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ISSN 1123-5055

PUBBLICAZIONE BIMESTRALE ANNO XXVII


N. 1 GENNAIO-FEBBRAIO 2011

Contratto e impresa
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. I, comma I, DCB Milano

Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale

diretti da Francesco Galgano

• Circolazione internazionale dei modelli giuridici


• Contratto
L’alea nei contratti; le nuove nullità per vizio di forma; frode al-
la legge e mancanza di causa nelle conciliazioni giudiziali

• Fallimento
La prova dell’insolvenza; gli accordi di ristrutturazione e la lo-
ro efficacia per i non aderenti

• Fatti illeciti
Responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi; il tort of
neglicence nel diritto inglese

• Società
La delega gestoria nelle società per azioni; la decadenza dei
sindaci

• Giustizia competitiva
La mediazione e l’arbitrato irrituale

• Diritto sportivo
La responsabilità contrattuale ed aquiliana dell’organizzatore
di eventi sportivi; il merchandising del marchio sportivo
Contratto e impresa
Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale
diretti da Francesco Galgano

1
4-5
ventisettesimo anno

• Circolazione internazionale dei modelli giuridici


• Contratto
L’alea nei contratti; le nuove nullità per vizio di forma; frode alla
legge e mancanza di causa nelle conciliazioni giudiziali

• Fallimento
La prova dell’insolvenza; gli accordi di ristrutturazione e la loro
efficacia per i non aderenti

• Fatti illeciti
Responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi; il tort of ne-
glicence nel diritto inglese

• Società
La delega gestoria nelle società per azioni; la decadenza dei
sindaci

• Giustizia competitiva
La mediazione e l’arbitrato irrituale

• Diritto sportivo
La responsabilità contrattuale ed aquiliana dell’organizzatore
di eventi sportivi; il merchandising del marchio sportivo

2011
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Contratto e impresa 1/2011
Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale
diretti da Francesco Galgano

ventisettesimo anno

INDICE SOMMARIO

DIBATTITI

Dichiarazione del fallimento e argomenti di prova dell’insolvenza, di


Francesco Galgano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1

1. – Bastano gli inadempimenti per provare l’insolvenza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 1


2. – Può l’insolvenza desumersi dallo squilibrio patrimoniale? . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 2
3. – È ammissibile una insolvenza occulta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4
4. – Necessaria pluralità delle insinuazioni al passivo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 6

Efficacia ERGA OMNES degli accordi di ristrutturazione (art. 182 BIS, l.


fall.), di Gianluca Sicchiero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9

1. – La riforma dell’art. 182 bis, l. fall. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 9


2. – Ed i persistenti dubbi sulla sua efficacia erga omnes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 10

Formalismo negoziale e nullità: le aperture delle Corti di merito, di


Lara Modica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16

1. – Nuove forme e nuove nullità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 16


2. – Prescrizioni di forma del contratto tra norme organizzative e norme imperative » 24
3. – Destrutturazione della forma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 32
4. – (segue) Vincoli di forma con finalità informativa tra nullità e responsabilità: il
difficile dialogo tra Sezioni Unite e Corti di merito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 38
5. – L’« effetto utile » e l’ibridazione dei rimedi a presidio del vincolo di forma . . . . . » 45
6. – Qualche notazione conclusiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53
VI INDICE-SOMMARIO CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

La natura contrattuale dei verbali di conciliazione giudiziale e la


loro impugnabilità per illiceità della causa in concreto, di Angelo
Riccio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 56

1. – Il verbale di conciliazione ex art. 185 c.p.c. e la sua natura contrattuale . . . . . . . » 56


2. – La consolidata regola di validità coniata dalla Cassazione in merito alle tran-
sazioni in materia di locazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 57
3. – Le immunità create dalla giurisprudenza e le facili frodi alla legge 27 luglio
1978, n. 392 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 60
4. – (segue) Nullità del verbale di conciliazione e/o della transazione per frode alla
legge 27 luglio 1978, n. 392, e per mancanza di causa in concreto . . . . . . . . . . . . . » 61

Fonti del diritto e delegificazione: statuti universitari e potestà nor-


mativa in deroga alla legge, di Cesare Miriello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65

1. – La questione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
2. – Gli statuti universitari nel sistema delle fonti: l’articolo 33 della Costituzione e
la normativa di attuazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 65
3. – L’autonomia come differenziazione. Il caso dell’eleggibilità a cariche accademi-
che dei professori a tempo definito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 67
4. – (segue) Lo status come limite all’ingerenza esterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 70

SAGGI

Giovanna Visintini, La circolazione delle giurisprudenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 73

Sommario: 1. La circolazione dei modelli giuridici e i contrasti ideologici tra di-


ritto nazionale e diritto comunitario in materia di proprietà. – 2. Influenza
delle direttive della Corte di Strasburgo, in particolare in materia di danno
da ingiusto processo. – 3. Le distanze tra principi europei e diritto interno
in materia di poste di danno risarcibili. – 4. L’esigenza di uno stile delle de-
cisioni italiane fruibile anche all’estero ai fini della circolazione di un pre-
cedente giudiziale innovativo.

SOCIETÀ

Andrea Caprara, Decadenza dei sindaci e profili dell’organizzazione . . . . . . . . » 85

Sommario: 1. Premessa – 2. La natura giuridica della decadenza e la distinzio-


ne dalla revoca per giusta causa – 3. (segue) Accertamento della decadenza
e subentro dei supplenti – 4. Decadenza e ineleggibilità: due facce della
stessa medaglia o due medaglie senza faccia? – 5. Decadenza e riflessi or-
INDICE-SOMMARIO CONTRATTO E IMPRESA 1/2011 VII

ganizzativi: dalla illegittimità degli atti compiuti dall’organo . . . – 6. (segue)


. . . all’invalidità delle delibere del collegio sindacale e (in)applicabilità del-
la “prova di resistenza”.

Dario Scarpa, La delega gestoria nella spa: architettura delle interazioni tra de-
legati e deleganti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 106

Sommario: 1. Delega gestoria nella società per azioni in funzione del persegui-
mento dell’efficacia della corporate governance e della razionalizzazione
dell’esercizio del potere gestorio. Qualificazione giuridica del rapporto giu-
ridico tra delegato e società. – 2. Concorrenza gestoria tra organo collegia-
le e singolo amministratore delegato e potere di avocazione come limiti di
estensione applicativa della delega: rapporto tra collegialità dell’organo
amministrativo e conferimento di delega. – 3. Studio delle modalità di at-
tuazione della delega e funzioni, determinazione di contenuto e limiti di
esercizio della delega, analisi della ratio delle attribuzioni indelegabili. – 4.
Sindacato dell’attività gestoria (e discrezionale) dell’organo delegato e ana-
lisi del dovere di diligenza in funzione dell’accertamento della responsabi-
lità dell’amministratore delegato. – 5. Individuazione del rapporto tra dele-
ga e flussi informativi tra deleganti e delegati all’esito dell’introduzione del
principio dell’agire in modo informato nella gestione della spa.

DIRITTO SPORTIVO

Margherita Pittalis, La responsabilità contrattuale ed aquiliana dell’organiz-


zatore di eventi sportivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 150

Sommario: 1. L’organizzatore di eventi sportivi: la posizione del C.O.N.I. e del-


le Federazioni sportive. – 2. Gli obblighi di controllo dell’organizzatore. –
3. I titoli di responsabilità. – 4. La responsabilità delle società di calcio nel-
l’organizzazione di incontri sportivi professionistici. – 5. Considerazioni
conclusive.

Giovanni Facci, Il merchandising del marchio sportivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 198

Sommario: 1. Il merchandising nell’ordinamento sportivo. – 2. Il contratto di


merchandising e l’evoluzione della normativa in tema di marchi registrati. –
3. Il marchio sportivo. – 4. Il merchandising e la sponsorizzazione sportiva.
– 5. (segue) Il diritto all’immagine del singolo atleta ed il personality mer-
chandising. – 6. La tutela del marchio sportivo e l’ambush marketing.
VIII INDICE-SOMMARIO CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

INNOVAZIONE LEGISLATIVA

Gianfranco Dosi, La mediazione e l’arbitrato irrituale nelle riforme del 2010 . . pag. 226

Sommario: 1. I tre pilastri della nuova giustizia competitiva. – 2. La mediazione


come sistema di risoluzione dei conflitti parallelo alla giurisdizione. – 3. La
mediazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale. – 4. Le
motivazioni per la mediazione. – 5. La risoluzione arbitrale irrituale delle
controversie.

ENCICLOPEDIA

Eleonora Maria Pierazzi, L’alea nei contratti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 251

Sommario: 1. Il contratto aleatorio, l’alea giuridica e l’alea normale. – 2. Mani-


festazioni e criteri di accertamento dell’alea normale. – 3. L’alea nei con-
tratti di borsa.

Giovanni Villa, Il tort of negligence nel sistema inglese dei fatti illeciti . . . . . . » 263

Sommario: 1. Caratteri fondamentali della materia in esame. – 2. La nascita


dell’esigenza di un principio generale di responsabilità per colpa e il dupli-
ce significato di “negligence”. – 3. La formulazione del neighbour principle
e la natura giuridica del tort of negligence. – 4. Gli odierni parametri per l’i-
dentificazione del duty of care. – 5. Gli elementi costitutivi del tort of negli-
gence e la componente del danno nel diritto dei torts. – 6. La violazione del
duty of care e il danno ad essa conseguente: i concetti di causation e remo-
teness. – 7. Il danno psichico. – 8. Il danno economico. – 9. La vis expansi-
va del tort of negligence.
Dibattiti

Dichiarazione del fallimento e argomenti di prova dell’insolvenza

1. – Bastano gli inadempimenti per provare l’insolvenza?


Non è raro constatare che il fallimento venga dichiarato, nella nostra
esperienza giudiziaria, sulla base di argomenti di prova del requisito dell’in-
solvenza, richiesto dall’art. 5, l. fall., i quali attengono all’entità del credito
vantato dal creditore istante, all’ammontare complessivo dei debiti risul-
tanti dal bilancio, al volume delle perdite riportate negli ultimi esercizi.
Sono argomenti, in sé considerati, non rilevanti. Anzitutto, altro è l’ina-
dempimento, altro l’insolvenza. Gli inadempimenti, quale che sia l’entità
della somma pretesa, non equivalgono ad insolvenza, che è il necessario
presupposto oggettivo del fallimento. L’insolvenza è, notoriamente, un
evento diverso dall’inadempimento, anche se si può manifestare, e normal-
mente si manifesta, con inadempimenti: queste sono vicende che attengo-
no a singoli rapporti obbligatori e che interessano, perciò, singoli creditori;
l’insolvenza attiene, invece, all’intero patrimonio del debitore ed è, perciò,
un evento che interessa tutti i suoi creditori.
Altrettanto noto è il nesso fra l’insolvenza e il fallimento, che è una pro-
cedura concorsuale, ossia una procedura esecutiva generale e collettiva: è
« generale » in quanto colpisce l’intero patrimonio del debitore e non – co-
me le procedure esecutive singolari (artt. 2910 ss., c.c., 474 ss., c.p.c.), che
hanno per presupposto il semplice inadempimento – singoli beni del debi-
tore; è, inoltre, una procedura « collettiva » in quanto è rivolta al soddisfaci-
mento della massa dei creditori, e non soltanto di quei creditori nei con-
fronti dei quali il debitore sia già risultato inadempiente, né soltanto di
quelli che abbiano assunto l’iniziativa della procedura esecutiva.
Si suole ripetere che è inadempiente chi non vuole pagare, e che è in-
solvente chi non può pagare. È possibile essere inadempienti senza essere
insolventi: accade se, pur potendo, non si vuole adempiere perché si conte-
sta l’esistenza del credito. La giurisprudenza è pressoché univoca al riguar-
do: non c’è insolvenza in caso di inadempimento di un credito contestato e
già soggetto ad accertamento giudiziale: così, fra le tante, App. Bologna, 17
ottobre 1996, in Giur. it., 1997, I, 2, c. 1; App. Bari, 29 marzo 1985, in Falli-
mento, 1985, p. 883; App. Lecce, 24 febbraio 1977, in Giur. comm., 1978, II, p.
118; Trib. Salerno, 18 marzo 1998, in Dir. fall., 1999, II, p. 884; Trib. Genova,
6 aprile 1993, in Fallimento, 1993, p. 775; Trib. Milano, 7 giugno 1990, ivi,
2 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

1990, p. 1250; Trib. Chieti, 20 maggio 1992, in Dir. fall., 1993, II, p. 545; Trib.
Roma, 15 dicembre 1974, in Dir. fall., 1975, II, p. 474; Trib. Roma, 10 feb-
braio 1992, in Fallimento, 1992, p. 645.
Né può darsi rilievo al fatto, ritenuto rilevante solo dall’App. Bari, 29 ot-
tobre 1990, ivi, 1991, p. 521, che il credito contestato sia munito di titolo ese-
cutivo. Tanto meno gli si può dare rilievo se il giudice dell’esecuzione abbia
sospeso per gravi motivi l’esecutività del titolo fatto valere dal creditore
istante. Se non si può procedere, per quel vantato credito, ad esecuzione in-
dividuale, a maggior ragione non si potrà procedere ad esecuzione concor-
suale.
Può accadere che l’istanza di fallimento sia presentata non già a seguito
dell’infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva individuale (ciò che po-
trebbe, in ipotesi, essere assunto come rivelazione di insolvenza), bensì in
concorso con l’azione esecutiva individuale e in pendenza del processo ese-
cutivo. Ciò che rende manifesto come l’iniziativa del fallimento sia stata as-
sunta dal creditore istante quale indebito mezzo di pressione sul preteso
debitore, così integrando gli estremi dell’abuso del diritto di azione in giu-
dizio (sulla cui repressione cfr. Cass., 11 dicembre 2000, n. 15592, in Giur. it.,
2001, p. 1887), che può comportare, quando si sia abusato dell’istanza di fal-
limento, la revoca del fallimento dichiarato in accoglimento dell’istanza
(Cass., 19 settembre 2000, n. 12405, in Foro it., 2001, I, c. 2326).

2. – Può l’insolvenza desumersi dallo squilibrio patrimoniale?


Ancora: altro è lo squilibrio patrimoniale fra l’attivo ed il passivo, altro è
l’insolvenza. Un’impresa con bilancio in disavanzo è sicuramente un’im-
presa in crisi, ma può non essere in stato di insolvenza. Lo si predica da tem-
po: aveva giudicato irrilevante, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo
squilibrio patrimoniale dell’impresa già Cass., 14 marzo 1985, n. 1980, in
Giur. it., 1986, I, 1, c. 281. Finché dispone del fido delle banche o riceve il fi-
nanziamento di enti pubblici o riduce il volume della produzione, licen-
ziando parte dei suoi dipendenti, l’imprenditore può, nonostante il deficit di
bilancio, fare fronte regolarmente ai pagamenti, e i creditori non hanno mo-
tivo di dolersi. Ma può, d’altra parte, accadere che un’impresa con bilancio
in avanzo sia insolvente; come quando l’impresa sia priva di disponibilità li-
quida o l’attivo sia formato da beni non agevolmente vendibili.
La motivazione della sentenza ora citata merita di essere segnalata:
Ma in ordine all’insolvenza, il giudice del merito ha motivato il giudizio sulla sua sus-
sistenza con valutazioni di fatto che si sottraggono ad ogni censura, in quanto hanno
preso in esame tutti gli aspetti rilevanti del caso e si sono ispirate all’esatto principio se-
condo cui il suddetto stato non postula necessariamente il riscontro di un passivo supe-
riore all’attivo, ma ricorre quando il debitore, per il venir meno delle condizioni di liqui-
DIBATTITI 3

dità e credito occorrenti alla propria attività, si trovi in una situazione di impotenza fun-
zionale e non transitoria, non essendo in grado di osservare regolarmente, tempestiva-
mente e con mezzi normali gli impegni assunti (Cass., 6 giugno 1979, n. 3198; Id., 14 feb-
braio 1980, n. 1067; Id., 11 maggio 1981, n. 3095).
Tuttavia, non è da tacere che le censure della ricorrente, in ordine della pretesa man-
canza di uno squilibrio fra attivo e passivo, si muovono nell’ambito di un inammissibile
apprezzamento diverso delle medesime circostanze di fatto valutate dal giudice del me-
rito; inammissibile anche perché muove da una critica che non è pertinente all’effettivo
decisum, in quanto la Corte d’appello ha tratto dallo stato passivo (e non dal bilancio)
l’ammontare dei crediti, che pertanto erano tutti insinuati ed ammessi per circa 27 mi-
liardi (contro un attivo comunque assai inferiore).
Il punto fondamentale della motivazione consiste nell’accertamento dell’assoluta
mancanza di liquido, che non consentiva alla S.A.S. di pagare neppure l’impresa appal-
tatrice dei lavori di costruzione; nonché nell’accertamento che 1’I.C.C.R.I. non aveva
rinnovato il fido o fatto un’ulteriore apertura di credito per dotare la società della liqui-
dità necessaria per far fronte alle sue obbligazioni.

Eppure sono tutt’altro che rare le sentenze che dichiarano il fallimento


sulla constatazione che l’impresa avesse passività superiori all’attivo. Re-
centi sentenze del Supremo Collegio lo hanno giudicato ammissibile. Così
Cass., 1° dicembre 2005, n. 26217 (come poi Cass., 27 febbraio 2008, n.
5215):
Il riscontro dello stato d’insolvenza del debitore prescinde da ogni indagine sull’ef-
fettiva esistenza ed entità dei crediti, essendo a tal fine sufficiente l’accertamento di uno
stato d’impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibi-
lità di far fronte, con mezzi “normali”, ai propri debiti e può quindi essere legittimamen-
te effettuato dal giudice ordinario anche quando i crediti derivino da rapporti riservati al-
la cognizione di un giudice diverso (Cass., Sez. un., 11 febbraio 2003, n. 1997). A tale pro-
posito, anche il dato di un assai marcato sbilanciamento tra l’attivo e il passivo patrimo-
niale accertati, pur se non fornisce, di per sé solo, la prova dell’insolvenza – potendo co-
munque essere superato dalla prospettiva di un favorevole andamento futuro degli affa-
ri, o da eventuali ricapitalizzazioni dell’impresa – nondimeno deve essere attentamente
valutato, non potendosene, per converso radicalmente prescindere, perché l’eventuale
eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale costituisce pur sempre, nella maggior par-
te dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che, a norma della l. fall., art. 5, si mostrano ri-
velatori dell’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni (Cass., 9
marzo 2004, n. 4727).

Due sono i punti che meritano censura. Anzitutto, l’eccedenza del pas-
sivo sull’attivo patrimoniale non è fatto esteriore rivelatore dell’impotenza
dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni, come la stessa sen-
tenza ammette quando menziona eventi idonei a neutralizzarne l’efficacia
probatoria. Non si può poi invertire l’onere della prova sullo stato di insol-
venza ed addossare al debitore l’onere di provare la propria solvibilità, co-
4 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

me la sentenza sembra supporre in presenza di uno squilibrio patrimoniale.


Un simile onere incombe sul creditore istante, secondo i principi gene-
rali del processo civile, cui la recente riforma della legge fallimentare si è
ispirata, sulla base della pronuncia della Corte cost., 15 luglio 2003, n. 240,
come ha messo in evidenza Cass., 26 febbraio 2009, n. 4632, che si esprime
in termini di adesione della riforma del fallimento ai « principi che governa-
no la giurisdizione ».

3. – È ammissibile una insolvenza occulta?


