che sta alla base della rinnovata disciplina della delega gestoria, il ruo-
lo che vi giocano altri due principi dettati dalla l. n. 366 del 2001 in tema di amministrazione
della società. [. . .] Nondimeno, come ben avvertito dallo stesso legislatore delegato in sede di
attuazione del principio, l’agire in modo informato diviene altresì l’indefettibile postulato di
una sana amministrazione delegata: una volta abbandonata l’incerta frontiera della vigilanza
sul generale andamento della gestione sociale, la conservazione in capo agli amministratori
non esecutivi di una responsabilità solidale ad opera dell’art. 2392, comma 2°, nel testo scatu-
rito dalla riforma, presuppone e rende in qualche modo perfino necessario, restando altri-
menti la sanzione della responsabilità fine a se stessa, che gli amministratori che non parteci-
pino alla gestione sociale siano tuttavia posti in condizione di poter disporre di ogni utile
informazione riguardo all’andamento della società, della gestione, infatti, potendo pur sem-
pre essere chiamati a rispondere anche in base al novellato art. 2392, comma 2°”.
(26) In tema Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p.
SAGGI 125
715: “È chiaro che, sul piano pratico, l’esercizio concorrente, da parte del consiglio, di funzio-
ni oggetto di delega deve avere il requisito dell’occasionalità, non della sistematicità, per non
causare delle ripercussioni deleterie sullo stato d’animo e sul comportamento del delegato.
Soltanto argomenti particolarmente complessi, pertanto, saranno avocati a sé dal consiglio,
naturalmente avvertendo, nel contempo, il delegato, anche perché non si formino indirizzi
difformi sulla medesima materia o addirittura decisioni contrastanti. In determinati casi, può
essere stimato conveniente dallo stesso delegato deferire al consiglio l’esame del problema e
la conseguente decisione”.
(27) Cagnasso, Il dovere di vigilanza degli amministratori e “la delega di fatto” tra norme
“vecchie” e “nuove”, in Giur. it., 2004, p. 558: “La disciplina relativa alla circolazione tra dele-
ganti e delegati sembra quindi articolarsi su due piani. Un primo – di base e constante – che
prevede un obbligo di informazione, secondo certe modalità e con un contenuto determina-
to, dai delegati nei confronti dei deleganti. Un secondo piano – di carattere integrativo e con
modalità variabili caso per caso – che introduce il potere-dovere dei deleganti di richiedere ul-
teriori informazioni ai delegati”.
(28) Si legga Minervini, Gli interessi degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2006, p.
147; Macri’, A proposito di rapporto amministratori-società: la c.d. parasubordinazione (nota a
Cass., 14 dicembre 1994, n. 10680), in Società, 5/1995, p. 635; Menghini, L’amministratore del-
la società può essere lavoratore subordinato della stessa?, in Società, 7/1982, p. 774; Cacchi
Pessani, Corporate governance, sistema dei controlli e intermediari reputazionali negli Stati Uni-
ti d’America, in Giur. comm., 2003, 746; Ambrosini, L’amministrazione e i controlli nella società
126 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
per azioni, in Giur. comm., 2003, p. 308; Caselli, Elogio, con riverse, del collegio sindacale, in
Giur. comm., 2003, p. 251; Salodini, Il parere del collegio sindacale in merito alla revoca dell’in-
carico di revisione contabile nelle società quotate, in Giur. comm., II, 2004, p. 416. Cfr. Lener, La
diffusione delle informazioni “price sensitive” fra informazione societaria e informazione riserva-
ta, in Società, 1999, p. 142 ss. In generale sul tema delle comunicazioni societarie Annunzia-
ta, La nuova disciplina delle comunicazioni societarie al pubblico e alla Consob, in Società,
1999, p. 520 ss.
(29) In tema Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., p. 1330:
“Tuttavia, nella riforma la base normativa di questo coinvolgimento non è più costituita dal-
la generica norma contenuta nel vecchio testo del secondo comma dell’art. 2392 c.c., secondo
la quale il consiglio delegante era solidalmente responsabile dei danni causati dai delegati, se
non avessero vigilato sul generale andamento della gestione, ma dal nuovo testo dello stesso
comma. Questo ora dispone che, fermo quanto disposto dal terzo comma dell’art. 2381, i
componenti del consiglio delegante sono solidalmente responsabili con i delegati se, essendo
a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il com-
pimento o per attenuarne o eliminarne le conseguenze. Questa complessa regola, pertanto,
anzitutto afferma la solidale responsabilità del consiglio delegante, esclusa quella dei compo-
nenti che si siano dissociati a norma del terzo comma dell’articolo in esame, a causa del com-
portamento con cui hanno approvato quanto i delegati hanno periodicamente comunicato, in
tema di piani strategici o di affari rilevanti, la cui attuazione ha arrecato danni alla società o ai
SAGGI 127
soci o ai creditori o ai terzi. Inoltre, aggiunge che la stessa solidale responsabilità potrà deri-
vare dal fatto che, conoscendo fatti pregiudizievoli, quindi non solo atti dei delegati ma anche
fatti attinenti alla gestione dell’impresa, non siano intervenuti per eliminarne o attenuarne gli
effetti. Mi pare ovvio che l’intervento correttivo può essere preso solo dal consiglio e non dai
componenti individualmente, che non ne avrebbero la competenza e il potere; con l’effetto
che l’eventuale condotta omissiva del consiglio, con la relativa responsabilità per non aver
impedito il danno derivante dai predetti fatti pregiudizievoli o per non aver contribuito ad eli-
minarne o attenuarne le conseguenze, non potrà essere ascritta a quello dei componenti che
si sia dissociato nel modo formale sopra indicato”.
(30) Si veda Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, in So-
cietà, 6/2005, p. 709; Guerrera, La società di capitali come formula organizzativa dei servizi
pubblici locali dopo la riforma del diritto societario, in Società, 2005, p. 683; Mancinelli, Prin-
cipi di corretta amministrazione e patrimonio sociale: evoluzione dei controlli?, in Società, 2005,
p. 549. Cfr. Bonazza, Conflitto di interessi dell’ amministratore: conferma o revirement della giu-
risprudenza della Suprema Corte?, in Dir. fall., 1999, II, p. 1032; Borgioli, La delega di attribu-
zioni amministrative, in Riv. soc., 1981, p. 17; Busani, Attribuzione di deleghe in via disgiunta a
una pluralità di amministratori (nota a Trib. Parma, 16 giugno 2000 - decr.), in Società, 2000, p.
1216; Cagnasso, Obbligo di rendiconto e responsabilità dell’amministratore investito di potere
delegato, in Giur. comm., 1977, II, p. 660.
128 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(31) V. Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 20
ss.
(32) Cfr. Trib. Biella, 10 giugno 1996, in Dir. fall., 1996, p. 685: “Manca di poteri l’ammini-
stratore delegato di una s.p.a. che costituisce un pegno sulle azioni della società per garantire
un finanziamento ad altra società del gruppo, sulla base di una deliberazione adottata dall’as-
semblea della società rappresentata dall’amministratore delegato concedente il pegno nella
quale non viene indicato che il finanziamento veniva concesso ad una società diversa. In tal
caso, l’istituto che ha concesso il finanziamento non può essere ammesso al passivo della so-
cietà garante in amministrazione straordinaria. È inefficace sub specie del conflitto di interes-
si la costituzione di una garanzia pignoratizia da parte dell’amministratore delegato di una
s.p.a. su titoli azionari in proprietà di altra società di cui egli sia amministratore unico, me-
diante girata in garanzia ad un istituto finanziario. Qualora l’amministratore delegato abbia
agito nell’ambito dei poteri conferitigli, quindi, senza preventiva deliberazione del consiglio
di amministrazione, trovano applicazione gli artt. 1394 e 1395 c.c.”
SAGGI 129
(33) Cfr., in tema Cass., 14 maggio 2004, n. 9199: “in tema di rappresentanza processuale
delle persone giuridiche che, ai sensi dell’art. 75 c.p.c., spetta al soggetto al quale è conferita a
norma di legge o dello statuto, la capacità di agire o resistere in giudizio in nome e per conto
delle società di capitali, essa è attribuita ai sensi del comma 1° dell’art. 2384 c.c., agli ammini-
stratori che abbiano la rappresentanza esterna, salve peraltro le deroghe stabilite dall’atto co-
stitutivo e dallo statuto, che sono senz’altro opponibili dai terzi, atteso che il principio di cui
al comma 2° dell’art. 2384 c.c. – secondo cui le limitazioni del potere di rappresentanza risul-
tanti dall’atto costitutivo o dallo statuto sono opponibili soltanto se si provi che i terzi abbia-
no agito intenzionalmente in danno della società – ha effetti limitati alla tutela dei terzi e per
certi versi dell’onere gravante sull’amministratore di provare la sussistenza dei poteri spesi.
(La Corte ha cassato la decisione impugnata che, nell’escludere – ai sensi dell’art. 2384, com-
ma 2°, c.c. – l’opponibilità, da parte dei terzi delle limitazioni del potere di rappresentanza de-
gli amministratori risultanti dell’atto costitutivo e dello statuto, aveva ritenuto la capacità pro-
cessuale dell’amministratore delegato della società opponente in virtù di delega del consiglio
di amministrazione della società che gli aveva conferito i poteri di ordinaria amministrazione
con rilevanza esterna, fra i quali rientravano quelli di agire o resistere in giudizio, nonostante
che lo statuto li attribuisse soltanto al presidente)”.
130 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(34) Cfr. Irrera, La supplenza nell’esercizio del potere di rappresentanza nelle società di ca-
pitali (nota a Trib. Torino, 4 giugno 1983; App. Torino, 19 luglio 1983), in Giur. comm., 1984, II,
p. 208; Masucci, Sul potere di rappresentanza degli amministratori di società, in Giur. merito,
1974, I, p. 41; Menarini, Supplenza, rappresentanza sociale, pubblicità a tutela dei terzi (nota a
Trib. Torino, 4 giugno 1983; App. Torino, 20 luglio 1983), in Giur. comm., 1984, II, p. 450.
(35) In tema Galgano, Diritto civile e commerciale, 3a ed., vol. III, Padova, 1999, p. 50 ss.;
Id., Il negozio giuridico, vol. III del Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo con-
tinuato da Mengoni, Milano, 1988, p. 8 ss.; Gambaro, Il diritto di proprietà, vol. VIII, tomo II
del Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo continuato da Mengoni, Milano,
1995, p. 98. Ancora Gambini, Il negozio fiduciario negli orientamenti della giurisprudenza, in
Rass. dir. civ., 1998, p. 849. Ed ancora Gatti, Interposizione reale e interposizione fittizia. (Una
distinzione ancora valida), in Riv. dir. comm., 1974, I, p. 240; Gentili, Interposizione, simula-
zione e fiducia nell’intestazione di quote di società a responsabilità limitata, in Giur. it., 1982, I,
p. 418.
SAGGI 131
(36) In tema si veda Alcaro, Mandato e attività professionale, Milano, 1988, p. 197; Baldi-
ni, Mandato e fiducia. Il trust, in Alcaro (a cura di), Il mandato, Milano, 2000, p. 369 ss. Si legga
Bavetta, voce Mandato (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXV, Milano, 1975, p. 341 ss. Ed inoltre cfr.
Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 2a ed., vol. XV, tomo II del Tratt. dir. civ. it., diretto
da Vassalli, Torino, 1960, p. 232 ss. Cfr. Pugliatti, Sulla rappresentanza indiretta, ora in Studi
sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 400 ss.; Ragazzini, Trust « interno » e ordinamento giuri-
dico italiano, in Riv. not., 1999, p. 279 ss.; Rava, Circolazione giuridica e rappresentanza indiret-
ta, Milano, 1953, p. 119. E, istituzionalmente, Rescigno, Manuale del diritto privato italiano,
11a ed., Napoli, 1997, p. 344 ss.; Rubino, La compravendita, 2a ed., vol. XXIII del Tratt. dir. civ.
e comm., già diretto da Cicu e Messineo continuato da Mengoni, Milano, 1962, p. 150; Sacco,
De Nova, Il contratto, tomo I, Torino, 1993, p. 50 ss.; Sacco, Il possesso, vol. VII del Tratt. dir.
civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo continuato da Mengoni, Milano, 1988, p. 122; Id.,
Principio consensualistico ed effetti del mandato, in Foro it., 1966, I, c. 1385 ss. V. Bile, Il man-
dato. La commissione. La spedizione. Commento agli artt. 1703-1741 del c.c., Roma, 1961, p. 22
ss.; Busato, La figura del trust negli ordinamenti di common law e di diritto continentale, in Riv.
dir. civ., 1992, II, p. 347; Calvo, La proprietà del mandatario, Padova, 1996, p. 12 ss.
(37) Si veda Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, Aggiorna-
mento alla quinta ed. del diritto commerciale 2. Diritto delle società, Torino, 2003, p. 100.
Conformi, Ambrosini, Sub art. 2373, in C .c. commentato, a cura di Alpa, Mariconda, Milano,
2005; Pasquariello, Sub art. 2373, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Pa-
dova, 2005, p. 497; Spagnolo, Sub. art. 2373, in La riforma delle società, a cura di Sandulli,
Santoro, Torino, 2003, p. 321.
132 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
legati sono investiti del potere di compiere non determinati atti, ma tutti gli
atti relativi alle funzioni delegate, e, al riguardo, attesa la non giustapponi-
bilità totale al mandato, non è applicabile l’art. 1708 c.c. che limita il man-
dato generale ai soli atti che non eccedano l’ordinaria amministrazione (38).
Nel caso in cui nello statuto, nell’eventuale delibera assembleare di au-
torizzazione e nella delibera di delega del consiglio di amministrazione non
sia specificato alcunché in merito all’estensione ed ai limiti dei poteri dele-
gati, si ritiene che la delega abbia carattere generale e sia pertanto estesa a
tutti i poteri di gestione di spettanza del consiglio di amministrazione, ecce-
zion fatta per quelli indelegabili.
Laddove sia prevista una pluralità di amministratori delegati, la defini-
zione delle modalità di esercizio della delega riguarda la scelta gestoria se
essi siano tenuti ad operare disgiuntamente o congiuntamente, ovvero se
ciascuno di essi debba operare indipendentemente dall’altro, in relazione
alle specifiche competenze ad esso attribuite.
Si rifletta: il conferimento di una delega ad una pluralità di consiglieri
delegati, con l’obbligo di agire congiuntamente, non può essere illegittimo
per l’affermazione, apodittica, che una tale struttura organizzativa compor-
terebbe la violazione delle norme che impongono la struttura collegiale del
comitato esecutivo: l’amministrazione delegata costituisce in re ipsa una
deroga al metodo collegiale, non vi sono, di guisa, motivazioni, giuridiche o
aziendali, per ritenere illegittima una struttura caratterizzata da una plura-
lità di consiglieri delegati, chiamati ad agire congiuntamente oppure di-
sgiuntamente, senza che ciò dia luogo alla costituzione di un comitato ese-
cutivo.
Le clausole statutarie o le delibere assembleari, autorizzando il consi-
glio di amministrazione a delegare parte delle proprie funzioni, determina-
no la struttura ed i poteri degli organi delegati. In tali ipotesi al consiglio di
amministrazione viene lasciata la scelta se avvalersi o meno dello strumen-
(38) Cfr. Giammaria, Azione del mandante verso il terzo nel mandato senza rappresentanza:
la Cassazione non muta orientamento, in Giust. civ., 1991, I, p. 1559 e Giampaolino, In tema di
intestazione fittizia e fiduciaria di azioni, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 961. Cfr. Barachini, La
pubblicità commerciale dopo l’istituzione del Registro delle imprese, in Giur. comm., 1996, I, p.
273. In tema Giordano, Sulla natura giuridica dell’azione del mandante verso il terzo debitore
prevista dall’art. 1705 c.c., in Riv. dir. comm., 1953, I, p. 100 ss.; Id., Contratto di commissione e
mandato senza rappresentanza, in Giust. civ., 1996, II, p. 186; Id., Mandato. Commissione. Spe-
dizione, Torino, 1969, p. 335 ss.; Giuliani, Interposizione, fiducia e dichiarazioni dell’altrui ap-
partenenza, sulle orme di un caso giurisprudenziale, in Giur. comm., 1994, II, p. 29; Morello, Fi-
ducia e trust: due esperienze a confronto, in Fiducia, trust, mandato ed agency (atti del 2° conve-
gno di studio svoltosi a Madonna di Campiglio nel 1991, quaderno n. 2), Milano, 1991, p. 69;
ed, infine, Nanni, L’interposizione di persona, Padova, 1990, p. 186.
SAGGI 133
(40) Si legga Frè-Sbisà, Della società per azioni, tomo I, Artt. 2325-2409, in Comm. Scia-
loja-Branca, a cura di Galgano, 1997; Pesce, Amministrazione e delega di potere amministrati-
vo nella società per azioni (Comitato esecutivo e amministratore delegato), Milano, 1969, p. 69;
Ferri, Le società, in Trattato Vassalli, X, t. III, Torino, 1987, p. 684; Borgioli, L’amministra-
zione delegata, Firenze, 1982, p. 132 ss.; Barachini, La gestione delegata nella società per azio-
ni, Torino, 2004, p. 82 ss.; Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova di-
sciplina, cit., p. 10 ss.
(41) Si veda D’Alessandro, Rapporti tra assemblea e amministratori nella riforma societa-
ria, in La società per azioni oggi: tradizione, attualità e prospettive (Atti del Convegno interna-
zionale di studi, Venezia, 10-11 novembre 2006), Milano, 2007; Sanfilippo, Funzione ammi-
nistrativa e autonomia statutaria nelle s.p.a., Torino, 2000, p. 120; Campobasso, Diritto com-
merciale, 2, Diritto delle società, a cura di Campobasso, Torino, 2006, p. 356 ss.; Portale, Rap-
porti tra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle so-
cietà. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. 2, Torino,
2006, p. 11 ss.; Maugeri, Sulle competenze “implicite’’ dell’assemblea nella società per azioni, in
Riv. dir. soc., 2007, II, p. 86 ss.
SAGGI 135
(42) Cfr. Sanfilippo, Funzione amministrativa e autonomia statutaria nelle società per azio-
ni, Torino, 2000, p. 120; Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, a cura di
Campobasso, Torino, 2006, p. 356 ss.; Portale, Rapporti tra assemblea e organo gestorio nei si-
stemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campo-
basso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. 2, Torino, 2006, p. 11 ss.
(43) L’espresso riconoscimento della natura di autorizzazioni alle deliberazioni assem-
bleari attinenti al compimento di atti degli amministratori (art. 2364, comma 1°, n. 5), la dele-
gabilità delle deliberazioni in materia di fusioni per incorporazione di società possedute inte-
ramente o al novanta per cento, di istituzione o soppressione di sedi secondarie, di riduzione
del capitale in caso di recesso del socio, di adeguamento dello statuto a disposizioni normati-
ve, di trasferimento della sede nel territorio della sede nel territorio nazionale (art. 2365, 2°
comma), la delegabilità dell’aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione (art.
2443), la competenza a costituire patrimoni separati (ex artt. 2447-bis, 2364, 2365), il potere di
emettere obbligazioni (art. 2410) costituiscono i segni tangibili e inequivocabili di un ulterio-
re netto spostamento del potere decisionale dall’assemblea agli amministratori. Così Monta-
lenti, L’amministrazione sociale dal testo unico alla riforma del diritto societario, in Giur.
comm., 2003, p. 422); Allegri, Gli amministratori delle società per azioni in una prospettiva di
riforma, Milano, in Riv. soc., 1999, p. 387; Desario, La gestione delegata nelle società di capita-
li. La nuova disciplina, cit., p. 2 ss.
136 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(44) Nella letteratura statunitense è assodato che, nella realtà, l’effettiva gestione giorno
per giorno della società è effettuata dagli officers e non dal consiglio d’amministrazione. Gli
outside directors sono vincolati dallo scarso tempo a disposizione e dalla mancanza di detta-
gliate informazioni e non ci si può aspettare che si concentrino su questioni non decisive o
che siano coinvolti nella gestione diretta degli affari della società. cfr. Brodsky, Adamski,
Law of Corporate Officers and Directors, New York, 1984-2006, § 2.02, 3. Il ruolo dei directors
nel sistema statunitense, come compendiato nel Model Business Corporation Act, si articola
sostanzialmente in due parti: la funzione consistente nell’adottare delle decisioni (cd. deci-
sion-making function) e la funzione di vigilanza (oversight function). A differenza della prima,
che implica dei provvedimenti da adottare secondo precise scadenze temporali l’attività di vi-
gilanza e di supervisione comporta un continuo monitoraggio degli affari della società (Model
Business Corporation Act (2002), 8-66); J. Tirole, The Theory of Corporate Finance, Princeton,
2005, p. 29 ss. I consiglieri d’amministrazione hanno poteri in concreto molto ridotti, con la
differenza che, se l’azionista di controllo è un manager-proprietario, il consiglio non ha di fat-
to alcuna funzione, mentre se egli non esercita funzioni esecutive il ruolo del board e solo un
po’ più rilevante: in quest’ultimo caso se gli amministratori “non esecutivi” vengono in qual-
SAGGI 137
che modo delusi dalla competenza o dall’integrità del manager, possono recarsi direttamente
dal proprietario (che naturalmente può anche essere un semplice consigliere d’amministra-
zione) e riportare la propria insoddisfazione. L’amministratore scontento ha a disposizione
solo questa strada. Cfr. Eisenberg, Corporate Governance: The Board of Directors and Internal
Control, in 19 Cardozo L. Rev., 1997, p. 237, con riferimento anche a Cunningham, Compila-
tion, The Essays of Warren Buffett: Lessons for Corporate America, in 19 Cardozo L. Rev., 1997,
p. 40. Sugli assetti proprietari ed il sistema economico italiano, si veda R. Costi-M. Messori
(a cura di), Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale, Bologna, 2005, p. 83 ss.
Il consiglio di amministrazione consiste in un certo numero di uomini, con la doverosa ag-
giunta di una o due donne, la cui conoscenza dell’impresa può essere la più superficiale. Ec-
cezioni a parte, il ruolo dei suoi membri è di semplice assenso. In cambio di una retribuzione
e di qualche manicaretto, gli amministratori accettano di essere periodicamente informati dal
management sul già deciso e l’universalmente noto. Così Galbraith, The Economics of Inno-
cent Fraud. Truth For Our Time, Boston-New York, 2004, trad. it., L’economia della truffa, Mila-
no, 2004, p. 54 ss.
(45) In tema, ancora, Minervini, Gli interessi degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm.,
2006, I, p. 153 ss.; Aimi, Le delibere del consiglio di amministrazione, Milano, 2000; Ambrosini,
Validità, invalidità ed efficacia delle delibere consiliari, in Società, 1992, p. 1183; Bianchi, Gli
amministratori di società di capitale, Padova, 1998, p. 14 ss.; Bianchi, Amministrazione e con-
trollo delle nuove società di capitali, Milano, 2003, p. 22 ss.; Bonelli, Gli amministratori di
sp.a., Milano, 1985, p. 25 ss.; Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze, 1982, p. 5 ss.; De-
sario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 10 ss.; Cagnas-
so, Gli organi delegati nella società per azioni, Torino, 1976, p. 45 ss.
138 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(46) Per tutti, Barachini, La gestione delegata nella società per azioni, Torino, 2004, p. 82
ss.; Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 43 ss.
(47) Cfr. Ghezzi, Commento all’art. 2409-novies, in Comm. alla riforma delle società diret-
to da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Sistemi alternativi di amministrazione e controllo a
cura di Ghezzi (Artt. 2409-octies - 2409-noviesdecies c.c.), Milano, 2005, p. 54 ss.; v. anche Ca-
riello, La disciplina “per derivazione” del sistema di amministrazione e controllo dualistico, in
Riv. soc., 2005, p. 77 ss., e Id., Amministrazione delegata di società per azioni e disciplina degli in-
teressi degli amministratori nell’attività di direzione e coordinamento di società, in Riv. dir. priv.,
2005, p. 388 ss.; e cfr., da ultimo, Deutscher Corporate Governance Kodex, che raccomanda di
demandare ad un regolamento interno la distribuzione dei compiti interni al comitato di ge-
stione; sul punto, Ferrarini, Controlli interni e strutture di governo societario, in Liber amico-
rum, vol. 3, p. 15 ss. Si legga, altresì, Hirte, I sistemi di amministrazione e controllo della società
per azioni nel diritto societario riformato – visti con gli occhi di un giurista tedesco, in Liber ami-
corum, vol. 4, p. 517; Schiuma, Il sistema dualistico. I poteri del consiglio di sorveglianza e del
consiglio di gestione, in Liber amicorum, vol. 2, p. 691 ss. e nota 20, p. 721 ss. Sul modello mo-
nistico (ove il rinvio pieno all’art. 2381 da parte dell’art. 2409-noviesdecies, comma 1°, c.c.),
Ghezzi, Commento all’art. 2409-septiesdecies, in Commentario, cit., p. 222, il quale ipotizza la
nomina di componenti del comitato direttamente dall’assemblea; conf., Morello, Il comita-
to per il controllo sulla gestione tra dipendenza strutturale ed autonomia funzionale, in Riv. dir.
comm., 2005, I, p. 759 ss.
(48) Cfr. Bianchi, Gli amministratori di società di capitale, Padova, 1998, p. 14 ss.; Bianchi,
Amministrazione e controllo delle nuove società di capitali, Milano, 2003, p. 22 ss.; Bonelli, Gli
amministratori di s.p.a., Milano, 1985, p. 25 ss.; Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze,
1982, p. 5 ss.; Cagnasso, Gli organi delegati nella società per azioni, Torino, 1976, p. 45 ss.
SAGGI 139
(49) Si legga Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, vol. VIII, tomo I del
Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1957, p. 8 ss. Ed ancora, come classico, Mirabel-
li, Dei singoli contratti, vol. IV, tomo III del Comm. c.c., Torino, 1962, XV, p. 40 ss. Si veda De
Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 3 ss.; Di Chio, Gestione fiduciaria di patrimoni mo-
biliari e servizi di investimento, in Dir. ed econ., 1997, p. 250. Cfr. Bianca, Diritto Civile, vol. III,
Il contratto, Milano, 2000, p. 719; Id., Il debitore e i mutamenti del destinatario del pagamento,
Milano, 1963, p. 23. Cfr. Distaso, Limiti all’acquisto da parte del mandante della titolarità del
negozio compiuto dal mandatario, in Riv. dir. comm., 1951, II, p. 103 ss. V. anche, Galgano, Vi-
sentini, Degli effetti del contratto. Della rappresentanza. Del contratto per persona da nomina-
re. Artt. 1372-1405, in Galgano, (a cura di), Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1993, p. 90 ss.
(50) Cfr. App. Palermo, 3 novembre 2009: incombe sull’amministratore di diritto l’onere
di impedire eventi pregiudizievoli per il patrimonio sociale nonché danni a soci e creditori in
forza dell’applicazione della clausola di equivalenza del reato omissivo, di cui all’art. 40 c.p.,
secondo il quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a
cagionarlo; pertanto, l’amministratore delegato di una società per azioni è sempre responsa-
bile dell’operato delittuoso degli altri amministratori a meno che non dimostri di essersi atti-
vato a tutela del patrimonio sociale. Ed anche Trib. Pordenone, 29 marzo 2001: in materia di
illecito amministrativo permane la responsabilità dei presidente del Consiglio di amministra-
zione della società e dell’amministratore delegato, pur in presenza di una formale delega di
funzioni ad altro soggetto, qualora risulti che le decisioni venivano concretamente assunte
dai vertici societari.
140 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(51) Si veda Enriques, Capitale sociale, informazione contabile e sistema del netto: una ri-
sposta a Francesco Denozza, in Giur. comm., 2005, p. 607; Macrì, Ancora sul diritto di informa-
zione dei soci e sulla chiarezza del bilancio, in Giur. comm., II, 2006, p. 192; Salodini, Obblighi
informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del danno. La Cassazione e l’interpreta-
zione evolutiva della responsabilità precontrattuale, in Giur. comm., II, 2006, p. 632; Denozza,
La nozione di informazione privilegiata tra “Shareholder Value” e “Socially Responsible Inve-
sting”, in Giur. comm., 2005, p. 585.
(52) Si confronti Marchetti, L’autonomia statutaria delle s.p.a., in Riv. soc., 2000, p. 571;
Caselli, I sistemi di amministrazione nella riforma delle s.p.a., in questa rivista, 2003, p. 154;
Cagnasso, Brevi note in tema di delega di potere gestorio nelle società di capitali, in Società,
2003, p. 803; Ferri jr., L’amministrazione delegata nella riforma, in Riv. dir. comm., 2004, I, p.
627 ss.; Ambrosini, L’amministrazione e i controlli nella società per azioni, in Giur. comm.,
2003, I, p. 313; Nazzicone e Providenti, Società per azioni. Amministrazione e controlli (artt.
2380-2409-noviesdecies), Milano, 2003, p. 34; Corsi, Le nuove società di capitali, Milano, 2003,
p. 67.
SAGGI 141
(53) Si consulti Corsi, Le nuove società di capitali, Milano, 2003, p. 101; Colombo, Ammi-
nistrazione e controllo, in Il nuovo ordinamento delle società. Lezioni sulla riforma e modelli sta-
tutari, a cura di S. Rossi, Milano, 2003, p. 191; Mosco, Nuovi modelli di amministrazione e con-
trollo e ruolo dell’assemblea, in Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, a cu-
ra di Benazzo, Patriarca, Presti, Milano, 2003, p. 124. V. anche Libonati, Notarelle a margine
dei nuovi sistemi di amministrazione della società per azioni, in Giur. comm., 2008, p. 289; Brei-
da, sub art. 2409-novies, in Il nuovo diritto societario. Comm., diretto da Cottino, Bonfante, Ca-
gnasso, Montalenti,**, 2004, p. 1122; AssociazioneDisianoPreite, Il diritto delle società?, a
cura di Olivieri, Presti, Vella, Bologna, 2006, pp. 166 e 204; Nazzicone, Providenti, sub art.
2409-novies, in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, 2003, p. 357; Weigmann,
Consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza: le prime applicazioni del modello dualistico, in
Analisi giuridica dell’economia, 2007, p. 261 ss.
(54) In tema Salodini, Obblighi informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del
danno. La Cassazione e l’interpretazione evolutiva della responsabilità precontrattuale, in Giur.
comm., II, 2006, p. 632; Denozza, La nozione di informazione privilegiata tra “Shareholder Va-
lue” e “Socially Responsible Investing”, in Giur. comm., 2005, p. 585. Ancora, Minervini, I pote-
ri di controllo degli amministratori di minoranza (membro del Comitato esecutivo con voto con-
sultivo?), in Giur. comm., 1980, I, p. 812; Scotti Camuzzi S., I poteri di controllo degli ammini-
stratori di minoranza (membro del Comitato esecutivo con voto consultivo?), in Giur. comm.,
1980, I, p. 785.
142 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(55) Cfr. Pavone La Rosa, La disciplina della grande impresa tra disciplina della struttura
societaria e disciplina del mercato finanziario, in Giur. comm., 1999, I, p. 137; Id., Proposte di di-
sciplina dei gruppi societari, in Riv. soc., 2000, p. 577; Pisoni, Puddu, Società quotate in borsa:
i principali indicatori, in Impresa, 2002, p. 1526. Cfr. Dalmartello, I poteri di controllo degli
amministratori di minoranza (membro del Comitato esecutivo con voto consultivo?), in Giur.
comm., 1980, I, p. 795; Devescovi, Controllo degli amministratori sull’attività degli organi dele-
gati, in Riv. soc., 1981, p. 79; Grassetti, I poteri di controllo degli amministratori di minoranza
(membro del Comitato esecutivo con voto consultivo?), in Giur. comm., 1980, I, p. 807; Gugliel-
mucci, La responsabilità di amministratori, liquidatori e sindaci nelle società per azioni, in Le
Società, 1982, p. 121. Si veda Enriques, Capitale sociale, informazione contabile e sistema del
netto: una risposta a Francesco Denozza, in Giur. comm., 2005, p. 607; Macrì, Ancora sul diritto
di informazione dei soci e sulla chiarezza del bilancio, in Giur. comm., II, 2006, p. 192.
(56) Cfr. Sogno, Diritti dei soci all’informazione da parte dei sindaci (nota a Cass., 12 no-
vembre 1992, n. 1682), in Società, 11/1993, p. 1558; Tagliaferri, I controlli contabili ex art.
2403 c.c. nelle società controllate da società quotate, in Società, 4/2002, p. 422; Ambrosini, Con-
vocazione dell’assemblea: annullabilità delle delibere viziate da irregolarità (nota a App. Bolo-
gna 4 marzo 1995), in Società, 6/1995, p. 806; Marchi, Norme di comportamento e responsabi-
lità del Collegio sindacale, in Riv. dott. comm., 1984, p. 636; Mazzacuva, La responsabilità pe-
nale dei sindaci (tavola rotonda su “I poteri di controllo del Collegio sindacale” organizzata
dalla rivista “Le Società”, intervento), in Società, 4/1989, p. 379; Norelli, Le omissioni di con-
trollo dei sindaci e delle società di revisione, in Dir. fall., 2/2001, I, p. 309; Salafia, Il controllo
della contabilità nelle società quotate in Borsa, in Società, 1/1986, p. 5.
SAGGI 143
(57) In argomento Grippo, Alcune riflessioni sulla collegialità del Consiglio di amministra-
zione di società per azioni, in Giur. it., 1975, I, p. 71; Guidotti, Amministratore di fatto e nego-
tiorum gestio, in Giur. it., 2000, p. 770; Jaeger, Dell’obbligo degli amministratori di dichiarare
alla CONSOB le proprie partecipazioni, in Giur. comm., 1985, I, p. 635; Lo Cascio, La respon-
sabilità dell’amministratore di fatto di società di capitali, in Giur. comm., 1986, I, p. 189. Si veda
Macrì, A proposito di rapporto amministratori-società: la c.d. parasubordinazione (nota a
Cass., 14 dicembre 1994, n. 10680), in Società, 1995, p. 635; Manferoce, La proposta di V dir.
Ce (tavola rotonda organizzata dalla rivista “Le Società”, intervento), in Società, 1985, p. 166;
Marziale, La proposta di V dir. Ce sull’armonizzazione del diritto delle società: il fondamento
giuridico e l’impatto sull’ordinamento italiano (intervento alla tavola rotonda su “La proposta
di V Direttiva CEE”, organizzata dalla rivista “Le Società”), in Società, 1985, p. 121; Menghi,
La cauzione degli amministratori dopo l’abrogazione dell’art. 2387, c.c., in Giur. comm., 1986, I,
p. 597. Si veda Chiomenti, Il principio della collegialità dell’amministrazione pluripersonale
nella società per azioni, in Riv. dir. comm., 1982, I, p. 319; Colavolpe, Condizioni per il cumulo
dei rapporti di amministrazione e di lavoro dipendente (nota a Cass., 12 gennaio 2001, n. 329), in
Società, 2002, p. 690; Collia, Natura del rapporto tra amministratore delegato e società (nota a
Trib. Bologna, 4 luglio 2002), in Società, 2003, p. 1140.
(58) Cfr. in argomento Minervini, Le funzioni del collegio sindacale. Questioni vecchie,
questioni nuove, in Società, 6/2000, p. 649; Olivieri, Le funzioni di sindaco e di revisore delle so-
cietà commerciali nell’ordinamento della professione di dottore commercialista, in Riv. dott.
comm., 1978, p. 799; Salafia, Il collegio sindacale: dalle società quotate alle società ordinarie,
in Società, 3/2000, p. 269; Sandulli, Sui poteri del Collegio sindacale, in Riv. notar., 1977, p.
1152.
144 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(59) In tema Fortunato, I “controlli” nella riforma del diritto societario, in Aa.Vv., La ri-
forma del diritto societario (Atti del Convegno di studio « Problemi attuali di diritto e proce-
dura civile », Courmayeur, 27-28 settembre 2002), Milano, 2003. Montalenti, Conflitto di in-
teressi e funzioni di controllo: collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, revisori, in Giur.
comm., 2007, p. 555; Olivieri, I controlli “interni”nelle società quotate dopo la legge sulla tutela
del risparmio, in Giur. comm., 2007, p. 409; Michieli, La solidarietà dei sindaci nella responsa-
bilità degli amministratori, II, in Giur. comm., 2007, p. 417; Rordorf, Il nuovo sistema dei con-
trolli sindacali nelle società per azioni quotate, in Foro it., 1999, V, p. 238. Risulta interessante la
lettura di Irrera, Il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari nella leg-
ge sul risparmio e nel decreto correttivo, in Giur. comm., 2007, p. 484; Montalenti, Corporate
governance, consiglio di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione,
in Riv. soc., 2002, IV, p. 821 e Id., L’amministrazione sociale dal testo unico alla riforma del di-
ritto societario, in Giur. comm., 2003, p. 422. Cfr. Rossi, Le regole di “corporate governante” sono
in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, in Riv. soc., 1/2001, p. 6; Abba-
dessa, La nuova riforma del diritto societario secondo il testo unificato dei progetti di legge per la
tutela del risparmio, in Atti del Convegno di Alba del 20 novembre 2004, “La tutela del rispar-
mio: l’efficienza del sistema”, in Società, 2005, p. 280.
SAGGI 145
sunta al rango di bene pubblico, considerato che, pur avendo prima facie ad
oggetto affari privati di persone fisiche e giuridiche, risulta, tuttavia, tra-
scendere l’interesse di tali soggetti, investendo inevitabilmente anche le
scelte ed i comportamenti degli stakeholders, portatori anch’essi di interes-
si meritevoli di tutela, e del mercato in generale.
La giustificazione dell’intervento imperativo del legislatore a sostegno
della trasparenza informativa prende le mosse dall’affermazione della va-
lenza pubblicistica attribuita al bene-informazione societaria e dalla consta-
tazione circa la tendenziale inadeguatezza ed insufficienza delle informa-
zioni fornite dalle società su base volontaria (voluntary disclosure), in assen-
za di una qualsivoglia regolazione delle dinamiche di disclosure a livello
normativo.
La misura dell’ampiezza della voluntary disclosure scaturisce da un’ana-
lisi costi-benefici che la società effettua, in quanto la produzione e diffusio-
ne di informazione innegabilmente comporta dei costi per i soggetti inte-
ressati. In particolare, l’informazione assume la veste di costo indiretto al-
lorché la si ponga in relazione al pericolo di perdita di competitività, rifles-
so eventuale di una politica societaria orientata verso la trasparenza infor-
mativa.
Un’adeguata informativa da parte degli organi delegati è presupposto ir-
rinunciabile al fine di consentire al consiglio di effettuare, con cognizione di
causa, le proprie valutazioni sull’andamento della gestione (60). Si prevede
l’obbligo degli organi delegati di riferire al consiglio ed al collegio sindacale
sull’andamento generale della gestione e la sua probabile evoluzione, non-
ché in merito alle operazioni più importanti compiute dalla società.
Dalle relazioni degli amministratori, pertanto, devono emergere, oltre
alle informazioni concernenti la situazione corrente, anche le previsioni re-
lative al futuro andamento della gestione. Come già detto, pur stabilendo
una cadenza minima per la presentazione delle relazioni, viene lasciata al-
l’autonomia statutaria la possibilità di prevedere scambi informativi più fre-
quenti, nonché di determinare più in dettaglio quantità e qualità delle infor-
mazioni da fornire. I doveri informativi degli organi delegati sono ampliati
(60) In arg. cfr. Perrone, La struttura organizzativa d’impresa. Criteri e modelli di progetta-
zione, Milano, 1990, p. 5 ss.; Ricciuti, Organizzazione aziendale, Padova 1992, p. 30; Daccò,
L’organizzazione aziendale, Padova, 1997, p. 3 ss.; per un maggiore approfondimento si veda
Caffarata, a cura di, Materiali di studio dell’organizzazione aziendale, Roma, Aracne, 1994 e
sia pure su un provvedimento particolare, Monesi, a cura di, I modelli organizzativi ex d.lgs.
231/2001, Milano, 2005. Tra i classici, Coda, L’orientamento strategico delle imprese, Torino,
1988; Golinelli, L’approccio sistemico al governo delle imprese, vol. III, Padova, 2000. Cfr. in
argomento Santonastaso, Principio di “precauzione” e responsabilità di impresa: rischio tecno-
logico e attività pericolosa “per sua natura”, cit., p. 35 ss.
146 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(61) Cfr. Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p. 710:
“Per formarsi un’idea dell’organizzazione delle società, il consiglio deve poter consultare tut-
te le fonti informative utili; per valutare l’andamento della gestione sociale è agli organi dele-
gati che deve rivolgersi per attingere elementi di giudizio. Servendosi di altri fonti informati-
ve, in esclusiva, il consiglio può giungere a formarsi un’immagine incompleta e distorta della
situazione. In quanto ad informativa rivolta al consiglio, l’art. 2381, comma 5°, c.c. sancisce
che gli organi delegati riferiscono al consiglio di amministrazione (e al collegio sindacale) con
la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni centottanta giorni, sul generale
andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di mag-
gior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue con-
trollate (ove esistano). Siccome, in base allo stesso comma, gli organi delegati curano che l’as-
setto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni del-
l’impresa, è logico che le periodiche informazioni riguardino questi rilevanti aspetti della ge-
stione, tanto più che al consiglio, per legge, è demandato il compito di valutare l’adeguatezza
di detto assetto. Ma il contenuto di ogni relazione periodica deve essere completo e sostan-
zioso”.
(62) In tema Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., p. 1334: “Lo
statuto potrà (a mio giudizio, dovrà) indicare o soltanto la natura delle operazioni (per es., gli
appalti, l’acquisizione di pacchetti azionari, etc.) o soltanto il loro valore finanziario (per es.,
operazioni di valore non inferiore o superiore ad una determinata somma di denaro), ovvero
SAGGI 147
indicarne sia la natura che il valore, come requisiti in presenza dei quali nasce l’obbligo di co-
municazione. La legge prescrive una frequenza minima delle suddette comunicazioni, ma
non stabilisce se queste debbano avere per oggetto anche le intenzioni di compiere le opera-
zioni ovvero solo la notizia del loro compimento. A me pare che, se si vuole assegnare ad es-
se, come sembra che il legislatore abbia fatto, la funzione di informare il consiglio per coin-
volgerlo, si dovrebbe sostenere l’obbligo dei delegati di dare l’informazione anche sulle in-
tenzioni, naturalmente non a livello di puro progetto, bensì a livello di scelta compiuta. In tal
modo, si porrebbe il consiglio in condizione di eventualmente intervenire per frenare il dele-
gato o addirittura per vietargli la realizzazione dell’operazione. È vero che letteralmente il
quinto comma dell’art. 2381 c.c. dispone l’informazione del consiglio, da parte dei delegati,
sulle più importanti operazioni gestorie “effettuate” dalla società e dalle sue controllate, ma
penso che la prevista effettuazione si riferisca alla loro ideazione, perché altrimenti esse non
differirebbero da quelle che saranno comprese necessariamente nel rapporto sull’andamento
generale della gestione e sulla sua possibile evoluzione”.
(63) V. Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 67 ss.
(64) V. ancora Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., p. 1330,
per il quale: “In termini più semplici, il potere informativo, che la legge implicitamente rico-
nosce a tutti gli amministratori e ai membri non operativi del consiglio, in particolare, serve
per consentire loro di prepararsi alla consapevole partecipazione all’attività del consiglio, ma
non anche per istruire un processo laudativo o accusatorio nei confronti dell’amministratore
delegato. Se dall’esame delle scritture contabili e dei relativi documenti il consigliere non
operativo ricavasse qualche dubbio sulla correttezza dell’operato dell’amministratore delega-
to, sia in termini di convenienza sia in termini di legittimità, egli potrà, appunto, invitarlo a ri-
ferire al consiglio ed, in quella sede, correttamente quel dubbio potrà essere esaminato e va-
lutato in una dialettica nella quale potrà essere coinvolto anche il membro delegato. Lo sta-
tuto può regolare più minuziosamente la condotta della predetta attività ispettiva, subordi-
nandola, per esempio, alla preventiva comunicazione al consiglio di amministrazione o alla
preventiva interpellanza degli altri consiglieri per eventualmente coinvolgerli, in modo da
evitare sovrapposizione di un’ispezione all’altra, con turbamento del normale funzionamen-
to degli uffici. Non può, invece, certamente subordinarla alla preventiva autorizzazione del
consiglio o del suo presidente, perché il potere ispettivo, in quanto strumentale al corretto
esercizio della funzione amministrativa, non tollera limitazioni. La legge ha sentito la neces-
sità di assoggettare l’esercizio della funzione amministrativa ad una preventiva informazione,
in un quadro ordinamentale in cui la funzione di amministrazione della società per azioni è
vista come utile strumento per il buon funzionamento dell’ente e, quindi, per il consegui-
mento di risultati, che finiscono con l’incidere sull’interesse della generalità dei cittadini”.
148 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Giur. comm., 1994, II, p. 144; Pacchi Pesucci, Gli amministratori di società per azioni nella
prassi statutaria, in Riv. soc., 1974, p. 606; Pederzini, Investitura rappresentativa dell’ammini-
stratore delegato di società e opponibilità delle relative limitazioni ai sensi dell’art. 2384, c.c., in
Giur. comm., 1990, I, p. 613; Perassi, Sull’opponibilità ai terzi della dissociazione fra potere de-
liberativo e rappresentativo nell’amministrazione di s.p.a., in Giur. comm., 1988, II, p. 99. In te-
ma di gruppi societari si veda Spada, Gruppi di società, in Riv. dir. civ., 1992, II, p. 221 ss.; Gal-
gano, L’oggetto dell’holding è dunque l’esercizio mediato e indiretto dell’impresa di gruppo, in
questa rivista, 1990, p. 401 ss.; Id., Il punto sulla giurisprudenza in materia di gruppi di società,
in Società, 1991, p. 897 ss.; Jaeger, Considerazioni “parasistematiche” sui controlli e sui gruppi,
in Giur. comm., 1994, I, p. 476 ss.
DIRITTO SPORTIVO
MARGHERITA PITTALIS
(1) A tale proposito, si segnala Cass., 27.10.2005, n. 20908, in Foro it., 2006, 5, c. 1465, non-
ché in Danno e resp., 2006, p. 633, con nota di Ferrari, e in Rass. dir. econ. sport., 2006, p. 508,
con nota di Lepore e in Resp. civ., 2006, p. 601, con nota di Filippi, secondo la quale “…in te-
ma di responsabilità civile per lesioni cagionate nel contesto di un’attività agonistica, non pos-
sono considerarsi partecipanti solo gli atleti in gara ma anche tutti coloro che sono posti al
centro o ai limiti del campo di gara per compiere una funzione indispensabile allo svolgimen-
to della competizione [. . .]”.
(2) La definizione è quella, costantemente richiamata in dottrina, che fa capo a Dini, L’or-
ganizzatore e le competizioni: limiti alla responsabilità, in Riv. dir. sport., 1971, p. 416.
SAGGI 151
(3) Al riguardo, Bertini, La responsabilità sportiva, ne Il diritto privato oggi, a cura di Cen-
don, Milano, 2002, p. 120; Di Ciommo-Viti, La responsabilità civile in ambito sportivo, in Li-
neamenti di diritto sportivo, a cura di Cantamessa, Riccio, Sciancalepore, Milano, 2008, p.
290.
(4) Galligani-Piscini, Riflessioni per un quadro generale della responsabilità civile nell’or-
ganizzazione di un evento sportivo, in Riv. dir. econ. sport, 2007, p. 115.
(5) Si è infatti esclusa la responsabilità dell’utilizzatore di un impianto a fini di organizza-
zione di una gara, che non aveva l’effettivo potere di gestione e di intervento sullo stesso:
Cass., 10.2.2003, n. 1948, in Foro. it., 2003, I, c. 1439. Si è inoltre affermato che, se più persone
organizzano una gara amichevole di tiro a segno, ciascun partecipante risponde dei danni
causati al passante che transitava sulla strada adiacente, qualora venga accertato che non era-
no state predisposte le opportune cautele: App. Firenze, 20.2.1951, in Giur. tosc., 1951, p. 446,
in tal senso richiamata da Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 115.
(6) Cass., S.U., 12.7.1995, n. 7640, in Riv. dir. sport., 1996, p. 75, con note di Carra e Fon-
tana: trattasi del leading case affacciatosi sul punto, in un caso in cui l’atleta di una competi-
zione di pentathlon moderno era caduto nel corso di una gara di equitazione a causa del rifiu-
to del cavallo di saltare l’ostacolo, ed aveva riportato gravissime lesioni. Ma per l’affermazio-
ne secondo cui al C.O.N.I. “in nessun caso potrebbe dirsi attribuita anche la qualifica di orga-
nizzatore delle manifestazioni sportive”, si v. già Cass., 16.1.1985, n. 97, in Giur. it., 1985, I, 1,
c. 1226.
152 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(7) Per una sintetica rassegna delle diverse fonti normative che nel corso del tempo han-
no interessato il C.O.N.I., si v. Frattarolo, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, II
ed., Milano, 2005, p. 1 ss.; si segnala inoltre Romano, L’organizzazione dell’attività sportiva, in
Manuale di diritto dello sport, a cura di Di Nella, Napoli, 2010, p. 99 ss., per un’accurata disa-
mina delle funzioni del Comitato, del funzionamento e dei compiti dei suoi organi e dei suoi
rapporti con la C.O.N.I. Servizi S.p.A., cui sono state attribuite funzioni strumentali e gesto-
rie volte al conseguimento degli obiettivi ed al soddisfacimento delle finalità istituzionali del-
l’Ente. Sulla tematica si richiama inoltre Sanino-Verde, Il diritto sportivo, II ed., Padova,
2008, p. 51 ss.
(8) Si veda già la l. 16.2.1942, n. 426, ma anche la l. 23.3.1981, n. 91, che ha parzialmente
modificato i rapporti fra C.O.N.I. e Federazioni, ed il cui art. 14, comma 2°, espressamente ri-
conosceva alle Federazioni “autonomia tecnica, organizzativa e di gestione, sotto il controllo
del C.O.N.I.”, nonché, da ultimo, il già ricordato d.lgs., 23.7.1999, n. 242, che all’art. 15, com-
ma 2°, ha abrogato sia la l. n. 426/1942, che l’art. 14, l. n. 91/1981, ed ha attribuito personalità
giuridica di diritto privato alle Federazioni, le quali, peraltro, continuano ad essere soggette,
sotto molteplici aspetti, al controllo del C.O.N.I. Tale assetto si evince da diverse disposizioni
del citato decreto, fra le quali: l’art. 5, comma 1°, che attribuisce al consiglio nazionale il com-
pito di disciplinare e coordinare l’attività sportiva nazionale, armonizzando a tal fine l’azione
delle Federazioni; l’art. 5, comma 2°, che impone alle Federazioni di conformare i propri sta-
tuti ai principi fondamentali stabiliti dal consiglio nazionale allo scopo del riconoscimento ai
fini sportivi e prevede che lo stesso consiglio nazionale, su proposta della giunta nazionale, ha
il potere di deliberare il commissariamento delle Federazioni in caso di gravi irregolarità nel-
la gestione o di gravi violazioni dell’ordinamento sportivo da parte degli organi direttivi; l’art,
7, comma 2°, che attribuisce alla giunta il potere di controllo sulle Federazioni in merito al re-
golare svolgimento delle competizioni, alla preparazione olimpica e all’attività sportiva di al-
to livello e all’utilizzo dei contributi finanziari; l’art. 15, comma 1°, che richiede alle Federa-
zioni stesse di svolgere la loro attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi
del C.I.O., delle Federazioni internazionali e del C.O.N.I., anche in considerazione della va-
lenza pubblicistica di specifiche tipologie di attività individuate dallo Statuto del C.O.N.I. . Su
tutti gli aspetti qui esaminati si vedano Romano, L’organizzazione dell’attività sportiva, cit., pp.
SAGGI 153
che solo per culpa in vigilando) nell’organizzazione delle singole gare spor-
tive, che infatti rientra nelle loro competenze quale attività “privatistica” (9).
In applicazione di tale criterio, è stata affermata (10) la responsabilità del-
la F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio), quale committente ex art.
2049, c.c., per la colpevole imperizia di un medico sportivo operante in un
centro riconosciuto, che, omettendo ulteriori accertamenti, aveva attestato
l’idoneità alla pratica agonistica di un quattordicenne, in seguito deceduto
durante un incontro, a causa di un arresto cardiocircolatorio; ciò, in quanto
113 ss.; Napolitano, Il “riordino” del Coni, in Profili evolutivi del diritto dello sport, Napoli,
2001, pp. 19-20. Si richiama inoltre l’attuale art. 20, comma 2°, dello Statuto del C.O.N.I., che
riproduce nella sostanza il disposto del già richiamato ed oggi abrogato art. 14, comma 2°, l. n.
91/1981, stabilendo che “Nell’ambito dell’ordinamento sportivo alle Federazioni Sportive
Nazionali è riconosciuta l’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione, sotto la vigilanza
del CONI”.
(9) La tesi della natura “mista”, di diritto pubblico e di diritto privato, delle Federazioni
sportive, già affermata dalle Sezioni Unite (Cass., S.U., 9.5.1986, n. 3092, in Foro it., 1986, I, c.
1254; Cass., S.U., 9.5.1986, n. 3091, ibidem, c. 1259) prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
242/1999, è oggi pacifica in giurisprudenza alla luce delle disposizioni di detto decreto: sul
punto, si v., fra le altre, Cass., S.U., 23.3.2004, n. 5775, in Giust. civ., 2005, I, p. 1625, con nota
di Vidiri, ove si legge che “La legge 16 febbraio 1942, n. 426, istitutiva del Coni, configurava
le federazioni sportive nazionali come organi dell’Ente, che partecipavano della natura pub-
blica di questo. La successiva legge 23 marzo 1981, n. 91 (contenente norme in materia di rap-
porti tra società e sportivi professionisti), con l’art. 14, ribadì questo inquadramento, ricono-
scendo alle federazioni funzione di natura pubblicistica, riconducibile all’esercizio in senso
lato delle funzioni proprie del Coni, e funzione di natura privatistica per le specifiche attività
da esse svolte. Questa funzione, in quanto autonoma, era separata da quella di natura pubbli-
ca e faceva capo soltanto alle federazioni … La legge n. 91 del 1981 è stata sostituita con il de-
creto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, contenente disposizioni sul riordino del Coni. L’artico-
lo 15 del decreto legislativo ha recepito l’inquadramento attribuito dalla giurisprudenza alle
federazioni sportive nazionali. La norma, infatti, dopo avere disposto che le federazioni spor-
tive nazionali svolgono l’attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Cio
e del Coni (primo comma), così consentendo l’esercizio di attività a valenza pubblicistica sul-
la base di poteri pubblicistici e mediante l’adozione di atti amministrativi, attribuisce loro na-
tura di associazione con personalità giuridica di diritto privato e dichiara che non perseguono
fini di lucro e sono disciplinate, per quanto non espressamente previsto dal decreto, dal codi-
ce civile e dalle disposizioni di attuazione del medesimo (secondo comma)”. Definisce le Fe-
derazioni quali “enti privati di interesse pubblico”, Di Nella, Le federazioni sportive naziona-
li dopo la riforma, in Profili evolutivi del diritto dello sport, Napoli, 2001, p. 122. p. 70. Per ulte-
riori riflessioni sulla natura delle Federazioni nazionali sportive, si veda tuttavia anche la suc-
cessiva n. 14.
(10) Trib. Vigevano, Sez. pen., 9.1.2006, n. 426, in Resp. civ. prev., 2007, p. 334, con nota di
Aureliano; la decisione è commentata anche da Grassani, La responsabilità risarcitoria del-
le federazioni sportive in caso di incidente o infortunio dell’atleta, in Riv. dir. econ. sport, 2006, p.
13 ss.
154 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(11) Portante “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica”. Nell’ambito
dello stesso giudizio, si veda altresì Cass. Pen., 5.9.2009, n. 38154, in Resp. civ. prev., 2010, p.
1074, con nota critica di Farolfi, la quale, facendo propria l’impostazione dei giudici di meri-
to, ha confermato che “in caso di erroneo rilascio di certificazione medica, la Federazione è
responsabile solidalmente, per responsabilità contrattuale e vicaria, con il medico esterno al-
la sua struttura associativa per la posizione di garanzia in ordine alla tutela medico-sportiva,
discendente da obbligazione assunta nei confronti dell’atleta all’atto del tesseramento”. La
decisione della Suprema Corte è commentata anche da Stincardini-Piscini, La responsabi-
lità delle federazioni sportive nazionali per erronea certificazione dell’idoneità sportiva rilasciata
presso strutture sanitarie esterne all’atleta dilettante, in Riv. dir. econ. sport, 2010, p. 95 ss.
(12) Trib. Milano, 23.2.2009, n. 2430, in Rass. dir. econ. sport, 2010, p. 160, con nota di Ago-
stinis.
(13) Cass., 23.6.1999, n. 6400, in Riv. dir. sport., 2000, p. 521, con nota di Lambo, secondo la
quale “l’omologazione di una pista di sci, collaudata per cinque anni, compiuta dalla F.I.S.I.
per accertarne, attraverso un proprio tecnico, la conformità alla regolamentazione tecnica
dalla stessa dettata per le gare di sci, è direttamente imputabile al C.O.N.I., al quale sono isti-
tuzionalmente demandate le funzioni di regolamentazione, controllo e coordinamento, ai
sensi dell’art. 3, L. 6 febbraio 1942, n. 426, della varie attività sportive che si svolgono in Italia,
e che esso esercita attraverso le Federazioni nazionali, in qualità di suoi organi – in tali attività
aventi pertanto natura pubblicistica – e non rientra invece nell’autonomia tecnica-organizza-
tiva – di natura privata – di ciascuna Federazione di una singola gara. Di conseguenza il rila-
scio del relativo certificato di omologazione nazionale da parte di quest’ultima rende respon-
sabile direttamente il C.O.N.I. per i danni riportati da un concorrente a seguito di incidente
verificatosi per mancato rispetto, invece, di prescrizioni tecniche, aventi natura di norme in-
terne (quali la mancanza di zone di caduta, all’esterno delle curve, prive di ostacoli, e idonea
protezione di quelli contro i quali i concorrenti possono esser proiettati)”. Al riguardo, occor-
re peraltro notare come la pronuncia de qua sia temporalmente precedente al citato d.lgs n.
242/1999, mediante cui è stato attuato il riordino del C.O.N.I. e che ha abrogato la l. n.
SAGGI 155
426/1942, istitutiva dello stesso Comitato. Tale riordino, da un lato, ha formalmente compor-
tato il venir meno del rapporto organico che legava il C.O.N.I. alle diverse Federazioni spor-
tive, dall’altro – come già ricordato – ha attribuito la personalità giuridica di diritto privato a
queste ultime, le quali, dunque, oggi sono sicuramente autonomi centri di imputazione giu-
ridica: ne discende, pertanto, come è stato correttamente osservato (Campione, Attività scii-
stica e responsabilità civile, Padova, 2009, p. 372 ss., spec. p. 374 e p. 376, ove ampie informa-
zioni sul procedimento di omologazione delle piste), che, qualora un atleta riporti dai danni a
causa del mancato rispetto delle norme regolamentari che presiedono all’omologazione del-
la pista, la legittimazione passiva della F.I.S.I. non potrà attualmente essere messa in discus-
sione, dal momento che l’omologazione – oggi come ieri – ha luogo proprio grazie all’esclusi-
vo apporto dei suoi tecnici. Accanto alla responsabilità della F.I.S.I., potrebbe poi intravve-
dersi anche una responsabilità concorrente della società sportiva organizzatrice della compe-
tizione e dei giudici di gara per la mancata rilevazione e/o segnalazione di difetti di sicurezza
atti a comportare la revoca del certificato di idoneità della pista interessata.
(14) L’art. 23, comma 1°, dello Statuto del C.O.N.I. attribuisce valenza pubblicistica esclu-
sivamente alle attività delle Federazioni sportive nazionali relative “all’ammissione e all’affi-
liazione di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati; alla revoca a qualsiasi titolo e
alla modificazione dei provvedimenti di ammissione o di affiliazione; al controllo in ordine al
regolare svolgimento delle competizioni e dei campionati sportivi professionistici; all’utiliz-
zazione dei contributi pubblici; alla prevenzione e repressione del doping”; nonché alle atti-
vità relative “alla preparazione olimpica e all’alto livello della formazione dei tecnici, all’uti-
lizzazione e alla gestione degli impianti sportivi pubblici”. Ma è opportuno ricordare anche
quanto stabilito dal successivo comma 1°-bis, ai sensi del quale “nell’esercizio delle attività a
valenza pubblicistica, di cui al comma 1°, le Federazioni sportive nazionali, si conformano
agli indirizzi e ai controlli del C.O.N.I. ed operano secondo principi di imparzialità e traspa-
renza. La valenza pubblicistica dell’attività non modifica l’ordinario regime di diritto privato
dei singoli atti e delle situazioni giuridiche soggettive connesse”; disposizione, quest’ultima,
introdotta con deliberazione del 26.2.2008, alla luce della quale vi è chi ritiene che oggi la tesi
della natura “mista” delle Federazioni dovrebbe essere rimeditata, « nel senso di affermarne la
piena natura privatistica anche rispetto alle attività “a valenza pubblicistica” da queste svolte »:
così Romano, L’organizzazione dell’attività sportiva, cit., pp. 117-118.
156 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
tra attività pubblicistica e attività privatistica delle Federazioni; sul primo ti-
po di attività il C.O.N.I. avrebbe certamente un pieno potere di controllo e
quindi la relativa responsabilità, mentre sull’attività di natura privatistica
non avrebbe poteri di diretto controllo, e quindi la responsabilità ricadreb-
be unicamente sulla singola Federazione (15).
A seguito del riordino attuato a mezzo del d.lgs. 23.7.1999, n. 242, for-
malmente venuto meno il rapporto organico fra Federazioni e C.O.N.I,
quest’ultimo potrà essere coinvolto soltanto in relazione a quelle attività
delle Federazioni espressamente qualificate come “a valenza pubblicistica”
dall’art. 23, comma 1°, del suo Statuto, ed unicamente laddove, nel caso
concreto, dovessero emergere specifiche negligenze nello svolgimento dei
suoi compiti di vigilanza (16).
(15) In tal senso, Grassani, La responsabilità risarcitoria delle federazioni, cit., p. 32.
(16) Con specifico riguardo all’attività di omologazione delle piste svolta dalla F.I.S.I., si v.
Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., pp. 376-377, il quale ritiene che il veni-
re meno del rapporto organico fra C.O.N.I. e Federazioni non sia, di per sé, sufficiente ad
escludere la concorrente responsabilità del C.O.N.I. per i danni eventualmente derivati agli
atleti. Tale conclusione viene giustificata alla luce dei già ricordati compiti di coordinamento
e di controllo sulle Federazioni che, a tutt’oggi, il Comitato svolge e specialmente alla luce di
quanto prescritto dall’art. 7, comma 2°, lettera e) del d.lgs. n. 242/1999, che attribuisce alla
giunta nazionale del C.O.N.I. il potere di controllo sulle Federazioni “in merito al regolare
svolgimento delle competizioni” e dall’art. 23 dello Statuto del C.O.N.I., che fa rientrare nei
compiti a valenza pubblicistica attribuiti alle Federazioni il “controllo in ordine al regolare svol-
gimento delle competizioni”: ed infatti, secondo l’a. citato, l’omologazione della pista potrebbe
farsi rientrare proprio nell’ambito dei controlli inerenti alla regolarità delle gare, deputati alla
Federazione, che, in tale ambito, è tuttavia soggetta ai poteri di controllo del Comitato di ver-
tice, del quale potrebbe quindi parimenti prefigurarsi la responsabilità. Per un accenno in
questo senso, sia pur in termini più generali, si v. anche Agostinis, Brevi note in materia di re-
sponsabilità dell’organizzatore di competizioni sportive e della Federazione per gli infortuni subi-
ti dagli atleti, in Rass. dir. econ. sport, 2010, pp. 180-181.
(17) Sull’organizzazione di eventi sportivi in chiave prettamente economica, con partico-
lare riguardo ai diritti mediatici sugli eventi sportivi, si v. Indraccolo, L’organizzazione di
eventi sportivi, in Manuale di diritto sportivo, a cura di Di Nella, Napoli, 2010, p. 177 ss.; sui di-
ritti televisivi sportivi, si v. anche Di Nella, La commercializzazione dei diritti audiovisivi sugli
eventi sportivi, in I contratti del turismo, dello sport e della cultura, a cura di Delfini e Moran-
di, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, Torino, 2010, p. 838 ss.; Cuffa-
ro, Diritti audiovisivi, diritti di archivio, proprietà delle riprese: epicedio del diritto di cronaca, in
Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° Convegno Nazionale S.I.S.Di.C., Na-
SAGGI 157
poli, 2009, p. 543 ss.; Zeno-Zencovich, La statalizzazione dei “diritti televisivi sportivi”, ibidem,
p. 585 ss.
(18) Dini, L’organizzatore, cit., p. 418 ss.
(19) Dini, L’organizzatore, cit., p. 422 ss.
(20) Dini, L’organizzatore, cit., p. 423.
(21) Dini, L’organizzatore, cit., p. 424.
158 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(22) A tal proposito, può richiamarsi il caso deciso da Cass. Pen., 21.2.1995, n. 6478, in Riv.
dir. sport., 1996, p. 302, per la quale “rispondono di omicidio colposo i componenti del Consi-
glio direttivo della Lega Navale Italiana, i quali abbiano organizzato una gara di pesca al trai-
no, omettendo di adottare le misure necessarie ad evitare l’evento dannoso”; nella fattispecie,
è stata affermata la responsabilità della Lega per aver ammesso alla competizione il gareg-
giante, poi deceduto in seguito a naufragio, gravato da una limitazione di navigabilità entro le
sei miglia, pur in previsione di un campo di gara in alto mare. Sulla vicenda di specie si sono
pronunciati nei gradi di merito, Trib. Brindisi, 15.5.1991, ibidem, 303 e App. Lecce, 18.1.1994,
ibidem, 303.
(23) Sul punto, Di Ciommo-Viti, La responsabilità civile, cit., p. 291, alla cui stregua, l’or-
ganizzatore “potrebbe risultare adempiente a quest’onere anche semplicemente predispo-
nendo un adeguato servizio medico di controllo”. Secondo Beghini, L’illecito civile e penale
sportivo, Padova, 1999, p. 103, “nel caso di competizioni sportive che comportino un impegno
fisico particolarmente elevato, egli [l’organizzatore n.d.a.] è anche tenuto a controllare l’ido-
neità psico-fisica degli atleti mediante accertamenti sanitari, avvalendosi eventualmente dei
medici federali o di personale comunque specializzato. Se l’atleta è stato ritenuto idoneo dal-
la competente federazione, l’organizzatore non deve effettuare alcun altro controllo medi-
co”.
(24) Profilo connesso è quello, tuttora discusso, dell’eventuale responsabilità vicaria del-
l’organizzatore per gli eventi lesivi provocati con condotte illecite dagli atleti – particolarmen-
te se allo stesso legati da rapporto di lavoro subordinato – ad altri gareggianti, sul quale si ve-
dano le riflessioni ed i riferimenti anche giurisprudenziali di Liotta, Attività sportive e respon-
sabilità dell’organizzatore, cit., p. 89 ss., spec. p. 97 ss., il quale conclude nel senso che, poiché
“l’attività degli atleti soddisfa in maniera diretta l’interesse fondamentale dell’organizzatore
sportivo consistente nell’effettiva realizzazione e messa in scena dello spettacolo program-
mato […] è giocoforza concludere che […] i risultati dell’attività dell’agonista conforme alle
regole del gioco ricadono a tutto vantaggio dell’organizzatore”, con conseguente applicabilità
a quest’ultimo, anche alla stregua del principio cuius commoda eius et incommoda, dell’art.
2049 c.c. . Per una critica a tale assunto, ma con specifico riguardo all’organizzatore di gare di
sci e agli atleti che vi partecipano, Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., pp.
382-383, il quale, sulle orme di Giannini, La responsabilità civile degli organizzatori di manife-
stazioni sportive, in Riv. dir. sport., 1986, p. 279, osserva che l’atleta “oltre ad esercitare l’attività
agonistica in maniera del tutto indipendente […] prende comunque parte alla competizione
nel proprio ed esclusivo interesse, tanto più che la sua prestazione riveste un’estrinsecazione
SAGGI 159
individuale (ricerca dell’affermazione) che non è in rapporto causale con l’attività dell’orga-
nizzatore”. Criticamente anche Tortora, Izzo, Ghia, Guarino, Danese, Nucci, Naccara-
to, Casolino, Novarina, Diritto sportivo, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e com-
merciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1998, pp. 133-134; Izzo, Le responsabilità nello sport, di-
retto da Izzo, Merone, Tortora, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale,
fondata da Bigiavi, Torino, 2007, p. 145; Lepore, La responsabilità nell’esercizio e nell’orga-
nizzazione delle attività sportive, in Manuale di diritto dello sport, a cura di Di Nella, Napoli,
2010, p. 281, il quale afferma che il riferimento all’art. 2049 c.c. “si mostra più convincente se
ricondotto non tanto al rapporto tra organizzatore e atleta, quanto a quello tra il sodalizio
sportivo – che soltanto in alcuni casi può rivestire il ruolo di organizzatore – e il proprio tesse-
rato”. Per un riferimento a quest’ultima ipotesi, si v. Trib. Monza, 5.6.1997, in Riv. dir. sport.,
1997, p. 758, ove si legge che “Qualora risulti accertato che l’infortunio occorso ad un atleta
durante una competizione sportiva, anche contraddistinta da elevato agonismo (nella specie,
una partita ufficiale di hockey su pista), è stato provocato da un gesto avulso dalla dinamica del
gioco e diretto a ledere l’avversario, va dichiarata la responsabilità solidale dell’autore del ge-
sto e della società sportiva nelle cui file quest’ultimo militava”; ma in senso contrario, Trib.