E talvolta accade che il fallimento venga dichiarato anche in presenza di
bilanci in pareggio o, addirittura, in attivo.
In questi casi gli argomenti di prova dell’insolvenza si fondano, anziché
sui dati di bilancio, sulla valutazione critica degli stessi ad opera del tribu-
nale, il quale rettifica il bilancio, incrementando il passivo e svalutando l’at-
tivo, così facendo risultare un deficit non dichiarato. È inutile discutere, in
questi casi, sulla fondatezza della revisione critica del bilancio. Il punto è
che questa è inammissibile. Non si può dimenticare che sussiste insolvenza
quando ricorrono i due estremi previsti dalla norma dell’art. 5, l. fall.: il pri-
mo è la cosiddetta impotenza patrimoniale del debitore, presente quando,
nei termini dell’art. 5, « il debitore non è più in grado di soddisfare regolar-
mente le proprie obbligazioni ». L’altro è la manifestazione esteriore della
insolvenza, la quale deve, sempre nei termini dell’art. 5, manifestarsi « con
inadempimenti o altri fatti esteriori ».
Le classiche manifestazioni esteriori, diverse dagli inadempimenti, so-
no quelle che ora si trovano menzionate nell’art. 7, n. 1, l. fall., relativo all’i-
niziativa del pubblico ministero, ossia quelle risultanti « dalla fuga, dalla ir-
reperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali del-
l’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudo-
lenta dell’attivo da parte dell’imprenditore ».
L’insolvenza può, dunque, manifestarsi in modi diversi dall’inadempi-
mento, ma deve necessariamente manifestarsi all’esterno. Di ciò offrono
conferma gli artt. 10-11, l. fall.: l’imprenditore cessato e quello defunto pos-
sono essere dichiarati falliti « se l’insolvenza si è manifestata » anteriormen-
te alla cessazione o alla morte o nell’anno successivo. Ma decisive, anche per
questo riguardo, sono le norme sulla revocatoria fallimentare, basata sulla
conoscenza dell’insolvenza, presunta fino a prova contraria per l’art. 67,
comma 1°, o da provare da parte del curatore (o del commissario liquidato-
re) per l’art. 67, comma 2° . È qui manifesto che l’insolvenza, per essere tale,
deve necessariamente esteriorizzarsi: sarebbe, altrimenti, inconcepibile la
prova, da parte di terzi, della ignoranza dell’insolvenza o la prova, per il cura-
tore (o il commissario liquidatore), della sua conoscenza da parte di terzi.
DIBATTITI 5

L’esigenza dell’estremo ulteriore della esteriore manifestazione dell’in-


solvenza è tradizionalmente messa in evidenza dalla dottrina e dalla giuri-
sprudenza che distinguono fra insolvenza e mero squilibrio patrimoniale,
che di per sé solo non integra l’estremo dell’insolvenza quale presupposto
oggettivo del fallimento. Così, in giurisprudenza, Cass., 24 marzo 1983, n.
2055; Cass., 14 marzo 1985, n. 1980, cit.; Trib. Roma, 15 luglio 1992, in Falli-
mento, 1993, p. 113; Trib. Napoli, 24 novembre 1997, ivi, 1998, p. 483.
In dottrina, del pari, si è rilevato che
« l’insolvenza viene manifestata da fatti, la cui specifica caratteristica è l’esteriorità,
perché si tratta di inadempimenti e di atti revocabili [. . .] ai quali è essenziale l’esterioriz-
zazione » (Andrioli, Fallimento, voce « dir. priv. », in Enc. dir., Milano, 1967, p. 318; nel-
lo stesso senso De Semo, Diritto fallimentare, Padova, 1967, p. 127; Pajardi, Manuale di
diritto fallimentare, Milano, 1998, p. 71).

Si è inoltre correttamente notato che


« non è esatto dire che presupposto del fallimento è lo stato d’insolvenza (come suo-
na l’art. 5, 1° comma, l. fall.) bensì che è la manifestazione dello stato di insolvenza. Se
fosse diversamente, se l’assoggettamento al fallimento fosse dovuto all’insolvenza in
quanto tale, dovrebbe ammettersi la possibilità del suo diretto accertamento, mentre
questo è sicuramente escluso, perché implicherebbe un’invasione nella sfera giuridica
dell’imprenditore (per la necessità di una consulenza tecnica o comunque di un esame
dei suoi affari), la quale invasione costituirebbe un attentato alla libertà individuale ed
alla segretezza degli affari ed avrebbe poi ripercussioni inevitabili gravissime sul credito
e si presterebbe infine ad abusi. La legge pertanto può intervenire solo quando l’insol-
venza si manifesta » (Ferrara jr.-Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, p. 143).

Nello stesso senso è stato correttamente osservato che


« va tenuto conto che l’art. 5 usa l’espressione “si manifesta” con riferimento allo sta-
to di insolvenza per significare che tale stato non ha rilevanza in sé e per sé in quanto esi-
sta, ma in quanto vi siano manifestazioni esteriori di esso ad evitare, per l’accertamento
della sua esistenza, che debbano essere compiuti accertamenti di difficile realizzazione
o che implichino indagini interne allo svolgimento dell’attività imprenditrice » (Tede-
schi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, p. 32).

Infatti,
« ove si consentisse all’autorità giudiziaria di procedere d’ufficio ad indagini mera-
mente esplorative prima ancora che siano emersi fatti esteriori tali da generare quanto
meno il fondato sospetto di situazioni antigiuridiche, si rischierebbe di estendere la na-
tura inquisitoria dell’istruttoria prefallimentare oltre i limiti sconosciuti al pensiero del-
lo stesso ispiratore della nozione di insolvenza contenuta nell’art. 5, l. fall. » (Censoni, in
Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da Panzani, Torino, 2000, p. 98).
6 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Si erra, invece, quando si pone a fondamento della dichiarazione di fal-


limento non già una manifestata incapacità dell’impresa di fare fronte alle
obbligazioni assunte, desunta da « fatti esteriori », come prescrive l’art. 5, l.
fall., bensì una sua presunta incapacità, che il tribunale ritiene di poter de-
sumere da un’analisi critica dei dati di bilancio, finendo con il fare capo ad
una sorta di inammissibile insolvenza occulta, emergente solo a seguito di
rettifiche che ha indebitamente ritenuto di poter apportare alle scritture
contabili. Ha ragionato, insomma, come se fosse stato investito non dell’ac-
certamento dell’insolvenza della società, bensì, a norma dell’art. 2434 bis,
c.c., della validità del bilancio alla stregua dei principi contabili che ne rego-
lano la redazione.
Si dà rilievo, in tal modo, ad elementi di valutazione critici, non suscetti-
bili di rilevazione dall’esterno. La irregolare redazione delle poste di bilancio
non è, infatti, un « fatto esteriore », integrante l’estremo richiesto dall’art. 5,
comma 2°, l. fall.; non può « manifestarsi » agli effetti degli artt. 10-11, né for-
mare oggetto di « conoscenza » da parte di terzi, agli effetti dell’art. 167, l. fall.
Censurabile è, in questa tendenza giurisprudenziale, la pretesa di desu-
mere il presupposto oggettivo del fallimento non sulla base di « fatti este-
riori », come richiede l’art. 5, comma 2°, l. fall., che siano rivelatori della in-
solvenza, bensì attraverso una ricostruzione ex post della situazione econo-
mica e finanziaria della società, effettuata sulla base di rettifiche di bilancio.
Già lo squilibrio patrimoniale è in sé irrilevante; non lo si può poi costruire
ad hoc, quando le scritture contabili non lo esteriorizzano.

4. – Necessaria pluralità delle insinuazioni al passivo?


Nella fattispecie di abuso del diritto di azione per la dichiarazione di fal-
limento di cui alla citata Cass., 19 settembre 2000, n. 12045, un solo credito-
re aveva, come il nostro diritto fallimentare consente (art. 6, comma 1°), fat-
to istanza di fallimento. La sentenza così motiva:
Il principio della rilevanza obiettiva dello stato di insolvenza, che normalmente pre-
scinde dalle cause che hanno dato origine alla crisi dell’imprenditore, non opera nell’i-
potesi in cui esista un unico creditore e costui, con una condotta contraria ai doveri di
correttezza e di buona fede, abusi del suo diritto, creando le condizioni che rendono im-
possibile il regolare adempimento dell’obbligazione e causando, così, la dichiarazione
di fallimento (nella specie, preso atto che il giudice di merito aveva accertato che l’unico
creditore era un istituto bancario, il quale, con il rifiutare il frazionamento del mutuo,
aveva impedito la realizzazione della liquidità derivante dalla vendita degli appartamen-
ti, la Corte ha cassato la sentenza affidando al giudice di rinvio il compito di accertare l’e-
sistenza del nesso di causalità fra il rifiuto della banca al frazionamento del mutuo, con-
trario all’obbligo di correttezza, e lo stato di insolvenza e di provvedere, in caso afferma-
tivo, alla revoca della dichiarazione di fallimento).
DIBATTITI 7

Dalla sentenza non è dato di capire se la banca, unico creditore istante,


fosse anche l’unico creditore insinuato nel passivo fallimentare. Questo da-
to si riscontra, invece, in un’altra procedura fallimentare, aperta per iniziati-
va di un solo creditore (che non era una banca, bensì un ex fornitore), e ca-
ratterizzata dall’insinuazione al passivo del solo creditore istante. È il falli-
mento dichiarato dall’inedita sentenza da Trib. Cosenza, 18 febbraio 2009,
pres. Madeo, est. Greco. Ci sono Paesi, come la Germania, nei quali il falli-
mento può essere dichiarato solo sull’istanza di una pluralità di creditori,
non collegati fra loro o portatori di frazioni di un medesimo credito. La no-
stra riforma fallimentare non ha provveduto ad accogliere questo saggio
principio, che pure è coerente con la concorsualità della procedura. Abbia-
mo la norma dell’art. 118, comma 1°, che decreta la chiusura del fallimento
ove manchino domande di ammissioni al passivo. La norma va letta come
se dicesse: altre insinuazioni oltre a quella, scontata, del creditore istante?
Ricordiamo al riguardo che una risalente giurisprudenza ed una tuttora
rinnovata dottrina (rimasta, tuttavia, minoritaria) considerano la pluralità
delle insinuazioni al passivo requisito coessenziale alla concorsualità del
fallimento, il quale deve essere revocato (oppure chiuso) se risulta che un
solo creditore, presumibilmente il creditore istante, si sia insinuato (così
Trib. Modena, 1° maggio 1957, Dir. fall., 1958, II, p. 1015; Trib. Catania, 14
novembre 1956, ivi, II, p. 866; Trib. Salerno, 15 dicembre 1951, ivi, 1952, II,
p. 487; Trib. Termini Imerese, 5 aprile 1968, ivi, 1971, II, p. 517; App. L’A-
quila, 21 dicembre 1949, in Giur. it, 1950, I, 2, c. 364; come in dottrina Pro-
vinciali, Manuale di diritto fallimentare, II, Padova, 1970, p. 1583 ss.; Ra-
gusa-Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, p. 472 ss.;
Cavalaglio, La chiusura del fallimento, Torino, 1997, p. 579 ss., dove altre
citazioni).
Certo si è che, anche a non voler ammettere l’esistenza di questa auto-
noma causa di revoca (o di chiusura) del fallimento, la mancata pluralità
delle insinuazioni offre ex post ulteriore prova della insussistenza di uno
stato di insolvenza. Se i fornitori e le banche, infatti, lungi dall’affrettarsi a
partecipare al concorso sulla società fallita, che era la finanziaria di un grup-
po commerciale, garante dei debiti delle società operative del gruppo, han-
no continuato a fornire loro merci e danaro, ciò significa che esse hanno
confidato nella solidità del gruppo. Sicché l’isolata iniziativa di quell’ex for-
nitore era, come nel caso esaminato dalla Cass., 19 settembre 2000, n.
12405, frutto di un abuso nell’esercizio dell’istanza di fallimento.
Può accadere che sia fatta richiesta del fallimento da parte del pubblico
ministero, sulla base delle prove dell’insolvenza di cui all’art. 7, l. fall. Ma,
se nessun creditore si insinua al passivo, il fallimento è chiuso. La procedu-
ra concorsuale non mira a reprimere l’insolvenza, ad eliminare dal mercato
le imprese inefficienti. Mira, nell’insolvenza del debitore, a soddisfare i cre-
8 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ditori concorsuali secondo la par condicio creditorum. La quale funzione


non può attuarsi, ed il fallimento deve essere chiuso, se mancano creditori
insinuati al passivo, quantunque il pubblico ministero avesse ottenuto, sul-
la prova dell’insolvenza, la dichiarazione di fallimento. Non c’è, all’eviden-
za, par condicio da soddisfare se un solo creditore si sia reso attivo ed abbia
dato vita, sotto le mentite spoglie di un fallimento, a null’altro che ad una
procedura esecutiva del tutto individuale.

Francesco Galgano
Efficacia erga omnes degli accordi di ristrutturazione
(art. 182 bis, l. fall.)

1. – La riforma dell’art. 182 bis, l. fall.


L’art. 182 bis, l. fall., ha legittimato sul piano formale gli accordi stragiu-
diziali diretti a prevenire il fallimento dell’imprenditore insolvente.
Il problema che si poneva prima della riforma del 2006 derivava dal fat-
to che la proposta di definire stragiudizialmente la crisi dell’impresa costi-
tuiva prova evidente dell’insolvenza; di conseguenza qualsiasi creditore
che non vi avesse aderito, avrebbe potuto utilizzare la proposta stessa per
domandare il fallimento del debitore.
Altro profilo problematico consisteva nel fatto che, comunque, i credi-
tori potevano procedere sia ad acquisire cause di prelazione, ad es. iscriven-
do ipoteca giudiziale sulla base di un decreto ingiuntivo provvisoriamente
esecutivo, sia a coltivare eventuali procedure esecutive in corso.
Alla prova dei fatti, il più delle volte gli accordi stragiudiziali non giunge-
vano a buon fine, sicché l’unica strada praticabile per evitare tali inconve-
nienti era quella del concordato preventivo. Concoradto al quale molti non
accedevano, prevalentemente per ragioni economiche, stanti le prassi di
molti tribunali di pretendere – pur nel silenzio della legge – il deposito di una
somma proporzionale al passivo, a garanzia della proposta di concordato.
L’accordo di ristrutturazione è stato quindi introdotto riducendo al mi-
nimo le formalità occorrenti, giacché nella formulazione anteriore alla no-
vella del 2010 il tribunale era competente solo per l’eventuale opposizione
all’accordo stesso, la cui efficacia è connessa alla semplice pubblicazione
nel registro delle imprese. A seguito di tale pubblicazione, sempre nella for-
mulazione originaria, l’art. 182 bis, l. fall., prevedeva il divieto di iniziare o
proseguire azioni cautelari od esecutive: non vi era invece alcun richiamo
testuale al terzo comma dell’art. 168, l. fall., che vieta ai creditori di acquisi-
re cause di prelazione dopo la presentazione del ricorso per concordato
preventivo, sicché sul punto regnava incertezza.
Da un lato, infatti, il divieto di azioni cautelari poteva essere inteso in
senso ampio, posto che altrimenti sarebbe vietato il sequestro conservativo
ma non l’iscrizione dell’ipoteca legale. Dall’altro si poteva argomentare in
senso opposto sul rilievo che la disposizione richiamava il solo secondo
comma dell’art. 168, l. fall., sulla sospensione delle prescrizioni e delle de-
cadenze, sicché il silenzio sul diverso effetto poteva essere invocato affer-
mando che ubi tacuit noluit (1).

(1) Prima della riforma si è pronunciato per l’inapplicabilità dell’art. 168, l. fall., Trib. Udi-
ne, 22 giugno 2007, in Fall., 2008, p. 701.
10 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Con il d.l. n. 78 del 2010 e con la legge di conversione 30 luglio 2010, n.


122, la disciplina ha subìto modifiche di rilievo: a parte l’introduzione dell’
art. 184 quater relativo alla prededuzione dei crediti per i finanziamenti de-
stinati a sovvenzionare questi accordi e dei crediti per l’assistenza di taluni
professionisti, nell’art. 182 bis, l. fall., è stata prevista la possibilità che l’im-
prenditore ottenga la sospensione delle azioni esecutive e cautelari, su sem-
plice sua richiesta, anche durante le trattative.
A tal fine è necessario che egli depositi in tribunale, con tale richiesta, la
documentazione che deve corredare l’accordo di ristrutturazione, un’appo-
sita dichiarazione che ne attesti la congruità rispetto ai requisiti occorrenti
ed un’autocertificazione sulle trattative. La pubblicazione della richiesta
nel registro imprese “produce l’effetto del divieto di inizio o prosecuzione
delle azioni esecutive o cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di
prelazione, se non concordati, dalla pubblicazione”. Il tribunale, esaminati
i documenti, fissa poi un’udienza alla quale possono comparire i creditori
nella quale, accertata la sussistenza dei presupposti per l’accordo di ristrut-
turazione, dispone con decreto motivato il “divieto di iniziare o proseguire
le azioni esecutive o cautelari e di acquisire titoli di prelazione, se non con-
cordati”, assegnando un termine per il deposito dell’accordo di ristruttura-
zione con la relazione accompagnatoria del professionista.
In questo modo si è posto un limite al rischio che, mentre l’imprendito-
re in crisi tenta una soluzione stragiudiziale della posizione debitoria, qual-
che creditore estraneo alle trattative (o in mala fede pur trattando) possa
munirsi di una causa di prelazione o iniziare un’esecuzione (i cui effetti si
leggono nell’art. 2915 c.c.), compromettendo in tal modo il buon esito del-
l’iniziativa. E’ infatti evidente che gli altri creditori potrebbero negare il pro-
prio consenso all’accordo, che potrebbe non raggiungere in tal caso la mag-
gioranza richiesta, proprio per ottenere il fallimento del debitore e la conse-
guente revoca ex art. 67, l. fall., di eventuali ipoteche iscritte in quel periodo.

2. – Ed i persistenti dubbi sulla sua efficacia erga omnes


È invece rimasto senza soluzione uno dei problemi di maggior interes-
se, cioè quello dell’efficacia dell’accordo di ristrutturazione anche nei con-
fronti dei creditori estranei o contrari.
Agli effetti dell’efficacia dell’accordo di ristrutturazione, l’art. 182 bis, l.
fall., prevede che sia approvato con la maggioranza del 60% dei creditori,
sicché ci si domanda se gli estranei ne subiscano in ogni caso gli effetti.
Infatti, rispetto a loro la disposizione prevede solo che l’accordo sia ac-
compagnato da apposita relazione sulla sua attuabilità “con particolare rife-
rimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori
estranei”.
DIBATTITI 11

Tale prescrizione non è chiara e può essere letta in due modi: nel senso
che sia garantito integralmente il pagamento del credito degli estranei op-
pure che sia garantito il pagamento integrale sì, ma così come proposto nel
concordato stragiudiziale (2), ad esempio con una determinata riduzione o
rateizzazione.
La letteratura dominante si esprime in senso nettamente contrario alla
seconda ipotesi, giacché autorevolmente si insiste sul diritto dei creditori
non aderenti di essere pagati interamente, cioè senza vedere il loro credito
ridotto in forza di un accordo al quale siano rimasti estranei (3).
L’idea che il credito degli estranei sia in qualche modo toccato dall’ac-
cordo sembra ai più aberrante, perché si assisterebbe ad una “vera e propria
espropriazione dei crediti a carico degli estranei all’accordo” (4).
La giurisprudenza di merito si attesta nel medesimo senso: il pagamen-
to deve essere integrale e secondo i termini originari (5).
C’è però da chiedersi se la tesi dominante sia davvero insuperabile.
Il fatto che il legislatore abbia indicato una maggioranza in relazione al-
l’insieme complessivo dei creditori, induce a ritenere che un qualche effet-
to “esterno” debba necessariamente prodursi. Infatti, all’interno del gruppo
dei creditori che aderiscono al patto, vi è evidentemente l’unanimità e quin-
di o quel patto ha rilevanza esterna, quando aderisca il 60% di tutti i credito-
ri, oppure quella previsione si rivela inutile.
Non avrebbe poi senso alcuno che fosse stata imposta una maggioranza
pur che sia, per dar vita ad un accordo di ristrutturazione meramente inter-
no: nessuna disposizione vieta all’imprenditore di definire i propri rapporti