Bari, 10.6.1960, in Dir. e giur., 1963, p. 81, con nota di Scognamiglio, che ha escluso l’applica-
bilità dell’art. 2049 c.c. alla società sportiva di appartenenza del calciatore resosi responsabile
del fallo. Nel senso che la responsabilità del sodalizio sportivo di appartenenza per l’illecito
posto in essere dall’atleta possa essere affermata ex art. 2049 c.c. solo dopo aver valutato l’ef-
fettiva sussistenza, nel caso di specie, di un potere di direzione e vigilanza, Frattarolo, La
responsabilità civile per le attività sportive, Milano, 1984, p. 94; Lepore, Responsabilità civile e
tutela della “persona-atleta”, Napoli, 2009, p. 230 ss. A tal riguardo, è indubbio che tale potere
vi sia ove si tratti di atleta professionista, il quale, secondo quanto stabilito dall’art. 3, l.
23.3.1981, n. 91, è un lavoratore subordinato (Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsa-
bilità civile nello sport, cit., p. 46 e p. 71).
(25) Dini, L’organizzatore, cit., p. 425.
(26) In tal senso, Beghini, L’illecito civile e penale, cit., p. 107, il quale, dopo aver afferma-
to che il giudice di gara ha una posizione di garanzia in relazione all’integrità fisica degli atle-
ti, afferma che lo stesso può incorrere in responsabilità, in concorso con il giocatore, qualora
non abbia preso i provvedimenti necessari al fine di evitare che il fatto lesivo si verificasse; al
riguardo, l’a. fa appunto l’esempio dell’arbitro che abbia concesso all’atleta di giocare con tac-
chetti non regolamentari, o che non sospenda l’incontro di boxe, pur rendendosi conto delle
condizioni precarie di uno dei contendenti, contribuendo a provocare la morte del pugile.
160 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(27) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 122; Conrado, Ordinamento giuridico e re-
sponsabilità dell’organizzatore di una manifestazione sportiva, in Riv. dir. sport., 1991, p. 9; Per-
seo, Sport e responsabilità, in Riv. dir. sport., 1961, pp. 277-278; Lepore, La responsabilità nel-
l’esercizio e nell’organizzazione delle attività sportive, cit., p. 282, il quale sottolinea che “qual-
siasi disposizione sportiva riveste sempre un ruolo sussidiario rispetto ai canoni generali di
prudenza, che non possono essere abbandonati”: ne deriva che “sarà sempre necessario svol-
gere un accertamento concreto del comportamento tenuto dall’organizzatore anche oltre il
rispetto delle safety rules, le quali, da sole, possono non coprire tutte le ipotesi di responsabi-
lità dei soggetti coinvolti negli incidenti”.
(28) Recante l’“Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”.
(29) Portante l’“Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno
1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza”. Occorre comunque tenere presente che la Corte
Costituzionale, con pronunzia del 15.4.1970, n. 56, in Foro it., 1970, I, c. 1293, ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 68 del richiamato R.D. 18.6.1931, n. 773, nella parte in cui prescri-
ve che per gli intrattenimenti da tenersi in luoghi aperti al pubblico e non indetti nell’eserci-
zio di attività imprenditoriali, occorre la licenza; deve infatti ritenersi non assoggettata a tale
licenza l’organizzazione dell’evento che difetti di quella natura imprenditoriale che ne giusti-
fica e impone il rilascio.
(30) Art. 119, R.D. 6.5.1940, n. 635, cit.
(31) Bertini, La responsabilità civile, cit., p. 124 ss.; Conrado, Ordinamento giuridico e re-
SAGGI 161
bordinato rispetto alla legge e, segnatamente, all’art. 2043 c.c.; Trib. Milano, 23.2.2009, n.
2430, cit., ove si legge che l’organizzatore “è tenuto a predisporre tutte le misure necessarie a
garantire la sicurezza e l’incolumità degli atleti, rispettando, oltre che le prescrizioni specifi-
che, anche le norme generali di prudenza”; Trib. Busto Arsizio, 22.2.1982, in Riv. dir. sport.,
1982, p. 570, ove si afferma che “la responsabilità dell’organizzatore di una gara motociclisti-
ca per l’incidente occorso ad un concorrente, deve essere valutata non solo in rapporto alla os-
servanza delle regole generali e particolari della materia ma anche al rispetto delle comuni
norme di diligenza e prudenza”; Trib. Rovereto, 5.12.1989, in Riv. dir. sport., 1990, p. 498, che
ha affermato la responsabilità di una società organizzatrice di una gara di tamburello per le le-
sioni derivate ad uno spettatore colpito all’occhio dalla pallina, a fronte della mancata ado-
zione di idonee misure di protezione suggerite dalla comune esperienza e dall’ordinaria pru-
denza e diligenza, anche se tali misure non erano espressamente imposte da alcuna disposi-
zione e nonostante il campo fosse stato omologato dalla Federazione Italiana Palla Tambu-
rello; Trib. Napoli, 21.5.1986, in Riv. dir. sport., 1986, p. 466, che, nel configurare in capo agli
organizzatori l’obbligo di rispettare il generale principio del neminem laedere posto a tutela dei
diritti assoluti, ha affermato la responsabilità degli organizzatori di una gara ippica per la per-
dita di un cavallo provocato dallo slittamento dell’autostart, in un’ipotesi in cui lo svolgimen-
to della stessa gara era stato imposto nonostante la presenza di avverse e proibitive condizio-
ni climatiche che avevano determinato l’instaurarsi di una situazione di manifesta pericolo-
sità per il regolare svolgimento della competizione. In dottrina, insiste sul profilo della neces-
saria osservanza anche delle norme comuni di diligenza e prudenza, Stanca, Natura della re-
sponsabilità dell’organizzatore di gare sportive e criterio della sua imputazione, in Rass. dir. econ.
sport, 2010, pp. 157-158; contra Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 135, che infatti, in li-
nea con autorevole dottrina dal medesimo citata, afferma che “quantomeno per il danno ri-
sentito dallo sportivo, il rispetto da parte dell’organizzatore delle norme regolamentari spor-
tive sarà tendenzialmente sufficiente a escluderne la responsabilità, essendo ragionevole sup-
porre che la norma federale abbia preventivamente contemperato le esigenze della gara con
quelle di incolumità dei partecipanti”.
(35) Al riguardo, Cass. Pen., 21.2.1995, n. 6478, cit., che ha riconosciuto la responsabilità
per omicidio colposo della Lega Navale Italiana, per “non aver predisposto, a mezzo di na-
tanti, un servizio di assistenza in mare; [. . .] non aver informato dello svolgimento della gara
la competente Capitaneria di Porto che, quindi, non aveva attuato servizi speciali di sicurezza
ed aveva potuto intervenire soltanto in ritardo; [. . .] non aver disposto un efficiente e continuo
servizio di ascolto radio con conseguente ritardata ed indiretta ricezione della notizia delle
difficoltà della imbarcazione poi naufragata”.
SAGGI 163
va” (36) (cd. rischio “consentito”), entro i quali infatti nessuna responsabilità
può, in linea di principio, essere addebitata – neppure – all’organizzatore (37).
Per le lesioni che invece vengano arrecate oltre i confini del rischio ac-
cettabile nella specifica disciplina o manifestazione, si tende ad affermare
che il nesso di causalità fra l’attività dell’organizzatore e l’evento lesivo po-
trà dirsi interrotto soltanto in caso di “fatto del terzo o della vittima, o in caso
di identificazione di una specifica causa estranea non imputabile alla sfera
giuridica dell’organizzatore” (38), che avrà quindi, in definitiva, l’onere di
provare il caso fortuito per non incorrere in responsabilità (39).
tali principi in tema di responsabilità dell’organizzatore per gli eventi lesivi rientranti nel suo
potere di controllo, si veda Trib. Milano, 22.9.2008, n. 11133, in Giustizia a Milano, 2008, n. 9
p. 59, che ha condannato il proprietario di una pista di go-kart per le lesioni riportate dal pilo-
ta in seguito all’urto contro le barriere montate per evitare l’uscita di strada, nonostante l’u-
scita di strada stessa fosse stata provocata da un contatto con un altro mezzo, affermando al ri-
guardo che, “nel caso in cui il pilota di un go-kart, durante una competizione sportiva, esca di
strada e urtando la struttura rigida di recinzione si ferisca la mano e la testa, deve essere rico-
nosciuta la responsabilità del proprietario del circuito ex art. 2043 c.c. Infatti, il fatto stesso che
l’urto contro la recinzione predisposta per frenare la fuoriuscita dalla pista dei veicoli, abbia
causato delle lesioni al pilota, comporta il conseguente giudizio di inadeguatezza della stessa
con il conseguente obbligo di risarcimento dei danni. Irrilevante è da ritenersi il fatto che l’u-
scita di strada del go-kart sia stata preceduta da un urto da parte di un veicolo concorrente che
effettuava una regolare manovra di tentativo di sorpasso”.
(40) Nello stesso senso, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 117.
(41) Trib. Milano, 12.11.1992, in Riv. dir. sport., 1993, p. 499.
(42) Trib. Roma 5.2.1992, n. 1393, in Riv. dir. sport., 1992, p. 90, con nota di Bellantuono,
la quale, peraltro, ha affermato la responsabilità della S.S. Lazio, sulla base dell’art. 2043 c.c.,
solo nella misura del 25%, ritenendo che per il restante 75% questa dovesse essere ascritta al-
lo spettatore che, invece di attendere lo sfollamento della massa degli spettatori, con grave
imprudenza e senza la necessaria attenzione, aveva sceso i gradini, nonostante la ressa e la vi-
sibile presenza per terra dei detti detriti. Nella giurisprudenza di merito più risalente, in rela-
zione ad analogo incidente, la responsabilità della società calcistica era invece stata negata:
sul punto, si v. Trib. Roma, 28.6.1957, in Riv. dir. sport., 1959, p. 155, con nota di Tondi, che ha
escluso la responsabilità della A.S. Roma, osservando la presenza dei frammenti di vetro per
terra avrebbe ben potuto essere “conseguenza della caduta di qualche bottiglia avvenuta po-
co prima dell’avverarsi del sinistro. Non si deve dimenticare infatti che, durante le partite, lo
stadio è particolarmente affollato e che non è controllabile, quindi, da chi di dovere, il com-
SAGGI 165
l’interno dello stadio (43). Si può inoltre annoverare, nel medesimo conte-
sto, il caso in cui fu affermata la responsabilità dell’organizzatore di una
gara di atletica e della Federazione di riferimento, per omissione di caute-
le nell’ammettere un minore al riscaldamento in campo mentre si svolge-
va il riscaldamento di altro atleta in preparazione della gara di lancio del
martello (44).
In un caso risalente, durante la partita Fiorentina-Juventus, si era verifi-
cato il cedimento di 12 metri di balaustra dello stadio di Firenze, a causa
della pressione della folla dei tifosi, molti dei quali precipitarono sugli spet-
tatori che si trovavano nel parterre, con ferimento di 139 persone; furono
convenuti in giudizio sia il Comune di Firenze, quale proprietario dello sta-
dio, sia l’Associazione Calcio Fiorentina, quale organizzatrice dell’incon-
tro. La Corte d’Appello di Firenze, nonostante avesse rilevato un vizio di
costruzione della balaustra e quindi l’astratta applicabilità al Comune del-
l’art. 2053 c.c., in tema di rovina di edificio, addossò interamente la respon-
sabilità all’Associazione Calcio Fiorentina (45), alla quale imputò di aver
portamento delle persone che spesso si recano alla partita, anche molto tempo prima che es-
sa abbia inizio. Sicché, il difetto di manutenzione o di pulizia degli impianti, se rapportato al-
la circostanza da cui si vuol far discendere la colpa dei dirigenti dello Stadio, non sembra pos-
sa sostenersi nella specie, potendo – come si è detto sopra – la causa del danno essere dipesa
dal comportamento poco controllabile di terzi”.
(43) Al riguardo, Facci, La responsabilità civile nello sport, cit., p. 651, che riferisce di co-
me sia stata ritenuta responsabile ex art. 2050 c.c., una società sportiva di calcio professioni-
stico, che aveva organizzato la manifestazione, per il danno patito da uno spettatore colpito
da un oggetto contundente (moneta), scagliato da un terzo rimasto ignoto, situato in un set-
tore diverso; nella specie, l’a. ricorda che fu respinta la tesi difensiva della società convenuta
che invocava sia il fatto del terzo sia l’impossibilità di impedire l’introduzione di monete, che
potevano, poi, essere scagliate da un settore all’altro.
(44) Trib. Torino, 14.12.2000, in Gius, 2001, p. 2783, per il quale “gli organizzatori di una
gara sportiva, e la stessa federazione sotto la cui egida la gara si svolga, sono responsabili per
la mancata adozione di regole di prudenza e cautela adeguate al caso anche nella fase di pre-
parazione e di riscaldamento e ciò in particolare laddove alla gara in questione partecipino
soggetti minorenni (nella specie, la federazione organizzatrice della gara sportiva nonché il
direttore di riunione che regolamentava l’accesso al campo, i direttori di campo, l’addetto al
settore, il giudice di gara del lancio, il giudice d’appello – soggetti presenti nel campo al mo-
mento del sinistro – sono stati ritenuti responsabili dei danni occorsi ad un atleta minorenne,
al quale era stato, nella fase di riscaldamento, consentito l’accesso al campo mentre era in cor-
so il riscaldamento di altro atleta impegnato nel lancio del martello)”.
(45) App. Firenze, 3.4.1963, in Riv. dir. sport., 1964, p. 235. Su tale vicenda si era pronun-
ciato, in primo grado, Trib. Firenze, 17.10.1961, in Giur. tosc., 1962, p. 83, che aveva condan-
nato sia il Comune che la Fiorentina. La diversa impostazione fatta propria dalla Corte d’Ap-
pello è stata successivamente confermata da Cass., 31.1.1966, n. 363, in Riv. dir. sport., 1967, p.
112.
166 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(46) Deve infatti tenersi presente, al riguardo, che gli impianti sportivi di proprietà comu-
nale appartengono al patrimonio indisponibile del Comune e possono essere trasferiti nella
disponibilità dei privati soltanto mediante apposite concessioni amministrative. In tal caso,
sul Comune può residuare un obbligo di custodia e quindi una responsabilità ex art. 2051 c.c.
(oltre che ex art. 2053 c.c.), ma la gestione-organizzazione dell’evento sportivo fa capo all’or-
ganizzatore, che quindi ne è comunque responsabile. Sui presupposti di applicabilità della re-
sponsabilità ex art. 2053 c.c., in tema di rovina di edificio, in una fattispecie in cui si era verifi-
cato il crollo di un parapetto in un impianto sportivo, si richiama Cass., 14.10.2005, n. 19975,
in Giust. civ. Mass., 2005, per la quale “la responsabilità del proprietario per i danni cagionati a
terzi dalla rovina dell’edificio sussiste, ai sensi dell’art. 2053 c.c., in dipendenza di ogni disgre-
gazione, sia pure limitata, degli elementi strutturali della costruzione, ovvero degli elementi
accessori in essa stabilmente incorporati; essa integra un’ipotesi particolare di danno da cose
in custodia, che impedisce l’applicazione dell’art. 2051 c.c., per il principio di specialità, e può
essere esclusa ove il proprietario fornisca la prova che la rovina non fu dovuta a difetto di ma-
nutenzione o a vizio di costruzione. Benché la norma non ne faccia menzione, ai fini dell’e-
sonero dalla responsabilità è consentita anche la prova del caso fortuito, ovvero di un fatto do-
tato di efficacia causale autonoma rispetto alla condotta del proprietario medesimo, ivi com-
preso il fatto del terzo o dello stesso danneggiato. È inoltre configurabile il concorso tra la col-
pa presunta del proprietario e quella accertata in concreto del danneggiato, che con la propria
condotta abbia agevolato o accelerato la rovina dell’immobile o di parte di esso. (In applica-
zione di tali principi, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di
risarcimento del danno proposta nei confronti del titolare di un impianto sportivo per la mor-
te di un calciatore che, arrampicatosi con una scala di legno sul tetto dello spogliatoio per re-
cuperare il pallone uscito dal terreno di gioco, e superata una rete di recinzione manomessa
in più punti proprio per consentire l’accesso al solaio, era caduto al suolo a seguito del crollo
del parapetto, al quale si era appoggiato per guardare nella strada sottostante)”.
(47) Cass., 13.2.2009, n. 3528, in Guida al dir., 2009, 12, p. 30, con nota di Sacchettini e in
Rass. dir. econ. sport, 2010, p. 141, con nota di Stanca, per la quale “è certo che l’atleta impe-
gnato in una manifestazione agonistica accetta di esporsi a quegli incidenti che ne rendono
prevedibile la verificazione, perché a produrli vi concorrono gli inevitabili errori del gesto
sportivo proprio o degli altri atleti impegnati nella gara, come gli errori di manovra dei mezzi
usati”; “[…] ma è proprio tale insita pericolosità della attività di cui si assume l’organizzazio-
ne ad imporre che questa non sia aumentata da difetto od errore nella predisposizione delle
misure che debbono connotare il campo di gara, in modo da evitare che si producano anche a
carico dell’atleta conseguenze più gravi di quelle normali. Sicché, l’attività di organizzazione
di una gara sportiva connotata secondo esperienza da elevata possibilità di incidenti dannosi,
non solo per chi vi assiste, ma anche per gli atleti, è da riguardare come esercizio di attività pe-
ricolosa, ancorché in rapporto agli atleti nella misura in cui li esponga a conseguenze più gra-
vi di quelle che possono essere prodotte dagli stessi errori degli atleti impegnati nella gara”; in
tal caso, infatti, l’eventuale lesione supera il rischio consentito e quindi prevedibile nella sin-
SAGGI 167
la specie, durante una corsa con il bob, l’atleta era finito, a causa di un’erra-
ta manovra, contro la staccionata di legno che conteneva la pista e l’urto del
casco aveva fatto staccare una scheggia di legno, la quale aveva ferito grave-
mente al viso l’atleta, poi caduto in coma. La Suprema Corte ha cassato la
sentenza della Corte di Appello, la quale non aveva verificato in concreto, e
quindi secondo un giudizio di probabilità ex post e non ex ante, se l’attività
di predisposizione del campo di gara (mediante l’adozione di tavole di le-
gno di contenimento della pista) non avesse aumentato la rischiosità dell’e-
vento oltre quella consentita nella specifica attività sportiva. Nessuna indi-
cazione è stata invece data dalla Suprema Corte circa la necessità di valuta-
re se il materiale utilizzato per il casco fosse idoneo a preservare il capo del-
l’atleta e se lo sbandamento del veicolo avesse contribuito in maniera de-
terminante al sinistro (48).
Analogo è il recentissimo caso verificatosi ai Giochi Olimpici di Van-
couver del 2010, dove lo slittinista georgiano Nodar Kumaritashvili, uscito
dal budello ghiacciato, è andato a battere contro un palo metallico; al ri-
guardo, ci si è chiesti se la pista fosse diventata troppo veloce a causa di pro-
blemi di umidità, oppure se l’incidente sia stato provocato dalla ridotta al-
tezza del muro di contenimento della pista, ovvero dalla mancata protezio-
ne dei piloni posti ai margini della stessa, od ancora da un errore dell’atleta.
Dai casi analizzati sembra di poter ricavare, in prima approssimazione,
i seguenti criteri:
– il limite della responsabilità dell’organizzatore nei confronti degli atleti
è rappresentato dal rischio consentito in ogni singola attività sportiva,
pericolosa o meno; di tal che, se la lesione è contenuta entro detto ri-
schio, l’organizzatore, in linea di principio, non risponde, né risponderà
del danno l’atleta che lo ha provocato;
– se invece l’evento lesivo si pone oltre il confine del rischio accettato nel-
la singola competizione sportiva, verrà in rilievo l’eventuale responsabi-
gola disciplina. A commento della medesima decisione, si richiamano altresì Cerbara, Natu-
ra dell’attività di predisposizione del campo di gara, in Riv. dir. econ. sport, 2009, p. 111 ss., e Se-
sti, Attività di organizzazione di un evento sportivo: l’inefficacia dell’accettazione del rischio da
parte dell’atleta, in Resp. civ. prev., 2009, p. 1555 ss.
(48) Sempre in tema di predisposizione del campo di gara, ed in linea con la tesi che ravvi-
sa la responsabilità dell’organizzatore soltanto quando esponga gli atleti ad un rischio mag-
giore di quello consentito, si richiama la decisione di Trib. Viterbo, 12.7.2002, in Giur. merito,
2003, p. 2191, alla cui stregua “il giocatore di calcetto che abbia subito una lesione pretesa-
mente per inidoneità del fondo del campo ove si giocava può chiedere di essere risarcito ex
art. 2043 c.c. allegando la responsabilità dell’organizzatore del torneo nel cui ambito la parti-
ta era stata disputata soltanto se ne prova la colpa nell’avere, per negligenza, scelto un im-
pianto che a priori apparisse pericoloso sì da potersi prevedere l’evento dannoso seguito nel-
l’uso dello stesso”.
168 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(49) Frequentemente il profilo della “agibilità” della pista è venuto in questione in tema di
rally; si segnala, al riguardo, Cass., 6.5.2008, n. 11040, in Giust. civ., 2008, p. 2136, che, doven-
dosi pronunciare sulle rispettive responsabilità in capo al pilota ed agli organizzatori di una
gara di rally, nella quale era stato ferito uno spettatore, ha affermato fra l’altro, quanto al pilo-
ta, che “nel caso di danni causati da un pilota di rally nel corso di una competizione su un cir-
cuito interdetto al traffico veicolare, mentre deve escludersi l’invocabilità, da parte della vitti-
ma, della presunzione di cui all’art. 2054 c.c. nei confronti del pilota medesimo, la responsa-
bilità di quest’ultimo può essere affermata soltanto ove si accerti la grave violazione di regole
minime di diligenza, ovvero del regolamento di gara. Deve, di conseguenza, escludersi che la
sola elevatissima velocità tenuta nel corso della gara possa costituire fonte di responsabilità
per il pilota”; quanto invece alla condotta degli spettatori ed alla responsabilità dell’organiz-
zatore, la Suprema Corte ha rilevato che “[…] le circostanze (non più esaminabili nelle pre-
sente sede di legittimità) rendono evidente la situazione di pericolo alla quale si esposero gli
spettatori poi investiti, come rendono evidente che sarebbe stato onere proprio ed esclusivo
degli organizzatori della corsa approntare le precauzioni indispensabili al fine di evitare il
concretizzarsi di tale pericolo”; sulla base di tali principi, quindi, la decisione ha ritenuto che
non sussistesse una responsabilità ex art. 2043 c.c. a carico del pilota. Sempre in tema di rally,
si ricorda altresì Cass. Pen., 3.7.2008, n. 35326, in Arch. giur. circol., 2009, p. 619, la quale, in una
fattispecie in cui un’auto in panne era stata lasciata ferma ai bordi della carreggiata anziché es-
sere spostata dalla pista, né era stata sospesa la gara, causando ciò uno scontro in cui un pilo-
ta aveva riportato lesioni personali, ha rigettato la tesi difensiva dell’organizzatore, secondo
cui la pericolosità insita in quel tipo di competizioni lo esimerebbe da responsabilità, sancen-
do che « se […] è corretto affermare che un corsa automobilistica – nella specie un rally di
montagna – rappresenta un classico esempio di attività sportiva pericolosa e viene disciplina-
ta da regole di condotta che non sono ispirate al comune concetto di prudenza, ciò vale per la
valutazione delle condotte dei gareggianti, non certo di coloro che devono organizzare la ga-
ra cui è demandato l’obbligo giuridico di attuare tutte le cautele possibili atte ad evitare inci-
denti “appunto di gara”». Si veda inoltre Cass., 8.11.2005, n. 21664, in Foro it., 2006, I, c. 1459,
che si è pronunciata in una fattispecie in cui un pilota, durante una gara di go-kart, perdeva la
vita schiantandosi contro una vettura parcheggiata in prossimità della pista, dopo essere usci-
to di strada in seguito ad una manovra di sorpasso; in tal caso, la Suprema Corte ha statuito
che “gli organizzatori di una gara sportiva (nella specie, una gara di go-kart) rispondono dei
danni subiti dai partecipanti alla gara o dal pubblico qualora abbiano omesso di predisporre le
normali cautele idonee a contenere il rischio nei limiti confacenti alla singola attività sportiva
(colpa generica), alla stregua dei criteri di garanzia e protezione che l’organizzatore ha l’ob-
SAGGI 169
bligo di rispettare nel caso concreto (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito,
che aveva ravvisato la colpa dell’organizzatore che non aveva provveduto affinché la zona ai
lati della pista fosse lasciata libera per tutta l’ampiezza prevista dal regolamento, e non aveva
verificato l’avvenuto collocamento di un numero idoneo di balle di paglia ai bordi della pista
e nelle zone a maggior rischio)”. Sui medesimi aspetti, si vedano altresì App. Genova,
4.9.1991, in Riv. dir. sport., 1992, p. 79, per la quale “sussiste la responsabilità dell’organizzato-
re per l’incidente occorso a un atleta durante la competizione sportiva, quando egli abbia
omesso di assicurare con tutte le possibili ed opportune cautele che lo svolgimento della ma-
nifestazione potesse aver luogo senza pericolo per l’incolumità delle persone dei partecipan-
ti”; nonché Trib. Verona, 13.7.1990, in Resp. civ. prev., 1992, p. 808 con nota di Dassi, nonché
in Giur. it., 1993, I, 2, c. 378, con nota di Battisti, per la quale “sussiste la responsabilità del-
l’organizzatore di una autogimcana per i danni provocati agli spettatori dall’incidente avve-
nuto sul luogo della manifestazione, se questi non prova di avere adottato tutte le misure ido-
nee ad evitare il danno. Va esclusa la responsabilità del patrocinatore della manifestazione
sportiva, se questi si è limitato ad erogare contributi per la sua realizzazione, senza partecipa-
re all’organizzazione”.
(50) Dini, L’organizzatore, cit., p. 426 ss.
(51) Sia quelli forniti dall’organizzatore, che quelli di proprietà degli atleti stessi; sul pun-
to, Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 121, per il quale, qualora l’atleta faccia uso di
mezzi tecnici propri, l’organizzatore ha l’obbligo di verificarne la regolarità.
(52) Bertini, La responsabilità nello sport., cit., p. 121.
(53) Come riferisce Bertini, La responsabilità nello sport., cit., p. 122, che infatti, nel sen-
so dell’applicabilità in tal caso dell’art. 2051 c.c., richiama la pronuncia del Trib. Rovereto,
10.12.1971 in Riv. dir. sport., 1971, p. 431, avente ad oggetto un caso in cui un giovane atleta,
dopo essersi impossessato indebitamente di un giavellotto nel corso di una manifestazione
170 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
l’atleta elusiva del controllo sui mezzi tecnici di sua proprietà, come per
esempio nel caso in cui quest’ultimo abbia dolosamente sostituito i mezzi
stessi dopo i controlli tecnici eseguiti dall’organizzatore (54).
Sempre in merito alle responsabilità degli organizzatori relativamente
alla sicurezza degli atleti, degli spettatori, dei terzi, interessati o meno alla
gara, ed agli obblighi degli stessi di predisporre le cautele necessarie ad evi-
tare che nei luoghi dove si svolge lo spettacolo sportivo si possano concre-
tizzare pericoli ai loro danni, si ritiene che l’organizzatore della manifesta-
zione sportiva sia tenuto, a tal fine, ad apporre cartelli segnalatori, ad impar-
tire con manifesti le opportune disposizioni ai concorrenti ed al pubblico,
ad innalzare transenne o altri sistemi protettivi a tutela degli spettatori, non-
ché ad osservare le prescrizioni di pubblica sicurezza, le regole federali, le
circolari e le ulteriori disposizioni che siano eventualmente emesse dalla
competente autorità governativa a tutela degli interessi della collettività ed
in relazione allo specifico livello di pericolosità che si accompagna a ciascun
sportiva, lo aveva lanciato contro un altro atleta, ferendolo; al riguardo, la decisione nell’e-
scludere in concreto la responsabilità dell’organizzatore per omessa custodia degli attrezzi,
ha comunque affermato l’astratta applicabilità al caso di specie dell’art. 2051 c.c. . Al riguardo,
si vedano altresì Cass., 28.10.1995, n. 11264, in Danno e resp., 1996, p. 74, con nota di Ponza-
nelli; nonché in Riv. dir. sport., 1996, p. 87, con nota di Laghezza, che ha affermato la re-
sponsabilità, ex art. 2051 c.c., di una società di tennis, per la distorsione riportata da un gioca-
tore a causa di una buca presente sul campo; nonché Trib. Pinerolo, 3.4.1999, n. 86, inedita,
che in un caso di lesioni di uno sciatore, riportate in seguito ad uno scontro con un pilone non
protetto posizionato su una pista da sci, ha ritenuto la responsabilità della società sportiva
convenuta ex art. 2051 c.c., per aver omesso di predisporre le dovute protezioni; Cass. Pen.,
10.11.2005, n. 11361, in Guida al dir., 2006, n. 20, p. 105, per la quale “il responsabile di attrez-
zature sportive o ricreative è titolare di una posizione di garanzia a tutela dell’incolumità di
coloro che le utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del «neminem laede-
re», sia nella sua qualità di « custode » delle stesse attrezzature (come tale civilmente respon-
sabile, per il disposto dell’art. 2051 c.c., fuori dall’ipotesi del caso fortuito, dei danni provoca-
ti dalla cosa), sia, infine, quando l’uso delle attrezzature dia luogo a un’attività da qualificarsi
pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., quale soggetto obbligato ad adottare tutte le misure ido-
nee a evitare l’evento dannoso. (Fattispecie in cui della morte di uno dei partecipanti a una ga-
ra automobilistica era stato chiamato a rispondere, a titolo di omicidio colposo, l’amministra-
tore delegato e direttore dell’autodromo, cui era stato addebitato di non avere adeguatamen-
te protetto, con barriere di pneumatici, un muretto di protezione contro il cui spigolo la vitti-
ma era andata a sbattere dopo una collisione con altra vettura)”; identici principi si rinvengo-
no affermati anche da Cass. Pen., 27.5.2003, n. 34620, in Riv. pen., 2003, p. 959, in una fattispe-
cie in cui un circuito per go-kart è stato reputato carente di barriere idonee ad evitare l’uscita
di pista dei veicoli, tanto da consentire che il mezzo condotto da un minorenne, che ne aveva
perso il controllo, abbattesse la protezione esistente e urtasse violentemente contro un osta-
colo esterno.
(54) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 121.
SAGGI 171
(55) Su tutti tali aspetti, Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 129 ss.
(56) Al riguardo, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 119.
(57) In tal senso, Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsabilità civile nello sport, cit.,
p. 33. A supporto – sia pure non del tutto espresso – dell’assunto, sembra altresì di poter ri-
chiamare Trib. Milano, 29.2.2008, n. 2671, in Giustizia a Milano, 2008, n. 3, p. 20, per il quale,
“nel caso di caduta di un concorrente nel corso della fase finale di una gara ciclistica deve es-
sere dichiarata la responsabilità solidale dell’Unione Sportiva, organizzatrice della gara e del-
la Federazione ciclistica italiana ai sensi degli art. 2043 e 2049 c.c. quando dalla espletata
istruttoria siano risultate evidenti carenze e limiti organizzativi e di gestione della sicurezza
della competizione, soprattutto tenuto conto del particolare contesto durante il quale la ca-
duta si è verificata (fase concitata della gara corrispondente alla volata finale dei ciclisti). È in-
dubbio infatti che l’attività agonistica implichi l’accettazione del rischio ad essa inerente da
parte di coloro che vi partecipano, sicché eventuali danni da essi sofferti, rientranti nell’alea
normale, ricadono sugli stessi, mentre è sufficiente che gli organizzatori, al fine di sottrarsi ad
ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele idonee a contenere il rischio nei
limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali regolamenti all’uopo
previsti”. In merito al profilo considerato, si vedano altresì i rilievi di Stanca, Natura della re-
sponsabilità dell’organizzatore di gare sportive, cit., p. 148, per la quale “l’atleta ripone ragione-
172 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
vole affidamento sulla circostanza che l’organizzatore abbia predisposto le misure volte a ga-
rantire la sicurezza del campo di gara o della pista da gioco”, di tal che “i danni riportati dallo
sportivo a causa della violazione di leggi o di regolamenti tecnici da parte degli organizzatori
non rientrano nell’area di rischio assunto”.
(58) V. spec. art. 3.
(59) Indaga la questione con specifico riguardo all’idoneità psico-fisica dello sciatore par-
tecipante ad una gara, Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., p. 344 ss.
(60) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 127. Si tenga conto che può capitare che sia
l’atleta a nascondere malori per impedire la formulazione di una corretta diagnosi; al riguar-
do giova ricordare il famoso caso Curi, inerente un calciatore del Perugia deceduto nel corso
di una partita di calcio a seguito di un improvviso attacco di cuore. La Suprema Corte, nel va-
SAGGI 173
lutare l’imputazione di omicidio colposo a carico del medico della società, ha evidenziato che
l’atleta, nonostante fosse affetto da un’infermità che gli cagionava notevoli sofferenze nel cor-
so dei suoi impegni sportivi, non si era mai lamentato di ciò con alcuno (medici, familiari,
amici), ma aveva, anzi, partecipato all’attività agonistica in modo brillante, riscuotendo popo-
larità e ammirazione, sia superando i compagni di squadra sia, a livelli elevati, le ripetute pro-
ve sotto sforzo cui veniva sottoposto; cosicché, la decisione ha affermato la rilevanza del con-
corso colposo dell’atleta nel sottacere le proprie patologie al medico: Cass. Pen., 9.6.1981, in
Foro it., 1982, II, c. 268. Si veda inoltre, sul punto, la precedente nota 23.
(61) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 127 ss. In merito alla necessità, sancita dal-
le norme regolamentari della F.I.G.C., che, nell’ambito di una partita di calcio fra dilettanti, la
squadra organizzatrice – ovvero quella ospitante – assicuri la presenza a bordo campo di un
medico al fine di assicurare un pronto soccorso agli atleti che si dovessero infortunare nel cor-
so della gara, si v. Trib. Napoli, 29.1.1996, in Riv. dir. sport., 1997, p. 91, con nota di De Marzo,
che, alla luce di tali previsioni, ha escluso la possibilità di imputare la responsabilità derivante
dall’assenza di un sanitario in campo a carico della squadra ospitata, la quale era stata conve-
nuta in giudizio per il risarcimento del danno dal giocatore che nella stessa militava e che,
infortunatosi nel corso della partita, non aveva ricevuto adeguate cure.
(62) Trib. Genova, 4.5.2000, in Foro it., 2001, I, c. 1402.
(63) Izzo, Le responsabilità nello sport, cit., p. 143.
(64) Trib. Genova, 4.5.2000, cit.
174 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
sarcimento anche dei danni non prevedibili (71); al riguardo, si ammette al-
tresì la possibilità del cumulo fra le due azioni (72).
La tematica della responsabilità extracontrattuale dell’organizzatore in-
troduce l’ulteriore aspetto dell’eventuale pericolosità della manifestazione
sportiva da organizzare, con possibile applicazione dell’art. 2050 c.c. (73).
(71) Su tale profilo si v. Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 122, ove si evidenzia la mag-
giore elasticità dell’azione extracontrattuale sotto il profilo delle voci di danno risarcibili. Sui
riflessi concreti della distinzione fra danni prevedibili e non prevedibili nell’ambito sportivo, si
veda Liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit., p. 146 ss., nonché Lepore,
La responsabilità nell’esercizio e nell’organizzazione delle attività sportive, cit., pp. 279-280.
(72) In tal senso, con riferimento all’organizzazione di un incontro di calcio professioni-
stico, Trib. Milano, 21.9.1998, n. 10037, in Riv. dir. sport., 1999, p. 556, nonché in Danno e resp.,
1999, p. 234, per il quale “sussiste responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dell’orga-
nizzatore di un incontro di calcio professionistico per i danni subiti da uno spettatore colpito
da oggetti lanciati da parte di altri tifosi in quanto l’attività di gestione di uno stadio di calcio
costituisce attività pericolosa in relazione alla sua stessa natura e per le caratteristiche dei
mezzi adoperati”. Si veda altresì Di Ciommo-Viti, La responsabilità civile, cit., 291, alla cui
stregua, per quanto riguarda i danni subiti dagli sportivi “potrebbero concorrere due diversi
titoli di imputazione, rappresentati dalla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale,
chiamati in causa o meno, a seconda che al danneggiato facciano capo diverse situazioni pro-
tette”; nonché Bertini, La responsabilità civile, cit. p. 131 ss., che sul punto riporta la decisio-
ne di Trib. Roma, 31.12.1952, in Temi romana, 1954, p. 211, la quale afferma, in presenza di
danni sofferti dagli spettatori, la possibilità di cumulo della responsabilità contrattuale e di
quella extracontrattuale. Gli aa. menzionati richiamano peraltro, più in generale, sul tema del
cumulo fra i due titoli di responsabilità, quanto affermato da Cass., 6.3.1995, n. 2577, in Giu-
st. civ. Mass., 1995, secondo la quale, “è ipotizzabile il concorso tra responsabilità contrattua-
le e responsabilità extracontrattuale non solo quando lo stesso fatto è imputabile a più autori,
a diversi titoli, ma anche quando in capo ad una stessa persona danneggiata sussiste una mol-
teplicità di situazioni protette, in relazione sia ad un precedente obbligo relativo, sia a divieti
generali ed assoluti. Tali sono, per loro natura, quelli che tutelano gli interessi considerati dai
delitti previsti dal codice penale, rispetto ai quali la tutela civilistica assegnata alle vittime co-
stituisce il riflesso patrimoniale della violazione di un divieto più ampio, che prescinde dall’e-
sistenza di obblighi di origine contrattuale ed attiene, invece, al diritto assoluto del soggetto
di non subire pregiudizio ai diritti personalissimi, o quello di proprietà, di cui è titolare. (Nel-
la specie, la S.C., enunciando il principio di diritto di cui alla massima, ha confermato la sen-
tenza del giudice di merito, il quale – rilevato che la tutela civile del diritto derivante da una
scrittura contrattuale era stata promossa con la costituzione nel procedimento penale e poi
proseguita nell’unica sede disponibile dopo l’estinzione di quel procedimento – aveva fatto
cenno al principio dell’unicità della giurisdizione per sostenere l’opportunità di far salve le ac-
quisizioni del giudice penale e, nel determinare le quantità di danno spettante all’attore, ave-
va fatto applicazione delle norme che provvedono al danno extracontrattuale)”. Così, in pre-
cedenza, anche Cass., 7.8.1982, n. 4337, in Resp. civ. prev., 1984, p. 78, anch’essa richiamata, al
riguardo, da Grassani, in nota a Trib. Vigevano, 9.1.2006, n. 426, ne La responsabilità risarci-
toria, cit., p. 23 ss.
(73) Per una fattispecie particolare si veda, al riguardo, Trib. Firenze, 15.12.1989, in Riv.
SAGGI 177
dir. sport., 1991, p. 95, la quale, pronunciandosi in merito ad incidenti occorsi durante una par-
tita di calcio in costume, ha affermato che “la disciplina della responsabilità di cui all’art. 2050
c.c. non si applica al calcio in costume dato che non può ritenersi che tale attività sportiva sia
di per sé pericolosa. Pertanto, se alla partita si sovrappone una rissa, questa resta concettual-
mente e giuridicamente distinta dalla manifestazione ufficiale e non è quindi ipotizzabile la
responsabilità oggettiva per le conseguenze dannose dell’incidente del comitato di gestione
della manifestazione”. Più in generale, sempre con riguardo al calcio, si veda la Cass.,
19.1.2007, n. 1197, in Diritto dello sport, 2007, p. 663, che, nel decidere una fattispecie in cui un
minore, durante l’ora di educazione fisica a scuola, nel giocare a calcio era scivolato sul pallo-
ne e si era procurato la frattura di un avambraccio, ha affermato che “deve escludersi che al-
l’attività sportiva riferita al gioco del calcio possa essere riconosciuto il carattere di attività pe-
ricolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., trattandosi di disciplina che privilegia l’aspetto ludico, tan-
to che è praticata normalmente nelle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non pro-
grammatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico, tale da esclude-
re ogni riferibilità alla prescrizione dell’art. 2050 c.c.”. Sul tema, si vedano inoltre i cenni di
Ponzanelli, Responsabilità civile e attività sportiva, in Danno e resp., 2009, p. 603, che alla no-
ta n. 3 richiama talune decisioni che hanno ricondotto all’ambito di applicazione dell’art. 2050
c.c. l’attività dell’organizzatore di eventi sportivi.
(74) Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsabilità civile nello sport, cit., p. 34 ss.
(75) Sul punto, fra gli altri, Franzoni, La responsabilità civile nell’esercizio di attività spor-
tive, in Resp. civ., 2009, p. 922 ss.
178 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(76) Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che richiama in tal senso, alla nota
13, numerose decisioni riferite al ciclismo, al motociclismo, all’automobilismo ed all’equita-
zione, mentre dà atto dell’orientamento non univoco della giurisprudenza in merito all’atti-
vità sciistica, che non configurerebbe infatti di per sé attività pericolosa ove resti “semplice
modo di trasferimento”, mentre lo diventerebbe ove esercitata “per scopi agonistici”. L’a. af-
ferma lo stesso principio anche con riguardo al calcio, rilevando come lo stesso configuri atti-
vità pericolosa quando si tratti di incontro professionistico – e richiama in tal senso, alla nota
14, Trib. Torino, 8.11.2004, in Giur. it., 2005, p. 720, con nota di Visintini (che si commenterà
infra più ampiamente) – osservando che invece “di tutt’altro tenore sarebbe stata la decisione
se la partita si fosse svolta nel campo di calcio della parrocchia di un piccolo paese di monta-
gna”. Per la negazione del carattere pericoloso dell’attività di organizzazione di una corsa ci-
clistica, si v. Trib. Brescia, 5.3.1970, in Riv. dir. sport., 1970, p. 251, che, in relazione alla re-
sponsabilità gravante sugli organizzatori di una corsa ciclistica, distingue fra gare a circuito
chiuso e gare a circuito aperto, riferendo unicamente alle prime un obbligo di ispezione della
strada in capo agli organizzatori allo scopo di verificare se vi siano eventuali insidie che po-
trebbero essere causa di cadute dei partecipanti, mentre nelle seconde, poiché sul percorso
circolano anche altri veicoli con l’obbligo per i partecipanti di osservare le regole del codice
stradale, non vi sarebbe alcun dovere di preventiva ispezione, essendo obbligo della P.A.
mantenere in efficienza le strade aperte al traffico. In relazione ad una gara ciclistica organiz-
zata su circuito aperto, si v. anche Trib. Milano, 10.3.2003, in Giur. merito, 2003, p. 2184, che ha
affermato la responsabilità degli organizzatori (in concorso con quella dell’automobilista) per
le lesioni occorse ad un corridore finito contro una macchina parcheggiata nella zona del tra-
guardo, che non era stata precauzionalmente transennata, così consentendo al guidatore di
transitare sotto lo striscione di arrivo e di sostare sulla dirittura finale del percorso di gara nel-
l’imminenza dell’arrivo dei partecipanti.
(77) Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che cita sul punto, alle note 15 e 16,
numerose pronunce di merito.
(78) Nuovamente Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che alle note 17-20 ri-
chiama le numerose decisioni che hanno fatto applicazione di tale principio.
SAGGI 179
(79) Si veda, al riguardo, la rassegna di Trib. Milano, 18.7.1963, in Riv. dir. sport., 1963, p.
378.
(80) App. Milano, 2.6.1981, in Riv. dir. sport., 1983, p. 411, relativa ad una gara automobili-
stica, ove si rinviene l’ulteriore precisazione secondo cui l’appalto a terzi del servizio antin-
cendio, la cui inefficienza abbia cagionato il danno, non esclude di per sé la responsabilità ver-
so i danneggiati dell’organizzatore della gara, istituzionalmente obbligato ad assicurare il ser-
vizio stesso, ove manchi la dimostrazione che, da parte sua, sono state adottate tutte le misu-
re idonee ad evitare il danno; Cass., 24.1.2000, n. 749, in Foro it., 2000, I, c. 2861, che ha affer-
mato il principio per cui “la organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al traf-
fico (anche se di regolarità) è un’attività alla quale è applicabile l’art. 2050 c.c.”.
(81) Fra le altre, Trib. Milano, 21.9.1998, n. 10037, cit. . Alla tematica è peraltro dedicato il
successivo paragrafo 4, cui si rinvia.
(82) Cass., 15 luglio 2005, n. 15040, in Giust. civ. Mass., 2005, che, pur affermando che, in
linea di principio, la pratica agonistica dello sci e, correlativamente, anche l’attività di orga-
nizzazione di una competizione sciistica presenta carattere pericoloso, ha tuttavia ritenuto
appagante sotto il profilo della motivazione la decisione del giudice d’appello, che aveva
escluso la ricorrenza del carattere della pericolosità nell’attività concretamente esercitata nel-
la specie, trattandosi di gara svoltasi su pista larga, con andamento rettilineo, con un normale
muretto di neve ai lati, nel corso della quale nessun altro atleta era caduto. Il carattere perico-
loso dell’attività di organizzazione di una gara sciistica è stato escluso anche da Cass., 28 feb-
braio 2000, n. 2220, cit., che ha tuttavia rimesso al giudice di rinvio il compito di valutare se
nella specie vi fosse stata una qualche condotta colposa, rilevante ex art. 2043 c.c., sia da parte
della F.I.S.I., che da parte dall’arbitro nell’aver organizzato e nell’aver fatto disputare una ga-
ra di discesa libera con atleti minorenni su una pista a tratti ghiacciata.
(83) Trib. Verona, 13.7.1990, cit., che viene richiamata, a tal proposito, da franzoni, La re-
sponsabilità civile, cit., p. 922 ss.
(84) Cass., 30.1.2009, n. 2493, in Giust. civ. Mass., 2009, che ha tuttavia confermato la deci-
180 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
sione di merito che aveva nella specie escluso la responsabilità dell’organizzatore per aver ri-
tenuto da questi provato il caso fortuito; la pronunzia ha altresì confermato l’assunto circa la
pericolosità, di per sé, dello sport della canoa kajak.
(85) Trib. Milano, 21.11.2002, in Giur. milanese, 2003, p. 80.
(86) Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 123.
(87) Si veda tuttavia il caso del lancio del fumogeno nella partita Juventus-Roma, deciso
da Trib. Torino, 8.11.2004, cit., anche in Giur. merito, 2006, p. 90, con nota di Rocchio, nonché
in Danno e resp., 2006, p. 767, con nota di Maietta, decisione che ha affermato la responsabi-
lità dell’organizzatore – Juventus, per non avere fornito la prova liberatoria richiesta dall’art.
2050 c.c., “la cui « ratio » è proprio […] quella di contemperare gli interessi (economici) del
soggetto che esercita una determinata attività pericolosa con l’interesse preminente della tu-
tela dell’incolumità delle persone e delle cose tramite la voluta scelta di porre il rischio dei
danni derivanti da tale attività su coloro che ne traggono lucro”.
SAGGI 181
(88) In tal senso, Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 137, nonché, con specifico ri-
guardo alle clausole limitative della responsabilità dell’organizzatore in relazione ai danni
provocati agli atleti, Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., p. 362 e Lepore,
Responsabilità civile e tutela della “persona-atleta”, cit., p. 264 ss., il quale esprime perplessità
sulle clausole di esonero anche alla luce del fatto che esse hanno ad oggetto la responsabilità
derivante dalla lesione di un diritto indisponibile e avente rilievo costituzionale, quale quello
alla salute di un individuo, ma conclude nel senso che queste siano valide ove riguardino le-
sioni di minima entità funzionali all’attività sportiva praticata.
(89) Di cui al d.lgs. 6.9.2005, n. 206, spec. artt. 33 e ss.
(90) Con particolare riferimento alle clausole di esonero della responsabilità predisposte
dalla F.I.S.I., si v. Trib. Roma, 15.9.2000, in I contratti, 2002, p. 254, con nota critica di Cara-
mico D’Auria, che, per contro, ha escluso che potessero trovare applicazione gli allora vi-
genti artt. 1469 bis e ss., c.c., fra la Federazione sportiva e i suoi iscritti, “essendosi in presenza
di un tipico rapporto associativo volto al perseguimento di uno scopo comune”; se ne è per-
tanto fatta discendere la conseguenza che “l’atleta tesserato non può considerarsi come consu-
matore così come la Federazione convenuta non può qualificarsi come professionista”.
(91) Si veda, al riguardo, la superiore nota 79 e la rassegna di decisioni operata dalla ivi ri-
chiamata Trib. Milano, 18.7.1963.
182 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(97) Fra gli altri, Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che alla nota 16 richia-
ma anche giurisprudenza di merito in tal senso; nonché Sferrazza, La responsabilità ogget-
tiva delle società di calcio, in Resp. civ. prev., 2008, p. 2154 ss., spec. par. 5.
(98) L’art. 2087 c.c. è infatti considerato norma portante del sistema, in materia di sicurez-
za sul lavoro.
(99) Cass., 8.1.2003, n. 85, in Resp. civ. prev., 2003, p. 765, con nota di Gherardi.
SAGGI 185
(100) In tal senso, Gherardi, Responsabilità contrattuale delle società calcistiche a livello
professionistico per infortuni subiti dai calciatori, in nota a Cass., 8.1.2003, n. 85, cit., colloc. cit.,
p. 770.
(101) Maietta, La responsabilità civile delle società di calcio: osservazioni a margine del ca-
so “Giampà”, in Riv. dir. econ. sport, 2005, p. 41 ss.; Idem, Cartelli pubblicitari nello stadio e re-
sponsabilità delle società sportive: il caso Giampà, in Danno e resp., 2005, p. 337 ss.
186 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
c.c., ipotizzata a carico della società sportiva per omessa vigilanza sul cor-
retto posizionamento del supporto pubblicitario – che sembra fosse stato
spostato dopo il controllo degli ufficiali di gara – nonché “per omessa ado-
zione delle misure di sicurezza necessarie a rendere l’insidia del ferro sporgente
del cartello pubblicitario visibile e prevedibile” (102).
Si è ritenuto peraltro che, nel caso esaminato, si sarebbe in linea di prin-
cipio ben potuta prospettare anche una responsabilità ex art. 2051 c.c., per
danni da cose in custodia, atteso che i cartelloni pubblicitari collocati all’in-
terno allo stadio di calcio sono soggetti al continuo monitoraggio del sog-
getto-custode, sul quale ricadono gli obblighi di vigilanza sulla loro inte-
grità o comunque non alterazione o non rimozione da parte di terzi (103).
Per attività di “custodia” si intende infatti “qualsiasi relazione fra la cosa
ed il soggetto, tale per cui si possa ritenere che a quest’ultimo incomba un do-
vere di controllo su di essa” (104); per aversi vera e propria custodia, è quindi
necessario che la cosa custodita, che abbia causato la lesione, si trovi sotto
la diretta sorveglianza e dipendenza assoluta del custode, con esclusione di
qualsiasi altra persona (105).
Il custode delle cose risponde quindi del danno dalle stesse (dinamiche
o statiche) prodotto, a meno che provi il caso fortuito o il fatto del terzo, se
autonomo, imprevedibile ed inevitabile.
Pertanto, poiché nel “caso Giampà” si è ritenuto che non si fosse verifi-
cato un fatto del terzo, od un fattore esterno, tali da interrompere il nesso
causale fra il custode (società sportiva Messina), la cosa e l’evento lesivo, sa-
rebbe stato verosimilmente ipotizzabile, a carico della società di calcio Mes-
(102) Così, Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., p. 46 ss. Critico sul
punto Lepore, Responsabilità civile e tutela della “persona-atleta”, cit., p. 254 ss., ad avviso del
quale, nel caso di specie, sarebbe stato necessario approfondire meglio l’effettivo ruolo gioca-
to dalla società del Messina in merito alla gestione dello stadio e alla predisposizione della
cartellonistica pubblicitaria ivi presente, non essendo sempre detto che chi organizza l’incon-
tro si occupi anche di questo particolare aspetto, circostanza data invece per scontata dalla
dottrina citata; l’a. riferisce anche in merito alla pronuncia emanata dal Tribunale penale di
Messina, in data 28.9.2006, che ha sancito la condanna del legale rappresentante della società
che gestiva la cartellonistica e del tecnico allestitore, a tre mesi di reclusione e venti giorni di
arresto per entrambi e alla liquidazione delle spese sostenute dal giocatore: tale ultima sen-
tenza individua, a suo avviso, il vero responsabile delle lesioni occorse a Giampà, ovvero la
società pubblicitaria e non il Messina calcio. Identiche conclusioni, nel senso dell’applicabi-
lità dell’art. 2050 c.c., potrebbero a maggior ragione ipotizzarsi ove l’atleta leso in dipendenza
della mancata predisposizione di idonee cautele non fosse contrattualmente legato all’orga-
nizzatore.
(103) Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., pp. 48-49.
(104) Per tutti, Alpa, Bessone, Zeno Zencovich, I fatti illeciti, in Trattato di diritto priva-
to, diretto da Rescigno, 14, 2a ed., Torino, 1995, p. 354.
(105) Geri, Responsabilità civile da custodia, in Resp. civ. prev., 1974, p. 169.
SAGGI 187
lumità degli spettatori, anche sulla fase dell’ingresso e dell’uscita dallo sta-
dio” (109). In applicazione di tale principio, le medesime decisioni hanno pe-
raltro in concreto escluso la responsabilità civile della società sportiva per le
lesioni subite da uno spettatore fuori dallo stadio in seguito alle percosse
dei tifosi avversari o procurate da lancio di oggetti contundenti, e a distanza
di tempo dalla conclusione dell’incontro; ciò, in quanto, in presenza di tali
circostanze, i comportamenti dei tifosi, se pure prevedibili, non sarebbero
comunque fronteggiabili.
In sede di appello, si è confermato che “l’obbligo contrattuale di garanti-
re lo spettacolo include anche quello di adottare tutte le misure idonee ad assi-
curare l’incolumità degli spettatori, misura accessoria rispetto a quella princi-
pale di fornire lo spettacolo”, per concludere tuttavia che va esclusa la re-
sponsabilità contrattuale dell’organizzatore della partita di calcio per i dan-
ni riportati da tifosi al termine della partita ed al di fuori dello stadio, atteso
che “esaurito lo spettacolo, gli spettatori che abbiano lasciato il luogo in cui es-
so si è svolto, non possono vantare alcuna pretesa in ordine ad un contratto
esaurito in ogni prestazione da entrambi i contraenti” (110).
Ed ancora, si è addirittura ritenuto (111) che l’obbligo contrattuale di ga-
rantire la sicurezza dello spettatore pagante si tradurrebbe nell’obbligo di
impedire l’introduzione ed il lancio di oggetti nello stadio; sussisterebbe
quindi un obbligo di vigilanza come momento “privatistico” della società di
calcio organizzatrice dell’evento, che sarebbe contrattualmente tenuta an-
che a porre in essere tutte le attività che occasionalmente e temporanea-
mente si configurano come strumentali al mantenimento dell’ordine pub-
blico.
Per contro, ad avviso di una decisione di merito più recente (112), la so-
cietà di calcio non sarebbe contrattualmente tenuta a garantire l’incolumità
degli spettatori, dovere che invece incomberebbe unicamente sulle forze
dell’ordine; sempre secondo la medesima decisione, inoltre, l’organizzato-
re di una partita di calcio non avrebbe neppure l’obbligo extracontrattuale
di salvaguardare l’incolumità degli spettatori dal lancio di oggetti ad opera
(109) Trib. Milano, 21.3.1988, cit.; nonché Trib. Milano, 18.1.1973, cit. Sul punto, si veda
anche Liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit., p. 142.
(110) App. Milano, 30.3.1990, cit. In merito alla richiamata decisione, si veda nuovamente
franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che sottolinea come, agli effetti della sussi-
stenza della responsabilità contrattuale dell’organizzatore, sia necessario che “il pregiudizio
lamentato dall’utente sia in rapporto di causalità con l’evento, dunque che il fatto dell’orga-
nizzatore possa essere considerato conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, se-
condo l’art. 1223 c.c.”.
(111) Giud. pace Napoli, 31.12.2003, in Giur. it., 2004, I, 2, c. 2324, con nota di Lucarelli.
(112) Trib. Perugia, 15.7.2005, in Resp. civ. prev., 2006, p. 1297, con nota di Zuddas.
SAGGI 189
di terzi, dal momento che il fatto del terzo escluderebbe il nesso causale e
considerato che l’organizzazione di una partita di calcio professionistico
non costituirebbe attività pericolosa, di tal che, secondo il principio genera-
le di cui all’art. 2043 c.c., andrebbe provato dal danneggiato l’elemento sog-
gettivo del fatto illecito (113).
Con riguardo all’orientamento giurisprudenziale che ha riconosciuto la
responsabilità extracontrattuale della società di calcio per danni arrecati ai
terzi, quali spettatori e tifosi, lo stesso ha fatto leva, di volta in volta, sulla re-
sponsabilità generale di cui al precetto del neminem laedere, ex art. 2043 c.c.,
e sulle responsabilità speciali di cui agli artt. 2049 e 2050 c.c.
Ed infatti, nel caso degli incontri di calcio professionistici, l’esigenza di
oggettivizzare la responsabilità per eventi dannosi occorsi durante le partite
riposa, da un lato, nella difficoltà di individuare un responsabile del com-
portamento dannoso (114), e, dall’altro, nell’esigenza di apprestare al dan-
neggiato una più veloce ed efficace azione risarcitoria (favor victimae) (115).
Si osserva, inoltre, che la frequenza con la quale in certi contesti si veri-
ficano eventi dannosi, ovvero la gravità degli stessi, rende qualificabile co-
me pericolosa l’attività di chi organizza una competizione sportiva, cosic-
ché si deve necessariamente richiamare l’art. 2050 c.c. con riferimento agli
incontri di calcio professionistico, circa il quale si constata, infatti, che lo
stesso, pur consistendo nel gioco intorno al pallone, si sviluppa e si amplifi-
ca tuttavia ben oltre tale ambito, come dimostra il crescendo di violenze ne-
gli stadi, nonché negli spazi immediatamente adiacenti.
Infine, la tendenza ad “oggettivizzare” la responsabilità delle società
sportive, in caso di eventi professionistici, si giustifica preminentemente sul
rilievo che lo sport, ed in particolare taluni sport, come il calcio, sono sempre
più da riguardare come business, in ragione dei molteplici interessi econo-
mici che vi ruotano attorno (pubblicità, sponsorizzazioni, diritti radiotelevi-
sivi, eventi promozionali . . .), cosicché ben si comprende l’esigenza di appli-
care il principio “cuius commoda eius et incommoda”, con conseguente re-
sponsabilità oggettiva della società sportiva per i danni arrecati ai terzi, co-
me, ad esempio, nel caso del lancio di fumogeno (116), ed agli atleti, come nel
caso, sopra esaminato, delle lesioni subite dal calciatore Domenico Giampà
del Messina calcio (117).
(113) Nella specie ritenuto insussistente: nel caso di cui trattasi, infatti, uno spettatore,
mentre era in fila per accedere alle gradinate, era stato colpito all’occhio sinistro da un ogget-
to lanciato da alcuni tifosi all’interno dello stadio.
(114) Ad esempio, nel caso del lancio di oggetti in campo dagli spalti: al riguardo, si richia-
ma nuovamente Trib. Torino, 8.11.2004, cit., che ha deciso in merito al lancio di un petardo.
(115) Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., p. 45.
(116) Trib. Torino, 8.11.2004, cit.
(117) Si veda, al riguardo, Maietta, La responsabilità civile delle società di calcio, cit., p. 46.
190 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(118) Che ha formato oggetto della più volte richiamata Trib. Torino, 8.11.2004.
SAGGI 191
tività pericolosa anche in casi nei quali sembrerebbe dover operare il princi-
pio generale per cui “ad impossibilia nemo tenetur” (119).
Analoga decisione è stata assunta in un altro caso di lancio di oggetti per
mancanza di coperture orizzontali (120); nella specie, l’anello inferiore riser-
vato ai tifosi della squadra ospite era più largo di quello superiore riservato
alla opposta tifoseria, dalla quale era quindi possibile un lancio di oggetti.
Anche in tale occasione, si è affermato che l’organizzazione di una par-
tita di calcio è attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., sia perché ritenu-
ta tale dalle numerose disposizioni volte ad impedire incidenti negli stadi o
fuori da essi, sia perché oggettivamente pericolosa, come dimostra la serie
di incidenti che sempre avvengono in occasione delle partite; è stato dato
altresì rilievo agli interessi economici coinvolti in questo tipo di eventi.
In questa prospettiva, si è ritenuto che il gestore dello stadio debba
adottare ogni misura idonea ad evitare il verificarsi di eventi dannosi che ve-
dano coinvolti gli spettatori, derivanti tanto da lanci di oggetti, quanto da
contatti fisici tra tifoserie avversarie, anche perché la normativa in materia
richiede che le strutture sportive siano predisposte per tenere separati i tifo-
si avversari e che le barriere tra settori siano realizzate con materiali resi-
stenti ed ignifughi (121).
nacciose o incitanti alla violenza; esse sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra ma-
nifestazione comunque oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza (art. 12,
comma 3°): in caso di violazione, il giudice sportivo applicherà la sanzione dell’ammenda; nei
casi più gravi, da valutare in modo particolare anche con riguardo alla recidiva, potrà essere
disposto l’obbligo di disputare uno o più gare a porte chiuse o con uno o più settori privi di
spettatori, ovvero potrà essere prevista la squalifica del campo per una o più giornate (art. 12,
comma 6°). Le società sono responsabili anche per i fatti violenti commessi dai propri soste-
nitori in occasione della gara, sia all’interno del proprio impianto sportivo, che nelle aree
esterne immediatamente adiacenti, quando siano direttamente collegati ad altri comporta-
menti posti in essere all’interno dell’impianto sportivo, se dal fatto derivi un pericolo per l’in-
columità pubblica o un danno grave all’incolumità fisica di uno o più persone (art. 14, comma
1°); per questi fatti è prevista la sanzione dell’ammenda con eventuale diffida; laddove la so-
cietà sia già stata diffidata o in caso di fatti particolarmente gravi potrà essere disposto l’obbli-
go di disputare uno o più gare a porte chiuse o con uno o più settori privi di spettatori, ovvero
potrà essere prevista la squalifica del campo per una o più giornate (art. 14, comma 2°). Le di-
sposizioni da ultimo richiamate si rinvengono nell’attuale Codice di giustizia sportiva entrato
in vigore il 1.7.2007. In relazione alle norme, di contenuto analogo, contenute nel Codice di
giustizia sportiva in vigore precedentemente, si è pronunciato il TAR Catania Sicilia,
19.4.2007, n. 679, in Foro Amm. TAR, 2007, p. 1484, con nota di Paolantonio, che ha dichiara-
to l’illegittimità delle norme disciplinari prevedenti la responsabilità oggettiva delle società
calcistiche per i fatti di violenza imputabili ai propri tifosi, invocando il principio di persona-
lità della pena, di cui all’art. 27 Cost. (nel caso di specie alcuni abbonati del Catania si erano ri-
volti TAR lamentando un danno in conseguenza dei provvedimenti assunti dal giudice spor-
tivo in seguito ai già richiamati disordini, in occasione dei quali, durante la partita Catania-Pa-
lermo, era morto l’agente Raciti; in applicazione delle norme del Codice sulla responsabilità
oggettiva delle società calcistiche, il giudice sportivo aveva infatti deciso che tutte le successi-
ve partite casalinghe del Catania di lì alla fine del campionato avrebbero dovuto disputarsi a
porte chiuse). La pronuncia citata è commentata da Forti, Riflessioni in tema di diritto disci-
plinare sportivo e responsabilità oggettiva, in Riv. dir. econ. sport, 2007, p. 13 ss., il quale (p. 24)
informa anche in merito ai successivi articolati sviluppi giudiziari della vicenda di specie, che
si è conclusa con la conciliazione fra Catania e F.I.G.C. davanti alla Camera di Conciliazione
e Arbitrato per lo Sport del C.O.N.I., nell’ambito della quale la società si è dichiarata estranea
al ricorso presentato dal gruppo di abbonati ed ha accettato la sanzione, ottenendo come con-
tropartita l’apertura dello stadio al pubblico per le ultime due giornate del campionato. La
sentenza è commentata anche da Castronovo, Pluralità degli ordinamenti, autonomia sporti-
va e responsabilità civile, in Europa e dir. priv., 2008, pp. 549-550, il quale, analizzandone la mo-
tivazione, rileva criticamente come il principio di personalità della pena sia stato richiamato a
sproposito dal giudice amministrativo, vertendosi, nella specie, non di responsabilità oggetti-
va penale di una persona fisica, ma di responsabilità oggettiva disciplinare (sportiva) di una
persona giuridica. Sulle regole di responsabilità oggettiva delle società calcistiche previste dal
Codice di giustizia sportiva in collegamento a comportamenti violenti dei propri tifosi, si v.
anche Franchini, Profili di attualità nella disciplina della Federazione italiana giuoco calcio, in
Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° Convegno Nazionale S.I.S.Di.C., Na-
poli, 2009, pp. 643-644, il quale ricorda anche che (ai sensi dell’art. 14, comma 4°) il giudice
SAGGI 193
sportivo, ai fini della non applicazione o dell’attenuazione delle sanzioni, può tenere in con-
siderazione la verificata sussistenza di una delle seguenti circostanze: adozione ed efficace at-
tuazione prima del fatto, di modelli di organizzazione e gestione della società idonei a preve-
nire comportamenti violenti, con impiego di risorse finanziarie ed umane idonee allo scopo;
ovvero concreta cooperazione della società con le forze dell’ordine e le altre autorità compe-
tenti per l’adozione di misure atte alla prevenzione e alla identificazione dei responsabili dei
fatti di violenza. Sul controverso istituto della responsabilità oggettiva sportiva e sul suo fon-
damento, si v. Tortora, Izzo, Ghia, Guarino, Danese, Nucci, Naccarato, Casolino, No-
varina, Diritto sportivo, cit., p. 103 ss.; Izzo, Le responsabilità nello sport, cit., p. 127 ss., ove ul-
teriori riferimenti. Sulle possibili conseguenze dell’affermazione della responsabilità oggetti-
va da parte del giudice sportivo sulla valutazione della responsabilità dell’organizzatore da
parte del giudice statale, si v. Santoro, Sport estremi e responsabilità, nei Quaderni di Respon-
sabilità civile e previdenza, Milano, 2008, pp. 174-175, la quale afferma che il giudice, chiama-
to a decidere in merito alla domanda di risarcimento del danno derivato da fatti ascrivibili al-
la responsabilità oggettiva della società, dovrà fondare la sua decisione non già sulla regola
dell’ordinamento sportivo, ma sulla regola di cui all’art. 2050 c.c., che, tuttavia, viene riempi-
ta di contenuto, sulla base della normativa sportiva: “in altri termini”, a parere dell’a. citata,
“le regole federali che addossano la responsabilità per il mantenimento dell’ordine pubblico
a carico delle società, specificando talvolta i singoli comportamenti costituenti infrazione […]
riempiono di contenuto la generale nozione di attività pericolosa riferita all’organizzatore
sportivo”; Liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit., pp. 86-87, il quale,
nel commentare l’inedita pronuncia di Trib. Crotone, 17 giugno 1993, n. 433, che ha condan-
nato la società al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità oggettiva proprio sulla base
della regola sportiva che configura la responsabilità oggettiva per i fatti di violenza ascrivibili
alla tifoseria, sottolinea la marcata funzionalità della responsabilità oggettiva sportiva a taluni
scopi, quali quelli della prevenzione dei fenomeni di violenza, perseguiti anche dall’ordina-
mento giuridico statale, rilevando che “è proprio questa funzione antiviolenza che sancisce
una sorta di dovere preventivo di induzione al controllo in capo all’organizzatore sportivo”,
ma precisando anche che la rilevanza dell’istituto della responsabilità sportiva oggettiva al-
l’interno del sistema generale della responsabilità civile “sembra, in ogni caso, condizionata
dallo stesso valore giuridico del caso fortuito”. Molto critico invece sulla decisione del tribu-
nale calabrese Castronovo, Pluralità degli ordinamenti, cit., pp. 554-555, il quale afferma che
“una decisione del genere è esemplare della incomprensione di ciò che autonomia dell’ordi-
namento sportivo sia, e pluralità degli ordinamenti giuridici significhi […] la regola dell’ordi-
namento collaterale sportivo […] non può diventare automaticamente, e quasi a mo’ di corol-
lario, responsabilità oggettiva degli stessi soggetti secondo l’ordinamento dello Stato […] Cia-
scun ordinamento può contenere regole di responsabilità, che si riferiscono agli ambiti suoi
propri: questo significa che non è possibile trarre effetti giuridici previsti in uno da regole con-
tenute in alcuno degli altri”.
194 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(122) Così, rispettivamente, Trib. Torino, 14.2.1971, in Riv. dir. sport., 1972, p. 74, e App.
Roma, 17.7.1971, in Riv. dir. sport., 1972, p. 256, entrambe richiamate da Bona, Castelnuovo,
Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 64.
(123) In tal senso, le già richiamate Trib. Milano, 21.3.1988, Trib. Milano, 18.1.1973, ed
App. Milano, 30.3.1990.
SAGGI 195
(126) Nello stesso senso, Stanca, Natura della responsabilità dell’organizzatore di gare
sportive, cit., p. 150 ss.
(127) Così, fra le varie, Cass., 13.2.2009, n. 3528, cit., emanata a proposito di una gara di
bob, e quindi di attività sportiva di per sé pericolosa.
(128) Ravvisata, in giurisprudenza e in dottrina, nella idoneità di detta attività e di detti
eventi a muovere moltitudini di spettatori, assiepandoli tutti in un medesimo impianto spor-
tivo. Assunto che potrebbe portare ad inferire che l’incontro professionistico giocato “a porte
chiuse” non connoti di pericolosità l’attività organizzativa.