(2) Per la seconda lettura, in netta minoranza, v. ad es. Grossi, La riforma del diritto falli-
mentare, Milano, 2005, p. 334.
(3) Roppo, Accordi di ristrutturazione dei debiti d’impresa, e categorie civilistiche, in Studi in
onore di Giorgio Cian, Padova, pp. 2010, 2162 ss., spec. p. 2181 ma già, ad es., Frascaroli San-
ti, Gli accordi di ristrutturazione e gli effetti per coobbligati e fideiussori del debitore, in Aa.Vv.,
La riforma della legge fallimentare, a cura di Bonfatti e Falcone, Milano, 2005, p. 236; è questa
la tesi dominante in letteratura.
(4) D’Ambrosio, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Aa.Vv., Fallimento ed altre
procedure concorsuali, a cura di Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, III, p. 1812.
(5) Secondo il Trib. Milano, 23 gennaio 2007, in Giur. it., 2007, p. 1692, “gli accordi di ri-
strutturazione dei debiti disciplinati dall’art. 182 bis, l. fall., non costituiscono una forma di
concordato preventivo semplificato, ma integrano un autonomo istituto giuridico assimilabi-
le ad un pactum de non petendo e, per la pluralità di parti, ad un negozio di diritto privato qua-
lificabile come contratto bilaterale plurisoggettivo a causa unitaria”; tuttavia secondo la stes-
sa decisione i creditori dissenzienti o non aderenti al piano dovrebbero essere pagati per inte-
ro e secondo le scadenze originarie; così anche Trib. Palermo, 27 marzo 2009, Dir. banc., 2009,
I, p. 455, mentre per App. Trieste, 4 settembre 2007, Dir. fall., 2008, II, p. 297, sarebbe da esclu-
dersi anche una rateizzazione del pagamento integrale dei creditori estranei.
12 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

anche con un singolo creditore, sicché indicare una maggioranza quale re-
quisito ha un senso, se quell’accordo si riverberi anche sulla minoranza.
Ben potrebbe essere, peraltro, che l’effetto esterno consista solo nel-
l’impedire, per sessanta giorni, azioni esecutive e nuove prelazioni, come
ora vedremo, ma se la riforma si riducesse solo a questo, potremmo dire che
la montagna abbia partorito un topolino, risultando in definitiva la proce-
dura di poca utilità pratica.
A che pro introdurre gli accordi di ristrutturazione se i creditori esterni
al patto, in particolare i chirografari, devono comunque essere pagati al
100% ed in tempi rapidissimi?
Ciò detto, la regola generale per cui i contratti non producono effetti ri-
spetto ai terzi non è decisiva per risolvere il problema, perché l’art. 1372 c.c.
fa salvi i casi previsti dalla legge (6), sicché il punto da verificare è se questo
debba considerarsi o meno uno di tali casi.
In tal senso è stato ricordato con esemplare chiarezza come il principio
di maggioranza contrasterebbe intimamente con la regola aurea dell’auto-
nomia privata e se anche, in taluni casi, si potrebbe pur sempre ricondurre
quel meccanismo di disciplina dei rapporti ad una preventiva adesione del
privato – sicché in definitiva ciò varrebbe a costituire “una preventiva accet-
tazione del principio di maggioranza” – vi sono molte diverse ipotesi, tra cui
proprio quelle concordatarie, ove una tale adesione non è minimamente
postulabile (7).
Ora poiché il principio di maggioranza deve pur sempre ritenersi
“un’eccezione alla regola di determinazione dei singoli” (8), si è detto che
laddove difetti la preventiva adesione del singolo, il presupposto di operati-
vità debba essere individuato in un dato oggettivo, consistente nella “co-
munanza di interessi in cui più persone versano, sia essa da loro costituita
volontariamente (società, associazioni, consorzi) oppure emergente, anche
indipendentemente dalla loro volontà, dalla convergenza dei loro interes-
si”. Con la conclusione che, ove difetti questa comunanza, allora il princi-
pio di maggioranza non possa operare perché “nessuno può subire altera-
zioni della propria sfera giuridica indipendentemente dal concorso della
propria volontà” (9).
Tale indicazione va totalmente condivisa e costituisce il riferimento per
verificare se, nel caso dell’accordo di ristrutturazione, si possa ravvisare una
convergenza di interessi che legittimi l’operatività del principio di maggio-
ranza, inteso qui come efficacia esterna del patto.

(6) Sul punto v. Galgano, Tratt. dir. civ., Padova, 2009, II, p. 484 ss.
(7) Galgano, La forza del numero e la legge della ragione, Bologna, 2007, p. 203.
(8) Galgano, La forza del numero e la legge della ragione, cit., p. 206.
(9) Galgano, cit., p. 204.
DIBATTITI 13

L’accordo di ristrutturazione costituisce, a ben vedere, un concordato


stragiudiziale, che si differenzia nella sostanza da quello preventivo perché
non è dettata alcuna prescrizione sulla possibile divisione in classi dei cre-
ditori, né altra indicazione come quella prevista dall’art. 160, l. fall., sui pa-
gamenti non integrali dei creditori muniti di prelazione.
Tuttavia la logica concorsuale del diritto fallimentare è improntata all’
efficacia esterna delle varie ipotesi concordatarie: basti ricordare che il con-
cordato fallimentare e quello preventivo sono efficaci erga omnes (artt. 135
e 184, l. fall.) se approvati con le maggioranze previste dalle singole disposi-
zioni (artt. 128 e 177, l. fall.).
Inoltre il tribunale non esercita più un controllo sulla meritevolezza dei
concordati, com’era prima della riforma, ma si limita al controllo formale
dell’esistenza dei requisiti di legge: donde la cd. privatizzazione delle pro-
cedure in esame (10), nelle quali difetta appunto qualsiasi rilievo di interes-
se pubblico che giustifichi il controllo di merito delle scelte operate dai cre-
ditori votanti.
La logica maggioritaria opera infine anche per l’approvazione del con-
cordato previsto dalla cd. legge Marzano (l. 23 dicembre 2003, n. 347, art. 4
bis).
Dal profilo della ratio legis, l’idea che l’accordo di ristrutturazione sia ef-
ficace per i creditori estranei sarebbe allora perfettamente coerente con il si-
stema delle procedure concorsuali; la tesi opposta dimentica infatti proprio
di valorizzarne la funzione pregnante – impedire il fallimento – e la sua col-
locazione sistematica nell’ambito predetto. Il punto centrale, semmai, è di
non consentire tramite gli accordi di ristrutturazione un effetto deteriore
per i creditori estranei o dissenzienti, rispetto a quello ammesso con il con-
cordato preventivo, come potrebbe accadere se si ritenesse che il concorda-
to stragiudiziale possa essere essere imposto ai creditori contrari o non ade-
renti, per la sola ragione di raggiungere l’adesione del 60% dei creditori.
Se, invece, si ammettesse l’efficacia esterna del concordato stragiudizia-
le negli stessi limiti con cui si può dar vita ad un concordato preventivo, al-
lora non si porrebbe alcun problema di tutela del creditore estraneo o con-
trario, giacché egli non si vedrebbe pregiudicato dal primo in misura supe-
riore di quanto accadrebbe con il secondo.
Anzi, dal profilo dell’esistenza di un comune interesse oggettivo, il cre-
ditore del concordato stragiudiziale riceverebbe in definitiva un trattamen-
to migliore, che deriva sia dai minori costi dell’accordo di ristrutturazione,
che non deve pagare alcun commissario, sia per la rapidità dei tempi di ese-
cuzione, postulati dall’art. 182 bis, l. fall., in sessanta giorni.

(10) Per tutti v. sempre Galgano, cit., p. 206.


14 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

A tal fine si può ricordare che, nel caso del concordato preventivo, il li-
mite insuperabile è contenuto nel capoverso dell’art. 160, l. fall., il quale
consente che i creditori siano divisi per classi e che, entro i limiti ivi indica-
ti, anche i creditori privilegiati siano pagati in misura non esaustiva, purché
la divisione per classi non sovverta l’ordine delle cause di prelazione.
Se allora anche l’accordo di ristrutturazione venga limitato negli stessi
termini, in relazione all’effetto che produce per i terzi, l’autonomia degli
estranei e dei contrari risulterebbe pur sempre salvaguardata, perché non ri-
cevebbero un trattamento deteriore. In tal senso, ad es., dovrebbe operare
nel concordato stragiudiziale il divieto per i creditori privilegiati di sotto-
scrivere l’accordo se non rinuncino al privilegio, in analogia a quanto indi-
cato dall’ art. 177, l. fall., non potendo altrimenti essere computati nella
maggioranza laddove l’accordo preveda un qualsiasi effetto sul diritto degli
estranei.
Nello stesso senso, l’accordo di ristrutturazione non potrebbe prevede-
re il sovvertimento delle cause di prelazione, sempre secondo quanto pre-
vede l’art. 160, l. fall.
In definitiva, in questi termini, la differenza tra l’accordo di ristruttura-
zione ed il concordato preventivo consisterebbe solo nelle modalità con cui
si forma la maggioranza e non in una minor tutela per i creditori estra-
nei (11), i quali lo vedrebbero perfino approvato con una maggioranza supe-
riore a quella richiesta per il concordato preventivo.
Vi è inoltre anche un rilievo ulteriore che depone per l’efficacia erga om-
nes di questi accordi e che consoliderebbe la coerenza di questa lettura.
Infatti, il diritto di opposizione all’accordo previsto dall’art. 182 bis, l.
fall., si spiega solo come tutela a favore dei terzi estranei e non certo dei cre-
ditori che abbiano accettato l’accordo, i quali evidentemente non possono
impugnarlo perché abbiano cambiato idea, giacché la legge fallimentare
non prevede alcuna forma di recesso dall’accordo stesso.
D’altro canto se si ritenesse che il diritto di opposizione serva a tutelare
(solo) i i creditori che abbiano sottoscritto l’accordo da rischi ipotetici (es. la
falsificazione di una firma, il deposito di una relazione diversa da quella esa-
minata, ecc.), si opterebbe per un’interpretazione riduttiva della regola
francamente ingiustificata.
In più, se l’accordo stragiudiziale valesse solo all’interno dei creditori
che lo approvano, i creditori estranei non avrebbero alcuna ragione di im-
pugnarlo, perché non ne verrebbero toccati. A tutto concedere l’effetto ver-

(11) Ovvero senza voler affermare l’esistenza di una matrice unitaria dei diversi concorda-
ti: Frascaroli Santi, cit., pp. 234-235, pur nell’estensibilità agli accordi di ristrutturazione, di
principi e norme del concordato preventivo: ivi, p. 237.
DIBATTITI 15

so di loro sarebbe solo quello di bloccare le azioni esecutive o di impedire il


sorgere di prelazione, ma dato che il termine concesso per tale effetto è di
soli 60 giorni, non esiste impugnazione di sorta che si sviluppi nei due gradi
previsti (opposizione al tribunale e reclamo alla corte d’appello) in un tale
termine.
In definitiva la possibilità di impugnare l’accordo di ristrutturazione, se
deve avere un senso operativo concreto, si spiega solo perché questo accor-
do tocca anche i creditori estranei, cui viene quindi concesso il rimedio im-
pugnatorio, i quali altrimenti non avrebbero alcun interesse a dolersene (12).
L’attribuzione a questi del diritto di opporsi all’accordo, servirebbe per-
ciò a far valere l’eventuale effetto deteriore rispetto ai limiti nei quali è am-
messo il concordato preventivo: qui la loro tutela è imprescindibile, perché
altrimenti l’accordo di ristrutturazione diventerebbe un contratto in frode
alla legge.
Da questo profilo, allora, l’accordo di ristrutturazione si colloca perfet-
tamente nell’ambito delle procedure concordatarie della legge fallimenta-
re; il limite al contenuto sarà quello di non dare vita a meccanismi di paga-
mento che siano deteriori in relazione ai divieti che sono previsti per il con-
cordato preventivo dall’art. 160, l. fall.
Del pari l’accordo non potrà essere approvato dai creditori privilegiati a
danno dei chirografari, sicché se intendano ugualmente approvarlo dovran-
no rinunciare al privilegio, in analogia all’art. 177, l. fall., altrimenti il loro
consenso non dovrà essere computato nel 60% dei crediti richiesto.
A tal fine la possibilità di opposizione consentirà al creditore estraneo o
contrario di contestare tali circostanze. Laddove tali limiti non siano supe-
rati, il creditore estraneo o contrario sarà pregiudicato né più né meno di
quanto accadrebbe se la maggioranza dei creditori approvasse una proposta
di concordato preventivo e non avrà alcun interesse concreto (art. 100
c.p.c.) ad impugnare l’accordo.
Poiché infine la procedura avrà costi notevolmente inferiori ed una ra-
pidità ben superiore a quella con cui i concordati preventivi trovano attua-
zione, si realizzerà così l’imprescindibile “comunanza di interessi in cui più
persone versano [. . .] emergente, anche indipendentemente dalla loro vo-
lontà, dalla convergenza dei loro interessi”, che giustifica l’efficacia dell’ac-
cordo nei loro confronti.

Gianluca Sicchiero

(12) Fermo peraltro il diritto degli aderenti di impugnarlo ove emerga un interesse con-
creto che non consista in un pentimento della precedente adesione.
Formalismo negoziale e nullità: le aperture delle Corti di merito

1. – Nuove forme e nuove nullità


Troppo sbrigativamente appiattito sulle nullità « strutturali » di cui al se-
condo comma dell’art. 1418 c.c. ovvero, nelle sue più recenti manifestazio-
ni, spesso scolorito entro lo scivoloso capitolo della trasparenza, il tema del-
la sanzione da abbinare al vizio di forma del contratto esibisce invece – sia
nel sistema del codice civile sia nel quadro del cosiddetto diritto privato eu-
ropeo – una forte specificità.
La tradizione, è noto, si muove lungo i due poli del vestimentum quale
requisito della fattispecie e della nullità quale irrilevanza giuridica dell’atto:
il contratto privo della forma richiesta ad substantiam è senz’altro destinato
alla caducazione, essendone inibita alle parti esecuzione, conferma o accet-
tazione (1).
Tale corrispondenza è il riflesso di altro nesso che il codice presuppone,
quello tra forma del negozio e natura dei suoi effetti, in virtù del quale solo
i negozi volti a realizzare determinati effetti sono soggetti al vincolo forma-
le (2). Poiché si tratta in larghissima parte di effetti reali (3), l’istantaneità del
loro sorgere nel momento della conclusione del contratto fa sì che essi non
possano nascere se non formali, e che la forma, pur servendo la sfera effet-
tuale, venga attratta nell’orbita della fattispecie, divenendone elemento co-
stitutivo.
L’appartenenza al novero dei requisiti essenziali ne giustifica l’interdi-

(1) Giorgianni, Forma degli atti (dir. priv.), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, p. 994 ss.
(2) Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concluden-
te, Milano, 1974, p. 383 ss.
(3) Il codice civile, come chiaramente emerge dalla lettura dell’art. 1350, lega la necessità
di formalizzare l’atto a pena di nullità a vicende che impegnano significativamente beni im-
mobili: per un verso ciò va addebitato al clima culturale dell’epoca in cui la proprietà ancora
rappresenta il « prototipo » dei diritti soggettivi (Rescigno, Introduzione al codice civile, Ro-
ma-Bari, 1991, p.104) e nel quale i beni che assumono preminente importanza sono quelli im-
mobili, che le parti sono libere di far circolare « ma quando li muovono conviene che faccia-
no sapere dove vanno »: Carnelutti, Teoria giuridica della circolazione, Padova, 1933, p. 13.
Per altro verso viene in rilievo la corrispondenza pressoché biunivoca tra art. 1350 e art. 2643
c.c. nonché la regola posta dall’art. 2657 c.c., sebbene formalismo e trascrizione abbiano fun-
zioni del tutto distinte cui corrisponde una netta differenziazione quanto all’apparato rime-
diale. In questo senso: Pugliatti, La trascrizione, I, 1, Milano, 1957, p. 419. Pone l’accento
sulla diversità di funzioni dei due istituti Gazzoni, La trascrizione immobiliare, in Comm. Sch-
lesinger, Milano, 1991, p. 99. Nel senso di una netta distinzione si pronuncia anche Maricon-
da, Gli atti soggetti a trascrizione con efficacia tipica, in Riv. not., 1981, p. 1017.
DIBATTITI 17

pendenza con il sistema della nullità, il che, di nuovo, conferma la relazio-


ne con gli effetti, poiché solo presupponendo un simile legame si spiega che
alla mancanza di forma consegua il venir meno ab initio degli effetti del ne-
gozio (4).
L’inserzione fra i requisiti del contratto è però del tutto artificiale: a dif-
ferenza dell’accordo, della causa e dell’oggetto, che sono il contratto (5), la
forma, quantunque necessaria, non è mai anche sufficiente, laddove i re-
quisiti « sostanziali », oltre che necessari, possono essere sufficienti (6).
La forma è dunque requisito sui generis, rispetto al quale appare partico-
larmente appropriata la distinzione, delineata in dottrina, tra elementi di
« esistenza » ed elementi di « validità » (7). Ed è anche il meno strutturale fra
quelli di cui all’art. 1325 c.c., alla stregua della nullità che vi si associa, a sua
volta la meno strutturale fra le nullità strutturali dell’art. 1418 c.c.
Lo confermano, per un verso, i numerosi indici di uso della forma a fini
diversi da quello costitutivo – ben oltre la distinzione ad substantiam/ad
probationem (8) – ed i non pochi momenti in cui la disciplina del vincolo de-
flette dai canoni consueti (si pensi, solo esemplificativamente, all’ampio te-
ma degli equipollenti della sottoscrizione (9), al formalismo delle singole
clausole contrattuali (10), alle cosiddette forme ad regularitatem (11), alle fun-

(4) P. Trimarchi, Appunti sull’invalidità del negozio giuridico, in Temi, 1955, p. 201.
(5) Scialoja, Negozi giuridici, Roma, 1950, p. 248.
(6) Breccia, La forma, in Tratt. del contratto diretto da Roppo, I, Formazione, a cura di
Granelli, Milano, 2006, p. 511.
(7) R. Scognamiglio, Contratti in generale, in Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna-Ro-
ma, 1970, p. 70. Cfr. altresì la raffinata voce di Ormanni, Forma del negozio giuridico, in Noviss.
dig. it., VII, Torino, p. 557 ss.
(8) Sul superamento del binomio, per tutti, Giorgianni, Forma degli atti, cit., p. 997 ss.
Ancor prima, in Francia, Flour, Quelque remarques sur l’évolution du formalisme, in Le droit
privé français au milieu du XX siècle. Études offertes à G. Ripert, Paris, 1950, I, p. 93 ss.
(9) Su cui, in luogo di molti, cfr. Orlandi, La paternità delle scritture. Sottoscrizione e for-
me equivalenti, Milano, 1997, passim.
(10) Cfr.: art. 2096 c.c. in materia di patto di prova (su cui D’Onghia, La forma vincolata
nel diritto del lavoro, Milano, 2005, p. 110 ss.); art. 1284, comma 3°, c.c. in materia di determi-
nazione per iscritto di interessi superiori alla misura legale (su cui Di Majo, La forma del tas-
so ultralegale, in La forma degli atti nel diritto privato. Studi in onore di Michele Giorgianni, Na-
poli, 1988, p. 125); art. 1751bis c.c. in materia di patto limitativo della concorrenza (su cui Si-
ca, Atti che devono farsi per iscritto, in Comm. Schlesinger, Art. 1350, Milano, 2003, p. 366).
(11) L’espressione, coniata da Carnelutti (Teoria generale del diritto, Roma, 1946, p. 311
ss.) e poi entrata nel lessico consueto dei civilisti, indica riassuntivamente le ipotesi normati-
vamente previste in cui il rispetto dell’onere formale non è richiesto per il perfezionamento
del negozio ma neanche rileva a fini probatori, consentendo invece all’atto di autonomia un
più alto grado di efficacia, in punto di opponibilità, pubblicità, certificazione di attività già va-
18 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

zioni del precetto formale nei contratti di società e associazioni) (12); per al-
tro verso, una giurisprudenza non folta ma significativa che, pur senza
smentire apertis verbis le linee della tradizione, tende a salvare il contratto
difettoso in punto di forma (riconvertendolo in una omologa fattispecie a
forma libera (13), qualificandone l’esecuzione come adempimento di obbli-
gazione naturale (14), richiamando il divieto di venire contra factum proprium
a filtro del concreto interesse ad agire) (15).
Essenziali per cogliere la complessità del sistema, questi segnali non si
spingono tuttavia ad incrinare davvero le « tre regole, concatenate fra di lo-
ro, del formalismo, della nullità, della insanabilità » (16).
Solo lungo un percorso assai più articolato (ma meno frammentario di
quanto abitualmente si dica) – e che vede nella cosiddetta legislazione spe-
ciale post-codicistica alcuni suoi determinanti prodromi (17) – si giunge alla
dissoluzione di tale rassicurante quadro, fino al profilarsi di un inedito rap-

lidamente esplicate. Sulla polifunzionalità dell’elemento formale: Spada, La fase costitutiva