SAGGI 197
(129) Ed infatti si vedano infatti, in tal senso, oltre la stessa Cass., 13.2.2009, n. 3528, cit.,
nonché le decisioni richiamate alle superiori note 76 ss., che hanno riconosciuto la pericolo-
sità dell’attività organizzativa di eventi sportivi aventi ad oggetto disciplinare di per sé ritenu-
te pericolose. Soluzione che potrebbe suscitare interrogativi con riferimento a sport, pure
“pericolosi”, quale ad esempio la scherma, nella cui organizzazione di eventi agonistici po-
trebbero non apparire di per sé ravvisabili, connotazioni di intrinseca pericolosità.
(130) Esprime peraltro rilievi critici in merito a tali assunti Liotta, Attività sportive e re-
sponsabilità dell’organizzatore, cit., p. 139.
GIOVANNI FACCI
(1) Al riguardo sono del tutto significativi i dati riportati nell’esauriente disamina effet-
tuata da Teotino, Uva, La ripartenza, Bologna, 2010, p. 271, da cui emerge come le entrate da
merchandising vedano la Serie A di calcio italiano all’ultimo posto da un raffronto con le altre
maggiori Leghe europee calcistiche.
(2) Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, presentata il 5 agosto 2008, in tema di
« Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per
la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive ».
(3) Per ambush marketing si intende il tentativo effettuato da chi non è sponsor di un
evento di sfruttarne la popolarità, utilizzandone i simboli in forma indiretta o implicita, senza
investire in contratti di partnership.
SAGGI 199
(4) Art. 1. (Tutela dei segni distintivi delle società sportive, degli enti sportivi e delle federa-
zioni sportive): « 1. Costituiscono segni distintivi di proprietà delle società sportive, degli enti
sportivi, delle federazioni sportive e del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) i mar-
chi, i loghi, le denominazioni, i simboli, i colori sociali e i trofei che contraddistinguono l’atti-
vità d’impresa di ciascuno dei predetti soggetti. Ai fini della presente legge, si intendono per
attività d’impresa: le attività agonistico – sportive; le attività commerciali, connesse o non
connesse a quelle agonistico-sportive; le attività di licenza d’uso dei predetti segni distintivi e
di « merchandising », definito ai sensi del comma 4° . I segni distintivi, compresi quelli che non
sono nuovi elencati nell’art. 12 del Codice della proprietà industriale, di cui al d.lgs. 10 feb-
braio 2005, n. 30, appartengono in via esclusiva, anche in deroga a quanto stabilito dal mede-
simo art. 12, a ciascuno dei soggetti di cui al primo periodo del presente comma anche qualo-
ra gli stessi segni non siano stati utilizzati dai citati soggetti fin dall’inizio della loro attività ma
resi noti in conseguenza dell’attività stessa. 2. I segni distintivi di cui al comma 1° non posso-
no costituire oggetto di registrazione come marchio da parte di soggetti diversi dalle società
sportive, degli enti sportivi, delle federazioni sportive e del CONI cui rispettivamente appar-
tengono, per qualsiasi classe di prodotti o di servizi, ad eccezione dei casi in cui siano oggetto
di espressa richiesta e di autorizzazione scritta. 3. Il divieto di cui al comma 2° si applica anche
ai segni distintivi che contengono, in qualsiasi lingua, parole o riferimenti diretti comunque a
richiamare i segni distintivi di cui al comma 1° e i relativi eventi o che, per le loro caratteristi-
che oggettive, possano indicare un collegamento con l’organizzazione o con lo svolgimento
delle manifestazioni sportive organizzate dalle società sportive, dagli enti sportivi, dalle fede-
razioni sportive o dal CONI. 4. Ai fini della presente legge, con il termine « merchandising » si
fa riferimento alle tecniche di sfruttamento economico dei segni distintivi di una società spor-
tiva, di un ente sportivo, di una federazione sportiva o del CONI, nel commercio di prodotti o
di servizi ai quali i predetti segni distintivi sono abbinati, accostati o collegati. Il contratto di
merchandising è l’accordo con il quale il titolare di un marchio o di un altro diritto esclusivo
concede la facoltà di uso del marchio stesso a un altro soggetto per apporlo su prodotti o per
abbinarlo a servizi di natura diversa da quelli per i quali lo stesso marchio o un altro diritto
esclusivo è stato realizzato e registrato in precedenza. 5. Le registrazioni effettuate in viola-
zione del presente articolo sono nulle a tutti gli effetti di legge ».
200 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(10) Frignani, I problemi giuridici del merchandising, in Riv. dir. ind., 1988, p. 34; Galga-
no, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchan-
dising, in questa rivista, 1987, p. 188; Ricolfi, Il contratto di merchandising, in Dir. ind., 1999,
p. 41; Id., Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Milano, 1991, p. 34; Au-
teri, I nomi e i segni distintivi notori delle manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del
nome e quella del marchio, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 103; Marasà, voce Merchandising, in
Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, p. 1; Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e spon-
sorizzazione, cit., p. 1103.
(11) Art. 1, comma 4°: « ai fini della presente legge, con il termine “merchandising” si fa ri-
ferimento alle tecniche di sfruttamento economico dei segni distintivi di una società sportiva,
di un ente sportivo, di una federazione sportiva o del CONI, nel commercio di prodotti o di
servizi ai quali i predetti segni distintivi sono abbinati, accostati o collegati. Il contratto di
merchandising è l’accordo con il quale il titolare di un marchio o di un altro diritto esclusivo
concede la facoltà di uso del marchio stesso a un altro soggetto per apporlo su prodotti o per
abbinarlo a servizi di natura diversa da quelli per i quali lo stesso marchio o un altro diritto
esclusivo è stato realizzato e registrato in precedenza ».
(12) Gatti, Il merchandising e la sua disciplina giuridica, in Riv. dir. comm., 1989, p. 122.
202 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
c.c. (24). Si riteneva, infatti, che l’uso del marchio potesse essere trasferito
solo a titolo esclusivo e soltanto con l’azienda o con un ramo di questa, al fi-
ne di impedire l’inganno del pubblico, circa la provenienza dei prodotti (25).
Alla luce di tale quadro giuridico, volto ad assicurare che il marchio ve-
nisse utilizzato solo per contraddistinguere i prodotti dell’impresa (26), sono
evidenti gli ostacoli frapposti al contratto di merchandising: in quest’ultimo,
il marchio non viene usato per assolvere la funzione appena indicata ma
soltanto come valore in sé per la sua efficacia suggestiva e pubblicitaria;
normalmente, inoltre, non si trasferisce alcun “ramo d’azienda” e spesso si
opera tramite licenze non esclusive (27).
Solo con l’evoluzione della normativa di cui alla riforma del 1992, con
cui si è reciso il rapporto tra titolarità dell’azienda e titolarità del marchio è
stata offerta una piena legittimazione al contratto di merchandising. In par-
ticolare, la funzione distintiva del marchio – inteso come indicatore di pro-
venienza, in origine ritenuta la funzione prevalente ed irrinunciabile del
marchio – viene ridimensionata con la riforma del 1992, non occupando più
la posizione centrale ed esclusiva, occupata in precedenza nell’ambito del
diritto dei marchi. Si è preso coscienza, infatti, che il marchio può assume-
re valore, e di conseguenza può essere tutelato, come bene a sé, nella sua
funzione suggestiva o pubblicitaria (28). In tal modo, a seguito della riforma
– con gli attuali artt. 23, 19 e 20 del Codice della Proprietà Industriale (ri-
spettivamente già artt. 15, 22 e 1, comma 1°, l. m., come modificati a seguito
della riforma del 1992) e con l’art. 2573 c.c. – sono state recepite le istanze
provenienti dal mercato e già fatte proprie da una parte della dottrina (29) e
della giurisprudenza (30), in tema di trasferimento o concessione in licenza
del marchio, anche per prodotti o servizi distanti da quelli originari per i
quali il marchio è stato registrato.
In altre parole, dopo la riforma del 1992, non vi è più alcun ostacolo le-
gislativo – diversamente da quanto avveniva in passato – al fatto che il tito-
lare di un marchio che goda di “rinomanza”, secondo il testo dell’art. 1,
comma 1°, lett. c), legge marchi (ora comma 1°, art. 20, Codice Proprietà In-
dustriale), possa invocare una protezione allargata, che si estende ben al di
là dei settori nei quali egli abbia portato il segno alla sua originaria afferma-
zione (31). Tale disposizione, infatti, prevede che il titolare del marchio che
gode di rinomanza « ha il diritto di vietare a terzi, salvo il proprio consenso, di
usare . . . c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servi-
zi anche non affini » (art. 20, comma 1°, lett. c), Codice Proprietà Industria-
le). In tal modo, il titolare del marchio che gode di rinomanza ha la possibi-
lità di consentire l’uso del proprio marchio per prodotti anche non affini ai
propri e cioè per prodotti frutto di un’attività imprenditoriale diversa rispet-
to a quella esercitata (32) oppure anche per prodotti per i quali egli non ha re-
gistrato il proprio marchio (33).
Né tantomeno vi sono più incertezze, di fronte al nuovo testo dell’art.
22 l. m. (attuale art. 19, Codice Proprietà Industriale), che chiunque possa
registrare un segno come marchio anche quando non abbia intenzione di
procedere in prima persona alla fabbricazione ed al commercio dei beni con
esso contrassegnati ma programmi invece di concedere la facoltà di sfrutta-
mento economico del segno ad un terzo a ciò autorizzato (34). In altre paro-
le, sono definitivamente superate le obiezioni circa la meritevolezza del-
(29) Al riguardo, Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi
di società, licenze, merchandising, cit., p. 190; Frignani, I problemi giuridici del merchandi-
sing, cit., p. 42; Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., p. 491.
Sul punto anche Auteri, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotto « origina-
li », Milano, 1973, p. 316.
(30) In proposito, si veda l’evoluzione giurisprudenziale verso la legittimazione della pra-
tica del merchandising, riportata in Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi
d’impresa mediante merchandising, cit., p. 520; Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi in-
tegrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 178; Frignani, Dassi,
Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 140.
(31) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchan-
dising nella nuova legge marchi, cit., p. 69; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 4.
(32) Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 504.
(33) Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 70.
(34) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41.
206 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
l’interesse allo sfruttamento del valore attrattivo del marchio da parte di chi
lo registri in funzione dell’utilizzo nell’impresa altrui (35). La disposizione di
cui all’art. 22 l. m. (attuale art. 19, Codice Proprietà Industriale), infatti, di-
spone che « può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utiliz-
zi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o
nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il
controllo o che ne facciano uso con il suo consenso ».
In questo modo, la rilevanza della disposizione è rappresentata non so-
lo dal fatto che la novella del 1992 ha svincolato la titolarità del marchio dal-
la qualità di imprenditore, così che qualsiasi soggetto è legittimato a pre-
sentare la relativa domanda, ma anche dalla circostanza che il legislatore
espressamente ha ammesso che possa essere titolare di un marchio chi si ri-
proponga unicamente di cederne ad altri il diritto di farne uso, per le classi
cui si estende la tutela conferitagli dalla legge dietro pagamento di un corri-
spettivo (36). Tale previsione ben testimonia la volontà di allontanamento
da un sistema nel quale la sola funzione giuridicamente tutelata del mar-
chio era quella d’indicazione di provenienza, al fine di riconoscere allo stes-
so anche un valore suggestivo od evocativo in sé (37); non si potrebbe com-
prendere, d’altronde, la possibilità che la titolarità del marchio sia svincola-
ta dalla qualità di imprenditore.
A completamento dell’assunto circa la meritevolezza dell’interesse allo
sfruttamento del valore attrattivo del marchio, da parte di chi lo registra in
funzione dell’utilizzazione nell’impresa altrui, è il testo profondamente in-
novato degli artt. 15 l. marchi (attuale art. 23, Codice Proprietà Industriale)
e 2573 c.c. (38); tali previsioni, infatti, consentono espressamente – a diffe-
renza della normativa previgente – che la circolazione del segno distintivo
dei beni avvenga anche in assenza di un coevo trasferimento di un ramo
(35) Marasà, La circolazione del marchio, in Riv. dir. civ., 1996, II, p. 493; Id., voce Mer-
chandising, cit., p. 4.
(36) Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Ubertazzi, Padova, 2009, p. 97;
Cavani, Commento generale alla riforma, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini,
Padova, 1995, p. 8; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p.
68; Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., il quale rileva come la riforma del diritto dei
marchi abbia incrementato la sicurezza dei contratti di merchandising aventi per oggetto un
marchio ed abbia portato ad una parificazione del trattamento di questi accordi con quello de-
gli accordi concernenti opere dell’ingegno, nomi e immagine. Per il character ed il personality
merchandising, non si poteva, infatti, mettere in discussione la validità dell’operazione, atteso
che il nostro ordinamento sicuramente attribuisce una specifica protezione a ciascuna delle
entità corrispondenti (e v. artt. 7-9 e 19 c.c.; 12 l. autore).
(37) Mayr, in Codice della proprietà industriale, cit., p. 96; al riguardo anche Di Cataldo,
I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 70.
(38) Marasà, La circolazione del marchio, cit., p. 493.
SAGGI 207
aziendale. Siffatto principio vale sia per la cessione sia per la concessione in
licenza del marchio, ammettendosi che la concessione riguardi anche solo
una parte dei prodotti o servizi per il quale il marchio è protetto (art. 15,
comma 2°, l. marchi). In questo modo, viene confermato il riconoscimento
di un valore attrattivo al marchio, che ne fa un “bene” in sé, suscettibile di
essere goduto – direttamente od indirettamente (tramite licenze) – e di po-
ter circolare indipendentemente dal complesso aziendale in cui sarà inseri-
to (39). In seguito alla riforma, pertanto, il concedente può procedere alla
concessione del marchio “parziale”, per categorie di prodotti anche distanti
da quelli originari, e disinteressarsi del tutto delle scelte produttive del con-
cessionario in merchandising (40). Il limite a siffatte operazioni è rappresen-
tato dall’esigenza che dal trasferimento e dalla licenza del marchio non de-
rivi « inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’ap-
prezzamento del pubblico » (41). Tale disposizione trova il proprio completa-
mento nel comma 2°, lett. a), dell’art. 14, Codice Proprietà Industriale, se-
condo il quale il marchio decade « se sia divenuto idoneo ad indurre in ingan-
no il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodot-
ti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o
con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato ».
Il marchio, inoltre, può essere oggetto di licenza non solo parziale ma
anche non esclusiva, nel senso che il licenziatario può consentire a più sog-
getti di usare il marchio per gli stessi prodotti oppure può continuare a far-
ne uso lui stesso. In caso di licenza non esclusiva, comunque, si vuole evi-
tare il rischio che vengano immessi sul mercato, con lo stesso marchio, pro-
dotti o servizi apparentemente identici ma in realtà qualitativamente diver-
si, con conseguente rischio di inganno per il consumatore (42). Per questa
ragione, la norma prevede che la licenza non esclusiva sia lecita a condizio-
ne che il licenziatario si obblighi a porre in commercio prodotti “eguali” a
quelli corrispondenti messi in commercio con lo stesso marchio dal titolare
o da altri licenziatari.
(39) In questi termini, Marasà, La circolazione del marchio, cit., p. 479; Id., voce Merchan-
dising, cit., p. 4.
(40) Prima della riforma, infatti, la legittimità del contratto di merchandising era giustifica-
ta sulla base dei controlli di qualità riservati al licenziante e con il divieto per il licenziatario di
apporre il marchio del primo su prodotti che non avessero superato positivamente il control-
lo (Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze,
merchandising, cit., p. 190; Id., Diritto civile e commerciale, cit., p. 181.)
(41) Sulla ratio di tale disposizione, Auteri, Cessione e licenza di marchio, in La riforma
della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova, 1995, p. 97.
(42) Franzosi, in Il codice della proprietà industriale, a cura di Scuffi, Franzosi, Fittante,
Padova, 2005, p. 167; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, p. 66; Vanzetti, Di Ca-
taldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 258.
208 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(43) Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 71; Ricol-
fi, Il contratto di merchandising, cit.
(44) Magni, Merchandising e sponsorizzazione, cit., p. 45; Vanzetti, La nuova legge mar-
chi, cit., p. 103.
(45) In questo senso già Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture,
gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 178.
(46) Al riguardo, Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit.,
p. 509; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-
stiche, cit., p. 137; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 170.
(47) Sul punto anche De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 170.
SAGGI 209
(61) Trib. Modena, 26 giugno 1994, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 99.
(62) Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 209; Vanzet-
ti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, p. 103; Ammendola, Lo sfruttamento commerciale
della notorietà civile di nomi e segni, Milano, 2004, p. 33; Sironi, Considerazioni in tema di mar-
chi olimpici e di segni distintivi dello sport, in AIDA, 2007, p. 773; Galli, Estensione e limiti del-
l’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 247.
(63) Galli, Segni distintivi e industria culturale, in AIDA, 2003, p. 482, il quale fa espresso
riferimento al precedente di App. Venezia, 17 giugno 2002, in Giur. dir. ind., 2002, n. 4446, la
quale pur non applicando l’art. 22 l.m., come modificato nel 1992, in quanto non ancora in vi-
gore al momento dei fatti, ha comunque ritenuto che il principio espressamente codificato da
esso, dovesse ritenersi operante. Sulla tutela anticipata, predisposta dalla disposizione, ri-
spetto al momento di sfruttamento commerciale, si segnala anche Fazzini, Profili della tutela
della funzione suggestiva del marchio nella nuova legge (in margine a due sentenze sul marchio di
società calcistiche), in Riv. dir. ind., 1995, II, p. 160; Ricolfi, I segni distintivi dello sport, cit., p.
123.
(64) Ammendola, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni, cit., p.
18. Al riguardo, Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport
tra merchandising e free-riders, cit., p. 248, sottolinea come la tutela dovrebbe estendersi an-
che alle ipotesi in cui il segno venga usato da un terzo in funzione non solo distintiva dei pro-
dotti o servizi per cui è usato, bensì anche per rendere questi prodotti o servizi più attraenti
agli occhi del pubblico e, nel caso di specie, di quella parte del pubblico che apprezza il segno
come simbolo non commerciale ma sportivo.
212 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(65) Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 103; Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di di-
ritto industriale, cit., p. 214.
(66) Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione,
in Riv. dir. econ. sport, 2006, p. 63.
(67) Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, cit., p. 169; Maugeri, Considerazioni in
tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 851.
(68) Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione,
cit., p. 63.
(69) Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, cit., p. 170; Cortesi, Marchio commercia-
le e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione, cit., p. 65; Maugeri, Considerazioni in
tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 854; sui marchi di colore,
Sciacca, Note in tema di marchio di forma e di colore, in Giur. it., 2008, f. 11, p. 2492; Maugeri,
Considerazioni in tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 842; Mor-
ri, La rappresentazione grafica del marchio nelle decisioni dell’UAMI e degli organi giurisdizio-
nali comunitari, in Riv. dir. ind., 2006, f. 6, 1, p. 252; Toni, Brevi note in tema di novità e capacità
distintiva del marchio di forma, in Giur. comm., 2005, II, p. 605; Biglia, Il marchio di forma nel-
la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ce, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 399; Fabrizio-Salva-
tore, Sul marchio di forma e sull’imitazione servile della forma del prodotto, in Foro it., 2000, I,
c. 3298.
SAGGI 213
offerta in opzione ai soci e ammissione a quotazione di azioni ordinarie Juventus Football Club
s.p.a., cit., p. 72; in particolare, si evince che il corrispettivo minimo complessivo previsto dal
contratto stipulato nel novembre 2001 con lo sponsor tecnico dell’abbigliamento, per i dodici
anni del rapporto è pari a euro 157,3 milioni. A tale somma, inoltre, debbono aggiungersi le
forniture annuali di materiale tecnico nonché le royalties annue sulle vendite.
(75) Sui contratti collegati, tra gli altri, Carusi, La disciplina della causa, in I contratti in ge-
nerale, a cura di Gabrielli, I, Torino, 2006, p. 640; Scognamiglio, Causa e motivi del contratto,
in Tratt. del contratto, diretto da Roppo, II, Regolamento, a cura di Vettori, Milano, 2006, p.
184; Ferrando, I contratti collegati: principi della tradizione e tendenze innovative, in questa ri-
vista, 2000, p. 127; Sangermano, La dicotomia contratti misti-contratti collegati: tra elasticità
del tipo ed atipicità del contratto, in Riv. dir. comm., 1996, II, p. 551; Castiglia, Negozi collegati
in funzione di scambio (su alcuni problemi del collegamento negoziale e della forma giuridica del-
le operazioni economiche di scambio), in Riv. dir. civ., 1979, p. 397; Orlando Cascio-Argirof-
fi, voce Contratti misti e contratti collegati, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1988.
(76) Su un caso in cui lo sponsor tecnico di una squadra di calcio, che aveva il diritto di
commercializzare in esclusiva i prodotti di abbigliamento contraddistinti dai segni distintivi
della squadra di calcio, ha ottenuto il risarcimento del danno da un’azienda che aveva pro-
dotto, fatto produrre e messo in vendita magliette di calcio recanti il nome ed il marchio regi-
strato della squadra, si segnala Cass., 2 luglio 2007, n. 14967.
(77) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra mer-
chandising e free-riders, in AIDA, 2003, p. 232.
(78) Così, Cass., 29 maggio 2006, n. 12801, in Resp. civ., 2007, p. 554, relativa alla fornitura
SAGGI 215
di biciclette da corsa ad una squadra ciclistica. Nello stesso senso anche Lodo Arbitrale, 15
febbraio 1991, in Riv. arbitrato, 1992, p. 131, con nota di M. Bianca, Sponsorizzazione tecnica e
inadempimento contrattuale. In senso diverso, a favore della liberalità d’uso, ex art. 770 c.c.,
nell’ambito della sponsorizzazione tecnica, si veda Inzitari, Sponsorizzazione, cit., p. 254; in
senso critico, Giacobbe, Atipicità del contratto e sponsorizzazione, cit., p. 414.
(79) Possono esservi comunque anche modalità differenti di corresponsione, come ad
esempio una percentuale di royalty in maniera crescente al raggiungimento di determinate
soglie di fatturato; oppure può essere concordata una royalty forfetaria fissa (flat fee), che pre-
scinde dai volumi di vendita. Sul punto, Colantuoni, Merchandising, in I contratti, 2006, p.
827.
216 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
dra al settore giovanile), a tutti i membri degli staff tecnici delle varie squa-
dre ed agli ausiliari di campo (come ad es. i raccattapalle), in occasione di
tutte le manifestazioni sportive, anche a carattere soltanto amichevole ed
anche in allenamento (80). Siffatto obbligo (di far indossare il materiale del-
lo sponsor tecnico) a carico della società si configura come una promessa
dell’obbligazione o del fatto del terzo, ex art. 1381 c.c. (81), con conseguente
responsabilità del promittente (sponsee) se il terzo (in primis i giocatori) non
adempie quanto promesso; in particolare, se i giocatori della società spon-
sorizzata non indossano l’abbigliamento fornito dallo sponsor, si ravvisa un
inadempimento contrattuale di non scarsa importanza, ex art. 1455 c.c., con
possibilità di risolvere il contratto e di richiedere il risarcimento degli even-
tuali danni (82). Il diritto dello sponsor tecnico di far indossare a tutti gli atle-
ti i prodotti oggetto della fornitura riguarda anche gli indumenti eventual-
mente indossati sotto la maglia da gioco durante la competizione. Tali in-
dumenti, infatti, devono recare, se i regolamenti federali non lo vietano, il
marchio dello sponsor tecnico (83), così che sussiste un inadempimento del-
la società se un atleta, ad esempio, durante l’esultanza per un gol si sfila la
maglia da gioco, mostrando una sottomaglia recante il logo di un’azienda
concorrente dello sponsor tecnico. Quali ulteriori prestazioni nell’ambito
del contratto di sponsorizzazione tecnica, il club si impegna, generalmente,
a rendere una serie di prestazioni promo-pubblicitarie in favore dello spon-
sor (come ad esempio, l’esposizione del marchio dello sponsor in occasione
delle partite ufficiali, per un certo numero di minuti a partita sui cartelloni
“rotor multiface” e/o su cartelli fissi; l’esposizione del marchio dello sponsor
sui biglietti e gli abbonamenti, sul backdrop ufficiale nell’area delle intervi-
ste, sulla cartella stampa, nella pagina sponsor del sito internet ufficiale; una
fornitura di biglietti; la possibilità di organizzare eventi con la partecipazio-
ne di alcuni giocatori della prima squadra, ecc.).
Si consideri, infine, che, sulla base della sempre più rilevante importan-
za acquisita dagli accordi di sponsorizzazione tecnica, i regolamenti delle
Federazioni sportive hanno previsto disposizioni specifiche al riguardo. Il
fine è anche quello di salvaguardare la corretta immagine del movimento e
dell’organizzazione sportiva di afferenza; in tal modo, siffatte disposizioni
(80) È fatto salvo generalmente il diritto per gli allenatori e lo staff medico e dirigenziale di
non utilizzare l’abbigliamento tecnico durante le competizioni.
(81) Vidiri, Il contratto di sponsorizzazione: natura e disciplina, cit., p. 19.
(82) Si segnala, Lodo Arbitrale, 15 febbraio 1991, cit.
(83) Al riguardo, l’art. 72, comma 4°, bis, delle Norme Organizzative Interne della F.I.G.C.
prevede che: « L’indumento eventualmente indossato sotto la maglia di giuoco potrà recare
esclusivamente il marchio dello sponsor tecnico di dimensioni non superiori alle misure regola-
mentari ».
SAGGI 217
finiscono per avere notevole incidenza sul normale evolversi delle relazio-
ni negoziali, rappresentando limiti non indifferenti all’autonomia negozia-
le delle parti (84). Così, ad esempio, con riguardo alla sponsorizzazione tec-
nica di squadre di calcio di serie A o B, il marchio dello sponsor tecnico (ol-
tre che quello del main sponsor e degli eventuali sponsor secondari), deve
essere apposto sulle maglie ed i pantaloncini indossati durante le partite uf-
ficiali, nel rispetto del Regolamento delle divise da gioco emanato dalla Lega
Nazionale Professionisti (85), nonché, sempre per quanto concerne la tenu-
ta da gioco dei calciatori, nel rispetto dell’art. 72 delle Norme Organizzative
Interne della F.I.G.C., con particolare riguardo al comma 4° (86).
(87) Per l’abbigliamento non regolamentato (come ad es. quello riguardante l’allenamen-
to), invece, la collocazione e la dimensione dei rispettivi marchi sarà disposta in conformità
agli accordi assunti dalle parti.
(88) Su un caso di utilizzo non autorizzato dell’immagine della società e di un atleta, Pret.
Roma, 24 dicembre 1981, in Foro it., 1982, I, c. 565, secondo la quale « va inibita, con provve-
dimento cautelare d’urgenza, la diffusione – non autorizzata dagli aventi diritto – di un poster
bifacciale recante, su un lato, la fotografia di una squadra calcistica (A.S. Roma) e, sull’altro,
l’immagine, con firma e dedica, di un suo prestigioso giocatore (Paulo Roberto Falcao) ». Di
recente, si segnala il caso singolare esaminato da Cass., 11 agosto 2009, n. 18218, in Red. in
Mass. Giust. civ., 2009, p. 7-8, relativa ad un caso del tutto particolare, in cui la S.C. ha affer-
mato la tutela dell’immagine e della denominazione di un’imbarcazione che svolgeva com-
petizioni agonistiche; nel caso di specie un’azienda senza il consenso dell’avente diritto e sen-
za pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’im-
magine e la denominazione dell’imbarcazione, usata anche come elemento di richiamo nel-
l’ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio mar-
chio.
(89) I doveri promo pubblicitari dei giocatori di calcio nei confronti della Società, sono in-
dividuati nell’art. 8 della Convenzione per la regolamentazione degli accordi concernenti attività
promozionali e pubblicitarie che interessino le società calcistiche professionistiche ed i calciatori
SAGGI 219
ed i loro tesserati, del 23 luglio 1981, stipulata tra l’Associazione Italiana Calciatori e la Lega
Nazionale; successive modifiche ed integrazioni sono state apportate in data 27 luglio 1984.
(90) Sul cd. personality merchandising, tra gli altri, Ricolfi, I segni distintivi dello sport, in
AIDA, 1993, p. 116; Id., Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., 434; Di
Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 74.
(91) Di recente, al riguardo, Colantuoni, Novazio, Il contratto di cessione di immagine in
ambito sportivo, in Contratti, 2010, p. 204.
(92) Sulla differenza tra le operazioni di sponsorizzazione e di personality merchandising
del singolo atleta, si veda Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi,
cit., p. 426.
(93) Per questa ragione la notorietà della persona non è in grado da sola di giustificare, ex
art. 97 l. 22 aprile 1941, n. 633, il libero utilizzo dell’immagine, essendo necessario anche un fi-
ne informativo (Cass., 10 giugno 1997, n. 5175, in Foro it., 1997, c. 2920). Si è, infatti, ben evi-
denziato che: « la divulgazione del ritratto di persona notoria è lecita non per il fatto in sé che
la persona ritratta possa dirsi notoria ma se ed in quanto risponda ad esigenze di pubblica
informazione, sia pure in senso lato; quando cioè esclusiva ragione della diffusione sia quella
di far conoscere al pubblico le fattezze della persona in questione e di documentare visiva-
mente le notizie che di questa persona vengono date al pubblico. Quando, al contrario, la di-
vulgazione del ritratto avvenga per altro scopo che non sia quello legittimo di soddisfare l’esi-
genza pubblica di informazione, allora essa non è più una giustificazione, ma il fatto che in-
duce ad una divulgazione che porta vantaggi, spesso a contenuto patrimoniale, a colui che la
divulgazione esegue » (Cass., 2 maggio 1991, n. 4785, in Dir. informaz. informat., 1991, p. 837).
Su un caso di illecito utilizzo dell’immagine di un calciatore in assenza del consenso dell’in-
teressato, si segnala Trib. Tortona, 24 novembre 2003, in Danno e resp., 2004, p. 533, con nota
di Pardolesi, Il cigno rossonero: illecito sfruttamento e dilution dell’immagine.
220 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(94) Successive modifiche ed integrazioni sono state apportate in data 27 luglio 1984.
(95) Su tale convenzione anche De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 166.
SAGGI 221
In ogni caso, lo sponsor tecnico della squadra se non può disporre del-
l’immagine del singolo giocatore può, per fini pubblicitari, legittimamente
utilizzare e riprodurre – in virtù degli accordi generalmente contenuti nel
contratto di sponsorizzazione – l’immagine dei giocatori della società spon-
sorizzata, nei limiti in cui l’immagine riguardi un “gruppo” di giocatori del-
la squadra e non pertanto il singolo atleta, nel contesto di gare, allenamenti
od altre attività ufficiali (96). A tal fine, ad esempio, con riguardo ai calciatori
della Nazionale, il vigente accordo tra F.I.G.C. e Associazione Italiana Cal-
ciatori, intende per « “immagine di un gruppo di calciatori della Nazionale”
qualsiasi immagine che sia evocativa delle Squadre o che – a prescindere da
ogni altro aspetto – raffiguri almeno quattro calciatori in azione di gioco o co-
munque nel contesto di una gara ». La Convenzione del 23 luglio 1981, relati-
va alle attività promozionali e pubblicitarie riguardanti le Società calcistiche
ed i calciatori loro tesserati, invece, definisce per fotografie di gruppo « le fo-
tografie di squadra raffiguranti almeno undici dei suoi componenti ». Si è già
evidenziato, tuttavia, che tale Convenzione appare ormai inadeguata, alla
luce del contesto attuale, relativo allo sfruttamento commerciale dell’im-
magine sia dei singoli atleti sia delle società. Appare più plausibile, pertan-
to, ritenere, al di là del mero dato numerico, che l’utilizzo della fotografia
durante un’azione di gioco e l’utilizzo dell’immagine di più atleti in posa
possa considerarsi legittimo, senza necessità del consenso dei singoli sog-
getti ritrattati, allorché l’immagine di “gruppo” utilizzata per fini pubblicita-
ri dallo sponsor della società non induca i terzi nell’erroneo convincimento
che siano uno o più atleti determinati e non la società, ad aver prestato il
consenso all’utilizzo dell’immagine per fini pubblicitari e promozionali (97).
(96) Al riguardo, si segnala Pret. Roma, 31 maggio 1983, in Giust. civ., 1984, I, p. 308, se-
condo la quale « Per effetto di convenzione intercorsa tra la lega nazionale calcio e l’associa-
zione italiana calciatori, compete alla società sportiva – senza necessità del consenso dei sin-
goli calciatori – il diritto di utilizzare (direttamente o mediante cessione al cd. sponsor) le fo-
tografie di gruppo della squadra stampate sul cd. poster ufficiale, purché si tratti di un’utiliz-
zazione pubblicitaria e/o promozionale dell’attività economica imprenditoriale svolta dalla
società nel campo dello spettacolo sportivo ».
(97) Sul punto Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p.
527.
222 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(98) Sul profilo della legittimazione all’azione, si veda anche Vanzetti, Di Cataldo, Ma-
nuale di diritto industriale, cit., p. 543.
SAGGI 223
(99) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra mer-
chandising e free-riders, cit., p. 242. Al riguardo, anche Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di di-
ritto industriale, cit., p. 156.
(100) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra
merchandising e free-riders, cit., p. 235. Sulla portata dell’espressione « marchio che gode di
rinomanza » utilizzata dalla legge, si rinvia a Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto indu-
striale, cit., p. 246; Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 25; Id., Il marchio rinomato, in La
riforma della legge marchi, cit., p. 79.
(101) Ha fatto riferimento anche alla violazione dei diritti di privativa di cui all’art. 20, lett.
c), c.p.i. (oltre che b), Trib. Bari, 13 aprile 2010, in Banca Dati Dejure, relativa alla registrazione
ed alla messa in commercio di prodotti recanti il marchio « 46 », già oggetto di registrazione in
Italia ed all’estero da parte di Valentino Rossi.
(102) Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 156.
(103) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra
merchandising e free-riders, cit., 252. Sul riconoscere al marchio di una società sportiva una
tutela estesa, non solo al valore distintivo, ma anche al valore attrattivo e suggestivo, si segna-
la in giurisprudenza, Trib. Bologna, 1 febbraio 2001, est. Ferro, in AIDA, 2002, Repertorio IV.
3.3; nel caso di specie, si è ritenuto che l’uso del segno « Forza Bologna » interferisse ex art. 1,
comma 1°, lett. c), con il diritto sul marchio della società sportiva, la quale almeno in ambito
regionale gode di rinomanza; al riguardo anche Trib. Torino, 5 novembre 1999, est. Aragno,
in AIDA, 2000, Repertorio IV. 3.3; Trib. Torino, 13 aprile 2000, est. Vigone, in AIDA, 2000, Re-
pertorio IV. 3.3.
224 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(104) Nella Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, presentata il 5 agosto 2008, in
tema di Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni,
e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive, si
legge la seguente definizione di ambush marketing: « Esso consiste sostanzialmente nel ten-
tativo da parte di aziende, che non sono sponsor o partner dell’evento, di distogliere l’atten-
zione del pubblico dallo sponsor medesimo attraverso forme di comunicazione simili o ana-
loghe, e di attirarla su di loro utilizzando la popolarità dell’evento e del marchio senza inve-
stire in contratti di sponsorizzazione e di “merchandising”».
(105) In questo senso l’osservazione contenuta nella Proposta di legge d’iniziativa del de-
putato Lolli, relativamente ai Mondiali di calcio del 2006.
(106) La notizia è stata riportata da tutti gli organi di informazione; si segnala in
http://www.ansa.it.
SAGGI 225
GIANFRANCO DOSI
Sommario: 1. I tre pilastri della nuova giustizia competitiva. – 2. La mediazione come sistema
di risoluzione dei conflitti parallelo alla giurisdizione. – 3. La mediazione condizione di
procedibilità della domanda giudiziale. – 4. Le motivazioni per la mediazione. – 5. La ri-
soluzione arbitrale irrituale delle controversie
(4) Così la giurisprudenza a partire da Cass. Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527 (tutta la giuri-
sprudenza è tratta della banca dati Pluris Cedam, Utet giuridica).
(5) Art. 824 bis c.p.c. “Salvo quanto disposto dall’art. 825, il lodo ha dalla data della sua ul-
tima sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”. L’efficacia
di sentenza per decreto del pretore era assicurata anche dall’art. 825 della versione originaria
c.p.c. del 1940. Le mutevoli opinioni della dottrina e della giurisprudenza, alle quali il legisla-
tore sembrò aderire cancellando nel 1994 con la l. n. 25 il riferimento a tale efficacia di sen-
tenza, portarono a dubitare nel tempo sulla efficacia da attribuire al lodo. Il legislatore del
2006 con il d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 confermò l’interpretazione originaria con il nuovo te-
sto dell’art. 824-bis c.p.c. qui sopra riprodotto.
SAGGI 229
(6) La giurisprudenza è conforme. Cfr. Cass. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. sez.
I, 30 maggio 2005, n. 12684; Cass. sez. I, 10 ottobre 2006, n. 24059; Cass. sez. I, 20 luglio 2006,
n. 16718.
(7) Il secondo comma dell’art. 808-ter c.p.c. prevede cinque motivi di impugnazione per
“invalidità” ma si tratta di annullabilità o anche nullità (si pensi ad una convenzione arbitrale
in materia sottratta all’arbitrato) su cui è chiamato a decidere secondo le regole ordinarie il
giudice competente di primo grado secondo le disposizioni del libro I nel rispetto del con-
sueto doppio grado di giurisdizione. Nelle controversie di lavoro l’art. 412-quater c.p.c. attri-
buisce invece la competenza in unico grado al giudice del lavoro. Come si vede si tratta di un
regime di impugnazione che, al di là della competenza funzionale, è eterogeneo e meritereb-
be un intervento legislativo di omogeneizzazione.
(8) Il quarto comma dell’art. 2113 c.c. prevede che al verbale di conciliazione si applica la
deroga al principio di invalidità delle rinunce e delle transazioni a diritti indisponibili. Secon-
do il nuovo testo dell’art. 412 c.p.c. “il lodo emanato a conclusione del nuovo procedimento
di conciliazione arbitrale sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti
di cui all’art. 1372 e all’art. 2113, comma 4° c.c.”
230 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
co (9), lo stesso decreto legislativo torna nei conflitti di lavoro al sistema del-
la facoltatività del tentativo di conciliazione previsto nell’art. 410 del c.p.c.,
ma la modifica non ha, in questo contesto, una valenza ripristinatoria della
filosofia della conciliazione precedente alla riforma che nel 1998 aveva in-
trodotto il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle cause di lavoro (10).
Il ritorno alla facoltatività, al contrario, ha paradossalmente una funzione
deflattiva derivante dalla eliminazione di uno strumento di intasamento del
sistema conciliativo che nella prassi si è rivelato assolutamente inadeguato
per il carico di lavoro delle commissioni, non compensato da un tasso ac-
cettabile di conciliazione delle controversie (le conciliazioni davanti alle
commissioni provinciali del lavoro costituiscono, come si dirà meglio più
oltre, solo il 13% del numero di procedure conciliative aperte ogni anno).
Il legislatore non scommette più, nei conflitti di lavoro, quindi, sul si-
stema dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione (11), ma attribuisce
valore centrale alla risoluzione arbitrale irrituale davanti alle commissioni
provinciali di conciliazione (nuovo art. 412 c.p.c.), nelle sedi sindacali (nuo-
vo art. 412-ter, c.p.c.) ovvero davanti ai nuovi collegi di conciliazione e arbi-
trato irrituale (nuovo art. 412-quater, c.p.c.) introducendo anche la possibi-
lità di un’ampia pattuizione tra le parti di clausole compromissorie (12).
In questa sede ci si può limitare ad osservare che con la messa a punto
delle nuove forme di risoluzione arbitrale che saranno tra breve approfon-
dite, il motore trainante del nuovo sistema nei conflitti di lavoro non è più
la (lenta, demotivata e spesso inutile) negoziazione tra le parti ai fini di una
conciliazione, ma la decisione di carattere negoziale (si auspica veloce ed
efficiente) assunta dalle commissioni e dai collegi arbitrali ai quali le parti
(9) Cfr. art. 412-ter, c.p.c., come riformato nel 2010: “Le disposizioni degli artt. 410, 412,
412-ter e 412-quater c.p.c. si applicano anche alle controversie di cui all’art. 63, comma 1°, del
d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (T.U. del pubblico impiego) il quale prevede – confermandone la
devoluzione al giudice ordinario – tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle di-
pendenze delle pubbliche amministrazioni nonché le controversie relative a comportamenti
antisindacali della pubblica amministrazione”.
(10) L’obbligatorietà del tentativo di conciliazione si deve alla riforma introdotta con il d.
lgs. 19 febbraio 1998, n. 80 nel settore privato (artt. 410, 410-bis e 412-bis c.p.c.) e all’art. 69 del
d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (razionalizzazione della organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina del pubblico impiego) ora negli artt. 65 e 66 del d. lgs. 30
marzo 2001, n. 165 (T.U. del pubblico impiego).
(11) Anche se il nuovo testo dell’art. 410, c.p.c., riformato nel 2010 prescrive che la com-
missione di conciliazione, in caso di esito negativo del tentativo, deve formulare una propo-
sta delle cui risultanze il giudice dovrà tener conto in sede di giudizio.
(12) Come si dirà in seguito, la pattuizione delle clausole compromissorie nei contratti di
lavoro ha costituito uno dei temi più significativi del confronto politico che ha accompagnato
l’iter di approvazione della legge 183/2010).
SAGGI 231
2. – Il d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (14) che ha dato attuazione alla delega le-
gislativa contenuta nell’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, all’art. 1 defini-
sce la mediazione come “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo
imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un ac-
cordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formula-
zione di una proposta per la risoluzione della stessa” e la conciliazione come
“la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della media-
zione”.
In questa definizione è estranea in sé ogni idea di collegamento della
mediazione alle aule di giustizia.
Questo è il primo e più significativo dato che emerge dall’osservazione
(13) Nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di esse-
re reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime
formale del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare al-
l’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in rela-
zione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante
una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle
parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione
della loro volontà. Così Cass. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. sez. I, 30 maggio 2005, n.
12684; Cass. sez. I, 10 ottobre 2006, n. 24059; Cass. sez. I, 20 luglio 2006, n. 16718.
(14) Il decreto è stato pubblicato sulla G.U. n. 53 del 5 marzo 2010 ed è entrato in vigore il
20 marzo 2010 (salvo le disposizioni relative al meccanismo della mediazione come condizio-
ne di procedibilità della domanda giudiziale la cui data di entrata in vigore è il 20 marzo 2011).
232 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
dei testi normativi sulla mediazione pubblicati dopo la l. n. 69 del 2009 che,
all’art. 60, dava al Governo una delega ampia ad adottare “uno o più decreti
legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e com-
merciale”.
Le procedure di mediazione sono quindi state introdotte nell’ordina-
mento italiano in primo luogo per dare a chiunque la possibilità di risolvere
un conflitto senza accedere alle tradizionali procedure giudiziarie di risolu-
zione dei conflitti.
Il principio è ribadito espressamente nell’art. 2 del d. lgs. n. 28 del 2010
dove si legge che “chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione
di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, secondo
le disposizioni del presente decreto”.
L’imprinting giurisdizionale della formazione universitaria e professio-
nale mette il giurista di fronte all’imbarazzo di doversi occupare di proce-
dure nate per costituire una alternativa alla giurisdizione.
L’impatto della mediazione nella nostra cultura giuridica potrebbe far
correre, quindi, il rischio di attribuire alla mediazione delle controversie ci-
vili e commerciali il significato di un noioso ed inevitabile adempimento
preliminare al processo, lasciandone in ombra il senso generale che è quel-
lo di promuovere una riforma della giustizia a partire dalla decisione di non
ricorrere all’autorità giurisdizionale quando la soluzione di un conflitto può
essere il risultato di procedure più plausibili, più rapide e meno costose.
In questa prospettiva le disposizioni del d. lgs. n. 28 del 2010 non aiuta-
no, però, a leggere la mediazione come strumento alternativo al processo.
La tecnica di redazione del decreto soffre molto della preoccupazione di do-
ver risolvere i problemi di condizionamento sulla mediazione del processo.
Quasi tutte le norme affrontano il tema del raccordo tra le procedure di me-
diazione e il processo civile, come se inevitabilmente la mediazione debba
precedere l’accesso al processo o accompagnarsi alla frequentazione delle
aule di giustizia. Tutto il capo II del decreto è costruito su questa ambiva-
lenza e meglio sarebbe stato se il legislatore delegato avesse adottato una
tecnica di redazione più lineare, disciplinando il procedimento di media-
zione in una prima parte e riservando, poi, ad una seconda parte il tema del
raccordo tra la mediazione e l’eventuale procedimento giudiziario. Sembra
invece che eventuale debba essere, secondo il decreto, il ricorso alla media-
zione anziché al processo (15).
(15) L’art. 4, per esempio, dove si parla di accesso alla mediazione contiene, insieme alle
formalità di accesso, anche le disposizioni relative agli obblighi di informativa che l’avvocato
incaricato di una causa deve dare al suo assistito; l’art. 5 nel capo rubricato “procedimento di
mediazione” regolamenta anche il rapporto tra la mediazione e il processo civile; uguale com-
mistione è negli artt. 6 e 7 e così molte altre disposizioni che avrebbero potuto trovare invece
SAGGI 233
Il decreto n. 28 del 2010 soffre del problema generale del giurista di non
riuscire sempre a cogliere la novità dei nuovi istituti e di voler sempre in-
quadrarli nell’ambito dell’assetto tradizionale della giustizia. È prevalsa
quindi soprattutto la preoccupazione non tanto di incoraggiare il ricorso al-
la mediazione quanto di garantire un’equilibrata relazione tra la mediazio-
ne e il procedimento giudiziario (16).
Di fronte ad un conflitto o a qualsiasi tipo di controversia il pensiero
nella nostra tradizione giuridica corre subito alla causa in tribunale. Se ri-
maniamo vittime di un incidente o se il vicino sconfina nella nostra pro-
prietà prendiamo subito contatto con un avvocato per “fare causa” e ottene-
re giustizia.
Ebbene, il d. lgs. n. 218 del 2001 dice oggi che si può, certamente, pren-
dere contatto con un avvocato ma che si può ugualmente ottenere giustizia
attraverso la procedura di mediazione finalizzata alla composizione della
concordata della controversia.
Comporre una controversia non vuol dire ottenere meno giustizia. Ten-
tare di ottenere giustizia con un accordo anziché con una causa, vuol dire al
contrario accelerare la soluzione. Se la controparte non intende dichiararsi
disponibile a nessuna soluzione sarà il mediatore a proporla, ricorrendo al-
le norme giuridiche ma anche all’equità e, se neanche allora si raggiunge un
accordo, la soluzione estrema sarà il ricorso al processo.
È questa la filosofia e al tempo stesso la nuova cultura che la riforma in-
tende suggerire.
Il procedimento ha una struttura semplificata.
Si tratta di una procedura riservata e informale (art. 3 del d. lgs. n. 28 del
2010), quindi – salvo il pagamento delle indennità e delle altre poche spese
della mediazione (art. 17) – non esiste alcun appesantimento dettato da nor-
me processuali formali. La domanda di mediazione è presentata mediante
deposito di una istanza presso uno degli organismi di mediazione esistenti
(art. 4). Il procedimento deve avere una durata non superiore ai quattro me-
si (art. 6). Il mediatore incaricato mette velocemente la controparte a cono-
scenza della domanda di mediazione a ne attende le deduzioni difensive
adoperandosi successivamente per trovare una soluzione in uno o più in-
contri con le parti e, se vi sono, con i loro avvocati (art. 8). Se le parti non rie-
per i rispettivi ambiti di riferimento (il processo di mediazione, il processo civile e i rapporti
tra i due contesti) una tecnica di redazione autonoma e più ordinata.
(16) Sono questi peraltro i due temi di fondo sui quali si sofferma la direttiva europea del
21 maggio 2008 n. 52 che all’art. 2 prevede che “la presente direttiva ha l’obiettivo di facilitare
l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amiche-
vole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata rela-
zione tra mediazione e procedimento giudiziario”.
234 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
scono a trovare una soluzione, il mediatore, su loro richiesta, farà una pro-
posta scritta che la parti possono accettare o rifiutare (art. 11). Nell’ipotesi di
accordo o di accettazione della proposta il testo della conciliazione ha valo-
re legale tra le parti (art. 11) ed efficacia piena per l’esecuzione (art. 12).
L’unica condizione per poter esperire procedure finalizzate alla soluzio-
ne stragiudiziale di controversie è che si tratti di controversie concernenti
diritti disponibili (art. 60, comma 3°, lettera a) della l. 18 giugno 2009, n. 69 e
art. 2, comma 1°, del d. lgs. n.28 del 2010).
Esistono esperienze di procedure conciliative stragiudiziali già da tem-
po funzionanti nei conflitti di lavoro (art.410 s.s., c.p.c.), nelle controversie
in materia bancaria e creditizia (art. 128-bis del d. lgs. 1 settembre 1993, n.
38), nel settore dell’intermediazione finanziaria (d. lgs. 8 ottobre 2007, n.
179), nelle relazioni commerciali (l. 18 giugno 1998, n. 192 contenente la di-
sciplina delle subforniture nelle attività produttive), in materia di concor-
renza e regolazione dei servizi di pubblica utilità (l. 14 novembre 1995, n.
481), nel settore del diritto di autore (d. lgs. 9 aprile 2003, n. 68), in materia
di controversie tra consumatori e professionisti (d. lgs. n. 206 del 2005) ed
altre.
La novità della riforma del 2010 è quella di avere generalizzato la regola
e reso possibile a chiunque l’accesso a procedure finalizzate alla concilia-
zione di controversie praticamente in ogni settore della vita civile e com-
merciale secondo il modello procedimentale che è stato sopra sintetizzato,
affidato nella sua gestione ad appositi organismi di mediazione istituiti da
enti pubblici o da privati.
(17) Questo meccanismo entra in vigore il 20 marzo 2011 salvo presumibile rinvio.
SAGGI 235
Nel rito del lavoro l’art. 412-bis c.p.c. – ora abrogato – prevedeva come
condizione di proponibilità del ricorso di lavoro, il promovimento del ten-
tativo di conciliazione davanti alle commissioni di conciliazione, precisan-
do che “l’espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di
procedibilità della domanda” e l’art. 410-bis come inserito dall’art. 37 del d.
lgs. 31 marzo 1998, n. 80, prescriveva che “il tentativo di conciliazione [. . .]
deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta.
Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera co-
munque espletato ai fini dell’art. 412-bis”.
Rispetto a questo sistema (vigente nel rito del lavoro dal 1998 al 24 no-
vembre 2010, cioè fino all’entrata in vigore della nuova normativa di cui al-
la legge 4 novembre 2010, n. 183), la riforma sulla mediazione del 2010 ha sì
previsto un termine per espletare la mediazione (quattro mesi di durata
massima dall’istanza rivolta all’organismo di mediazione, secondo l’art. 6
del d. lgs. n. 28 del 2010) ma non prevede un termine trascorso il quale il
tentativo di conciliazione si considera espletato e la domanda ugualmente
proposta. Il legislatore ha modulato, invece, il procedimento giudiziario e
gli adempimenti del giudice in modo tale da prevedere e consentire che la
mediazione, ove le parti, vi acconsentano, possa essere espletata nello spa-
zio temporale di quattro mesi senza intralci al processo e senza prevedere
nemmeno ipotesi di sospensione della causa, con la conseguenza che non si
porranno problemi legati all’eventuale mancata riassunzione(18). Alla pri-
ma udienza il giudice, ove la mediazione non sia stata preventivamente ef-
fettuata, assegnerà alle parti un termine di quindici giorni per iniziare la me-
diazione, rinviando ad una udienza da tenersi non prima di quattro mesi in
modo che le parti abbiano tempo di concludere il procedimento di media-
zione.
Questa diversità di disciplina impedisce che nel processo in cui si con-
troverte di questioni civili o commerciali si pongano problemi di riassun-
zione, come avviene invece nel rito del lavoro allorché nessuna delle parti –
vigente il sistema del tentativo obbligatorio – provveda al promovimento
del tentativo di conciliazione ordinato dal giudice (abrogato art. 412-bis,
commi 3°, 4° e 5°, c.p.c.). Quindi la procedura indicata nel d. lgs. n. 28 del
2010 è più spedita e non presenta il rischio dell’estinzione del processo che
(18) Problemi di questo genere si ponevano con il testo dell’abrogato art. 412-bis c.p.c. “. . .
Il giudice che rileva che non è stato promosso il tentativo di conciliaizone [. . .] sospende il giudizio
e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazio-
ne [. . .] trascorso il termine [. . .] il processo può essere riassunto nel termine perentorio di cen-
toottanta giorni [. . .] Ove il processo non sia stato tempestivamente riassunto, il giudice dichiara
d’ufficio l’estinzione del processo . . .”
236 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
nel rito del lavoro segue (anzi seguiva) alla mancata riassunzione della cau-
sa nei termini.
Naturalmente il convenuto resta libero di non aderire all’invito di effet-
tuare la mediazione; così come non vi è alcun obbligo di arrivare ad un ver-
bale di conciliazione.
Va anche sottolineato un altro meccanismo introdotto dalla riforma del-
la mediazione del 2010 che consente anche dopo l’avvio del processo in se-
de giudiziaria l’eventuale attivazione delle procedure stragiudiziali di me-
diazione. Nel d. lgs. n. 28 del 2010 si prevede, infatti, che il giudice possa
sempre, anche in appello, invitare le parti ad attivare le procedure di media-
zione presso uno degli organismi a ciò deputati; se le parti aderiscono all’in-
vito, il giudice fisserà una nuova udienza assegnando alle parti un termine
di quindici giorni per prendere contatto con l’organismo di mediazione.
Nel rito del lavoro, esaurita senza esito la fase conciliativa, non restava
che sperare nel tentativo di conciliazione da parte del giudice alla prima
udienza (art. 420 c.p.c.) (19). Ora, però, la l. 4 novembre 2010, n. 183 introdu-
ce a sua volta un meccanismo inedito nel nostro ordinamento processuale,
dissonante con le regole della conciliazione, consistente nell’attribuzione
al giudice del lavoro non solo dell’onere di tentare all’udienza di discussio-
ne la conciliazione delle parti ma anche quello di formulare “alle parti una
proposta transattiva” e di valutare successivamente ai fini del giudizio il ri-
fiuto ingiustificato di adesione a questa proposta (nuovo art. 420, comma 1°,
c.p.c.).
(19) Art. 420 c.p.c. (Udienza di discussione della causa). “Nell’udienza fissata per la discus-
sione della causa, il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della
causa . . .”
SAGGI 237
troversie e c’è, d’altra parte, accordo nel considerare che si tratta di metodi
molto antichi. L’interesse che questi metodi hanno suscitato è in sostanza
strettamente legato ai vantaggi della giustizia privata e alla crisi di efficacia
di quella tradizionale.
È bene avvertire che i documenti ufficiali prodotti in ambito europeo
con l’acronimo ADR (Alternative Dispute Resolution) si riferiscono a proce-
dure non giurisdizionali di risoluzione di una controversia condotte da per-
sone neutrali escludendo, però, l’arbitrato trattandosi di una procedura che
sarebbe assimilabile più ai procedimenti giurisdizionali che a quelli alterna-
tivi, in quanto il lodo arbitrale mira a sostituirsi alla sentenza, e in quanto
nell’arbitrato non c’è una negoziazione tra le parti ma una delega a terzi (20).
Questa esclusione dell’arbitrato dalle ADR è, però, del tutto irragionevole,
se applicata al nostro ordinamento interno, perché non considera le trasfor-
mazioni dell’arbitrato negli ultimi anni e, soprattutto, perché non conside-
ra l’introduzione e la larga diffusione delle procedure arbitrali irrituali de-
stinate a sostituire in futuro quelle eccessivamente formali dell’arbitrato
tradizionale. D’altro lato l’arbitrato è un giudizio privato del tutto simme-
trico e alternativo a quello di natura statale a prescindere dalla differente na-
tura del lodo nei due tipi di arbitrato.
In linea generale lo sviluppo delle procedure che vanno sotto il nome di
ADR è dovuto al fatto che queste procedure sono in grado di fornire una ri-
sposta alle difficoltà di accesso alla giustizia e del suo funzionamento che
molti Paesi devono affrontare, anche se spesso i risultati in termini di effet-
tiva deflazione non sono stati incoraggianti (21). In quasi tutti i Paesi del
mondo le procedure giudiziarie sono sempre più numerose, in connessione
(20) “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia
civile e commerciale”, Bruxelles, 19 aprile 2002, documento COM (2002) n. 196 dove si affer-
ma anche che non sono considerate ADR gli arbitrati; così come non lo è nemmeno la perizia
che non è un metodo di risoluzione di una controversia, né i sistemi di trattamento dei recla-
mi messi a disposizione dei consumatori dagli operatori perché si tratta di procedure condot-
te da una parte in conflitto e non da terzi, né i sistemi di negoziazione automatizzata che so-
no solo strumenti tecnici destinati a facilitare la negoziazione tra le parti in conflitto.
(21) Caponi, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR, in Foro it. 2003, V, c. 167
ss.; Chiarloni, La crisi della giustizia civile e i rimedi possibili nella prospettazione comparata,
in Questioni giustizia, 1999, p. 1013 ss.; Cuomo Ulloa, La conciliazione. Modelli di composi-
zione dei conflitti, Padova, 2008; De Palo-Guidi, Risoluzione alternativa delle controversie, Mi-
lano, 1999; Ghirga, Strumenti alternativi di risoluzione della lite,: fuga dal processo o dal dirit-
to?, in Riv. dir. proc. 2009, p. 357 ss. ; Silvestri, Osservazioni in tema di strumenti alternativi per
la risoluzione delle controversie, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 321 ss.; Taruffo, Adegua-
menti delle tecniche di composizione dei conflitti di interesse, in Riv. trim, dir. proc. civ. 1999, p.
331 ss.
238 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
con l’espandersi della tutela dei diritti, durano sempre di più e impongono
di sopportare costi sempre più alti.
La previsione di procedure alternative alle tradizionali modalità di ac-
cesso giudiziario per la soluzione dei conflitti e delle controversie non trae,
però, motivazione solo da valutazioni di necessità deflattiva o di fuoriuscita
da un sistema giudiziario legale che finisce per incrementare e produrre
conflittualità (litigation crisis).
Se è vero, infatti, che nei casi tassativi in cui le procedure di mediazione
sono condizione di procedibilità della domanda giudiziale la motivazione
per la mediazione è stata compiuta dal legislatore cosicché agli utenti non
rimane che aderire – quanto meno per l’attore che ha l’obbligo di promuo-
vere il procedimento di mediazione – e operare affinché si produca una so-
luzione soddisfacente, allorché invece la mediazione non ha questo vinco-
lo ed è lasciata soltanto alla libera iniziativa degli utenti della giustizia, può
essere opportuno segnalare le motivazioni che possono rendere la media-
zione una risorsa fruibile con soddisfazione per chi vi accede.
Nel complesso vengono indicate molteplici motivazioni.
In primo luogo quella relativa ai tempi rapidi delle procedure di conci-
liazione (22).
Tra le motivazioni più convincenti, poi, c’è quella per cui la mediazione
porta più sicuramente ad una soluzione soddisfacente di quanto non av-
venga con il processo. Il vecchio adagio che è meglio sempre una soluzione
concordata che una crassa sentenza vale sempre. Secondo i dati italiani for-
niti dall’Unioncamere, nell’86% dei casi sottoposti ai mediatori professioni-
sti la controversia trova un componimento soddisfacente.
La mediazione costituisce, poi, una strada meno costosa della giustizia
ordinaria. Il pagamento delle indennità ai mediatori per un lavoro che dura
al massimo poche settimane non raggiungerà mai i costi di una causa che
può durare molti anni. Se ci pone nell’ottica di procedure non sostitutive ma
propedeutiche o che comunque non escludono il ricorso a quelle giurisdi-
zionali, certamente la valutazione dei costi può essere diversa. Occorre però
guardare alla procedura in sé come sostitutiva di quella giurisdizionale.
Anche il fatto che il criterio decisionale nella mediazione finalizzata al-
la conciliazione possa essere, e per lo più sia, quello dell’equità e della ra-
gionevolezza, aiuta a superare l’insoddisfazione che può derivare da una
(22) Il d. lgs. 28/2010 prevede come tempo massimo quello di quattro mesi dalla data del-
la domanda ma secondo alcuni dati forniti da un organismo di mediazione una buona conci-
liazione potrebbe essere raggiunta anche solo in una giornata. Sui rapporti tra le forme alter-
native e la durata del processo Comoglio, La durata ragionevole del processo e le forme alter-
native di tutela, in Riv. dir. proc., 2007, p. 615 ss.
SAGGI 239
decisione basata sulle rigidità e sui formalismi del diritto sostanziale e pro-
cessuale.
Naturalmente, perché queste motivazioni portino ad un risultato, è ne-
cessario investire adeguatamente nella formazione degli operatori che do-
vranno occuparsene, come molto opportunamente è stato ricordato (23).
Si afferma, poi, che la mediazione aiuta a conservare le relazioni inter-
personali in maniera più efficace di quanto non avvenga nel corso di un pro-
cesso e per questo rende più stabile nel tempo la soluzione concordata. A
proposito di questa motivazione c’è da dire però che, se si adotta una pro-
spettiva pragmatica e laica, non bisogna confondere gli obiettivi con le con-
seguenze.
Il fatto che la mediazione favorisca la conservazione di relazioni inter-
personali è una conseguenza e non l’obiettivo della mediazione. Attribuire
alla mediazione funzioni di tipo pedagogico rischia di confondere i piani
dell’intervento. Nella mediazione finalizzata al componimento stragiudi-
ziale di controversie civili e commerciali, è sufficiente e necessario che il
mediatore sappia consentire, per quanto possibile, un componimento sod-
disfacente della controversia, lasciando le parti però sempre libere di acce-
dere, ove non siano soddisfatte della soluzione, alle procedure ordinarie
della giustizia formale per la tutela dei propri diritti. La mediazione civile e
commerciale in questo è profondamente diversa dalla mediazione familia-
re tra i cui obiettivi vi è certamente quello di migliorare le competenze co-
municative nelle relazioni interpersonali familiari.
La mediazione, pertanto, non ha nessuna controindicazione in quanto,
oltre ad essere gestita con la necessaria riservatezza, non fa perdere alle par-
ti alcun diritto in ordine all’eventuale esperimento dell’azione giudiziaria.
In giurisprudenza la funzione deflattiva della conciliazione stragiudizia-
le è stata esaltata espressamente con riguardo al contenzioso tributario (24)
dove la conciliazione è sia giudiziale, in tal caso concludendosi in udienza
con la redazione di un verbale di conciliazione, sia stragiudiziale (procedu-
ra semplificata cosiddetta aderita) che si conclude con il raggiungimento di
un accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria (art. 48 del d. lgs.
n. 546 del 1992).
(23) Civinini, La crisi di effettività della giustizia civile in Europa, in Questione giustizia,
1999, II, p. 325
(24) Attribuiscono espressamente alla conciliazione funzione di deflazione del conten-
zioso Cass. sez. V, 22 agosto 2008, n. 4626; Cass. sez. V, 18 aprile 2007, n. 9223; Cass. sez. V, 18
aprile 2007, n. 9222.
240 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
introdotte nel rito del lavoro dall’art. 31 della l. 4 novembre 2010, n. 183, è
opportuno premettere qualche breve osservazione sulla disciplina dell’arbi-
trato, come modificata nel 2006 ad opera del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (25).
Secondo il primo comma dell’art. 806 c.p.c. (controversie arbitrabili)
riformato nel 2006 “le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra
di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso
divieto di legge” mentre il secondo comma precisa che: “Le controversie di cui
all’art. 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei
contratti o accordi collettivi di lavoro”.
Si tratta della norma di apertura che chiarisce il fondamento dell’arbi-
trato come procedura di natura negoziale affidata legittimamente ad un giu-
dice privato scelto dalle parti nell’ambito di un procedimento alternativo ri-
spetto a quella giurisdizionale (26).
L’importanza della norma sta soprattutto nella circostanza di avere am-
messo l’arbitrato nelle controversie di lavoro non soltanto quando il ricorso
alle procedure arbitrali è previsto nei contratti di lavoro ma anche “se previ-
sto dalla legge” e nell’avere, quindi, dato il via alla diffusione per legge del-
l’arbitrato irrituale nei conflitti di lavoro.
La riforma del rito del lavoro del 1973, in linea con l’impostazione sin-
dacale che caratterizzava quel momento storico, aveva ammesso l’arbitrato
nelle controversie di lavoro solo se ciò era previsto dai contratti collettivi di
lavoro. Analogamente avvenne con le riforme del 1998 allorché fu inserito
nel codice di procedura civile l’art. 412-ter (27) il quale prevedeva che, in al-
ternativa al giudizio dinanzi al giudice ordinario, ove il tentativo di concilia-
zione non fosse riuscito o comunque fosse decorso il termine stabilito per il
suo espletamento, le parti avrebbero potuto concordare di deferire la riso-
luzione della controversia ad arbitri, sempre che questa possibilità fosse
prevista nei contratti e accordi collettivi (28). Una sorta di alternativa arbitra-
le sussidiaria rispetto alla conciliazione a patto che fosse stata ammessa nel-
la contrattazione collettiva. L’alternativa era percorribile anche in materia
di pubblico impiego dove (in virtù di quanto previsto dal contratto colletti-
vo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato ai
sensi degli artt. 59-bis, 69 e 69-bis del d. lgs. n. 29 del 1993 in materia di pub-
blico impiego) le parti possono sempre concordare, in alternativa al ricorso
all’autorità giudiziaria ordinaria, di deferire la controversia ad un arbitro
unico scelto di comune accordo. In definitiva l’arbitrato nelle controversie
di lavoro costituiva un’alternativa subordinata alla previsione nella contrat-
tazione collettiva. Ora, secondo il nuovo testo dell’art. 806 c.p.c. è sufficien-
te che sia la legge a prevederlo per rendere praticabile l’arbitrato.
Continuando nell’esame delle disposizioni generali sull’arbitrato rifor-
mate nel 2006, il testo dell’art. 807 (compromesso) prevede che “il compro-
messo deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l’oggetto
della controversia. La forma scritta s’intende rispettata anche quando la vo-
lontà delle parti è espressa per telegrafo, telescrivente, telefacsimile o messag-
gio telematico nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente
la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi”. Scompare dal
nuovo testo il vecchio terzo comma il quale stabiliva che al compromesso si
applicano le disposizioni che regolano la validità dei contratti eccedenti
l’ordinaria amministrazione, con la conseguenza che il compromesso, cioè
la convenzione di diritto privato di deferimento agli arbitri di una decisione
su una lite insorta, che dovrebbe riferirsi a rapporti non contrattuali, è oggi
considerato un atto di ordinaria amministrazione con conseguente modifi-
ca implicita del terzo comma dell’art. 320 c.c., che si occupa della rappre-
sentanza dei genitori sui figli minori, nella parte in cui considera la decisio-
ne di arbitrabilità di una controversia un atto eccedente l’ordinaria ammini-
strazione richiedente l’autorizzazione del giudice tutelare.
L’art. 808 (clausola compromissoria) prescrive che: “Le parti, nel contrat-
to che stipulano o in un atto separato, possono stabilire che le controversie na-
scenti dal contratto medesimo siano decise da arbitri, purché si tratti di contro-
(27) La norma è stata inserita dall’art. 39 del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80.
(28) Anche l’art. 808 c.p.c. (nel testo anteriore alla riforma del 2006) prevedeva che il ri-
corso all’arbitrato era ammissibile solo se previsto nei contratti e accordi collettivi di lavoro.
242 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
caso certamente l’arti. 808-bis si riferisce a liti future e l’art. 807 a liti già in-
sorte, ma non può essere questo un fondamento plausibile di una diversa
terminologia.
La seconda e più consistente novità introdotta dal d. lgs. 2 febbraio
2006, n. 40 è, come si è prima anticipato, l’art. 808-ter (arbitrato irrituale) in
cui si legge che: “Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, sta-
bilire che, in deroga a quanto disposto dall’art. 824-bis (30), la controversia sia
definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si ap-
plicano le disposizioni del presente titolo” poi la norma prosegue indicando i
cinque casi in cui il “lodo contrattuale” incorre in invalidità (31).
È questo uno dei punti centrali della riforma dell’arbitrato del 2006 che,
indubbiamente, dà legittimazione piena e anche autonomia dogmatica al-
l’arbitrato irrituale (32).
L’idea che il legislatore abbia potuto operare una trasformazione così ra-
dicale con una norma che indubbiamente ha anche una aspirazione siste-
matica, può dar fastidio ma non può essere sottovalutata. L’arbitrato rituale
e quello irrituale acquistano con la riforma del 2006 ciascuno una propria
autonomia. E a partire da questa riforma non si potrà più sostenere, quindi,
che l’arbitrato costituisce un fenomeno giuridico unitario, pur essendo evi-
dente nelle due forme di arbitrato la comune natura alternativa rispetto al
sistema giurisdizionale di risoluzione delle controversie. Si potrà sostenere
(30) L’art. 824-bis dispone che il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità
giudiziaria.
(31) Il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente secondo le disposizioni del
libro I:
1) se la convenzione dell’arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclu-
sioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento
arbitrale;
2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzio-
ne arbitrale;
3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma del-
l’art. 812;
4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di va-
lidità del lodo;
5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Al
lodo contrattuale non si applica l’art. 825.
(32) In materia di arbitrato irrituale, oltre ai lavori generali sull’arbitrato, Arrigoni, Arbi-
trato irrituale tra negozio e processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 323 ss.; Bernini, Princi-
pio del contraddittorio e arbitrato irrituale, in Riv. arb., 2006, p. 701 ss.; Morellini, Rilevanza
della volontà delle parti per distinguere l’arbitrato rituale da quello irrituale, in Società, 2006, p.