dell’impresa, in Impresa e tecniche di documentazione giuridica, IV, Atti del convegno di Roma
(27-28 ottobre 1990), Milano, 1991.
(12) Oppo, Forma e pubblicità nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1966, I, p. 110 ss.; Ge-
novese, Le forme integrative e le società irregolari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, p. 119 ss.; An-
gelici, Sulla forma del contratto preliminare di società: vent’anni dopo, in Giur. comm., 1988, II,
p. 323.
(13) Cass. 29 maggio 1999, n. 5265, in Mass. Giust. civ., 1999, p. 1219; Cass., 30 gennaio
2007, n. 1955, in Mass. Giust. civ., 2007, p. 221. In argomento, imprescindibile Sacco, Se tra co-
niugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia
luogo a restituzioni, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, Padova, 1989, p. 90 ss.
Cfr. altresì Palazzo, Forma e causa dell’attribuzione nelle donazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1987,
p. 744 ss.
(14) Cass., 18 dicembre 1975, n. 4153, in Giur. it., 1976, I, p. 1913; Trib. Napoli, 6 febbraio
1978, in Dir. giur., 1978, p. 671; Trib. Roma, 13 maggio 1995, in Gius., 1995, p. 3593; Cass., 30
marzo 2006, n. 7507, in Vita not., 2007, p. 188. V. in proposito le osservazioni critiche di Brec-
cia, Le obbligazioni, in Tratt. dir. priv. a cura di Iudica e Zatti, Milano, 1991, p. 81 ss. Per una di-
versa proposta ricostruttiva cfr. Sacco, in Sacco e De Nova, Il contratto, I, nel Tratt. dir. civ. di-
retto dallo stesso a., Torino, 2004, p. 659. In argomento, anche con ampi riferimenti al sistema
tedesco, Favale, Nullità del contratto per difetto di forma e buona fede, in Aa.Vv., Il ruolo della
buona fede, Padova, 2003, p. 1 ss.
(15) Trib. Roma, 13 luglio, 2004, in Giust. civ., 2005, I, p. 1937, con nota di Maffeis, Forma
ad substantiam, gestioni di affari e divieto di venire contro il fatto proprio. In argomento v. le
dense pagine di Rescigno, Presentazione a Negri, Il recupero dell’atto nullo mediante esecuzio-
ne, Napoli, 1981, XII.
(16) Sacco, Se tra coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello
corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, cit., p. 83.
(17) Sia consentito rinviare sul punto a Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto.
Dal negozio solenne al nuovo formalismo, Milano, 2008, p. 91 ss.
DIBATTITI 19

porto tra forme e rimedi, e, talora, di un’altrettanto inedita rilevanza dell’at-


to « amorfo », ignota al codice.
Un percorso che forma e nullità compiono già ciascuna per sé; ma che
manifesta i caratteri più originali ed anche problematici quando le due stra-
de sono destinate ad incrociarsi, riproponendo la liaison tra vincolo e san-
zione, ma sotto spoglie del tutto mutate.
Da un canto il fenomeno ormai usualmente denominato « neoformali-
smo »: una congerie di disposizioni di varia natura – tutte di sicuro indero-
gabili (almeno ex uno latere) (18) – che scompagina le categorie note, sia con
riferimento all’articolazione dell’elemento formale e del suo atteggiarsi en-
tro la vicenda contrattuale, sia rispetto alle funzioni (19).
Non si tratta infatti di mera moltiplicazione delle prescrizioni di forma:
inediti sono l’impiego e la natura dei vincoli, la dislocazione di questi lungo
tutto lo svolgimento del rapporto negoziale, la capacità di interferire con gli
altri elementi del contratto, gli interessi assecondati (20).
Al di là del dato più immediatamente percepibile che vuole adesso co-
perti dal vestimentum contratti che sarebbero nel codice a forma libera, il ri-
ferimento è a congegni del tutto nuovi (o che hanno nella tradizione solo ti-
midi antecedenti ma non eguali presupposti né finalità): il necessario inse-

(18) C. Scognamiglio, L’autonomia contrattuale e la legge, in Manuale di diritto privato eu-


ropeo, a cura di Castronovo e Mazzamuto, Milano, 2007, II, p. 299 ss. Il dibattito sul punto è
assai ampio: senza pretesa di completezza si veda Storme, Freedom of contract: Mandatory
and Non Mandatory Rules in European Contract Law, in Eur. Rev. priv. law, 2007, p. 247 ss. Per
una diversa impostazione Hesselink, Non-mandatory Rules in European Conntract Law, in
European Rev. of Contract Law, 2005, p. 43 ss. Cfr. altresì Gambaro, Contratto e regole disposi-
tive, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 1 ss.
(19) Per una generale considerazione del fenomeno si veda, per la dottrina italiana, oltre
agli autori già citati: R. Lener, Forma contrattuale e tutela del contraente “non qualificato” nel
mercato finanziario, Milano, 1996, passim; Amagliani, Profili della forma nella nuova legisla-
zione sui contratti, Napoli, 1999, p. 47 ss.; Valentino, Obblighi di informazione, contenuto e for-
ma negoziale, Napoli, 1999; E. Gabrielli e Orestano, Contratti del consumatore, Dig. Disc
priv., sez. civ., Agg., Torino, 2000, p. 235 ss.; Di Marzio, Riflessioni sulla forma nel nuovo dirit-
to dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 396 ss.; Jannarelli, La disciplina dell’atto e del-
l’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Tratt. dir. priv. europeo, a cura di
Lipari, Padova, 2003, p. 3 ss.; Masucci, La forma, ivi, p. 575 ss; Morelato, Nuovi requisiti di
forma nel contratto. Trasparenza contrattuale e neoformalismo, Padova, 2006; Landini, Forma-
lità e procedimento contrattuale, Milano, 2008, p. 113 ss.; Pasa, La forma informativa nel diritto
contrattuale europeo. Verso una nozione procedurale di contratto, Napoli, 2008; Venosta, Profi-
li del neoformalismo negoziale: requisiti formali diversi dalla semplice scrittura, in Obbligazioni
e Contratti, 2008, p. 827 ss.
(20) In generale, per una esemplare ricognizione critica del nuovo formalismo in costante
confronto con la tradizione, cfr. per tutti, Breccia, La forma, cit., p. 474 ss.
20 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

rimento nel documento contrattuale di una serie di elementi predetermina-


ti ex lege (la cosiddetta forma-contenuto) (21); l’imposizione di verba solem-
nia assunta a presupposto per la produzione di certi effetti (22); la redazione
per iscritto quale condizione di applicabilità o meno di una determinata di-
sciplina (23); la rilevanza dell’esecuzione come modo di conclusione di un
(valido) contratto pur in carenza della prescritta forma solenne (24).
L’area del formalismo si amplia poi fino a ricomprendere l’utilizzo di una
determinata lingua per la redazione dei documenti (25) o l’indicazione di di-
mensione ed evidenziazione dei caratteri grafici (26). Regole sulle quali il le-
gislatore comunitario si appunta con sempre maggior convinzione (27) e di
cui a torto è talvolta revocata in dubbio la riconducibilità al nostro tema; per-
plessità destinate ad essere smentite ove si abbia riguardo alla forma quale
complessiva morfologia dell’atto, nel senso di « insieme delle note esteriori
di un testo » (28), e, soprattutto, ove si considerino i significativi approdi del

(21) Art. 71, c. cons.; art. 86, c. cons.; art. 6 d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122; art. 3, l. 6 maggio
2004, n. 129.
(22) Art. 118 T.U.B., comma 2°; art. 1, comma 1°, l. 17 ottobre 2007 n. 188. Su norme di tal
fatta cfr. Lener, Forma contrattuale e tutela del contraente “non qualificato”, cit., p. 8 ss. Sul-
l’impiego di tecniche analoghe già nel sistema del codice cfr. Cian, Forma solenne e interpre-
tazione del negozio, Padova, 1969, p. 9 ss.
(23) Art. 12, comma 4°, lettera b, T.U.B.; art. 117, comma 8°, T.U.B.; art. 2 d.lgs. 21 maggio
2004 n. 170.
(24) Art. 2, comma 2°, l. 192/98; art. 118 T.U.B.
(25) Art. 52 comma 4°, c. cons.; art 71, c. cons.; art. 12 d.lgs. 9 aprile 2003 n. 70. Sulla pre-
scrizione di lingua: Memmo, Dichiarazione contrattuale e comunicazione linguistica, Padova,
1990; Cicala, Lingua straniera e testo contrattuale, Milano, 2003; Capobianco, La determina-
zione del regolamento, in Tratt. del contratto diretto da Roppo, II, Regolamento, a cura di Vetto-
ri, Milano, 2006, p. 280 ss.
(26) Art. 47, c. cons.; art. 177 comma 2°, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209. Sulla contiguità fra
simili disposizioni e precetto di chiarezza e comprensibilità di cui all’art. 35, c. cons., cfr. Ono-
rato, Decodificazione della proposta e nullità della clausola nel contratto col consumatore, in
Riv. dir. civ., 2007, p. 601 ss.
(27) Cfr. per esempio la recente dir. Ce 2008/48/ in materia di credito ai consumatori (art.
10), su cui sia dato rinviare a Modica, Il contratto di credito ai consumatori nella nuova disci-
plina comunitaria, in Europa e dir. priv., 2009, p. 785 ss. Cfr. altresì, con attenta analisi dei nes-
si tra forma e rimedi, Pagliantini, Il contratto di credito al consumo tra vecchi e nuovi formali-
smi, ne I contratti per il finanziamento dell’impresa, a cura di Dinacci e Pagliantini, nel Tratt.
dir. dell’econ. diretto da Picozza e Gabrielli, Padova, 2010, p. 1 ss. Sui riflessi che il metodo del-
la « armonizzazione piena » adottato dalla Direttiva in commento produce sul piano dell’ef-
fettività delle tutele: De Cristofaro, La nuova disciplina comunitaria del credito al consumo;
la direttiva 2008/48/Ce e l’armonizzazione « completa » delle disposizioni nazionali concernenti
« taluni aspetti » dei « contratti di credito ai consumatori », in Riv. dir. civ., 2008, p. 267 ss.
(28) Orlandi, La paternità delle scritture, cit., p. 41.
DIBATTITI 21

nostro giudice di legittimità. La Suprema Corte, si ricorderà, ha esplicita-


mente discorso di « requisiti di forma » sia con riguardo « alla autonomia del-
la clausola di recesso che deve restare separata dalle altre clausole, per ren-
dere chiara, trasparente ed immediata l’informazione » sia con riguardo « al-
la evidenza grafica della informazione, che deve avere caratteri grafici eguali
o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento » (29).
Dall’altro versante, la nullità, come si è detto, non è più quella di ieri (30).
Di certo in ragione dello statuto che il diritto positivo ne va riscrivendo nel
segno di nullità necessariamente parziali, a legittimazione relativa, varia-
mente sanabili e che hanno fatto parlare la dottrina di veri e propri « rimedi
di regolamento », in grado di gestire e controllare genesi e fisiologia del ne-
gozio, in funzione « demolitoria e dissuasiva, ma anche e soprattutto
conformativa e costruttiva del profilo prescrittivo dell’agire privato » (31).
Ma altresì con riguardo al modello spiccatamente rimediale che ne va
costruendo la giurisprudenza comunitaria. Il principio, per esempio, di re-
cente affermato dalla Corte Europea di Giustizia, che il giudice nazionale
abbia l’obbligo di esaminare d’ufficio la natura della clausola e di disappli-
carla ove ne accerti l’abusività, tranne nel caso in cui il consumatore vi si op-
ponga – quando cioè il consumatore, dopo essere stato avvisato dal giudice,
non intenda invocarne la natura abusiva e non vincolante, il tutto nel segno
di « garantire l’effetto utile della tutela cui mirano le disposizioni della Di-
rettiva » (32) – cos’altro delinea se non la possibile efficacia, e per di più ex
uno latere, del contratto nullo?
Ebbene, quando questa (nuova) nullità incontra la (nuova) forma, l’esito

(29) Cass., 3 ottobre 2003, n. 14762, in Contratti, 2004, con commento di Genovese, Dirit-
to di recesso e regole d’informazione del consumatore, a proposito di contratto di vendita porta
a porta che, se concluso mediante sottoscrizione di una nota d’ordine, deve riportare le infor-
mazioni sul diritto di recesso « separatamente dalle altre clausole contrattuali e con caratteri
tipografici uguali o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento » (art. 47 c.
cons.). Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Bergamo 10 maggio 2005, in Contratti, 2006, p.
600, con nota di Vigoriti, L’obbligo di chiarezza e comprensibilità nei contratti dei consumato-
ri e le conseguenze della sua violazione; e, ancor prima, Trib. Vigevano, decr. 6 giugno 2003, in
Studium iuris, con nota di Girolami.
(30) Scalisi, Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Europa e dir. priv.,
2001, p. 496. Cfr. inoltre Orlandi, Autonomia e sovranità, ne Il diritto europeo dei contratti fra
parte generale e norme di settore, a cura di Navarretta, Milano, 2007, p. 188 ss. Per un quadro di
insieme assai documentato: Mantovani, La nullità e il contratto nullo, in Tratt. del contratto,
cit., IV, I Rimedi, a cura di Gentili, p. 155 ss.
(31) Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 849.
(32) Corte giust. Ce, 4 giugno 2009, causa C-243/08, in Contratti, 2010, p. 1115, con com-
mento di Monticelli, La rilevabilità d’ufficio condizionata della nullità di protezione: il nuovo
“atto” della Corte di Giustizia.
22 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

appare ancor più sorprendente, presentandosi le nullità formali come le più


speciali tra le nullità speciali. Relatività della legittimazione ad agire legata
esclusivamente ai difetti di forma (33); nullità dell’intero contratto per assen-
za di una indicazione di contenuto (34); inedite tecniche di integrazione e so-
stituzione di clausole non formalizzate (35); conservazione parziale degli ef-
fetti prodotti dal contratto ma solo se il vizio è di forma (36); nullità del con-
tratto per carenze formali del documento informativo (37); intercambiabilità
dei rimedi, con la previsione dello ius poenitendi in alternativa alla nullità in
presenza di lacune nel testo contrattuale normativamente determinato (38):
l’elenco potrebbe allungarsi (e coinvolgere ipotesi non direttamente legate a
regole di fonte comunitaria: si pensi alla « conversione » giudiziale della lo-
cazione orale) (39) ma basta per segnalare quanto distante sia il panorama
normativo descritto dalle pur scarne linee tracciate nel codice civile.
Si è sostenuto, condivisibilmente, che il neoformalismo rappresenta
una tecnica di governo dell’autonomia privata con funzioni per certi versi
analoghe a quelle che per i prodotti alimentari svolge l’etichettatura: come
questa, a prescindere dal merito degli elementi indicati, consente all’acqui-
rente di comparare il prodotto con gli altri immessi nel mercato, allo stesso
modo il documento contrattuale contenente le informazioni richieste
conforma il contenuto regolamentare del singolo atto e permette di parago-
narlo con altri predisposti da altri operatori (e non è un caso, per anticipare
ciò che diremo dopo, che la Corte di Cassazione si esprima nel senso della
nullità del contratto di fornitura di merci le cui etichette risultino prive del-
le indicazioni richieste, per contrarietà a norme imperative) (40).

(33) Cfr. per es. l’art. 127 T.U.B. a norma del quale le nullità che possono essere fatte vale-
re solo dal cliente sono esclusivamente quelle previste nel titolo IV, che sono tutte variamen-
te riconducibili a carenze di ordine formale. In proposito, Pret. Bologna, 4 gennaio 1999, in
Corr. giur., 1999, p. 600 ss., con nota di Gioia, Nullità di protezione tra esigenze di mercato e nuo-
va cultura del contratto conformato.
(34) Art. 76, c. cons.; art. 30 T.U.F.
(35) Il riferimento è ancora alla disciplina del T.U.B. ed al peculiare meccanismo ivi deli-
neato all’art. 117, comma 7°, lettera b.
(36) Art. 2, comma 1°, l. 192/1998.
(37) Art. 30 T.U.F., su cui v. Trib. Bologna, 19 aprile 2009, n. 2107 in Corr. mer. 2009, p.
1075, con nota di Bruno, Offerta fuori sede e ‘‘nullità’ di protezione’’ per omessa comunicazione
del diritto di recesso, e App. Milano, 10 giugno 2009, in www.ilcaso.it, doc. n. 2771/2009, en-
trambe inclini ad una interpretazione estensiva della regola di cui all’art. 30, seppure da profi-
li differenti. Cfr. altresì art. 100bis T.U.F.
(38) Art. 73, comma 2°, c. cons.
(39) Art. 13, comma 5°, l. 431 del 1998.
(40) Cass. 18 luglio 2003, n. 11256, in Contratti, 2004, p. 237, con commento di Sanvito,
Prodotto senza scadenza e nullità del contratto.
DIBATTITI 23

È sul libero gioco della concorrenza che le regole di forma incidono, al


di là delle discipline antitrust che reggono in modo diretto la materia; se-
gnatamente nella versione di griglia di clausole obbligatoriamente inserite
nel documento sì da attuare la strategia di conformazione dei regolamenti
negoziali (41), determinando di questi non un’uniformazione nei contenuti
(in senso sostanziale), quanto piuttosto nelle comunicazioni/informazioni
che, attraverso il testo contrattuale, devono essere fornite. Ciascun opera-
tore rimane libero di « riempire » la griglia come crede, ma deve rendere vi-
sibili le proprie scelte, a tutela, insieme, del libero e consapevole dispiegar-
si dell’autonomia privata del suo partner contrattuale, e del corretto svol-
gersi delle relazioni di mercato, in regime di concorrenza (42).
Il vincolo formale in genere, e nella variante forma-contenuto massi-
mamente, inocula così nell’atto di autonomia elementi di governo del mer-
cato, assecondando l’esigenza di certezza delle regole su cui da sempre ri-
posa il funzionamento di questo. Ne rappresenta però la versione aggiorna-
ta, segnata dal superamento di un tipo di regolazione giuridica fondata su
norme imperative autoritative a vantaggio di una regolazione « dal basso »,
che passa per la standardizzazione e la gestione degli strumenti (43).
In tale prospettiva, protezione (del contraente debole) e controllo (sul
contenuto « formale » del contratto) non si elidono a vicenda, ma vanno ap-
prezzati nel più ampio quadro di politica del diritto – tipica delle discipline
di matrice europea - che fa di ogni operazione la specola attraverso cui sag-
giare l’efficienza del mercato e nel quale le regole di forma svolgono un ruo-
lo essenzialmente strumentale, al pari di tutte le regole del diritto del mer-
cato che è, da questo angolo, « diritto degli strumenti » e non degli scopi (44).
Si vuole allora oggettivizzare il regolamento contrattuale (per ridurre lo
spazio di operatività dei vizi del consenso ed agevolare la verifica preventi-

(41) Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 498. Nello stesso senso, Chinè, Il diritto comuni-
tario dei contratti, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, XXVI, Il diritto privato dell’Unione eu-
ropea, a cura di Tizzano, Torino, 1999, p. 627.
(42) Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività, cit., p. 41.
(43) Alla base, un fenomeno per cui il mercato non è più inteso come una prassi « ma co-
me un modello (al quale conformare la prassi degli scambi) e, in quanto tale, è stato accredi-
tato di una funzione politica, quella di garantire quel che la politica prima garantiva »: così
Barcellona, I nuovi controlli sul contenuto del contratto e le forme della sua etero integrazione:
Stato e mercato nell’orizzonte europeo, in Europa e dir. priv., 2008, p. 37.
(44) Irti, L’ordine giuridico del mercato, Bari, 1998, p. 69. Nello stesso senso Sirena, L’in-
tegrazione del diritto dei consumatori nella disciplina generale del contratto, in Riv. dir. civ., 2004,
p. 792 ss.; E. Gabrielli, Mercato, concorrenza e operazione economica, in Rass. dir. civ., 2004,
p. 1044; Camardi, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei
contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, in Europa e dir. priv., 2001, p. 715.
24 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

va del rispetto delle condizioni legali, cui consegue una semplificazione dei
criteri giudiziali di valutazione nonché una decisa riduzione della conflit-
tualità) e conformarlo a standard predeterminati (standardizzazione che as-
sicura che « tutti i contratti siano soggetti a fondamentali regole condivise
da tutti gli interlocutori » (45) e favorisce la comparabilità delle offerte sul
mercato).

2. – Prescrizioni di forma del contratto tra norme organizzative e norme impe-


rative
Ce n’è abbastanza, insomma, per chiedersi se i caratteri e le funzioni ap-
pena descritti ed il ricorrente abbinamento ad una nullità « speciale » non
facciano della nuova forma qualcosa di assai lontano dal vestimentum che il
codice impone per i negozi inclusi nel catalogo dell’art. 1350 c.c.
La tradizione, è noto, colloca le regole di forma ad substantiam fra le
norme « organizzative » (o « qualificative » o « ordinative ») a voler indicare
che esse si limitano a descrivere la fattispecie, individuando gli elementi cui
è ricondotta la produzione di effetti (46). Pur condividendo con le imperati-
ve il carattere della inderogabilità, la loro violazione non dà luogo ad illi-
ceità, ma ad un negozio che, semplicemente, è nullo (rectius inesistente),
perché non perfezionatosi (47).
La diversa natura delle due classi di norme è consacrata del resto nel-
l’assetto topografico dell’art. 1418 c.c., che situa il difetto di « uno dei requi-
siti indicati dall’art. 1325» al comma 2°, mentre riserva al primo la contra-
rietà a norme imperative. Tale sistemazione, come è evidente, stronca sul
nascere ogni tentativo di configurare nullità virtuali quando ad essere viola-
to sia un precetto di forma, in coerenza del resto con il (preteso) principio di
libertà delle forme e con la (altrettanto pretesa) natura eccezionale dei vin-
coli imposti ad validitatem, insuscettibili di applicazione analogica (48).

(45) V. in proposito Grundmann, L’autonomia privata nel mercato interno. Le regole di


informazione come strumento, in Europa e dir priv., 2001, p. 257 ss. Illuminati in tal senso le pa-
gine di Nigro, La legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari: note introduttive,
in Dir. banca e merc. fin., 1992, I, p. 423.
(46) Betti, Teoria generale del negozio giuridico, II ed., rist., Napoli, 1994, p. 12.
(47) Ferrara, Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, II ed., Milano, 1914, p. 17.
Sulla distinzione, più di recente, cfr. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del
contratto, Napoli, 2003, p. 203 ss.
(48) Giorgianni, Forma degli atti, cit., p. 1003. Troppo noto il dibattito sulla crisi del prin-
cipio di libertà delle forme per poterlo riproporre. Ci si limita a segnalare i contributi che han-
no del principio tentato una decisa contestazione, pur con diversità di argomenti e giungendo
a conclusioni variamente radicali: Scalisi, La revoca non formale del testamento, cit., p. 379
DIBATTITI 25

Dunque: la forma quale requisito (eccezionale) la cui carenza non può che
dar luogo ad una nullità strutturale – chiaro derivato della dottrina della fat-
tispecie (49) – assoluta, totale, insanabile, sempre testuale; praticamente in-
solubile il problema della prescrizione di forma sguarnita di sanzione espli-
cita.
Si può davvero ancora ritenere adeguata, alla luce di quanto sin qui det-
to, l’impostazione fondata sul carattere « organizzativo » delle regole di for-
ma quando spostata sul terreno della legislazione nuova? Costellato da pre-
scrizioni formali imperfette che pure invocano una sanzione e nullità con-
traddistinte da una chiara inclinazione manutentiva, si presta il quadro nor-
mativo di recente conio ad essere governato da istituti e meccanismi figli
della logica del codice civile e, anche per questo, connotati da una irriduci-
bile rigidità?
È quanto sostiene, invero, chi ha criticato l’idea, già altrove espressa (50),
che le nuove forme si alienino dal paradigma per così dire classico prima de-
scritto per allocarsi fra le norme imperative di cui al primo comma dell’art.
1418 c.c., con tutte le conseguenze, in termini di nullità virtuale e ratio del-
la norma violata, che ne conseguono.
Si è paventato al riguardo un « (discutibile) iato tra forme ad evidenza
strutturale (rilevanti in termini di nullità testuale, assoluta e definitiva) e
forme standard ad evidenza informativa (serventi una nullità virtuale, rela-
tiva e di pleno iure) » (51), ed il profilarsi di un « assai improbabile » tertium
genus di forma solenne (52).
Ora, in generale, non è nella moltiplicazione delle forme che potrebbe

ss.; Irti, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985, passim; Ferri, For-
ma e autonomia negoziale, in Quadrimestre, 1987, p. 327 ss.; P. Perlingeri, Forma dei negozi e
formalismo degli interpreti, Napoli, 1987, p. 54 ss.; Vitucci, Applicazioni e portata del principio
di tassatività delle forme solenni, in Sudi Giorgianni, cit., p. 821 ss. Sulla necessità di un ap-
proccio funzionale al tema della forma cfr. Di Giovanni, La forma, in Tratt. dei contratti diret-
to da Rescigno e Gabrielli, I, I contratti in generale, a cura di Gabrielli, Torino, 1999, p. 783. Cfr.
altresì, nella stessa direzione, Liserre e Jarach, La forma, in Tratt. dir. priv. diretto da Besso-
ne, XIII, Il contratto in generale, 3, a cura di Alpa, Breccia, Liserre, Torino, 1999, p. 400 ss. Le
dispute italiane spesso si sono richiamate ad alcuni lavori d’oltralpe dei primi anni del vente-
simo secolo, fra cui, per primo, Moeneclaey, De la renaissance du formalisme dans les con-
trats en droit civile et commercial français, th., Lille, 1914, recensito in Italia da Civetta, La ri-
nascita del formalismo nei contratti, in Riv. dir. comm., 1914, p. 971 ss.
(49) Di Majo, La nullità, in Tratt. dir. priv. diretto da Bessone, VII, Torino, 2002, p. 63.
(50) Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, cit., p. 119 ss., spec. p. 264 ss. Sul
punto Calvo, Il risparmiatore disinformato tra poteri forti e tutele deboli, in Riv. dir. proc. civ.,
2008, p. 1448.
(51) Pagliantini, Forma e formalismo nel diritto europeo dei contratti, Pisa, 2009, p. 102.
(52) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 18.
26 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

annidarsi un’incrinatura del sistema: il codice civile conosce già più generi
di forma, in un panorama assai meno compatto di quanto abitualmente si
descriva e nel quale il binomio ad substantiam/ad probationem non esauri-
sce di certo il tema, sufficientemente molteplice, del formalismo negoziale
e delle sue tante funzioni. Soprattutto se, come riteniamo, ci si debba
emancipare dall’idea di un immanente principio di libertà delle forme (53)
laddove né lo scarno enunciato dell’art. 1325 c.c. né l’elenco per nulla esau-
stivo dell’art. 1350 c.c. possono dirsi decisivi per affermare l’eccezionalità
delle forme solenni (54).
Che un ulteriore « tipo » di forma – con caratteri, rationes ed effetti pro-
pri – faccia ingresso sulla scena appare poi ancor meno eversivo delle cate-
gorie tradizionali ove si abbia riguardo al polimorfismo che interviene inne-
gabilmente a connotare la dimensione tutta postmoderna del contratto (55).
È vero che il « farsi » di un atto formale sempre si traduce in un « dover
farsi », e che, nella variegata gamma di forme vincolate che l’ordinamento
propone, soltanto quella ad substantiam descrive il farsi del contratto in
quanto elemento partecipante alla sua « ossatura strutturale » (56). Ma è pur
vero – questo è il punto – che, ben prima della forma, è proprio tale ossatu-
ra « strutturale » ad essere mutata, tanto da non risultare più (del tutto) so-
vrapponibile al paradigma della fattispecie che campeggia nel codice civi-
le (57); e che, a monte, modificate appaiono le cadenze del rapporto tra or-
dinamento ed autonomia dei privati: la regolare formazione dell’atto nel
senso dell’aderenza al modello legalmente precostituito nei suoi requisiti
essenziali, dentro un mercato che si suppone già strutturato, tipica del co-
dice, lascia il passo adesso, dentro un mercato in perenne via di struttura-
zione, ad una preminente esigenza di conformazione del regolamento ne-
goziale.
Si tratta di una trasformazione che la dottrina ha descritto come passag-

(53) Il cui fondamento è da rintracciarsi negli echi del dogma volontaristico e nella conse-
guente equivoca identificazione tra « atto » e « forma » ch’esso presuppone: Santoro Passa-
relli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 9° ed., rist., p. 135.
(54) Sia consentito, sul punto, il riferimento a Modica, Vincoli di forma e disciplina del
contratto, cit., p. 4 ss.
(55) Benedetti, Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1998, p. 27. Cfr. altresì Addis, Diritto comunitario e “riconcettualizzazione” del diritto dei con-
tratti: accordo e consenso, in Obbligazioni e Contratti, 2009, p. 869.
(56) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 19, che richiama Irti, Replica ai difensori de-
gli idola libertatis, in Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997, X.
(57) Sulla peculiarità che le regole di struttura manifestano nel diritto europeo in forma-
zione cfr. Breccia, La parte generale fra disgregazione del sistema e prospettive di armonizza-
zione, ne Il diritto europeo dei contratti, cit., p. 82 ss.
DIBATTITI 27

gio da una « logica decontestualizzante e astraente, generale e uniformante,


propria della tecnica “fattispecie-effetti”, funzionale e ubbidiente solo ai
noti principi cardine del diritto privato moderno: soggetto del diritto unico
e astratto, principio di uguaglianza in senso soltanto formale », ad una
« realtà molto più articolata, complessa e plurale » entro la quale « la logica
della fattispecie appare ormai decisamente inadeguata e fuorviante » ed il
suo oltrepassamento « diviene una necessità » (58).
Di « perdita della fattispecie » (59) si discorre dunque per segnalare il ra-
dicale superamento del modello proprio della concezione codicistica, fon-
dato sulla descrizione dei requisiti cui la norma ricollega certi effetti giuridi-
ci; mentre sempre più domina, nel diritto privato di derivazione comunita-
ria, il « regolamento » e la sua conformazione nel quadro di una strategia vol-
ta a garantire un’efficiente regolazione del mercato aperto e in libera con-
correnza.
Una strategia conformativa che, ci pare, si muove lungo una duplice di-
rettrice: quella « nullità funzione » che sta « in diretto ed immediato rappor-
to di congruenza e di corrispondenza con un determinato assetto di interes-
si » (60); e quei vincoli di forma che – segnatamente nella versione di docu-
mentazione di una griglia di clausole necessaria e trasparente – assicurano
tendenziale fungibilità dei contratti e degli operatori (61) in chiave di innal-
zamento della concorrenzialità di un mercato inteso quale esito (ma anche
misura) delle singole contrattazioni (62).
Perciò si è detto che il necessario formalismo del contratto altro non è
che il necessario formalismo del mercato (63): la forma assicura regolarità,
uniformità, prevedibilità, tipizzazione dei contenuti, certezza di interpreta-
zione (64). Ed in questo senso si può condividere l’idea che i contratti diven-
tino sempre più « strutture formali, messe a disposizione delle parti, che le
usano e riempiono » (65).
Ma il riferimento alla « struttura », per quanto suggestivo, rischia di ri-
manere ambiguo, poiché il formalismo di nuova generazione è tutto fuor-
ché replica – solo maggiormente pervasiva – della forma-requisito la cui
mancanza condanna l’atto ad una nullità assoluta e demolitoria, sempre più

(58) Scalisi, Il diritto europeo dei rimedi: invalidità e inefficacia, cit., p. 847.
(59) De Nova, I singoli contratti: dal Titolo III del Libro IV del c.c. alla disciplina attuale, in
Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Milano, 1995, p. 507.
(60) Scalisi, Nullità e inefficacia, cit., p. 499.
(61) Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività, cit., p. 20 ss.
(62) Barcellona, Diritto, sistema e senso. Lineamenti di una teoria, Torino, 1996, p. 359.
(63) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 57.
(64) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 54.
(65) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 54.
28 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

piegandosi invece a presidiare il rispetto delle regole attraverso cui l’ordina-


mento controlla contenuto e compiutezza del contratto (66).
Se si concorda con tale ragionamento, non c’è spazio per questa forma,
e per le sue finalità, fra le norme organizzative di cui al secondo comma del-
l’art. 1418 c.c., soprattutto quando si tratti di delinearne il trattamento san-
zionatorio.
Sembrano avvedersene adesso anche i giudici di merito. Il Tribunale di
Torino ha ritenuto soddisfatto il requisito della forma scritta previsto per il
contratto relativo alla prestazione di servizi finanziari in quanto esibito in
giudizio dall’intermediario, ancorché lo stesso non l’avesse sottoscritto (67).
Parrebbe d’acchito riproporsi il congegno, certo non nuovo, con cui la
giurisprudenza, piuttosto univocamente, afferma la possibilità di sanare
giudizialmente la nullità del contratto privo della forma richiesta ad validi-
tatem ammettendo che il contraente che non abbia sottoscritto possa co-
munque perfezionare l’atto mediante la sua produzione in giudizio al fine
di farne valere gli effetti contro l’altro contraente (68).
Sennonché, nel caso di specie, ad esibire il documento (sottoscritto so-
lo dalla controparte) non è l’attore ma l’intermediario convenuto, il quale,
per difendersi, oppone il documento firmato dal cliente. Con ciò sovverten-
do la pacifica (69) regola pretoria; che risulta sì applicata, ma a parti rovescia-
te (70).

(66) Alessi, Consensus ad idem e responsabilità contrattuale, ne Il contratto e le tutele. Pro-


spettive di diritto europeo, a cura di Mazzamuto, Torino, 2002, p. 120.
(67) Trib. Torino 23 novembre 2009, in Giur. it. 2010, p. 604.
(68) V. per es. Cass., 11 marzo 2000 n. 2826, in Contratti, 2000, p. 1093, con nota di Timpa-
no, La produzione in giudizio come equipollente della sottoscrizione.
(69) Ma non in dottrina: cfr. le perplessità di Sacco, La forma, in Tratt. dir. priv. diretto da
Rescigno, 10, Obbligazioni e Contratti, II, Torino, 2002, p. 301.
(70) Così Cottino, La responsabilità degli intermediari finanziari. Un quadro ben delinea-
to: con qualche novità e corollario, in Giur. it., 2010, p. 608. Il rovesciamento di cui si discorre
deriva dalla circostanza che nella citazione (atto unilaterale recettizio) e nella procura che la
accompagna – e dunque in atti propri dell’attore – si rintraccia la manifestazione di volontà
idonea al perfezionamento formale dell’accordo: la volontà di « concludere » il contratto sa-
rebbe così manifestata mediante un documento preparato a fini non contrattuali ma a fini
processuali, e redatto non dalla parte personalmente ma dal suo difensore munito di procura.
Si segnala altresì il contrasto che la sentenza del Tribunale torinese determina rispetto al
ricorrente dictum della Cassazione secondo cui impedisce la formazione giudiziale del docu-
mento la circostanza che l’altra parte abbia revocato il proprio consenso (Cass., n. 4921 del
2006, in Giur. it., 2006, p. 2292). Sulla base di tale argomento la conclusione di Trib. Torino, 5
febbraio 2010, in www.ilcaso.it, doc. n. 2193/2010, ad avviso del quale « la mancanza di forma
scritta (cui non può neppure supplire la prova per testi o per presunzioni) non può essere in al-
cun modo emendata o sanata dalla produzione in giudizio da parte della banca convenuta del
DIBATTITI 29

Altrove è sulla scorta della ratio del vincolo formale che si fonda la deci-
sione. Affrontando un’identica situazione processuale e concludendo nel
medesimo senso, un secondo giudice (71) motiva la scelta avendo riguardo
alla peculiare funzione che il requisito di forma sarebbe chiamato a svolgere
nella commercializzazione di strumenti finanziari: « dare certezza, nel pre-
minente interesse del cliente, dell’autorizzazione data alla banca a svolgere
un determinato servizio di investimento e, altresì, del tipo di servizio di in-
vestimento che la banca si impegna a offrire e delle informazioni di base sul
servizio e sui suoi costi ». In altre parole, si continua, « la forma scritta si po-
ne come veicolo certo di un flusso di informazioni dall’intermediaria al clien-
te e dal cliente all’intermediaria, del mandato del cliente alla banca di ese-
guire dietro suoi ordini investimenti in strumenti finanziari ».
In ciò la peculiarità del vincolo di cui all’art. 23 T.U.F. che, in quanto «di
protezione per il cliente », « si discosta dalla tradizionale distinzione di forma
scritta ad substantiam o ad probationem ».
Più che la mera reiterazione del procedimento della formazione giudi-
ziale del documento, è dunque l’adattamento delle norme alla complessiva
situazione di interessi a rilevare, come ulteriormente dimostrato dalla circo-
stanza che ai fini della decisione determinante appare che l’intermediario,
dopo il contratto, con il suo comportamento abbia dimostrato di avervi aderi-
to (72).
Così intesa la ratio dell’art. 23, T.U.F., la censura autorevolmente mossa
per cui « il fine informativo che l’obbligo di redazione per iscritto doveva ab
origine soddisfare si realizzerebbe ex post con il deposito del fascicolo della
parte convenuta in causa » (73) è destinata a perdere rilievo. Poiché, se è la

contratto quadro di negoziazione, posto che l’incontro delle volontà può dirsi perfezionato
solo se la parte del processo che ha sottoscritto il contratto al momento della produzione non
abbia già manifestato la revoca del proprio consenso, volontà di revoca che deve essere indivi-
duata nella domanda con la quale l’investitore deduca appunto la nullità del contratto per man-
canza della forma di cui si discute ».
(71) Trib. Novara 2 novembre 2009, in Giur. it., 2010, p. 606: il requisito della forma scritta
previsto dall’art. 23 T.U.F. a sanzione di nullità del contratto quadro per la prestazione di ser-
vizi di investimento è soddisfatto « anche se il modulo contrattuale è firmato dal solo cliente
e non dalla banca ». Sui problemi legati ai percorsi giurisprudenziali di individuazione dei ri-
medi nel caso di violazioni formali nell’ambito di contratti finanziari v. da ultimo Bertolini,
Risparmio tradito: una riflessione tra teoria generale del contratto e disciplina dei mercati, in
Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 344 ss.
(72) Contra Trib. Torino, 5 febbraio 2010, cit.: « il fatto che le parti abbiano dato corso ad
investimenti, dando di fatto attuazione al contratto quadro di negoziazione, non vale a rime-
diare al vizio della mancanza di forma scritta del contratto medesimo poiché il contratto nul-
lo non può essere in alcun modo convalidato o sanato » (fb).
(73) Cottino, La responsabilità degli intermediari finanziari, cit., p. 608.
30 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

trasmissione di informazioni chiare e complete a contare davvero, la sola


assenza della firma – che nel sistema delineato dal codice soddisfa il requi-
sito imposto a fini costitutivi fondando la presunzione juris tantum di con-
senso del sottoscrittore al contenuto del documento (74) – non osta alla rea-
lizzazione di siffatta funzione (75). Il celebrato fenomeno della « crisi della
sottoscrizione » – che la dottrina aveva inizialmente descritto come il pro-
gressivo scioglimento del rapporto tra firma autografa e testo scritto tipico
dell’uso esclusivo dell’apparato tecnico caratterizzante l’economia moder-
na (76) – si pone dunque sotto una luce nuova tutte le volte in cui l’essenzia-
le è che il contratto contenga e diffonda nel mercato una serie predetermi-
nata di informazioni: rispetto a tale necessità la sottoscrizione dell’impresa
non aggiunge nulla all’obiettivo informativo (rectius conformativo) ove la
provenienza dell’offerta sia comunque certa (77).
La digressione rispetto al tema iniziale della « natura » delle regole di
forma è solo apparente. La messa a fuoco delle finalità che documento e
scrittura assolvono nel nuovo contesto, e che le decisioni appena citate va-
lorizzano, segna infatti il tratto di discontinuità più evidente tra negozio so-
lenne del codice civile e formalismo di più recente conio. Il cui carattere
« imperativo », e non più « organizzativo », va delineandosi con sufficiente