235 ss. ; Verde, Arbitrato irrituale, in Aa. Vv., La riforma della disciplina dell’arbitrato, a cura
di E. Fazzalari, Milano, 2006, p. 7 ss.; Curti, L’arbitrato irrituale, Torino, 2005.
244 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
che quello irrituale non è un vero e proprio arbitrato (33) ma non può sfug-
gire la chiarezza (e forse la presunzione) del legislatore il quale parla di “lo-
do contrattuale” in consapevole simmetria con il “lodo con effetti di senten-
za” a cui si riferisce l’art.824-bis c.p.c.
Come si vede, entra con prepotenza nel sistema giuridico, a pieno tito-
lo, la figura dell’arbitrato irrituale finalizzato ad un lodo non avente effica-
cia di sentenza ma, appunto, di contratto. Gli arbitri, perciò, sono delegati a
definire un assetto contrattuale tra le parti.
La riforma sembra quindi confermare la natura per così dire sostanziale
dell’arbitrato irrituale affermando che ciò che caratterizza l’arbitrato irritua-
le è il conferimento all’arbitro del compito di definire in via contrattuale – e
non attraverso un lodo arbitrale e cioè un atto di natura processuale – una
controversia insorta o che possa insorgere tra le parti in ordine a determina-
ti rapporti giuridici, mediante una composizione riconducibile alla volontà
delle parti e da valere come contratto concluso dalle stesse. Una sorta di
conciliazione arbitrale.
Nonostante la sua natura sostanziale e contrattuale il lodo arbitrale irri-
tuale trova la sua disciplina nell’ambito del codice di procedura civile con
ciò eliminando, in origine, ogni questione in ordine ai limiti di validità del-
la rinuncia temporanea alla giurisdizione ordinaria, che la scelta di avvaler-
si di tale strumento comporta.
Si tratta comunque di uno strumento dotato di grande flessibilità e faci-
le praticabilità. Il legislatore del 2006 aveva pensato solo ad alcune regole
minime, riconducibili essenzialmente alla necessità che la volontà delle
parti in favore dell’arbitrato irrituale si esprima in modo chiaro e univoco
(comma 1°) e alla possibilità che il lodo venga annullato in presenza di alcu-
ne gravi violazioni (comma 2°), ma aveva lasciato per il resto le parti libere
di esprimere al massimo la propria autonomia contrattuale. Come si vedrà
alcune regole procedimentali sono state introdotte dal legislatore nell’arbi-
trato irrituale nei conflitti di lavoro con il nuovo testo dell’art.412-ter c.p.c.
varato dalla legge 183/2010.
La giurisprudenza dal canto suo ha sempre mantenuto pragmaticamen-
te nelle sentenze, anche in quelle più recenti, la convinzione – confermata
dal legislatore del 2006 e, come si dirà, da quello del 2010 – che l’arbitrato ir-
rituale è un vero e proprio arbitrato che comporta un accertamento diretta-
mente riconducibile alla volontà delle parti, assoggettato alle normali im-
pugnative negoziali. Si legge in tutte le principali decisioni della giurispru-
denza che “posto che sia l’arbitrato rituale che quello irrituale hanno natu-
(33) Punzi, Arbitrato, Arbitrato rituale e irrituale, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1995, p. 3
ss.
SAGGI 245
ra privata, la differenza tra l’uno e l’altro tipo di arbitrato non può imper-
niarsi sul rilievo che con il primo le parti abbiano demandato agli arbitri una
funzione sostitutiva di quella del giudice, ma va ravvisata nel fatto che, nel-
l’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di
essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con
l’osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato
irrituale esse intendono affidare all’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di
controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati
rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una
composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla
volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione
degli arbitri come espressione della loro volontà” (34).
Per comprendere come sia potuto accadere che l’arbitrato irrituale (con
il suo lodo contrattuale) abbia assunto oggi – insieme alla mediazione – una
centralità assolutamente inedita nel sistema dei mezzi di composizione al-
ternativi delle controversie, è sufficiente considerare che la riforma appro-
vata non ha fatto altro che disciplinare nei conflitti di lavoro l’arbitrato sul
modello generale dell’art. 808-ter c.p.c.
Con la differenza che, mentre nel diritto comune l’articolo 808-ter non
aveva previsto e non prevede ancora una disciplina procedimentale propria,
la riforma approvata introduce, invece, una nuova procedura strutturata ma
semplificata per gli arbitrati che si svolgeranno davanti a nuovi “collegi di
conciliazione e arbitrato irrituale” composti da un rappresentante per cia-
scuna parte e da un presidente scelto di comune accordo dagli arbitri di par-
te tra professori universitari di materie giuridiche e avvocati ammessi al pa-
trocinio davanti alla Corte di Cassazione.
A questo punto, non è escluso – ed anzi sarebbe auspicabile – che il le-
gislatore possa in futuro anche estendere la nuova procedura prevista nel-
l’arbitrato nelle controversie di lavoro anche all’arbitrato irrituale di diritto
comune previsto nell’art. 808-ter.
Vediamo ora più da vicino il nuovo arbitrato irrituale nei conflitti di la-
voro (artt. 412, 412-ter, 412-quater introdotti dalla riforma approvata) (35) di
cui va segnalata in primo luogo la grande differenza con l’“arbitrato irritua-
le previsto dai contratti collettivi”, cui faceva riferimento il previgente art.
412-ter c.p.c. All’epoca, infatti, in cui le norme sul tentativo di conciliazione
obbligatorio e sull’arbitrato nel processo del lavoro venivano introdotte,
(34) Cass. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. sez. I, 30 maggio 2005, n. 12684; Cass.
sez. I, 10 ottobre 2006, n. 24059; Cass. sez. I, 20 luglio 2006, n. 16718.
(35) La riforma approvato dalla Camera il 19 ottobre 2010 – legge 4 novembre 2010 pub-
blicata nel supplemento ordinario della G.U. del 9 novembre 2010 – ha abrogato gli artt. 410-
bis e 412-bis c.p.c. (art. 31 comma 16° della legge 183/2010).
246 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
cioè nel 1998, l’arbitrato ancora non aveva subìto quella rivoluzione coper-
nicana determinata su questo istituto dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.
È proprio in seguito alla riforma del 2006 che il nuovo modello di arbi-
trato irrituale disegnato per il diritto comune nell’art. 808-ter c.p.c. si è reso
particolarmente appetibile anche per le controversie di lavoro portando alla
proposta politica, ora diventata legge, di spostare dalla conciliazione all’ar-
bitrato il baricentro delle soluzioni alternative e riportando – come si è già
accennato – il tentativo di conciliazione come nella primitiva riforma del
1973 alla sua facoltatività (salvo per le controversie di cui all’art. 80 del d. lgs
276/2003, relative alla certificazione dei contratti: art. 31, comma 2°, l. 4 no-
vembre 2010, n. 183).
Nell’attuale XVI legislatura si è discusso di riforma della conciliazione e
dell’arbitrato, all’interno di un progetto più ampio di riforma del diritto del
lavoro (progetto di legge C / n. 1441-quater) il cui esame ha avuto inizio alla
Camera dei deputati, in prima lettura, il 17 settembre 2008 e si è concluso
con l’approvazione del testo il 28 ottobre 2008. Il provvedimento che inizial-
mente era composto di 9 articoli, è stato approvato dalla Assemblea della
Camera dei deputati in un testo di 28 articoli. Il Senato ha avviato l’esame
del provvedimento (S / n. 1167), in seconda lettura, il 5 novembre 2008 e l’ha
approvato il 26 novembre 2009, in un testo composto di 52 articoli. La Ca-
mera ha avviato la terza lettura parlamentare (C / n. 1441-quater-B) il 9 di-
cembre 2009. A seguito delle ulteriori modifiche apportate, il testo, approva-
to dalla Camera il 28 gennaio 2010, è stato nuovamente trasmesso al Senato.
Il Senato ha svolto la quarta lettura parlamentare (S / n. 1167-B) dal 2 feb-
braio al 3 marzo del 2010, approvando il testo senza ulteriori modifiche.
La legge venne rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica il
31 marzo 2010 – con un messaggio sui cui contenuti si ritornerà in seguito –
ed è stata approvata con modificazioni dalla Camera dei deputati il succes-
sivo 29 aprile 2010 e dal Senato il 29 settembre 2010. Poiché il Senato aveva
apportato alcune modifiche è tornata alla Camera dove è stata approvata in
via definitiva il 19 ottobre 2010 diventando legge 4 novembre 2010, n. 183.
La norma che si occupa di conciliazione e arbitrato nel processo del la-
voro – una di quelle su cui si erano appuntate le osservazioni del Presidente
della Repubblica – è l’art. 31.
I primi quattro commi si occupano della conciliazione mentre dal quin-
to comma in poi la disposizione affronta il tema dell’arbitrato.
Il comma 5° disciplina l’arbitrato presso la commissione di conciliazio-
ne, inserendo l’istituto in un nuovo art. 412 c.p.c. (36) e dando con ciò in-
(36) Si riporta il testo di questo comma come modificato dalla Camera dei Deputati dopo
il rinvio da parte del Presidente della Repubblica (art. 31, comma 5°, della legge 183/2010).
SAGGI 247
gresso nei conflitti di lavoro ad una nuova figura di “risoluzione arbitrale del-
la controversia” sul modello dell’art. 808-ter c.p.c., attraverso la devoluzione
alle commissioni di conciliazione di un ruolo non più di negoziatore ma di
arbitro. Per questo il nuovo istituto potrebbe essere anche chiamato “conci-
liazione arbitrale”. Si legge nella norma che: “In qualunque fase del tentativo
di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono
indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo,
quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per
la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il manda-
to a risolvere in via arbitrale la controversia”.
Esattamente, quindi, quello che prevede l’art. 808-ter c.p.c., inserito dal
d. lgs. n. 40 del 2006, il quale espressamente afferma che “le parti possono
[. . .] stabilire che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determina-
zione contrattuale” che a differenza del lodo rituale non va obbligatoria-
mente depositato in tribunale.
(37) Il quarto comma dell’art. 2113 c.c. prevede la deroga al principio di invalidità delle ri-
nunce e delle transazioni a diritti indisponibili. Quindi il lodo arbitrale irrituale ha lo stesso
valore del verbale di conciliazione al quale anche per espressa previsione dell’ultimo comma
dell’art. 2113 c.c. si applica la deroga indicata.
(38) Art. 30, comma 10°, della riforma approvata invia definitiva il 19 ottobre 2010: “In re-
SAGGI 249
lazione alle materie di cui all’art. 409 c.p.c., le parti contrattuali possono pattuire clausole
compromissorie di cui all’art. 808 c.p.c. che rinviano alle modalità di espletamento dell’arbi-
trato di cui agli artt.412 e 412-quater c.p.c., solo ove ciò sia previsto da accordi interconfedera-
li o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavora-
tori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La clausola compromissoria,
a pena di nullità, deve essere certificata in base alle disposizioni di cui al titolo VIII del d. lgs.
10 settembre 2003, n. 276, dagli organi di certificazione di cui all’art.76 del medesimo decreto
legislativo, e successive modificazioni. Le commissioni di certificazione accertano, all’atto
della sottoscrizione della clausola compromissoria, la effettiva volontà delle parti di devolve-
re ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro. La clausola compromis-
soria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove
previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del con-
tratto di lavoro, in tutti gli altri casi. La clausola compromissoria non può riguardare contro-
versie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. Davanti alle commissioni di certifica-
zione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante del-
l’organizzazione sindacale o professionale a cui abbiano conferito mandato.
Enciclopedia
(1) La definizione tradizionale di contratto aleatorio quale contratto nel quale « ciò che
l’uno dà o si obbliga di dare all’altro, è il prezzo di un rischio che gli ha addossato » risale a
Pothier, Trattato del contratto di assicurazione, in Opere, II, Livorno, 1936, I, p. 97, mentre la
prima definizione normativa è contenuta nel Code Napoleon (artt. 1104 e 1964) e, successiva-
mente, nel codice civile italiano del 1865 (art. 1102). Sull’origine storica del contratto aleato-
rio si veda Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 44, se-
condo cui la creazione della fattispecie risale al Medioevo, nel momento in cui si fece più
pressante l’esigenza di favorire le contrattazioni che, in quanto sempre più spesso legate al-
l’imprevedibile andamento dei mercati, si caratterizzavano per l’incertezza del rischio e della
convenienza dell’affare. In senso difforme Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova,
1987, p. 24.
(2) Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 533. In argomento Riccio, L’ec-
cessiva onerosità sopravvenuta, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 2010; Ba-
lestra, Il contratto aleatorio e l’alea normale, in Le monografie di Contratto e impresa, Padova,
2000; Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987; Ridolfi, voce «Alea, Aleatori
(contratti) », in Nuovo Dig. it., II, p. 263 ss.; Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, Milano,
1960, p. 127 ss.; Id., voce «Alea », in Dig. disc. priv., sez. civ., I, p. 255 ss.; Id., Considerazioni sui
contratti aleatori, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 167 ss.; Pino, Contratto aleatorio, contratto commu-
tativo ed alea, in Riv. trim. proc. civ., 1960, p. 1221 ss. In giurisprudenza, tra le altre, Cass., 30
agosto 2004, n. 17399, in Giur. it., 2005, p. 1394; Cass., 7 giugno 1991, n. 6452, in Rep. Foro it.,
1991, voce «Contratto in genere» n. 401; Cass., 31 maggio 1986, n. 3694 in Rep. Foro it., 1986, vo-
252 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
ce «Contratto in genere», n. 335; Trib. Milano, 27 febbraio 1992, in Giur. it., 1992, I, 2, p. 602 con
nota di Cagnasso.
(3) Scalfi, voce «Alea » in Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, p. 260 e Nicolò, voce
«Alea », in Enc. dir., I, Milano, 1958, p.1030 rilevano che la ratio dell’inapplicabilità dei citati ri-
medi risiede nel fatto che per tale tipologia contrattuale il rischio dell’alterazione dell’econo-
mia dell’affare e dei termini del rapporto è connotato intrinseco dello schema causale. Deve
tuttavia notarsi che secondo una impostazione dottrinale accreditata anche per i contratti
aleatori dovrebbero ammettersi, in presenza di determinate condizioni, i rimedi di cui agli
artt. 1467 e 1468 c.c.; in questo senso, tra gli altri, Sacco, in Trattato di dir. civile, diretto da Sac-
co, Il contratto, II, Torino, 2004, p. 703; Auletta, Risoluzione dei contratti per eccessiva onero-
sità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, p.170; Buffa, Di alcuni principi interpretativi in materia di
risoluzione per onerosità eccessiva, in Riv. dir. comm., 1948, II, p. 55.
(4) Bianca, Diritto civile, III, Milano, 1984, p. 649 ss. ove si legge che la parte non può do-
lersi della sproporzione tra dare e avere se la stessa è il risultato sfavorevole dell’alea assunta.
(5) Come osserva Balestra, Il contratto aleatorio e l’alea normale, in Le monografie di
Contratto e impresa, Padova, 2000, p. 122.
(6) Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto civile italiano, Napoli, s.d., p. 209;
Osti, voce «Contratto », in Noviss. Dig. it., Torino, 1959, p. 496 ss.; Messineo, Il contratto in ge-
nere, in Trattato di dir. civile, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1968, p. 774 ss.; Boselli, Ri-
schio, alea ed alea normale del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, p. 770 ss.; Barassi, Teo-
ria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1954, p. 289 ss.; Mosco, Onerosità e gratuità degli at-
ti giuridici, Napoli, 1942, p. 83 ss.; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Na-
poli, 1976, p. 244 ss.
(7) Tale impostazione si è infatti formata sulla traccia della codificazione napoleonica
(art. 1102 del codice civile del 1865).
ENCICLOPEDIA 253
cui la stessa giurisprudenza dimostra di aderire (8), che in passato è stata tal-
volta accusata di fornire una definizione troppo generica della fattispecie. Si è
infatti obiettato che l’incertezza circa il vantaggio economico non sarebbe pre-
rogativa dei contratti aleatori, ravvisandosi anche nelle ipotesi di estensione
convenzionale dell’alea normale, nonché nei contratti con prestazioni certe e
determinate ad esecuzione differita (9).
Altra parte della dottrina, insoddisfatta della ricostruzione nei termini
citati, ha elaborato la cd. concezione strutturale secondo la quale il contrat-
to aleatorio si connota per il fatto che l’evento incerto non incide sui criteri
economici che condizionano il valore delle prestazioni bensì sulla esistenza
o sulla determinazione delle medesime (10), ovvero sull’an o sul quantum (11).
Oltre a tali due fondamentali impostazioni si deve dare atto di una ulteriore
opinione che, ponendosi come sintesi delle prime due, ritiene che ai fini del-
(8) Ex multis, Cass., 26 gennaio 1993, n. 948, in Contratti, 1993, p. 532; Cass., 7 giugno
1991, n. 6452, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere », n. 401; Cass., 31 maggio 1986, n.
3694, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere », n. 335, Cass., 9 aprile 1980, n. 2286, in Giust.
civ., 1980, I, p. 1503; Cass., 8 agosto 1979, n. 4626, in Rep. Giur. it., 1979, voce «Obbligazioni e
contratti », n. 265; Cass., 22 ottobre 1977, n. 4547, in Mass. Giust. Civ., 1977. Recentemente in
questo senso, Trib. Ivrea, 1° settembre 2005, in Contratti, 2006, p. 260, commentata da Ba-
raldi, in questa rivista, 2007, p. 603 ss., ove si conclude per la natura aleatoria del warrant in
ragione dell’incerto risultato economico a cui tende l’investitore.
(9) Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 15; Scal-
fi, Corrispettività ed alea nei contratti, Milano – Varese, 1960, p. 143.
(10) Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 60; Scalfi, voce «Alea » in
Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, p. 256; id., Corrispettività ed alea nei contratti, Milano
– Varese, 1960, p. 143; Maiorca, Il contratto. Profili della disciplina generale, Torino, 1981, p.
77; Maresca, Alea contrattuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 46; Ascarelli,
Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa e tit. di credito, 1958, I, p. 440; Dalmartello,
Adempimento e inadempimento nel contratto di riporto, Padova, 1958, p. 329, nota 173 bis; Ni-
colò, voce «Alea», in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1024; Id., in Scritti giuridici, II, Milano, 1980,
p. 1421; Rotondi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1942, p. 341 ove si legge che « quello che
rende aleatorio il contratto non è l’alea circa il valore economico delle prestazioni o le condizioni
economiche incerte e mutevoli, ma l’alea sull’esistenza o sulla entità delle prestazioni ».
(11) Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il codice civile. Commentario, diretto
da Schlesinger, artt. 1467 – 1469, Milano, 1995, p. 167 segnala che sotto il profilo dell’an rileva
il caso di estrazione di un numero o di un biglietto della lotteria o dell’esito di una gara nella
scommessa, mentre sotto il profilo del quantum sottolinea – che nell’assicurazione sulla vita
e nella rendita vitalizia – la prestazione dell’assicuratore o la quantità della rendita dipendono
dalla durata della vita. Si veda anche Cass., sez. un., 26 gennaio 1993, in Giust. civ., 1993, I, p.
3023 ss. con nota di Costanza; Cass., 7 giugno 1991, n. 6452, in Rep. Foro it., 1991, voce «Con-
tratto in genere » n. 401; Cass., 31 maggio 1986, n. 3694, in Rep. Foro it., 1986, voce «Contratto
in genere », n. 335; Cass., 9 aprile 1980, n. 2286, in Giust. civ., 1980, I, p. 1503; Cass., 11 marzo
1966, n. 699, in Temi nap., 1966, I, p. 162.
254 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(12) Così Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 243;
Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 303.
(13) Nicolò, voce «Alea », in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1029; Scalfi, Corrispettività e
alea nei contratti, Milano, 1960, p. 138. Deve tuttavia segnalarsi Pino, Alea e rischio nel con-
tratto di assicurazione, in Assic., 1960, I, p. 260, Id., Il difetto di alea nella costituzione di rendita
vitalizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 360 secondo il quale «la nozione di alea è teorica-
mente e praticamente inidonea alla determinazione dei contratti aleatori, sia per quanto concer-
ne la natura giuridica, sia per quanto concerne la struttura ».
(14) Vedi però Sacco, in Trattato di dir. civile, diretto da Sacco, Il contratto, II, Torino,
2004, p. 478 secondo cui il confine tra i due concetti è labile.
(15) Cass., 7 giugno 1991, n. 6452, in Rep. Foro it., 1991, voce «Contratto in genere », n. 401;
Trib. 27 febbraio 1992, in Giur. it., 1992, I, 2, p. 601 con nota di Cagnasso; Cass., 8 agosto 1979,
n. 4626, in Rep. Giur. it., 1979, voce «Obbligazioni e contratti », n. 265; Nicolò, voce «Alea », in
Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1030.
(16) Cass., 9 marzo 1985, n. 1913, in Rep. Foro it., 1985, voce «Contratto in genere », n. 287,
definisce l’alea «quell’elemento intrinseco che definisce ed individua i cosiddetti contratti aleato-
ri ».
(17) In argomento si veda la chiara distinzione contenuta in Cass. 5 gennaio 1983, n. 1, in
Giur. it., 1983, I, 1, p. 718 laddove si legge che contratto aleatorio ed alea normale sono due no-
zioni qualitativamente diverse «giacché nei contratti aleatori l’alea si pone come momento ori-
ginario ed essenziale, che colora e qualifica lo schema causale del contratto, laddove l’alea nor-
male, che si può dire esista sempre nel momento in cui si perfeziona un contratto, non potendosi
mai escludere che vicende economiche sopravvenute possano alterare quella situazione di equili-
brio che le parti avevano ritenuto concordemente di porre in essere, rimane un momento del tutto
estrinseco al meccanismo o al contenuto del contratto ». In senso conforme, Cass., 9 marzo
ENCICLOPEDIA 255
1985, n. 1913 in Rep. Foro it., 1985, voce «Contratto in genere », n. 287; Coll. Arb., 9 marzo 1988,
in Arch. giur. oo. pp., 1988, p. 1745.
(18) Gambino, Normalità dell’alea e fatti di conoscenza, Milano, 2001, p. 61.
(19) Così Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 532; vedi anche Nicolò,
voce «Alea », in Enc. dir., I, Milano, 1958, p.1024 per il quale «le disquisizioni meramente ter-
minologiche sull’uso delle parole rischio e alea si risolvono in sottigliezze di scarso rilievo ».
(20) In questo senso già la Relazione del Guardasigilli al Progetto Preliminare al codice ci-
vile (n. 245), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1941 laddove l’alea normale veniva defi-
nita «quel rischio che il contratto comporta a causa della sua peculiarità: rischio al quale ciascu-
na parte implicitamente si sottopone concludendo quel contratto ».
(21) Boselli, voce «Alea », in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, p. 476 secondo il quale «per
ciascun negozio v’ha una zona, per così dire di immunità e quasi di tolleranza, per entro la quale
gli effetti del rischio estraneo possono dirsi compatibili con la causa, in quanto non pervengono
ancora ad alterarla, epperò non v’ha ragione che intervenga alcuna reazione da parte dell’ordina-
mento ».
(22) Al riguardo è pertinente la considerazione di Irti, Introduzione allo studio del diritto
privato, Padova, 1990, p. 72 secondo cui «se [. . .] la norma è espressa con parole della lingua co-
mune, la disciplina procede di massima per clausole generali, che lasciano al giudice largo spazio
nella determinazione della fattispecie e degli effetti ».
(23) Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 532; in simili termini anche
Bianca, Diritto civile. Il contratto, vol. I, Milano, 1987, p. 465 che esemplifica il concetto come
256 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
contrattuale (24), nonché con il divario di valore tra le prestazioni che un da-
to contratto comporta in regime di normalità (25). Con efficace formula di
sintesi l’alea è stata definita quale « rischio, in termini di normali (e perciò pre-
vedibili) oscillazioni di costi e valori delle prestazioni (originate dalle ordinarie
fluttuazioni di mercato), alle quali i contraenti si sottopongono stipulando un
dato contratto » (26).
Ciò posto – e considerate le modalità mediante le quali l’alea normale si
manifesta – è evidente che essa si presenterà in ipotesi di contratti ad esecu-
zione differita, laddove è maggiormente probabile che, tra la stipulazione
del contratto e l’adempimento, si presentino fattori esterni in grado di de-
terminare una alterazione dell’assetto economico (27). Al di là delle espres-
rischio delle variazioni di costi e valori che rimane entro il limite della normalità, nonché Pi-
no, La eccessiva onerosità della prestazione, Padova, 1952, p. 65; Id., Contratto aleatorio, con-
tratto commutativo ed alea, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, p. 1221. In giurisprudenza Cass., 6
febbraio 1979, n. 794, in Rep. Foro it., 1979, voce «Contratto in generale », n. 365; Cass., 6 feb-
braio 1979, n. 793, in Mass. Foro it., 1979, c.173; Cass., 18 ottobre 1978, n. 4675, in Mass. Foro
it., 1978, c. 919; App. Milano, 23 aprile 1974, in Giur. it., 1972, I, 2, p. 403.
(24) De Martini, L’eccessiva onerosità nell’esecuzione dei contratti, Milano, 1950, p. 26;
Dalmartello, Adempimento e inadempimento nel contratto di riporto, Padova, 1958, p. 328;
Scalfi, Corrispettività ed alea nei contratti, Milano – Varese, 1960, p. 134; Gatti, L’adeguatez-
za fra le prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 454.
(25) Boselli, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, Torino, 1952, p. 180; in
termini analoghi anche Ferrari, Il problema dell’alea contrattuale, Napoli, 2001, p. 39.
(26) Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il codice civile. Commentario, diretto
da Schlesinger, artt. 1467 – 1469, Milano, 1995, p. 155; così anche in giurisprudenza, Cass., 11
giugno 1991, n. 6616, in Rep. Foro it., 1991, voce «Contratto in genere » [1740], n. 400; Cass., 25
marzo 1987, n. 2904, in Rep. Foro it., 1987, voce «Contratto in genere » [1740], n. 460; Cass., 9
marzo 1985, n. 1913, in Mass. Foro it., 1985; Cass., 5 gennaio 1983, n. 1, in Giur. it., 1983, I, 1, p.
718 con nota di Padova.
(27) Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il codice civile. Commentario, diretto
da Schlesinger, artt. 1467 – 1469, Milano, 1995, p. 155; Giampieri, Rischio contrattuale in com-
mon law, in Contratto e impresa, 1996, n. 2, p. 591 il quale dà atto che «nei rapporti ad esecu-
zione continuata o differita [. . .] l’intervallo intercorrente tra la stipula ed il momento previsto per
l’adempimento può aumentare proporzionalmente l’intervento di fattori esterni, anche imputabi-
li alle parti, in grado di frustrarne i progetti comuni ovvero quelli di uno di essi ». Nello stesso sen-
so Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992, p. 4
secondo cui «i rischi di un mutamento delle circostanze tali da creare una divaricazione tra il re-
golamento contrattuale per definizione statico ed immutabile e la realtà in continua evoluzione
saranno naturalmente tanto maggiori quanto più lungo è l’intervallo di tempo che intercorre tra il
momento della conclusione e quello della esecuzione »; negli stessi termini anche Scalfi, voce
«Alea » in Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, p. 258 il quale segnala che «l’alea si presen-
ta come una manifestazione “normale” in tutti i contratti ad esecuzione non immediata, essendo
possibili oscillazioni di valore delle prestazioni corrispettive cagionate da normali fluttuazioni di
mercato o da circostanze relative ad uno dei comportamenti dovuti idonee a creare uno squilibrio
di valore tra le prestazioni ».
ENCICLOPEDIA 257
(28) Come rileva Boselli, voce «Alea », in Noviss. Dig it., vol. I, Torino, 1957, p. 476.
(29) Cass., 9 marzo 1985, n. 1913, in Mass. Foro it., 1985; Cass., 14 dicembre 1982, n. 6867,
in Riv. dir. comm., 1984, II, p. 47; App. Catania, 18 settembre 1985, in Foro pad., 1986, I, p. 68.
(30) Così Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 300, il quale tuttavia
precisa che dovranno essere considerate le eventuali pattuizioni delle parti dirette ad intro-
durre «elementi di difformità rispetto alla regola legale, sia estendendo i limiti della “normalità”,
e quindi di irrilevanza dall’alea [. . .], sia spostando convenzionalmente rischi diversamente di-
stribuiti dal piano legale »; Gambino, Eccessiva onerosità della prestazione e superamento del-
l’alea normale del contratto, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 447; Nicolò, voce «Alea », in Enc. dir., I,
Milano, 1958, p.1026.
(31) Così Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa e tit. di credito, 1958, I,
p. 448; Scalfi, Corrispettività ed alea nei contratti, Milano-Varese, 1960, p. 138; Boselli, voce
«Alea », in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, p. 476; Ferrari, Il problema dell’alea contrattuale, Na-
poli, 2001, p. 39.
(32) Cagnasso, Appalto e sopravvenienza contrattuale. Contributo a una revisione della dot-
trina dell’eccessiva onerosità, Milano, 1979, p. 182; Gambino, Eccessiva onerosità della presta-
zione e superamento dell’alea normale del contratto, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 447 e, recente-
mente, anche Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, artt. 1467 – 1469. Il codice civile.
Commentario, Milano, 1995, pp. 157 e 158 il quale sottolinea che «il giudizio sul superamento
258 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(36) Galgano, Titoli di credito, sub artt. 1992 – 2027, in Commentario del codice civile Scia-
loja – Branca, Roma, 2010, p. 85 ss.
(37) Deve segnalarsi che rimangono estranei al dibattito circa l’inquadramento giuridico i
contratti differenziali che sono, di per sé, contratti aleatori, come notano Di Giandomenico,
Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 303; Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, Milano,
1960, p. 136, nota 51; Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa e tit. di credi-
to, 1958, I, p. 450.
(38) In senso critico, sul punto, Gabrielli, Contratti di borsa, contratti aleatori e alea con-
venzionale implicita, in Banca, borsa e tit. di credito, 1986, I, p. 575.
(39) Pretura Milano, 22 giugno 1957, in Banca, borsa e tit. di credito, 1958, II, p. 150 ss. con
nota di Bianchi d’Espinosa; il caso esaminato dalla Pretura milanese aveva ad oggetto l’im-
provvisa sospensione delle operazioni ad opera di agenti di cambio della borsa di Milano. Si
veda anche Pretura Roma, 13 gennaio 1982 (ord.), in Giust. civ., 1982, I, p. 14, con nota di
Scarpa; Coltro Campi, Considerazioni sui contratti a premio e sull’aleatorietà dei contratti di
borsa, in Riv. dir. comm., 1958, I, p. 380.
(40) Recentemente si segnala Trib. Ivrea, 1° settembre 2005, in Contratti, 2006, p. 260 ss.
commentata da Baraldi, in questa rivista, 2007, p. 607 ss. la quale ha ritenuto «che l’operazio-
ne economica sottesa all’acquisto di warrants abbia funzione speculativa, scontando essa una in-
260 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
dubbia natura aleatoria del contratto di opzione connesso » ed ha definito il warrant «strumento
finanziario [. . .] caratterizzato da un’alea intrinseca, essendo del tutto incerto il risultato econo-
mico a cui tende l‘investitore a causa della normale fluttuazione dei valori borsistici ».
(41) App. Genova, 9 maggio 1984, in Foro it., 1985, I, c. 266; App. Torino, 17 aprile 1984, in
Foro it., 1985, I, c. 632; Pretura Barletta, 6 agosto 1981 (ord.), in Banca, borsa e tit. di credito,
1984, II, p. 412 ss.; Trib. Bolzano, 23 febbraio 1983, in Banca, borsa e tit. di credito, II, p. 484 ss.
(42) Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 84; Bian-
chi d’Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, in Trattato di diritto civile e commerciale, fonda-
to da Cicu e Messineo, Milano, 1969, p. 389; Ruoppolo, Le borse e i contratti di borsa, Torino,
1970, p. 184; Serra, I contratti di borsa a premio, Milano, 1971, p. 79. In senso contrario, re-
centemente, Balestra, Il contratto aleatorio e l’alea normale, in Le monografie di Contratto e
impresa, Padova, 2000.
(43) Secondo Cass., 4 agosto 1988, n. 4825 in Giur. it., 1988, I, 1, p. 1700 ss. si tratta di con-
tratto «con il quale il compratore acquista la facoltà di decidere se ritirare il quantitativo pattuito
di titoli al prezzo base maggiorato del premio, o pagare il premio ». In dottrina Serra, I contratti
di borsa a premio, Milano, 1971, p. 241 e Coltro Campi, Considerazioni sui contratti a premio
e sulla aleatorietà dei contratti di borsa, in Riv. dir. comm., 1958, I, p. 380 qualificano la fattispe-
cie in termini di opzione; Bianchi d’Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, Milano, 1969, p.
459 ravvisa un contratto con obbligazione alternativa; Messineo, Operazioni di borsa e di ban-
ca, Milano, 1966, p. 98 propende per la tesi del recesso.
ENCICLOPEDIA 261
suoi effetti giuridici, dipendenti non da un rischio esterno, ma dal diritto pote-
stativo di scelta attribuito ad una parte » e che, pertanto, « qualsiasi limite
quantitativo della supposta eccessiva onerosità è irrilevante, se essa dipende
da eventi che devono essere presi in considerazione come prevedibili da tutti i
soggetti che intendono operare in borsa » (44). La giurisprudenza, quindi, an-
che sulla scorta della concezione strutturale del contratto aleatorio, ha deli-
neato chiaramente la linea di confine esistente tra contratti ad alea normale
illimitata e contratti aleatori che, a ben vedere, risultano accomunati sola-
mente dalla impossibilità di applicare la disciplina della risoluzione per ec-
cessiva onerosità sopravvenuta. In particolare, la distinzione tra le due fatti-
specie risiede nel fatto che mentre i contratti ad alea normale illimitata so-
no contratti commutativi in cui l’evento futuro ed incerto influisce solo ed
esclusivamente sul valore economico delle prestazioni – che sono certe e
determinate sin dall’inizio e rimangono tali anche dopo l’eventuale oscilla-
zione di valore – nei contratti aleatori l’alea incide sull’esistenza o sulla de-
terminazione di una delle prestazioni (45).
Orbene, posto che nei contratti di borsa l’evento incerto, ossia il rischio
di oscillazioni del corso dei titoli, non vale a rendere incerte le prestazioni,
né sotto il profilo dell’esistenza né tantomeno sotto il profilo della indivi-
duazione, non ricorrono gli estremi tipici – incertezza sull’an o sul quantum
– per poter configurare la figura del contratto aleatorio (46).