(74) Cass., 24 gennaio 1995, n. 801, in Mass. Giust. civ., 1995, p. 130.
(75) Patti, Documento, in Dig., Disc priv., sez. civ., Torino, 1991, p. 4 ss.
(76) Irti, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico, cit., pp. 25, 74 ss.
(77) Lener, Forma contrattuale, cit., p. 22. Vale la pena segnalare in proposito anche Cass.
3 novembre 2008, n. 26422, in Obbligazioni e Contratti, 2009, 11, p. 902, con commento di Bru-
ni, Uno per tutti e tutti per uno: al gruppo di viaggiatori basta una sola sottoscrizione per l’acqui-
sto di un pacchetto turistico. La vicenda può così essere riassunta: Tizio si reca, insieme ad al-
tri due amici, presso la Sempronio s.r.l. per prenotare un viaggio per il quale viene versato un
acconto. Successivamente Tizio conviene in giudizio, dinanzi al Giudice di Pace di Napoli, la
Sempronio s.r.l. per far dichiarare la nullità del contratto per difetto di forma scritta, addu-
cendo di non aver sottoscritto il contratto, firmato da un altro dei partecipanti, e di non avere
ricevuto copia del contratto o di altro opuscolo informativo. Il giudice di pace, con sentenza
resa secondo equità, conferma la validità del contratto accertando che, pur essendo stato sot-
toscritto da un solo partecipante, la sottoscrizione è avvenuta alla presenza degli altri che non
hanno manifestato il proprio dissenso rispetto alle condizioni del contratto rappresentate. La
Corte di Cassazione condivide simile decisione e precisa che qualora più persone intendano
effettuare, negli stessi giorni, una vacanza insieme non concludono tanti contratti individua-
li ma un unico contratto, acquistano così un unico pacchetto turistico di cui tutte risultano be-
neficiarie. Ciò comporta che il contratto possa essere sottoscritto da un solo contraente e che
sia indifferente la mancata coincidenza tra il sottoscrittore ed il soggetto che abbia versato
l’acconto per il viaggio. Assai interessante notare che né la prima né la seconda pronuncia si
pongono il problema di verificare a monte se il contratto di vendita di pacchetto turistico sia
assistito o non da una forma ad substantiam, dando del tutto per scontata la soluzione affer-
mativa pur nel silenzio delle norme.
DIBATTITI 31

chiarezza: se la funzione « ordinativa » bene descrive una forma che deter-


mina la valida formazione della fattispecie guardata solo nel momento sta-
tico del suo perfezionarsi, essa è destinata ad uscire di scena allorché il vin-
colo giochi un ruolo decisivo nell’opera di conformazione del negozio e del
rapporto che ne scaturisce, sempre più alienandosi dal rigido binomio for-
ma(requisito)-nullità(strutturale).
È ancora in questa ottica allora che dovrà configurarsi « certamente im-
perativa » (78) la norma che impone la redazione per iscritto del contratto di
vendita di pacchetto turistico senza esplicitarne la sanzione – a meno di non
volerle attribuire una portata elusivamente programmatica e nell’impossi-
bilità di attribuirle valenza probatoria, stante il principio della eccezionalità
delle forme ad probationem (79).
Poiché qui sta, a ben vedere, l’impasse cui non si sottrae l’adesione al
necessario abbinamento vizio di forma strutturale/nullità testuale: se il vin-
colo di forma o è « strutturale » o non è, le prescrizioni di cui abbondano le
discipline di fonte comunitaria, riferite al momento genetico della forma-
zione del contratto, si riducono a niente di più che raccomandazioni di un
legislatore quanto meno sprovveduto, secondo un trend clamorosamente
incurante dell’effetto utile.
Dall’imperatività della norma discenderà dunque la nullità del contrat-
to che violi siffatto precetto di forma quale contratto « contrario a norme
imperative »: nullità (formale) virtuale ex art. 1418 c.c., la quale, per realiz-
zare efficacemente gli obiettivi cui le regole di forma sono volti, dovrà esse-
re anche (virtualmente) relativa.
Non è certo questa la sede per affrontare funditus il profilo da ultimo
evidenziato. Ci si limita a rilevare per il momento, con la migliore dottrina,
che se la norma imperativa è posta a protezione di uno dei contraenti « nel-
la presunzione che il testo contrattuale gli sia imposto dall’altro contraen-
te », una soluzione che non fosse in grado di modulare la sanzione sul con-
creto regolamento di interessi « potrebbe piuttosto nuocere che giovare al
contraente che il legislatore intende proteggere » (80).

(78) Roppo, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimme-
tria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Riv. dir. priv., 2001, p. 773,
con riferimento all’art. 85, comma 1°, c. cons. Sulla questione v. Sicchiero, Nullità per ina-
dempimento?, in questa rivista, 2006, p. 369.
(79) Montesano, Questioni attuali su formalismo, antiformalismo e garantismo, in Riv. dir.
proc. civ., 1990, p. 12; Lener, Forma contrattuale, cit., p. 170.
(80) De Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 451. V.
altresì Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, p. 122 ss.; Passagnoli,
Nullità speciali, Milano, 1995, p. 235 ss.; D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del
contratto, Padova, 2008, p. 152. Critico rispetto alla configurabilità di nullità virtuali di prote-
zione Pagliantini, Nullità virtuali di protezione?, in Contratti, 2009, p. 1040 ss.
32 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Qualificare la nullità, testuale o virtuale che sia, come « di protezione » è


allora esito obbligato in virtù del singolare atteggiarsi dei vincoli di forma
(nonché della loro del tutto peculiare rilevanza strutturale) e del ruolo asse-
gnato nel nuovo contesto alle nullità speciali. Una volta individuate le fun-
zioni delle nuove forme, ricondurre alla loro mancanza una nullità tradizio-
nale tradirebbe gli obiettivi che quelle funzioni perseguono, poiché il con-
gegno conformativo regge e raggiunge il suo scopo solo se alla forma fa da
pendant una nullità relativa; che attribuisce all’aderente « arbitro » del mer-
cato il potere di rendere non vincolante il contratto non illuminato dal-
l’informazione, ma che ne consente altresì il mantenimento – in coerenza
con quel favor contractus che può dirsi autentico fil rouge della legislazione
nuova (81) – ove ciò risulti maggiormente congruente con i suoi concreti in-
teressi. Esito che del resto bene s’iscrive entro un segmento normativo or-
mai consolidato il quale, pur attraverso la mera reiterazione – in larga misu-
ra imputabile tuttavia, almeno nel diritto interno, ai limiti di coordinamen-
to dei testi che lo compendiano – fa delle regole in tema di nullità di prote-
zione l’espressione di un principio generale (82).

3. – Destrutturazione della forma


Ci si è fin qui mossi su di un terreno che, per quanto ricco di spunti ec-
centrici, rimane tutto sommato familiare al civilista: redazione per iscritto
del contratto, sottoscrizione, nullità, rimandano comunque al formalismo
tradizionale, pur se oggi percepito in un contesto di progressiva « destruttu-
razione » della forma.
Destrutturazione che, con conseguenze ancor più difficilmente rintrac-
ciabili in punto di rimedi, è destinata a prospettarsi ulteriormente: assai me-
no rassicurante diventa infatti il quadro quando si tratti di valutare le riper-
cussioni del difetto di forma che si sostanzi non in una totale mancanza di
vestimentum (un contratto che si vuole formale e che le parti concludono
oralmente), bensì in una carenza nel testo scritto di singole informazioni o
menzioni che ex lege dovrebbero figurarvi oppure in una scarsa « qualità »
del documento quanto alla sua concreta intelligibilità (83).

(81) De Nova, Dal principio di conservazione al favor contractus, in Clausole e principi ge-
nerali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni ottanta, a cura di Cabella Pisu e Nanni,
Padova, 1998, p. 306.
(82) Modica, Vincoli di forma e disciplina del contratto, cit., p. 207 ss.
(83) Trib. Rimini, 18 dicembre 2006, in Contratti, 2007, p. 893, con nota di Guerinoni,
Clausola di ripensamento non trasparente e nullità del contratto di investimento, dichiara nullo
il contratto di collocamento fuori sede di prodotti finanziari in ragione della circostanza che la
SAGGI 33

Le regole di forma invero si diversificano entro una gamma che trascor-


re da più o meno originali riformulazioni della forma scritta a pena di nullità
del contratto alle rigide prescrizioni di forma/contenuto con la predetermi-
nazione legale di ciò che deve esservi indicato in vista di una tendenzial-
mente esaustiva individuazione delle prestazioni e del contenuto normati-
vo del contratto; fino alla richiesta presenza di talune informazioni, dichia-
razioni, comunicazioni che contribuiscono ad una più compiuta compren-
sione delle caratteristiche dell’affare o dello scambio anche al fine di meglio
identificare le aree di responsabilità delle parti (e non è un caso che terreno
di elezione di simili interventi sia la commercializzazione di strumenti fi-
nanziari).
Sul primo versante, si è già accennato come la necessaria inserzione di
una serie di elementi nel testo contrattuale sia uno dei tratti più originali
delle nuove forme. Discipline le più varie (ma tutte connotate da un’asim-
metria di potere contrattuale fra le parti (84): franchising, multiproprietà,
pacchetti turistici, vendita di immobili da costruire, credito al consumo,
ecc.) prevedono invero che la redazione per iscritto (a pena di nullità) del
contratto non si limiti agli elementi « essenziali » – beninteso, nel senso del-
la tradizione – ma si estenda all’intero regolamento, il quale dovrà risultare
compiutamente ed esclusivamente dal testo scritto (85).
Assai di rado simili prescrizioni sono assistite da una sanzione testuale,
ed il più delle volte la sorte del contratto difettoso quanto a (forma)conte-
nuto diventa per l’interprete un vero e proprio rompicapo.
In particolare, la soluzione di ritenere violata in questi casi la prescrizio-

clausola che consente al cliente di recedere entro sette giorni (da inserirsi nel contratto a pe-
na di nullità relativa ex art. 30 T.U.F.) non è opportunamente evidenziata.
(84) La formula « contratto asimmetrico », coniata con successo in dottrina, individua un
nuovo paradigma contrattuale – al di là della distinzione fra contratti dei consumatori e con-
tratti fra imprese – il cui proprium si individua nel fronteggiarsi di « due soggetti di mercato ca-
ratterizzati da una significativa asimmetria di potere contrattuale: asimmetria che, per il fatto
di derivare precisamente dalle rispettive ‘fisiologiche’ posizioni di mercato, si presenta come
asimmetria di tipo per l’appunto fisiologico e non patologico »: così Roppo, Parte generale del
contratto, contratti del consumatore e contratti asimmetrici, ne Il diritto europeo dei contratti,
cit., p. 306. L’impostazione è criticata da chi ribadisce la necessaria separatezza fra contratti
dei consumatori e contratti fra imprese, i quali ultimi configurerebbero un paradigma a sé,
compendiabile nella locuzione « terzo contratto »: cfr. Amadio, L’ipotesi del terzo contratto,
ne Il diritto europeo dei contratti, cit., p. 329 ss.; Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte ge-
nerale. Contratti di impresa e disciplina della concorrenza, ivi, p. 355 ss. Sul punto cfr. altresì Ca-
mardi, Contratti di consumo e contratti tra imprese. Riflessioni sull’asimmetria contrattuale nei
rapporti di scambio e nei rapporti ‘reticolari’, in Riv. crit. dir. priv., 2005, p. 549 ss.
(85) In un modo per cui, come nota Lener, Forma contrattuale, cit., p. 15, « la realtà non è
solo tradotta nelle “indicazioni obbligatorie”: essa è ridotta al loro contenuto ».
34 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ne di forma ad substantiam prevista genericamente per il contratto e farne


discendere l’applicazione del relativo rimedio (in termini, si è visto, di una
nullità pur relativa dell’intero atto) appare ai più sovradimensionata rispet-
to alla natura del vizio ed alle finalità delle norme coinvolte (86).
Si suggerisce allora di distinguere caso per caso a seconda della essen-
zialità o meno dell’elemento mancante, ricorrendo all’integrazione della la-
cuna e dunque attingendo alla disciplina legale quando il difetto non inter-
ferisca con uno dei requisiti appartenenti al novero di cui all’art. 1325 c.c. e
non comprometta (ma alla luce del diritto « primo ») la validità dell’atto (87).
La proposta, convincente e praticabile nell’ottica tradizionale, non ap-
pare però del tutto in linea con le indicazioni provenienti dal panorama nor-
mativo entro cui ci muoviamo, che, ci pare, manifesta una decisa tendenza
a considerare « essenziale » tutto il regolamento, ed a rivestire della forma
(ad validitatem) anche elementi che nella prospettiva del codice civile es-
senziali non sarebbero.
A conferma una triplice indicazione (micro)sistematica. L’assenza di
qualsivoglia spia che consenta di graduare la rilevanza delle informazioni
obbligatorie, tutte volte alla completa determinazione del programma con-
trattuale; l’individuazione, quando esplicitata, della nullità (talora relativa)
dell’intero contratto (88) (in un caso dell’allungamento dei termini per rece-
dere) (89) quale sanzione più acconcia a governo del vulnus formale; l’ine-
quivoca aspirazione alla « onnicomprensività » del testo (90) (rafforzato da
una generalizzata messa al bando della relatio) (91), che assurge dunque a
sede esclusiva di espressione delle condizioni del rapporto (92).
La prescrizione di contenuto – che proprio per questo si tramuta in pre-
scrizione di forma – tende invero ad una integrale e persino minuziosa defi-
nizione di tutti i profili dello scambio e delle regole convenzionali che ne
reggeranno le vicende; dunque ad una compiutezza ed onnicomprensività
del testo in cui tali regole sono consacrate, che il rinvio alla disciplina legale
di per sé vanificherebbe (93).

(86) In questo senso, da ultimo Trib. Venezia 5 novembre 2009, in Contratti, 2010, p. 221
ss., con nota di Sangiovanni, Obbligazioni Lehman Brothers e tutele degli investitori.
(87) In questo senso, per esempio, Minervini, Le regole di trasparenza nel contratto di
subfornitura, in Giur. comm., 2000, p. 229 ss.; De Poli, Asimmetrie informative e rapporti con-
trattuali, Padova, 2002, p. 246.
(88) Art. 76, c. cons.; art. 125bis, comma 8°, T.U.B.
(89) Art. 73, comma 2°, c. cons.
(90) Art. 86, c. cons; art. 125bis, comma 5°, T.U.B.
(91) Art. 23, T.U.F.; art. 117, comma 6°, T.U.B.
(92) Masucci, La forma, cit., p. 589.
(93) Degna di rilievo appare in questa prospettiva Trib. Benevento 23 marzo 2010, in
SAGGI 35

Semmai, in taluni casi, è un’integrazione mediante disciplina conven-


zionale che può venire in rilievo – sul modello delineato dagli artt. 116 e 117,
T.U.B. – per il tramite di quell’attitudine integrativa dei documenti precon-
trattuali che siano omologo antecedente della prescrizione di forma-conte-
nuto del contratto e che, ove completi, siano talvolta idonei a colmare le la-
cune del documento contrattuale atteggiandosi a veri e propri segmenti del-
l’offerta (94). Profilo, questo, che ci si limita a segnalare, con ampio rimando
alla letteratura in tema (95).
Non giova d’altro canto il riferimento alla nullità parziale di cui all’art.
1419 c.c. ed al meccanismo ivi delineato al primo comma. Il rinvio al crite-

www.ilcaso.it. doc. n. 1171/2010: posto che nel piano finanziario di cui l’investitore chiede la
nullità per una serie di carenze formali finanziamento e acquisto di titoli mobiliari sono col-
legati da un legame inscindibile, se ne fa discendere che la mancata indicazione del TAEG
non può essere integrata mediante l’inserzione automatica del tasso sostitutivo di cui all’art.
124, comma 5°, lettera a) T.U.B. in quanto: « il mutamento del tasso di interesse con l’appli-
cazione di quello sostitutivo, influenzerebbe, modificandoli, altri elementi essenziali dell’opera-
zione negoziale espressamente determinati dalle parti, quale l’importo e il numero delle rate
mensili da rimborsare, oltre a stravolgere il complessivo contenuto economico dell’operazio-
ne finanziaria; per cui si presenta nel caso concreto inammissibile l’applicazione automatica
del tasso sostitutivo, derivando dalla stessa non semplicemente gli effetti voluti dalla norma
imperativa, bensì effetti del tutto diversi, che possono dipendere solo dalle pattuizioni delle
parti ». Come nota De Nova, I contratti di oggi e la necessità di un elenco condiviso di divieti e di
clausole vietate: a proposito di armonizzazione del diritto europeo dei contratti, ne Il diritto euro-
peo dei contratti, cit., p. 451: « se il contratto di ieri era un contratto che produce effetti [. . .] e
per il resto era disciplinato dalla legge, che garantiva l’uniformità, il contratto di oggi è confor-
me ad un modello, il che garantisce l’uniformità, ed è un contratto che non solo produce ef-
fetti, ma altresì regola un rapporto, disapprova le sopravvenienze, regola i rimedi. Non un
contratto che vuole la disciplina legale, bensì un contratto che non vuole (non vorrebbe) es-
sere regolato dalla legge ».
(94) Si rimanda sul punto alle acute riflessioni di Alessi, I doveri di informazione, in Ma-
nuale di diritto privato europeo, II, cit., p. 403 ss.
(95) Il tema dell’informazione precontrattuale e delle sue ricadute sul regolamento con-
trattuale è stato ed ancora è al centro di un vivacissimo dibattito. Senza alcuna pretesa di com-
pletezza, e limitandoci ai contributi di taglio generale, oltre agli aa. già citati, si veda: Nazza-
ro, Obblighi di informare e procedimenti contrattuali, Napoli, 2000; Moscarini, Diritti ed obbli-
ghi di informazione e forma del contratto, in Diritto privato ed interessi pubblici, I, Milano, 2001,
p. 350 ss; Rossi Carleo, Il diritto all’informazione: dalla conoscibilità al documento informati-
vo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 349 ss.; Gentili, Informazione contrattuale e regole dello scambio,
in Riv. dir. priv., 2004, p. 575 ss.; Roppo, L’informazione precontrattuale: spunti di diritto italia-
no e prospettive di diritto europeo, in Riv. dir. priv., 2004, p. 747 ss.; Febbrajo, L’informazione in-
gannevole nei contratti del consumatore, Napoli, 2006; Grisi, Informazione (obblighi di), in Enc.
giur., XIV, Agg., Roma, 2006, p. 16 ss.; Gallo, Asimmetrie informative e doveri di informazione,
in Riv. dir. civ., p. 641 ss.
36 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

rio intenzionale cui il codice subordina la salvezza del contratto appare qui
del tutto fuori contesto, come dimostra la scelta esplicitamente compiuta in
materia di clausole abusive nel senso di una nullità necessariamente parzia-
le, preclusiva di ogni percorso interpretativo volto alla ricostruzione di una
ipotetica volontà delle parti.
Neppure dirimente sarebbe una lettura della norma in termini antivo-
lontaristici, incentrata sulla perdurante attualità – verificata in termini del
tutto oggettivi – del contratto residuo rispetto all’assetto d’interessi origina-
rio: la questione tornerebbe a risolversi nella (oggettiva) valutazione di es-
senzialità o meno dell’elemento mancante in relazione alla causa in con-
creto, in un contesto però in cui lo screening di ciò che è « essenziale » è ope-
rato a monte dal legislatore e dunque trasferito fuori dall’ambito di rilevan-
za dell’interesse dei contraenti.
Il fenomeno della eterodeterminazione del contenuto appare invero in-
conciliabile con la logica stessa che innerva l’art. 1419 c.c. che è la logica, ti-
pica del codice civile, della parità fra contraenti, egualmente liberi nella de-
terminazione del contenuto del contratto e nella scelta fra conservazione o
caducazione (96). Nella contrattazione uniforme, al contrario, è la disparità
(di potere contrattuale) al centro della scena, e ciò reclama l’originaria stan-
dardizzazione e completezza dei documenti, rendendo pressoché inutile
un giudizio volto alla verifica del diverso peso della clausola nulla (assente)
nel singolo affare.
Ritenere il difetto di contenuto – che sia veicolato da una prescrizione di
forma ad substantiam dell’intero contratto e che non possa sanarsi mediante
il riferimento a informazioni, scritte, fornite in sede precontrattuale – san-
zionato alla stregua del difetto di forma tout court, appare allora soluzione,
certo dura, ma, come si è detto, tutt’altro che giuridicamente infondata (97).
Ad essa viene l’adesione di una recente decisione di merito.
Chiamato a pronunciarsi intorno ad un contratto di multiproprietà
mancante di alcuni degli elementi che il codice del consumo impone, il Tri-
bunale di Bologna ne ha dichiarato la nullità precisando che l’acquirente, in
assenza delle necessarie indicazioni, non è posto in grado, mediante l’esame
della modulistica predisposta dalla controparte, di conoscere con esattezza
l’oggetto del contratto ed il tenore dell’obbligazione assunta (98).
Rispetto ad un contratto in cui non compaia la menzione del periodo di
tempo durante il quale può essere esercitato il diritto nascente dal contrat-

(96) Mazzamuto, Brevi note in tema di conservazione o caducazione del contratto in dipen-
denza della nullità della clausola abusiva, in questa rivista, 1994, p. 1098.
(97) Roppo, Contratto di diritto comune, cit., p. 774.
(98) Trib. Bologna, 19 gennaio 2009, in Obbligazioni e Contratti, 2009, p. 751.
SAGGI 37

to e la data a partire dalla quale l’acquirente può avvalersene, non potrebbe


parlarsi – continua il giudice di merito – di determinabilità dell’oggetto, poi-
ché quest’ultima sussiste se ed in quanto le parti si siano accordate onde
procedere alla sua specificazione e prevedendo i criteri da seguire e le mo-
dalità da osservare a tale fine, non essendo sufficiente il riferimento a circo-
stanze concernenti la fase di esecuzione del contratto: ciò infatti – si badi –
vanificherebbe la prescrizione concernente la forma scritta, sanzionata con la
conseguenza della nullità.
Potrebbe obiettarsi che nel caso di specie l’elemento mancante interfe-
risce già con il requisito dell’oggetto e che quindi alla nullità si sarebbe co-
munque dovuti giungere per le rassicuranti vie della disciplina generale. Ma
la pronuncia ha il pregio di evidenziare la forte compenetrazione che tra for-
ma ed oggetto si determina; e si tratta, come subito chiariremo, di intuizio-
ne rilevante.
Che dire infatti di prescrizioni come quelle che impongono nel contrat-
to scritto di vendita del pacchetto turistico l’indicazione del « tipo di posto
assegnato » (art. 86, lettera g, c. cons.) o nel contratto di multiproprietà le
condizioni di utilizzazione del servizio di raccolta rifiuti (art. 71, comma 2°,
che richiama il 70 lettera e, c. cons.)?
Simili indicazioni, certamente, sporgono rispetto all’area tradizional-
mente coperta dall’oggetto.
Ma, di nuovo: come non fare i conti con una, a sua volta mutata, nozio-
ne di oggetto, sempre più coincidente con la descrizione della situazione fi-
nale?
Anche la disciplina dell’oggetto è interessata da una torsione verso sco-
pi lato sensu protettivi « nella misura in cui impone ai contraenti di “descri-
vere” non solo le prestazioni oggetto del contratto, ma anche talvolta le lo-
ro modalità, affinché vi sia – nell’interesse della parte che si reputa esposta
a possibili abusi – maggiore certezza di ciò che da essa è dovuto e che ad es-
sa si può chiedere » (99). E questo oggetto è veicolato da una prescrizione di
forma, rispetto alla quale solo il rimedio della nullità dell’intero contratto
evidentemente asseconda, munendola di vestimentum, una generale quan-
to inedita regola di necessaria determinatezza (100). La nullità è però rime-
dio ad un vizio di forma e, dunque, sebbene colpisca l’intero contratto, (te-
stualmente o virtualmente) relativa.
Non ci si può nascondere che si tratti di esito carico di controindicazio-

(99) E. Gabrielli, Teoria e dogma dell’oggetto del contratto, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 346.
(100) Gitti, L’oggetto del contratto e le fonti di determinazione dell’oggetto nei contratti d’im-
presa, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 25; Senigaglia, L’oggetto del contratto tra determinabilità e ne-
cessaria determinatezza, in Contratti, 2005, p. 853 ss.
38 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ni, potenzialmente dannoso per il contraente « protetto »: l’alternativa tra il


prendere o lasciare che la nullità totale (pur relativa) postula, spesso lo con-
danna al silenzio, privandolo di quella libertà e di quel potere che la norma
violata intendeva assicurargli, mentre l’effetto protettivo, si sostiene, « non
sta in sé nella distruzione del contratto ma nella sua modifica » (101).
Ci si imbatte qui nella contraddizione propria, ed ineliminabile, di una
strategia di regolazione del mercato, e dei rapporti « asimmetrici » che vi si
determinano, mediante strumenti contrattuali; la quale, ove apprezzata al
netto del retorico e spesso fuorviante richiamo al « contraente debole », ri-
vela una più autentica vocazione alla strutturazione del libero mercato, ta-
lora inaspettatamente riducendo all’osso i margini di correzione e/o rine-
goziazione (102).

4. – (segue) Vincoli di forma con finalità informativa tra nullità e responsabi-


lità: il difficile dialogo tra Sezioni Unite e Corti di merito
Lo scenario si fa ancor meno nitido quando la machinery forma/conte-
nuto/informazione tenda ad irrigidire in un vincolo formale taluni profili
che propriamente attengono al flusso di comunicazione trasparente che si
vuole intercorra tra professionista e contraente non qualificato.
Che la questione abbia una carica assai più dirompente di quanto si pen-
si e sia lontana dal trovare sistemazioni definitive è confermato dalla circo-
stanza per cui il tanto celebrato punto apposto in proposito dalle Sezioni
Unite della Cassazione si è rivelato tutt’altro che fermo. A testimoniarlo gli
esiti cui giungono ancora i giudici di merito i quali, invece di adeguarsi al-
l’intervento nomofilattico del dicembre 2007 (103), continuano a subire il fa-
scino della nullità (virtuale).

(101) Gentili, Nullità annullabilità inefficacia (nella prospettiva del diritto europeo), in
Contratti, 2003, p. 205. Sulla possibilità di usi strumentali degli obblighi informativi cfr. Sar-
tori, Autodeterminazione e formazione eteronoma del regolamento negoziale. Il problema del-
l’effettività delle regole di condotta, in www.ilcaso.it, doc. n. 159/2009.
(102) L’idea che vi sia spazio nel nostro ordinamento per un obbligo di rinegoziazione, nel
silenzio della legge discendente dal dovere di buona fede, suscita comprensibili perplessità in
dottrina e comunque, se appare in principio idonea ad una gestione successiva di profili con-
tenutistici, siano essi normativi o economici, difficilmente si attaglierebbe quale rimedio alla
mancanza di forma/contenuto/informazione, la cui funzione è peraltro significativamente ri-
ferita, dalle scelte normative, al momento genetico del contratto. In materia cfr. Barcellona
e Meli, Il mutamento delle circostanze e l’obbligo di rinegoziazione, in Manuale di diritto priva-
to europeo, cit., p. 521 ss.; Macario, Le sopravvenienze, in Tratt. del contratto, cit., V, 2, Rimedi,
a cura di Roppo, p. 493 ss.
(103) Cass., Sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Corr. giur., 2008, p. 25 ss., con com-
mento di Mariconda, L’insegnamento delle sezioni unite sulla rilevanza della distinzione tra
SAGGI 39

Il Tribunale di Ravenna, dopo aver affermato la – invero non pacifica (104)


– riferibilità dell’obbligo di forma scritta (previsto, a pena di nullità dell’art.
23, T.U.F., per il « contratto quadro ») anche ai singoli ordini di acquisto, fa
conseguire la nullità del contratto di investimento dalla mancata segnala-
zione dell’inadeguatezza dell’operazione, configurando l’obbligo di cui al-
l’art. 29 reg. Consob n. 11522 (105) come requisito di forma a fini di validità e,

norme di comportamento e norme di validità; in Contratti, 2008, p. 221 ss., con commento di
Sangiovanni, Inosservanza delle norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità; in
Giust. civ., 2008, I, p. 2785 ss., con nota di Febbrajo, Violazione delle regole di comportamento
nell’intermediazione finanziaria e nullità del contratto: la decisione delle sezioni unite; in Giur.
comm., 2008, II, p. 612 ss., con nota di Bruno e Rozzi, Le Sezioni Unite sciolgono i dubbi sugli
effetti della violazione degli obblighi di informazione; in Danno e resp., 2008, p. 536 ss., con note
di Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza Rordorf, e Bonaccorsi, Le Sezioni
Unite e la responsabilità degli intermediari finanziari; in Nuova giur. comm., 2008, I, p. 445 ss.,
con nota di Salanitro, Violazione della disciplina dell’intermediazione finanziaria e conse-
guenze civilistiche: ratio decidendi e obiter dicta delle sezioni unite; in Foro it., 2008, I, p. 785 ss.,
con nota di Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanzia-
rio e le sezioni unite. Cfr. altresì le osservazioni critiche di Prosperi, Violazione degli obblighi di
informazione nei servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass., Sez.un., 19 di-
cembre 2007, nn. 26724 e 26725), in questa rivista, 2008, p. 936 ss. Prende l’avvio dalla decisio-
ne citata per sondare le innervature sistematiche del tema C. Scognamiglio, Regole di vali-
dità e di comportamento: i principi ed i rimedi, in Europa e dir. priv., 2008, p. 599 ss. Cfr. altresì,
sulla stessa posizione delle Sez. un, Cass., 25 giugno 2008, n. 17340, in Giur. it., 2009, p. 4, con
nota di Fiorio, La non adeguatezza delle operazioni di investimento al vaglio della Corte di Cas-
sazione. La sentenza attribuisce alla necessità che l’inadeguatezza sia segnalata per iscritto va-
lenza probatoria: l’intermediario non potrà provare per testimoni l’adempimento di tale ob-
bligo informativo. Ma è interessante notare che, così ricostruito il dovere di segnalare la non
adeguatezza dell’operazione, ne esce sensibilmente ridimensionata la differenza tra nullità e
responsabilità con riferimento alla prova del nesso di causalità. Qualora infatti l’investitore al-
leghi a prova dell’inadempimento la mancata segnalazione scritta della non adeguatezza del-
l’operazione, non dovrà anche provare il nesso tra inadempimento e danno in quanto la re-
sponsabilità sussiste per la stessa violazione dell’obbligo di astensione (Cass., Sez. un., 19 di-
cembre 2007, n. 26724, in Contratti, 2008, p. 229). Sul punto v. Maffeis, Discipline preventive
nei servizi di investimento: le Sezioni Unite e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono
nere, in Contratti, 2008, p. 403.
(104) Sul problema della forma degli ordini: La Rocca, La forma degli ‘ordini di borsa’ (a
proposito di App. Venezia 19 novembre 2007), in www.ilcaso.it, doc. n. 124/2008; Della Vedo-
va, Sulla forma degli ordini di borsa, in Riv. dir. civ., 2010, 2, p. 161. Per un ampio inquadra-
mento sistematico v. Galgano, I contratti di investimento e gli ordini dell’investitore all’inter-
mediario, in questa rivista, 2005, p. 889.
(105) Regolamento Consob n. 11522 del 24 febbraio 1998, art. 29, rubricato « operazioni
non adeguate »: 1. Gli intermediari autorizzati si astengono dall’effettuare con o per conto de-
gli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. 2. Ai
fini di cui al comma 1°, gli intermediari autorizzati tengono conto delle informazioni di cui al-
40 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

insieme, norma di carattere imperativo dalla cui violazione non può che de-
rivare la nullità ex art. 1418, comma 1°, c.c. (106).
In altra pronuncia, pure successiva a quella delle Sezioni Unite e pure
dichiarativa dell’invalidità dell’ordine privo di esplicito riferimento alle av-
vertenze ricevute dall’investitore, la nullità – che la Cassazione, nell’antece-
dente immediato della pronuncia a Sezioni Unite, aveva escluso circoscri-
vendo la rilevanza del vizio all’ambito di applicazione degli articoli 1394 e
1395 c.c. (107) – è così spiegata: « l’art. 29 del regolamento Consob 11522/
1998 non ha stabilito una semplice regola di comportamento o responsabi-
lità, ponendo a carico dell’intermediario l’obbligo di informare l’investitore
dell’inadeguatezza dell’operazione e delle ragioni che ne sconsigliano l’at-
tuazione, ma ha introdotto una vera e propria regola di validità del contrat-
to di acquisto dello strumento finanziario, un elemento costitutivo del me-
desimo »; e poiché « le disposizioni contenute nel T.U.F. e nel suo regola-
mento attuativo, essendo poste a tutela di interessi pubblicistici anche di
rango costituzionale [. . .] sono norme imperative ai sensi dell’art. 1418,
comma 1°, c.c. », la loro violazione non può che dar luogo a nullità(108).
Ciò che più rileva, e d’acchito sorprende, nella pronuncia adesso citata è
che la soluzione della nullità per contrasto col primo comma dell’art. 1418

l’art. 28 e di ogni altra informazione disponibile in relazione ai servizi prestati. 3. Gli interme-
diari autorizzati, quando ricevono da un investitore disposizioni relative ad una operazione
non adeguata, lo informano di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno proce-
dere alla sua esecuzione. Qualora l’investitore intenda comunque dare corso all’operazione,
gli intermediari autorizzati possono eseguire l’operazione stessa solo sulla base di un ordine
impartito per iscritto ovvero, nel caso di ordini telefonici, registrato su nastro magnetico o su
altro supporto equivalente, in cui sia fatto esplicito riferimento alle avvertenze ricevute. L’ob-
bligo in parola, anche noto come suitability rule, previsto originariamente all’art. 6, comma 3°,
reg. Consob. n. 10943/1997, successivamente riprodotto senza modifiche di rilievo all’art. 29,
reg. Consob n. 11522/1998, adesso abrogato ad opera del reg. n. 16190/2007 con il quale è sta-
ta attuata la dir. Ce. 2004/39/ (MIFID), trova ancora frequente applicazione presso i giudici di
merito chiamati a valutare il rispetto degli obblighi di informazione imposti agli intermediari
nella negoziazione degli strumenti finanziari precedenti al novembre 2007. In argomento, cfr.
Roppo, Sui contratti del mercato finanziario, prima e dopo la MIFID, in Riv. dir. priv., 2008, p.
503 ss.
(106) Trib. Ravenna, 12.10.2009, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 456 ss., con nota di
Guadagno, Inadeguatezza e nullità virtuale; Trib. Bologna, 2 marzo 2009, in www.ilcaso.it,
doc. 1662/2009.
(107) Cass., 29 settembre 2005 n. 19024, in Danno e resp., 2006, p. 25, con commento di
Roppo e Afferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della Cassazione su
nullità virtuale e responsabilità precontrattuale. Sulla rilevanza dei vizi della volontà nel con-
tratto di investimento: Albanese, Regole di condotta e regole di validità nell’attività d’interme-
diazione finanziaria: quale tutela per gli investitori delusi?, in Corr. giur. 2008, p. 107 ss.
(108) Trib. Ferrara, 28 gennaio 2010, in www.ilcaso.it, doc. 2051/2010.
SAGGI 41

c.c. viene espressamente definita coerente con quelle stesse sentenze della
Cassazione che un simile esito avevano decisamente rifiutato.
Coerenza che in effetti si rivela assai meno improbabile di quanto appaia
prima facie. Ed invero, affermare, come fa la Corte di legittimità nella pro-
nuncia del 2005, che « la nullità virtuale ex art. 1418, comma 1°, c.c., opera
solo quando la contrarietà a norme imperative riguardi elementi intrinseci
del contratto, e cioè struttura e contenuto del medesimo » e, pertanto, salvo
che il legislatore disponga diversamente, « va esclusa quando contrari a nor-
me imperative siano comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattati-
ve o durante l’esecuzione del contratto » (109), significa per l’appunto am-
mettere, a contrario, che la violazione di norme imperative che attengano ad
elementi di struttura o contenuto – ma, c’è da credere, diversi da quelli che
già figurano al comma 2° dell’art. 1418 c.c., pena un’irragionevole sterilizza-
zione del comma 1° – possa dar luogo a nullità (virtuale) del contratto (110).
E ciò senza che ne risulti messo in discussione il principio secondo cui,
in difetto di una esplicita previsione normativa, la violazione di doveri di
comportamento attinenti alla informazione del cliente e alla corretta esecu-
zione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati in
nessun caso può determinare la nullità del contratto quadro né dei singoli
ordini ai sensi del primo comma art. 1418 c.c. (111). A patto di ammettere, ov-
viamente, che le regole di cui si discute non sono regole di comportamento,
almeno nella nozione esatta che se ne deve assumere.
Poiché infatti tutte le regole giuridiche sono regole di comportamento, e
tali devono dunque considerarsi anche le cosiddette « regole di validità », è
evidente che non è nella sua estensione letterale che l’espressione può esse-
re utilmente impiegata (112).
Si tratta invero del punto centrale della questione. L’equivoco che sta al-
la base della pronuncia delle Sezioni Unite – ma anche delle conclusioni di
taluni autori – si annida, riteniamo, nell’approccio stesso al tema delle « re-
gole di comportamento », che si vorrebbero come tali contrapposte alle « re-
gole di validità »; e che ha come corollario una rigida ed insovvertibile corri-
spondenza biunivoca tra (violazione della) regola di comportamento e re-
sponsabilità e (violazione della) regola di validità e nullità, ed una altrettan-
to rigida non comunicabilità fra le due « coppie » che si vorrebbe scolpita
nell’impianto codicistico (113). Il tutto a presidio del generale principio di

(109) Cass., 29 settembre 2005, n. 19024, cit.


(110) Alessi, I doveri di informazione, cit., p. 440 ss.
(111) Cass., 19 dicembre 2007, cit.
(112) Così D’Amico, Nullità virtuale-Nullità di protezione (Variazioni sulla nullità), in Con-
tratti, 2009, p. 735.
(113) Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 9:
42 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

certezza del diritto che nella delicata materia dell’invalidità degli atti di au-
tonomia invoca l’applicazione di regole dal contenuto definito e predeter-
minato (114), rispetto alle quali « si giustifica una costruzione di carattere lo-
gico-formale » (115) in quanto portatrici della essenziale funzione di « garan-
tire la certezza sull’esistenza di fatti giuridici » (116).
Se è questa la ratio, le regole di validità vanno contrapposte non – come
prospettato dalla Suprema Corte, con argomentazione che da questo profi-
lo lascia a desiderare – a generiche e non meglio definite « regole di compor-
tamento », ma – specie quando si abbia riguardo alla fase genetica e non ven-
gano in evidenza direttamente le prestazioni dedotte in obbligazione – a re-
gole rispetto alle quali una medesima costruzione di carattere logico-forma-
le non opera, e non potrebbe operare, perché risultanti dalla concretizzazio-
ne di una clausola generale, come tale non formalizzabile a priori (117).
L’antinomia, « essenziale alla disciplina degli atti del traffico » (118), è
piuttosto da rintracciare tra regole di validità e regole di buona fede: per
« regola di comportamento » dovrà intendersi « regola di mero comporta-
mento », ovverosia regola di correttezza/buona fede o altra regola generale
di (mera) condotta (ragionevolezza, trasparenza, ecc.) (119). Dalla violazione
delle quali non potrà farsi discendere una conseguenza invalidante, per sod-
disfare l’esigenza – di ordine « politico », prima ancora che sistematico (120)

« In nessun caso comunque, secondo la dogmatica del nostro c.c., la violazione del dovere di
buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per danni » (cor-
sivo nostro).
(114) Di Majo, La Nullità, cit., p. 91.
(115) Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, p. 156.
(116) Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., p. 118. Castronovo, Un contratto per
l’Europa. Prefazione all’edizione italiana dei principi di diritto privato europeo dei contratti, Par-
te I e II, Milano, 2001, XXXIV, nota come far passare il giudizio di invalidità attraverso la vio-
lazione della regola di buona fede « significa spostare la qualificazione dal terreno legislativo
a quello giudiziale, con un aggravio sul piano della certezza del rapporto, sicuramente più gra-
ve di quello che la concretizzazione della clausola generale può avere quando sia adoperata in
funzione integrativa cioè su un tronco che sussiste a prescindere da essa sicché, per così dire,
essa può aggiungere o togliere un ramo, l’albero restando fuori discussione ». Per una diversa
autorevole impostazione Galgano, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, in
questa rivista, 1997, p. 423.
(117) D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto,
in Riv. dir. civ., 2002, p. 43.
(118) Pietrobon, Errore, volontà e affidamento, cit., VII. Ma v. in proposito le osservazioni
di Vettori, Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir.
priv., 2003, p. 241 ss.
(119) Così, pressoché testualmente, D’Amico, Nullità virtuale, cit., p. 735.
(120) D’Amico, Nullità virtuale, p. 736 (nota 12).
SAGGI 43

– di legare il giudizio di invalidità ad un superiore criterio di legalità (121).