(44) Cass., 4 agosto 1988, n. 4825, in Giur. it., 1988, I, 1, p. 1700 ss. con nota di Alpa. Alla
stregua dei principi individuati sono stati ritenuti ricompresi nel concetto di alea normale an-
che i provvedimenti emessi dalle autorità preposte alla borsa che avevano modificato il corso
dei titoli e le basi delle negoziazioni. Nello stesso senso Cass., 27 novembre 1990, n. 11412, in
Foro it., 1991, I, c. 2149; Cass., 23 febbraio 1993, n. 2338, in Foro it., 1993, I, c. 2192, ove si leg-
ge che anche l’operatore occasionale deve presupporre la variabilità delle regole del mercato,
ivi comprese quelle dovute a modificazioni normative. Anche secondo Trib. Firenze, 30 gen-
naio 1986, in Giur. comm., 1988, II, p. 818 con nota di Giuliani «il rischio massimo assunto dal
compratore del premio è stato fin dall’origine predeterminato nell’ammontare del premio stesso,
per cui la situazione del mercato azionario mai avrebbe potuto determinare uno squilibrio delle
prestazioni contrattuali non previsto in sede di stipulazione, o tale, comunque, da superare l’alea
normale del contratto »; App. Genova, 9 maggio 1984, in Foro it., 1985, I, c. 226; App. Torino, 17
aprile 1984, in Giur. it, 1985, I, 2, p. 626 con nota di Irrera; Pretura Barletta, 6 agosto 1981
(ord.), in Banca, borsa, tit. di credito, 1984, II, p. 412; Trib. Bolzano, 23 febbraio 1983, in Ban-
ca, borsa, tit. di credito, II, p. 484.
(45) Così Maresca, Alea contrattuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 49; in
termini analoghi anche Gabrielli, Tipo negoziale, prevedibilità dell’evento e qualità della par-
te nella distribuzione del rischio, in Giur. it., 1986, I, 1, p. 1715.
(46) Maresca, Alea contrattuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 87; Bianchi
d’Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, in Trattato di dir. civile, diretto da Cicu e Messineo,
Milano, 1969, p. 383.
262 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(1) La categoria dei torts s’inserisce, a sua volta, nella più ampio genere dei civil wrongs,
che non ha esatto equivalente nell’ordinamento italiano, e che include figure quali il breach of
contract, ossia l’inadempimento contrattuale.
(2) Ricordiamo, per inciso, che nel diritto privato italiano, si dicono contratti tipici o “no-
minati” quei contratti previsti e disciplinati dalla legge, come, ad esempio, la vendita, la per-
muta, la locazione. Ad essi fanno riscontro i contratti atipici o “innominati” ossia quei con-
264 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
tratti non espressamente contemplati dal codice civile o da altre leggi, ma ideati e praticati nel
mondo degli affari. Cfr. Galgano, Diritto Privato, 13a ed., Padova, 2006, p. 225.
ENCICLOPEDIA 265
In Inghilterra, agli inizi del secolo XIX, la materia dell’illecito civile era
dominata dai nominate torts (v. § 1), molti dei quali erano azionabili sulla ba-
se della semplice responsabilità oggettiva, detta strict liability. In particola-
re, questo tipo di responsabilità era prevista dall’illecito di trespass to the
person, posto a tutela di chiunque avesse subìto un danno fisico alla propria
persona (3).
La Rivoluzione Industriale apportò nuove esigenze organizzative alla
grande industria e alla classe media emergente, e un assetto della materia
dei torts quale quello descritto si rivelò ben presto inadatto a soddisfare i bi-
sogni delle suddette classi. Le innovazioni introdotte dall’ingegneria mec-
canica nei settori produttivi e l’estendersi della rete ferroviaria moltiplicaro-
no le possibilità del verificarsi di sinistri, e i proprietari di macchinari si tro-
varono esposti ad un tipo di responsabilità, quella oggettiva appunto, da es-
si concepita come troppo rigorosa. Conseguenza ne fu che, a livello giuridi-
co, si sentì il bisogno di apportare profondi cambiamenti in materia di fatti
illeciti, donde l’affermarsi del principio “no liability without fault” (4). Il ter-
mine fault viene ancor oggi utilizzato per indicare una responsabilità aven-
te la sua fonte, indifferentemente, nel dolo o nella colpa (5). È dunque evi-
dente come, con tale principio, si sia voluto esprimere un simbolico atto di
ripudio nei confronti della responsabilità oggettiva genericamente intesa.
Al riguardo, è opportuno specificare fin d’ora che la strict liability non ven-
ne, per effetto del principio citato, bandita dal sistema dei torts. Tuttavia, la
sua operatività venne fortemente limitata sia per l’evoluzione del tort of ne-
gligence sia per il fatto che, sul finire dell’Ottocento, il citato illecito di tre-
spass to the person divenne azionabile solo per fatti commessi con dolo o
colpa (6).
Tornado al tema principale del presente paragrafo, quello del bisogno,
da parte della media ed alta borghesia, di un principio generale di responsa-
bilità per colpa, non si può evitare di analizzare che cosa si debba intendere
per “responsabilità colposa” agli effetti del tort of negligence.
Nel significato di cui alla lettera A (v. supra), il termine negligence espri-
me, se rigorosamente interpretato, un principio di responsabilità colposa di
tipo soggettivo. La “colpa” cui esso fa riferimento altro non è, infatti, che l’e-
lemento psicologico di colui che ha commesso un illecito. In questo senso
negligence significa, letteralmente, “negligenza” ossia mancanza di diligen-
za nel tenere un dato comportamento attivo od omissivo. Così intesa, la ne-
gligence non è un tort a sé stante bensì, alla pari del dolo, un modo di com-
mettere alcuni nominate torts (7).
Al tipo di colpevolezza ora descritto si contrappone il principio di re-
sponsabilità del tort of negligence, il quale identifica la colpevolezza con pa-
rametri oggettivi. Secondo questo principio, compito dell’autorità giudizia-
ria non è quello d’indagare se un danno sia stato cagionato dallo scarso gra-
do di diligenza o attenzione che il responsabile ha avuto nel tenere un dato
comportamento. Compito dei giudici è, viceversa, quello di capire se il dan-
no stesso sarebbe stato evitato qualora il responsabile si fosse attenuto allo
standard comportamentale giudicato come idoneo nel caso concreto. In al-
tre parole ci si dovrà domandare come si sarebbe comportato, nei panni del
responsabile medesimo, il “reasonable man”, ossia la persona di media ra-
gionevolezza (8).
La differenza tra i due tipi di responsabilità colposa che abbiamo ora de-
scritto appare più evidente nell’ambito degli errori professionali. Solo in
questo tipo di errori, infatti, può emergere un parametro che, per sua stessa
natura, è caratteristico della sola responsabilità colposa di tipo oggettivo:
quello dell’imperizia. È infatti evidente che, mentre il livello di diligenza
che un professionista impiega nel suo lavoro costituisce un elemento es-
senzialmente psicologico facente capo al professionista medesimo, la sua
preparazione tecnica e la sua esperienza possono essere valutate solo te-
nendo conto del livello di preparazione medio degli appartenenti alla sua
categoria (9).
Ricapitolando quanto sinora osservato, possiamo affermare che mentre
la “colpa” intesa come fattore psicologico (negligence sub A), potenzialmen-
(7) Cfr. Fleming, op. cit., p. 114. Tra i torts punibili sulla base di questo tipo di responsa-
bilità vi è il trespass to land (cfr. Elliott and Quinn, Tort Law, 3rd ed., Harlow, Longman, 2001,
pp. 268-269).
(8) Cfr. Pollock, Pollock’s Law of Tort, 15th ed. by P.A. Landon, London, Stevens & Sons
Limited, 1951, pp. 336-337.
(9) Si consideri l’esempio di un ingegnere il quale, nel realizzare un progetto, impieghi
tutta la sua personale attenzione. Orbene, l’opera realizzata potrebbe, nondimeno, essere
mancante delle qualità essenziali (di sicurezza, conformità a norme, ecc.) che essa dovrebbe
avere. In un caso simile, sarebbe evidente che la suddetta mancanza di qualità non potrebbe
essere ascritta ad uno stato soggettivo del professionista, bensì alla sua insufficiente prepara-
zione ed esperienza, ossia al suo scarso grado di perizia, valutabile solo tenendo conto del li-
vello di perizia medio di tutti gli appartenenti alla categoria degli ingegneri.
ENCICLOPEDIA 267
(10) Cfr. Fleming, op. cit., pp. 114-115. Dobbiamo comunque rilevare che, oggidì, la dif-
ferenza in parola assume un’importanza rilevante solo sul piano teorico. Ciò in quanto, nella
pratica, si può osservare come la concezione di “colpa” intesa come “non-conformità a uno
standard comportamentale” tenda ad espandersi anche al di fuori del tort of negligence (cfr.
Davies, op. cit., p. 409).
(11) Cfr. Fleming, op. cit., p. 113.
(12) Si vedano gli elenchi riportati in Fleming, op. cit., p. 113, e in Winfield, Winfield on
Tort: a textbook on the law of torts, 6th ed. by T.E. Lewis, London, Sweet & Maxwell Limited,
1954, p. 476.
(13) L’enunciazione di una regola generale sul duty of care non molto dissimile dal neigh-
bour principle si ebbe nell’ambito della causa Heaven v Pender [1883]. In quella occasione, tut-
tavia, la parte del collegio giudicante che l’aveva proposta rimase minoritaria. La causa è cita-
ta in Pollock, op. cit., pp. 326-327, e in Denning, The Discipline of Law, London, But-
terworths, 1979, pp. 230-231.
268 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
richiesta, perizia, nel suo agire quotidiano, all’ovvio fine di non arrecare
danno ad altri.
L’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale del concetto in esame è sta-
ta principalmente connotata dal dibattito sul seguente interrogativo: chi so-
no “gli altri” nei cui confronti si deve osservare il duty of care? In altre paro-
le, chi sono coloro verso i quali si deve agire con diligenza? Costituiscono
essi una categoria illimitata di individui o sono, viceversa, definibili secon-
do particolari parametri?
Il criterio generale per constatare chi siano “gli altri” fu indicato dalla
House of Lords nel caso Donoghue v Stevenson [1932]. Tale criterio è molto
importante, poiché sulla sua base si sono evoluti i parametri della foreseea-
bility e della proximity, tutt’oggi utilizzati per l’identificazione del duty of ca-
re (v. § 4).
Nella controversia citata, la parte lesa era una signora la quale, avendo
ricevuto in dono da un’amica una bottiglia di birra, ne versò metà del con-
tenuto in un bicchiere. Dopo aver bevuto tale quantità, versò anche la re-
stante parte e si accorse che in essa vi erano i resti decomposti di una luma-
ca. All’autorità giudiziaria la signora dichiarò che il fatto di aver bevuto la
birra e la vista dei suddetti resti le avevano causato uno shock e una forte ga-
stroenterite. Per questi motivi ella aveva citato in giudizio il produttore del-
la bevanda, il quale, a detta dell’attrice, era da ritenersi responsabile in ne-
gligence. La scelta di un’azione di tipo extracontrattuale derivava dalle se-
guenti considerazioni: 1) tra la parte lesa e il dettagliante che aveva venduto
la birra non vi era alcun rapporto contrattuale; ricordiamo, infatti, che co-
stui aveva venduto la bevanda non all’attrice bensì ad un’amica di lei; 2) pa-
rimenti, non poteva considerarsi esistente alcun contratto tra la vittima e il
produttore della birra.
Orbene, nel presente caso, compito dell’autorità giudiziaria era quello
di constatare se il produttore avesse un duty of care nei confronti della parte
lesa. La House of Lords riscontrò la sussistenza di tale dovere e, nella sua
pronuncia, formulò un principio generale, noto come neighbour principle,
divenuto poi applicabile in ogni azione fondata sul tort of negligence.
Ricordiamo che nell’inglese comune il sostantivo neighbour può avere,
oltre al significato di “vicino” (come, ad esempio, nell’espressione “vicino di
casa”), anche quello di “prossimo”, inteso come “coloro che ci circondano”,
“i nostri simili”, “la collettività”. Nell’espressione neighbour principle, il so-
stantivo in esame indica “il prossimo”, tuttavia la House of Lords, nella per-
sona di Lord Atkin, stabilì che in materia di negligence il significato di “nei-
ghbour” deve necessariamente essere più ristretto di quello comune. Se-
condo il giudice citato, ove un soggetto si domandi, prima di tenere un dato
comportamento (attivo od omissivo), chi sia secondo la legge il suo prossi-
mo, la risposta deve essere la seguente: tutte le persone dei cui diritti l’agen-
ENCICLOPEDIA 269
(14) Il testo originale di Lord Atkin è riportato da Davies, op. cit., p. 417.
(15) Di questa delicata problematica ci occuperemo nel par. 9, al termine della nostra trat-
tazione, poiché riteniamo in primo luogo importante illustrare la struttura del tort of negligen-
ce e la sua progressiva affermazione nell’ambito della common law.
(16) Cfr. Winfield, op. cit., p. 247.
(17) Fleming, op. cit., p. 115. Parlando di “basis of liability” l’a. si riferisce alla responsabi-
lità colposa di tipo oggettivo, di cui abbiamo parlato al paragrafo precedente.
(18) Pollock, op. cit., p. 326.
(19) Davies, op. cit., p. 480.
270 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(20) Si noti che parte della dottrina considera il parametro della policy sullo stesso piano
degli altri che abbiamo elencato, o, perlomeno, ne tratta unitamente ad essi (v. Cooke, Law of
Tort, 7th ed., Harlow, Longman, 2005, pp. 38 ss.). Altri autori, invece, pongono in primo piano
solo i parametri da noi elencati ai punti A, B e C, e trattano separatamente della policy (v. Da-
vies, op. cit., pp. 419-423).
(21) Alcuni autori sono espliciti nell’intitolare il paragrafo da essi dedicato all’argomento
in esame “The foreseeable claimant”, ossia “Il prevedibile attore” (v. Lunney and Oliphant,
Tort Law: Text and materials, 3rd ed., Oxford, Oxford University Press, 2008, p. 129). Cogliamo
l’occasione per anticipare che la prevedibilità del tipo di danno cagionabile costituisce il para-
metro per determinare la cosiddetta remoteness of damage, di cui parleremo nel par. 6.
ENCICLOPEDIA 271
(22) Il caso descritto è citato da Davies (op. cit., p. 420) e riportato per esteso da Cooke (op.
cit., p. 133).
(23) Il caso è riportato da Cooke (op. cit., p. 39).
272 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(v. supra). Ribadiamo che in quel caso i giudici rilevarono l’assenza del duty
of care del convenuto nei confronti dell’attrice in quanto costei si trovava,
all’atto dell’incidente, troppo lontana dal luogo ove esso avvenne. Potrem-
mo ipotizzare che la decisione dei giudici sarebbe stata diversa ove l’attrice
avesse avuto uno stretto legame di parentela con la vittima principale del-
l’incidente (ossia con colui che aveva riportato danni fisici), e magari fosse
giunta nel luogo dell’incidente stesso prima del momento in cui realmente
vi giunse. La giurisprudenza inglese è, infatti, propensa ad accordare il ri-
sarcimento per danni psichici a chi constata le immediate conseguenze di
un incidente qualora costui abbia un particolare legame affettivo con la vit-
tima (24). Ebbene, come anticipato, risulta evidente che in quest’ultima se-
rie di casi il parametro della proximity è valutato tenendo conto non solo di
dati geografici ma anche del legame affettivo tra vittima principale e sogget-
to che subisce uno shock nel constatarne le condizioni.
Un caso in cui il parametro della proximity assume connotati intera-
mente extra-geografici emerge, invece, dalla casistica relativa ai danni da
false informazioni: ove un soggetto cagioni un danno ad un’altra persona
per averle fornito informazioni poi rivelatesi false, il primo potrà essere
chiamato a rispondere del tort of negligence solo qualora tra i due soggetti
fosse preesistente una “special relationship”. Nel par. 8, in tema di danno
economico, spiegheremo che cosa debba intendersi per questa “relazione
speciale”. Per ora ci basti sapere che è proprio in questa relazione che, in
dottrina, viene identificato l’elemento della proximity (25).
C) In virtù del terzo parametro elencato, un soggetto può essere tenuto
al duty of care nei confronti di un altro solo ove l’imposizione di un simile
dovere appaia corretta (fair), giusta (just) e ragionevole (reasonable). Ad
esempio, al nascituro è riconosciuto, durante la gestazione, il diritto a che
non gli venga cagionato alcun tipo di danno. Viceversa, a colui che sia nato
con gravi patologie o malformazioni non è data alcuna azione giudiziale per
il fatto che la madre non abbia praticato l’aborto. In altre parole, non gli può
essere riconosciuto, relativamente al periodo della gestazione medesima,
un diritto a morire, cui farebbe riscontro un ipotetico duty of care, della ma-
dre o dei medici, avente ad oggetto la cessazione della gravidanza. Secondo
l’attuale sensibilità della giurisprudenza inglese, un simile dovere sarebbe,
infatti, privo dei citati requisiti di correttezza, giustizia e ragionevolezza (26).
D) Nel presente contesto, il termine policy significa “politica”, nel senso
di “prassi”, “linea di condotta”, e si riferisce alle considerazioni di politica
del diritto con le quali la giurisprudenza inglese cerca di far sì che il respon-
sabile del tort of negligence non sia sottoposto ad una responsabilità indeter-
minata. Ciò può accadere quando, in seguito ad una sola azione (od omis-
sione), l’agente si veda accusato di un gran numero di illeciti e da una gran-
de quantità di persone. Si noti, dunque, che mentre il parametro della fore-
seeability (v. punto A) è relativo alla persona del danneggiato, il presente pa-
rametro è relativo al numero di danni cagionati dal responsabile. Si pensi,
ad esempio, al caso in cui una persona ometta negligentemente di far ese-
guire regolari controlli sulla sua automobile. Qualora l’auto abbia un guasto
all’interno di un tunnel e causi un grande ingorgo stradale, può accadere
che molti altri automobilisti, costretti a fermarsi, arrivino tardi al lavoro e
che tale ritardo cagioni loro altri danni, come la perdita della retribuzione o
la mancata conclusione di importanti affari. Quest’ultimo tipo d’inconve-
niente potrebbe, a sua volta, provocare il fallimento della ditta per cui essi
lavorano o altre pregiudizievoli conseguenze (27). Qualora ognuna delle
persone bloccate nell’ingorgo fosse ammessa ad agire, relativamente ad
ogni perdita riportata, contro il proprietario dell’auto in panne, costui po-
trebbe trovarsi esposto ad una responsabilità indeterminata. Ciò causereb-
be, tra l’altro, un esorbitante numero di cause giudiziarie con conseguente
paralisi della giustizia. Intervengono allora le citate ragioni di politica del di-
ritto per porre un limite alle azioni esperibili contro il colpevole.
Riassumendo quanto esposto nel presente paragrafo, oggigiorno un
soggetto potrà essere ritenuto responsabile del tort of negligence solo quan-
do l’autorità giudiziaria rinvenga in capo a lui la sussistenza di un duty of ca-
re nei confronti del danneggiato. Tale duty sarà rinvenibile solo qualora sia-
no assolte tutte le seguenti condizioni:
a) il responsabile avrebbe dovuto prevedere il danno, tenendo conto
della capacità di giudizio dell’uomo medio;
b) deve essere sussistente un rapporto di proximity in una qualsiasi del-
le accezioni sopra illustrate (v. punto B);
c) l’imposizione di un duty of care in capo all’autore del danno deve es-
sere giudicata corretta, giusta e ragionevole;
d) non vi devono essere ragioni di politica del diritto ad impedire l’attri-
buzione di responsabilità.
5. – Il fatto che un soggetto abbia violato il duty of care cui era tenuto nei
confronti di un’altra persona non basta a renderlo responsabile nei con-
fronti di essa. Bisogna infatti che costei abbia, in concreto, subìto un danno
a causa della violazione. Tenendo conto di ciò, siamo ora in grado di elen-
care tutti gli elementi costitutivi del tort of negligence:
(28) I già citati illeciti di trespass to land e trespass to the person appartengono al più ampio
genere del trespass, che include anche la figura del trespass to goods, posta a tutela dei beni
mobili.
(29) Per completezza d’informazione, ricordiamo che nel diritto dei torts, diversamente
da quanto accade in ambito contrattuale, sono ammissibili anche i punitive damages (detti an-
che exemplary damages o vindicative damages). Questo tipo di risarcimento è improntato ad
un parametro punitivo per l’offensore ed è accordabile dall’autorità giudiziaria solo in casi di
particolare gravità stabiliti dalla legge scritta (statue law) o in alcuni gravi illeciti commessi in-
tenzionalmente.
(30) È opportuno specificare che vari nominate torts sono azionabili sulla base della sem-
plice responsabilità oggettiva (strict liability) dell’a. del danno. Al di fuori di questi casi, la giu-
risprudenza inglese è stata impegnata anche nel decidere se, in determinate ipotesi, non fos-
se il convenuto a doversi liberare da una presunzione di colpa. A tal proposito, si veda quanto
riportato al par. 9 in tema di trespass to the person (cfr. Cooke, op. cit., pp. 359-360).
ENCICLOPEDIA 275
chiesta. La prima esenzione è data dalla Section 11 del Civil Evidence Act
1968, secondo cui la condanna subita da una persona in un procedimento
penale relativo a determinati fatti costituisce prova della sua responsabilità
in un procedimento civile avente ad oggetto i medesimi fatti. La seconda
esenzione è riassumibile nel motto latino res ipsa loquitur. Questo motto
enuclea il principio secondo il quale quando il danno è, per le modalità del
suo accadimento, tale per cui non può verificarsi se non nel caso in cui il suo
autore abbia omesso la dovuta diligenza, prudenza o perizia, la parte lesa
deve ritenersi sollevata dall’onere di provare la responsabilità dell’autore
medesimo (31).
Prescindendo dalle eccezioni ora ricordate, chi promuove un’azione
fondata sul tort of negligence dovrà provare quanto segue: a) che il convenu-
to si è reso responsabile di una violazione del duty of care nei confronti del-
la vittima; b) che la vittima ha subìto un danno; c) che il danno è stato de-
terminato dalla suddetta violazione.
Nel presente contesto, la causazione del danno è chiamata causation, e
per darne prova è necessario che l’attore dimostri che il danno non si sareb-
be verificato se non vi fosse stata violazione del duty of care da parte del pre-
sunto responsabile. Più sinteticamente, si può dire che la violazione deve
essere conditio sine qua non dell’evento dannoso. Un esempio d’indagine
sulla causation è dato dalla controversia Barnett v Chelsea and Kensington
Hospital Management Committee [1969], vertente sul caso di una persona ri-
coverata in ospedale in seguito ad un forte malore. I medici dell’ospedale si
erano rifiutati di visitare l’ammalato e gli avevano detto di rivolgersi al suo
medico curante. Cinque ore dopo essere stato dimesso dall’ospedale il pa-
ziente morì. La magistratura rilevò che i medici ospedalieri avevano violato
il duty of care nei confronti dell’ammalato, tuttavia essi non furono ritenuti
responsabili della sua morte. Fu infatti appurato che la vittima aveva ingeri-
to una forte dose di arsenico e che quindi la morte sarebbe sopraggiunta an-
che in caso d’immediato intervento in ambiente ospedaliero.
Nei casi in cui la violazione in parola costituisce la vera e propria causa
del danno, il responsabile può, nondimeno, evitare la condanna relativa a
quelle conseguenze del danno stesso che il giudice ritenga essere state “non
prevedibili al momento dell’azione (od omissione) del responsabile mede-
simo”.
Ci stiamo riferendo al parametro della remoteness, termine che generi-
camente significa “lontananza” o, nel presente contesto, “estraneità”, “im-
probabilità”.
(31) Relativamente al principio res ipsa loquitur, si vedano le sentenze riportate in Cooke,
op. cit., pp. 137-140.
276 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(32) Non sono, tuttavia, mancati casi in cui è stato difficile capire se la prevedibilità di un
dato accadimento fosse da valutarsi nell’ambito del duty of care o in quello della remoteness
(cfr. Harpwood, Modern Tort Law, 6th ed., London, Cavendish, 2005-repr. 2006, p. 176).
(33) Si veda il resoconto dei fatti della causa esposto in Hodgson and Lewthwaite, Tort
Law, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 108-109, e in Elliott and Quinn, op. cit., p.
100.
ENCICLOPEDIA 277
policy” (34). Da parte nostra, ci limitiamo a notare che in molti esempi ri-
guardanti il concetto di policy i testi di tort law configurano la presenza di
una serie di fatti illeciti, tutti derivanti da un’unica azione od omissione, e
aventi ciascuno una sua propria vittima. Viceversa, negli esempi relativi al
concetto di remoteness vengono normalmente presentate situazioni in cui
vi è un solo soggetto danneggiante ed un solo soggetto danneggiato, con la
particolarità che il danno inizialmente subìto da quest’ultimo si aggrava con
modalità da ritenersi, o meno, “prevedibili”, a seconda dei casi (35).
anche per esse. Queste persone possono ottenere un risarcimento per ner-
vous shock sia che abbiano subìto un danno fisico sia che non lo abbiano
subìto, dovendo solo dimostrare di essersi trovate nell’area in cui vi era il ri-
schio che un tale danno potesse verificarsi. Vittime primarie sono inoltre
coloro che, pur non trovandosi nella suddetta area di pericolo, supponeva-
no ragionevolmente di trovarvisi (37).
Vittime secondarie sono le persone che hanno subìto un nervous shock
non perché si trovavano nell’area di pericolo ma perché aventi le seguenti
caratteristiche:
a) uno stretto legame affettivo, normalmente determinato da parentela,
con colui che dall’incidente ha riportato un danno fisico (38);
b) erano vicine al luogo dell’incidente in termini di tempo e di spazio;
c) hanno assistito all’incidente o ne hanno constatato le immediate con-
seguenze in prima persona.
Si noti come, in base all’ultimo requisito elencato, non sia sufficiente
che le persone in parola abbiano avuto notizia dell’incidente da altri senza
essersi recate sul luogo dell’accaduto o senza aver visto la vittima dopo l’in-
cidente stesso. I citati requisiti sono stati formulati dalla giurisprudenza nel-
la causa McLoughlin v O’Brian [1983], vinta dall’attrice, la quale aveva subì-
to una fortissima depressione in seguito ad un incidente stradale che aveva
cagionato il ferimento del marito e di due figli nonché la morte del terzo fi-
glio. La signora venne a sapere dell’incidente un’ora dopo l’accadimento e,
condotta all’ospedale, vide i feriti e constatò il decesso (39).
È rilevante notare come tutti i criteri dettati dalla giurisprudenza per l’i-
dentificazione delle vittime, primarie o secondarie, altro non siano che cri-
teri per identificare il requisito della proximity, essenziale per rilevare la pre-
senza del duty of care in capo a colui che ha cagionato il danno (v. § 4, punto
B).
Al di fuori dei casi di nervous shock la common law non ammette possi-
bilità di risarcire le sofferenze psichiche derivanti da casi simili a quello ora
descritto. A colmare questa lacuna giurisprudenziale è però intervenuta la
legge scritta (statute law). Ci stiamo riferendo al Fatal Accidents Act 1976,
tuttora vigente, il quale contempla il cosiddetto bereavement claim, ossia il
diritto al risarcimento per gli stretti congiunti di una persona deceduta in un
(37) Ibidem.
(38) Relativamente a questo parametro, la categoria delle secondary victims non costitui-
sce certamente un numero chiuso, poiché lo “stretto legame affettivo” è da intendersi come
un fattore da provarsi volta per volta (cfr. Davies, op. cit., p. 446).
(39) Una dettagliata descrizione dei fatti della causa è riportata in Cooke, op. cit., pp. 61-
62.
ENCICLOPEDIA 279
incidente, relativamente al fatto stesso del lutto (40). Si noti che questa leg-
ge non richiede la diagnosi specifica di nervous shock, bensì ritiene che una
semplice sofferenza emotiva (emotional distress) conferisca il diritto al risar-
cimento ai congiunti medesimi. Oltre che per questo motivo, il citato atto
legislativo parrebbe prevedere più ampie possibilità di risarcimento, rispet-
to a quelle offerte dalla common law, per il fatto che esso non richiede la va-
lutazione giudiziale del parametro della proximity (41). In realtà, bisogna
considerare che questo maggior raggio di applicazione è temperato sia dal
fatto che la legge prevede il risarcimento relativamente ai soli casi di morte
e non a quelli di lesioni, sia dalla constatazione che le persone che ne han-
no diritto sono soltanto quei pochissimi congiunti identificati dalla legge
stessa (Sec. 1A.2).
(40) Più precisamente, ricordiamo che il bereavement claim è stato introdotto tramite una
modifica apportata alla legge citata dalla Administration of Justice Act 1982.
(41) Ciò significa che, per avere il risarcimento in virtù della legge citata, i congiunti della
vittima non avranno necessità di provare di essersi trovati nelle vicinanze del luogo dell’inci-
dente o di aver assistito alle immediate conseguenze di esso.
(42) Tra questi torts possiamo ricordare il deceit, consistente in un raggiro cagionato da
una falsa dichiarazione.
280 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
(43) In Italia, il primo caso di risarcimento per lesione del credito fu quello originato dal-
l’uccisione colposa, da parte di un automobilista, del calciatore Luigi Meroni, nel 1967. Nella
causa giudiziaria che ne seguì la Cass. accordò al Torino Calcio Spa, società cui apparteneva
Meroni, il risarcimento per il danno economico subìto a causa della perdita delle prestazioni
sportive del calciatore. Per quanto riguarda il diritto inglese, si ritiene che una simile svolta
giurisprudenziale sia, tuttora, alquanto improbabile (cfr. Lunney and Oliphant, op. cit., p.
379).
(44) La pretesa risarcitoria dei dependants relativa alla loro perdita economica è detta de-
pendancy claim, mentre altre somme cui essi hanno diritto sono quelle impiegate per l’allesti-
mento del funerale (Sec. 3.5). Oltre a queste pretese, il Fatal Accidents Act 1976 contempla an-
che un bereavement claim, ossia il diritto al risarcimento fondato non sulla perdita economica
ma sul fatto stesso del lutto, di cui abbiamo parlato alla fine del paragrafo precedente. Tale di-
ritto non spetta però alla generalità dei dependants ma solo a quei pochi congiunti del defun-
to identificati dalla legge stessa (Sec. 1A.2).
(45) L’es. ora formulato è tratto dal caso Ross v Caunters [1980].
ENCICLOPEDIA 281
(47) In argomento si veda il saggio di Weir, “The Staggering March of Negligence”, in Cane
and Stapleton-editors, The Law of Obligations: Essays in Celebration of John Fleming, Oxford,
Clarendon Press, 1998, pp. 97-138.
(48) In un’accezione più ampia ma meno tecnica, “assault” può anche indicare la violenza
fisica.
(49) Per una casistica si veda Harpwood, op. cit., p. 296; Cooke, op. cit., p. 361; Elliott
and Quinn, op. cit., p. 250.
(50) Tale caratteristica, del resto, è comune a tutti i tipi di trespass, sarebbe a dire non solo al
trespass to the person ma anche ai già citati trespass to land e trespass to goods (v. § 5, in nota).
(51) Cfr. Cooke, op. cit., pp. 359-360; Weir, op. cit., p. 108; Winfield, op. cit., pp. 246-248.
ENCICLOPEDIA 283
(52) Abbiamo già visto, nel par. 2, che sul finire vi fu un marcato atteggiamento di rifiuto
nei confronti della responsabilità oggettiva.
(53) I due casi giurisprudenziali che abbiamo citato sono riportati in Cooke, op. cit., p 360.
(54) Ibidem; cfr. Davies, op. cit., p. 480.
(55) La sentenza è citata in Elliott and Quinn, op. cit., p. 250, e in Harpwood, op. cit., p.
291.
(56) Cfr. Cooke, op. cit., p. 360.
284 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011
Volendo constatare quale sia, oggigiorno, la disciplina delle altre due fi-
gure di trespass to the person, ci accorgiamo che mentre l’assault è, anch’es-
so, sanzionabile solamente per dolo, il false imprisonment è ancora un illeci-
to a responsabilità oggettiva (57).
Come preannunciato, il trespass to the person non è stato l’unico tort ad
aver perso importanza a causa della vis expansiva del tort of negligence. Vitti-
ma illustre è stata anche la private nuisance, illecito il cui elemento materia-
le può essere costituito sia dai danni fisici cagionati ad un bene immobile
(terreno o edificio) sia dalle immissioni, sonore od olfattive, che limitano il
godimento di un tale tipo di bene.
L’esempio di due fondi attigui è quello che meglio si presta ad illustrare
le particolarità della materia in esame. Supponiamo, pertanto, che i signori
A e B siano i titolari di due fondi confinanti. In passato, la giurisprudenza in-
glese è stata del parere che, qualora A danneggiasse il fondo di B o permet-
tesse che vi giungessero immissioni dal proprio fondo, la responsabilità di A
fosse di tipo oggettivo (strict liability). Col tempo, tuttavia, si è chiarito che
la responsabilità di A è oggettiva solo qualora il danno da lui cagionato sia
stato conseguente ad un’azione (action) di A medesimo, consistente, ad
esempio, nell’aver costruito una determinata opera sul proprio fondo o nel-
l’avervi svolto determinate attività. Ove, viceversa, il danno al fondo di B sia
derivato da un’omissione (omission) di A, quest’ultimo potrà essere giudi-
cato responsabile solo ove venga rilevata una sua colpa. Ciò può accadere
ove A non intervenga per far cessare una situazione, potenzialmente dan-
nosa per B, venutasi a creare sul proprio fondo a causa di forze naturali o per
l’intervento di terzi. Si pensi, ad esempio, alle radici degli alberi del fondo di
A che, crescendo, potrebbero cagionare danni al fondo attiguo, oppure alle
opere che terze persone potrebbero aver fatto sul fondo di A senza il suo
consenso. In casi come questi viene a crearsi lo schema per cui la private
nuisance, tradizionalmente sanzionabile per responsabilità oggettiva, viene
sanzionata sulla base dell’elemento della colpa, la quale, a sua volta, tende
ad essere rilevata dal giudice con i parametri utilizzati nell’ambito del tort of
negligence. In particolare, l’autorità giudiziaria dovrà individuare, in capo al
responsabile, l’esistenza di un duty of care finalizzato ad evitare il danno.
(57) Cfr. Elliott and Quinn, op. cit., pp. 252 e 255. Riguardo all’assault, aggiungiamo che,
estrinsecandosi esso in una “minaccia”, ci sembrerebbe difficile configurare una sua sanzio-
nabilità sulla base della semplice colpa. Discorso a parte va poi fatto per capire se i principi
enunciati nelle controversie citate siano applicabili anche alle altre tipologie di trespass. In
dottrina ci si chiede, ad esempio, se la regola formulata nella causa Letang v Cooper possa es-
sere applicata anche nell’illecito di trespass to goods e, dopo aver proposto una risposta affer-
mativa, si specifica che una simile estensione non è ancora stata ufficialmente enunciata dal-
la giurisprudenza (cfr. Harpwood, op. cit., p. 363).
ENCICLOPEDIA 285
In altre parole, nei casi ipotizzati, le regole utilizzate nel tort of negligen-
ce per identificare la colpevolezza non danno luogo ad un’autonoma causa
d’azione bensì sono strumentali rispetto all’azione di private nuisance (58).
Conseguenza di quanto ora descritto è che, nell’ambito di una revisione
critica della figura della private nuisance, parte della giurisprudenza si è mo-
strata favorevole a ridurre l’ambito di applicazione di questo tort, suggeren-
do che esso divenga azionabile soltanto nei casi di immissioni e che vice-
versa, relativamente ai danni fisici, si utilizzi unicamente l’azione fondata
sul tort of negligence (59).
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