La questione si risolve allora nello stabilire se le disposizioni di cui par-
liamo si collochino fra le regole di mero comportamento, la cui violazione
non può valicare il confine dei rimedi risarcitori, ovvero possano essere
qualificate come norme (imperative) la cui violazione può dar luogo alla
nullità (virtuale) del contratto.
Posto infatti che l’esclusione della nullità per violazione di obblighi le-
gali (di informazione nel contratto o di redazione del testo scritto) mai po-
trà essere giustificata – come invece fanno le Sezioni Unite – con « la mera
considerazione » che detti obblighi « costituiscono delle “regole di compor-
tamento”, e che per questa ragione la loro violazione non può essere sanzio-
nata con la invalidità del contratto » (122), è pur vero che non la violazione di
qualsivoglia norma imperativa dà luogo a nullità.
Due a questo punto i nodi da sciogliere.
Rispetto al primo, senza poter indugiare oltre in questa sede (123), ci pa-
re si possa affermare con una certa sicurezza che le norme impositive di ob-
blighi informativi (nel contratto), requisiti grafici, specifiche menzioni ecc.
non sono regole di buona fede. Non che rispetto ad esse l’interprete si trovi di
fronte una secca alternativa esistenza/inesistenza, dovendo anche qui com-
piere, come in qualsiasi attività interpretativa, un’operazione valutativa non
meramente cognitiva; tuttavia questa si svolgerà sulla base di parametri che
lo stesso legislatore ha provveduto a formalizzare massimamente, ex ante.
In un clima, peraltro, nel quale si fa piuttosto chiara la spinta verso la stabi-
lizzazione dell’operazione conforme al modello legale e verso la compres-
sione del potere giudiziale di amministrare clausole generali (124), e più net-
ta la polarizzazione sul testo « onnicomprensivo » che di per sé esclude un
richiamo a caratteri extratestuali ed extralegali propri del giudizio di buona
fede (125).
Norme come quelle prima citate non si risolvono in un generico dovere
di diligenza o correttezza, ma indicano minuziosamente criteri, modalità,
tempi, luoghi del facere. Non si rivolgono al destinatario dicendo: « com-
portati diligentemente »; piuttosto: « (poiché devi comportarti diligente-
mente) è necessario che tu scriva x, con caratteri y, inserisca la dizione z,

(121) D’Amico, Nullità virtuale, p. 736.


(122) D’Amico, Nullità virtuale, cit., nota 17.
(123) Sia consentito rinviare nuovamente a Modica, Vincoli di forma e disciplina del con-
tratto, cit., p. 119 ss.
(124) Mazzamuto, Il problema della forma nei contratti di intermediazione mobiliare, in
questa rivista, 1994, p. 45.
(125) Di Majo, Clausole generali e diritto delle obbligazioni, in Riv. crit. dir. priv., 1984, p.
542.
44 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ecc. ». Ben lungi dunque dall’integrare una clausola generale quale « forma
di fattispecie che descrive con grande generalità un ambito di casi e li con-
segna alla valutazione giuridica »; per rispondere invece perfettamente al
criterio della « costruzione casistica » quale « conformazione della fattispe-
cie legale (intesa come complesso dei presupposti che condizionano la di-
sposizione legislativa di conseguenze giuridiche), tale che descriva i singoli
gruppi di casi nella loro specifica particolarità » (126).
Alla stregua del percorso ricostruttivo sopra illustrato può dirsi che – e
siamo al secondo profilo – almeno in generale, l’esito invalidante appare
giustificato.
Perché dalla violazione della norma imperativa possa derivare la nullità
del contratto è necessario invero – stabilisce il comma primo dell’art. 1418
c.c. – che la legge non « disponga diversamente ». Sintagma dal « contenuto
dilemmatico » (127), cui assumiamo di attribuire, con molta ed autorevole
dottrina, il significato di esclusione della nullità in base alla ratio della norma
imperativa violata, vale a dire tutte le volte in cui la nullità appaia soluzione
irragionevole rispetto agli obiettivi perseguiti dalla regola disattesa (128).
Si potrebbe obiettare che delegare all’interprete l’apprezzamento della
congruenza del rimedio rispetto alle finalità della norma violata significhe-
rebbe vanificare quella « fuga dai giudici » che abbiamo individuato come
tratto caratterizzante la legislazione nuova e che sta a fondamento del pro-
cesso di formalizzazione delle condotte di cui si è detto.
Il rilievo è destinato però quanto meno a ridimensionarsi ove solo si ri-
fletta sul tasso di indeterminatezza tipico della clausola di buona fede ri-
spetto al tasso di indeterminatezza tipico delle norme della cui violazione si
discute.
Poiché il potere del giudice è inversamente proporzionale alla determi-
natezza delle regole che è chiamato ad applicare, ed anche l’individuazione
della ratio di una norma è tanto meno discrezionale quanto più la stessa è
determinata; e, ancora, poiché le discipline in commento si caratterizzano
per un alto grado di determinatezza, ci sembra destinato a svanire il timore
di far rientrare dalla finestra ciò che si era cacciato dalla porta.
Allora la questione può così riproporsi: è la nullità rimedio congruente
rispetto alla ratio dei vincoli formali di nuova generazione?

(126) Engisch, Introduzione al pensiero giuridico, Milano, 1970, pp. 192-193, cui si riferisce
anche la citazione precedente.
(127) Di Majo, La nullità, cit., p. 82.
(128) Così Carraro, Il contratto in frode alla legge, Padova, 1949, p. 149 (nota 9); De Nova,
Il contratto contrario a norme imperative, cit., p. 440; Villa, Il contratto contrario a norme impe-
rative, cit., p. 78; Passagnoli, Nullità speciali, cit., p. 43; Mantovani, La nullità e il contratto
nullo, cit., p. 47.
SAGGI 45

Se « forma ad substantiam » non è più mera e generica scrittura ma re-


dazione per iscritto « qualificata », sottoposta a certe condizioni (predeter-
minate dal legislatore), torna a prospettarsi l’interrogativo del contratto di-
fettoso in punto di forma, in uno dei tanti profili in cui questa si sostanzi; la
quale, però, ha già una risposta nel sistema, nei termini sopra annunciati
dell’individuazione del rimedio alla carenza di forma nella nullità (testuale
o virtuale).
Prescrizioni come quelle di lingua, adozione di determinati caratteri
grafici, inserzione di verba solemnia, indicazioni puntuali, sono componen-
ti del più generale vincolo di forma – connotazioni vincolate del vincolo,
potrebbe dirsi – e come tali devono essere presidiati, riteniamo, dalla me-
desima sanzione prevista in generale per il difetto di forma scritta (129).
Il problema dunque non è se la violazione dia luogo a nullità, ma a qua-
le nullità dia luogo la violazione. Quando la regola di controllo dell’autono-
mia privata si proponga di intercettare ed azzerare squilibri di potere con-
trattuale mediante forma, essa necessariamente esige adattamenti del rime-
dio invalidante; o meglio: in ragione della mutata sua rilevanza strutturale,
la nuova forma reclama a presidiarla regole flessibili, incompatibili con il
paradigma della nullità assoluta.
Allorché la forma serve ad incanalare l’autonomia privata secondo mo-
duli prefissati, accompagnando e rafforzando il controllo sul contenuto e
così presidiando la regolarità (più che della singola fattispecie contrattuale)
della contrattazione, i rimedi da riconnettere al suo difetto, non privi di
un’attitudine sanzionatoria ma con chiara indole manutentiva, possono
spingersi fino a garantire la sopravvivenza del regolamento il quale, pur di-
fettoso, sia ancora utile per uno dei contraenti, salvo sottrarre alla contro-
parte scorretta la disponibilità degli effetti dell’atto « opaco »: il formalismo
si atteggia a precondizione dell’esercizio del potere di fissazione del regola-
mento che una sola parte detiene, profilandosi dunque come essenzial-
mente asimmetrico; e la carenza di forma condizionerà del contratto, più
che la validità, la vincolatività, che sarà a sua volta asimmetrica.

5. – L’« effetto utile » e l’ibridazione dei rimedi a presidio del vincolo di forma
L’esito ricostruttivo qui prospettato si sviluppa dunque, in sequenza, at-
traverso la: a) contestazione del principio di libertà delle forme; b) accezio-

(129) Non a caso la dottrina ha parlato in proposito, efficacemente, di « obblighi legali di


fattispecie »: Dolmetta, Strutture rimediali per la violazione di « obblighi di fattispecie » da par-
te di intermediari finanziari (con peculiare riferimento a quelli di informazione e di adeguatezza
operativa), in www.ilcaso.it, doc. 83/2007, p. 4.
46 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ne pluralistica della forma quale complessiva morfologia dell’atto; c) distra-


zione delle (nuove) prescrizioni di forma ad substantiam dal consueto alveo
delle norme ordinative; d) collocazione di queste tra le norme imperative;
e) conseguente ammissibilità di nullità formali virtuali; f) valorizzazione
della ratio legis ai fini dell’individuazione della relativa disciplina.
Percorso argomentativo che, ci pare, si sottragga alla critica di condurre
ad un ingiustificato « sovvertimento dei principi generali » (130); a patto, ov-
viamente, che di siffatti principi generali si provi a discorrere alla luce del
quadro normativo attuale.
Senza addentrarci in uno dei temi più centrali e tormentati del diritto
privato contemporaneo – e cioè quello della « tenuta » del sistema retto dal
codice civile e del suo rapporto con (eventuali) microsistemi agenti di uno
strisciante fenomeno di « decodificazione » – la questione pregiudiziale è il
rapporto che s’intende istituire tra disciplina generale del contratto e disci-
pline di settore (131), pur sempre nella consapevolezza che « la scelta fra l’at-
tribuzione alle norme generali di un ruolo fondamentale o di un ruolo resi-
duale dipende da giudizi di valore » (132), come tali sempre contestabili.
Il ragionamento fin qui svolto muove dalla premessa che i settori aven-
ti ad oggetto relazioni negoziali connotate da uno squilibrio di potere con-
trattuale fra le parti abbiano dato vita – per l’effetto di mutamenti che spin-
gono il diritto interno verso l’inserimento entro un ordinamento comunita-
rio, sia pure per successive tappe – ad un corpo normativo sufficientemente

(130) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 104.


(131) Senza alcuna pretesa di completezza: Breccia, Considerazioni sul diritto privato so-
vranazionale fra modelli interpretativi e regole effettive, in Studi in onore di R. Sacco, Milano,
1994, p. 119 ss.; Mengoni, Problemi di integrazione della disciplina dei « contratti del consuma-
tore » nel sistema del c.c., in Studi in onore di Pietro Rescigno, III, Diritto privato, 2. Obbligazio-
ni e contratti, Milano, 1998, p. 535 ss.; Lucchini Guastalla, Sul rapporto tra parte generale e
parte speciale della disciplina del contratto, in Riv. trim. dir proc. civ., 2004, pp. 379 ss. e 871 ss;
Vettori, La disciplina generale del contratto nel tempo presente, in Riv. dir. priv., 2004, p. 313 ss.;
Cian, Contratti, contratti commerciali, contratti d’impresa, in Riv. dir. civ., 2004, I, p. 849; Oppo,
I contratti di impresa tra codice civile e legislazione speciale, ivi, p. 50 ss.; Gorgoni, Regole gene-
rali e regole speciali nella disciplina del contratto: contributo per una ricostruzione sistematica,
Milano, 2005; Castronovo, Diritto privato generale e diritti secondi. La ripresa di un tema, in
Europa e dir. priv., 2006, p. 397 ss.; Patti, I contratti del consumatore nel sistema del diritto civi-
le, ne I mobili confini dell’autonomia privata, Milano, 2005, p. 463 ss.; Tradizione civilistica e
complessità del sistema. Valutazioni storiche e prospettive della parte generale del contratto, a cu-
ra di Macario e Miletti, Milano, 2006; Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme
di settore, a cura di Navarretta, cit.; Diritto civile e diritti speciali. Il problema dell’autonomia del-
le normative di settore, a cura di Plaia, Milano 2008.
(132) Libertini, Alla ricerca del “diritto privato generale” (appunti per una discussione), in
Diritto civile e diritti speciali, cit., p. 271.
SAGGI 47

consolidato, nelle premesse e nelle finalità, in grado ormai di esplicitare


principi generali distinti da quelli desumibili de plano dalla sistematica del
codice e non sempre « figli » di questi, sulla scorta di regole che – in quanto
coerenti con gli obiettivi che tale microsistema animano – si prestano a cir-
colare (analogicamente. estensivamente o in via di interpretazione sistema-
tica, qui poco importa) all’interno dell’ambito normativo in cui si sono ori-
ginate. Sul presupposto che « la forza degli specialismi è data dalla loro ca-
pacità di fornire risposte concrete ad esigenze di autoregolamentazione di
determinati settori “forti” della vita sociale ed economica » (133), rispetto ai
quali una mera riaffermazione di superiorità di rango del « diritto privato
generale » è sempre più, sul piano delle risposte, arma spuntata (134).
La prospettiva in cui ci si pone appare ancor più giustificata – e fors’an-
che necessitata – quando si discuta di rimedi. Perché massimamente in
punto di rimedi, con la fisiologica scompaginazione dei principi (che si vo-
gliono) generali interferiscono due elementi di non scarsa importanza: l’in-
differenza delle fonti comunitarie per il modello di sanzione, ferma restan-
do l’imprescindibilità dell’esistenza ed efficacia di questa; l’inerzia delle
fonti italiane quando si tratti di darvi corpo. Il che solo basterebbe ad incri-
nare le certezze circa la primazia, in questo ambito, delle categorie note.
Il legislatore europeo generalmente tace in punto di rimedi, ed anche
comprensibilmente: in lui non alberga l’idea di « svelare le assonanze tra i
sistemi rilanciandole come cardine del diritto europeo in fieri; piuttosto, ha
di mira precisi obiettivi di riaggiustamento delle regole del mercato ». È
dunque « un legislatore pragmatico che poco si cura delle architetture con-
cettuali e dei raccordi con i diversi sistemi giuridici che procede ad armo-
nizzare » (135), limitandosi a segnalare l’effetto utile da raggiungere e la-
sciando agli Stati membri di prescegliere gli strumenti, in principio anche
differenti, più familiari a ciascuna tradizione (136). The Member States may

(133) Libertini, Alla ricerca del “diritto privato generale”, cit., p. 276,
(134) Ma è evidente, senza essere un paradosso, che, ove muti la premessa valutativa, e si
assuma (come fa per es. Pagliantini, Forma e formalismo, cit., 46) a canone metodologico di
riferimento « lo schema logico diritto privato generale/diritti secondi, nella convinzione che
solo l’intreccio di questi due formanti possa riuscire a dar conto di alcuni dati sistemici impre-
scindibili: la caratura pervasiva del primo, il non essere generale dei secondi » e si decida con-
seguentemente che anche la forma del contratto c.d. europeo « è da costruire sulla scorta dei
principi generali, salvo non ricorrano delle disposizioni speciali [. . .] che ad essi apportino un’e-
spressa eccezione », le conseguenze ricostruttive saranno, internamente coerenti, ma opposte.
(135) Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sul-
la vendita dei beni di consumo, in La vendita dei beni di consumo, a cura di Alessi, Milano, 2005,
p. 321.
(136) Sulla diversità di valori che informa ciascun ordinamento e sul conseguente utilizzo
48 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

use any concept of national contract law which fulfils the required objective
that unfair contract terms should not be binding on the consumer puntualiz-
zava non a caso il Considerando 54 della proposta di direttiva sui diritti dei
consumatori, nella versione inglese (137).
Anche per questo, quando espliciti, gli indici normativi di originaria
matrice comunitaria hanno talvolta delineato soluzioni di primo acchito
fuorvianti, almeno per il giurista italiano. Si pensi all’allungamento dei ter-
mini per esercitare lo ius poenitendi a sanzione di una carenza informativa;
indicazione che la Corte di giustizia ha poi amplificato affermando, in as-
senza di informazione sul diritto di recesso, la recedibilità senza limiti di
tempo – fino alla completa esecuzione – perché solo ad un recesso esercita-
bile sine die può riconoscersi il valore di sanzione immanente allo scopo
quando si tratti di presidiare il diritto all’informazione (138).
In effetti, nelle ipotesi in cui la strategia di controllo sull’atto è affidata
alla trasmissione del flusso informativo, « pur quando il contratto non si
manifesti come immeritevole di tutela, la situazione materiale o lo status in
cui una parte lo ha stipulato induce l’ordinamento a consentire a tale parte
di sciogliere il vincolo, con lo stesso risultato economico che si conseguirebbe
con la nullità » (139).
E proprio lungo questa direttrice si evidenzia come a garantire il pieno
rispetto (e le relative finalità) dei vincoli di forma (ma anche di formazione)
del contratto non potranno che essere rimedi volti alla non vincolatività del
regolamento, rimessa alla decisione del contraente (che aderisce ad un re-
golamento da altri predisposto e che perciò è) protetto (140).

di categorie concettuali spesso assai distanti cfr. Costanza, Spaesamento assiologico, in Euro-
pa e dir. priv., 2006, p. 77 ss.; Giacobbe, Dimensione territoriale e sistema dei valori nel diritto ci-
vile, in Riv. dir. civ., 2006, p. 101 ss.
(137) Varata nel 2008 - Bruxelles, 8 ottobre 2008, COM(2008) 614 final - ma ad oggi rimasta
tale. Il « not be binding » si traduce nella versione italiana, di nuovo non a caso, in « nullità »:
« Gli Stati membri possono usare qualsiasi concetto di diritto contrattuale nazionale che sod-
disfi l’obiettivo prescritto della nullità per le clausole abusive per il consumatore ».
(138) Alessi, I doveri di informazione, cit., p. 404 ss. Sui « modi di uscita » dal contratto nel-
la legislazione europea alla luce degli strumenti dell’analisi economica del diritto cfr. Smorto,
Autonomia contrattuale e tutela dei consumatori. Una riflessione di analisi economica, in Con-
tratti, 2008, p. 730 ss.
(139) Castronovo, Un contratto per l’Europa, cit., XXXVI (corsivo nostro). Sui rapporti fra
recesso in chiave sanzionatoria e annullabilità, cfr. Cherubini, Tutela del « contraente debole »
nella formazione del contratto, Torino, 2005, p. 95 ss.
(140) L’idea che la legge possa prevedere delle forme « la cui adozione non condiziona la
validità del contratto ma la sua vincolatività » è già in Lener, Dalla formazione alla forma dei
contratti su valori mobiliari (prime note sul « neoformalismo » negoziale), in Banca borsa, tit.
cred., 1990, p. 789 (nota 40).
SAGGI 49

Ora, non può disconoscersi quanto si approssimino, in concreto, gli stru-


menti della recedibilità sine die e della nullità relativa, a testimonianza della
cautela con cui l’interprete dovrà accostarsi al tema, persino senza troppo
indulgere alla forza evocativa dei termini, se è vero che la nullità « europea »
ben poco disvela ove si parta dalla nullità della nostra tradizione.
Non si vuole certo affermarne una piena fungibilità, ma non v’è dubbio
che recesso di pentimento impiegato a fini sanzionatori e nullità « di prote-
zione », nell’ottica del legislatore comunitario, raggiungono entrambi, sul
piano pratico, l’effetto utile di rendere non vincolante per l’aderente il con-
tratto non conforme allo schema legale (141).
Si assiste insomma ad una progressiva ibridazione dei rimedi di cui si
avvede ora anche la giurisprudenza di merito.
Chiamato a pronunciarsi sulla portata del terzo comma art. 23 T.U.F., il
quale prevede testualmente che le nullità formali del contratto possano es-
sere fatte valere solo dal cliente, il Tribunale di Verona (142) ragiona in pro-
posito di una forma speciale di annullabilità « rafforzata ». Sulla scorta di ar-
gomenti imperniati sul concreto atteggiarsi degli effetti della sanzione, rile-
va che: l’art. 23, lungi dal negare efficacia al contratto affetto da vizio di for-
ma, ne assicura la piena efficacia, almeno sul versante dell’intermediario,
che resta, comunque, vincolato dal contratto nonché assoggettato all’inizia-
tiva potestativa invalidante del cliente; lo stesso articolo esclude il rilievo of-
ficioso della nullità legittimando il solo investitore, senza limiti di tempo ex
art. 1422 c.c., ad eccepire l’inidoneità giuridica del vincolo invocato dall’in-
termediario; la eclatante atipicità del rimedio suggerisce un parallelo con la
Anfechtung di cui al § 143 BGB (143), e conduce a ritenere anche nel caso spe-
cifico – in aderenza con la natura esplicitamente definita « ibrida » del rime-
dio in esame – sufficiente la denuntiatio del cliente, sì da esonerarlo dall’a-
zione costitutiva propria dell’annullamento in senso stretto.
Appare allora di tutta evidenza « la difficile sovrapponibilità dell’istituto
in esame alla nullità assoluta codicistica che, come è noto, nega ab origine
ogni efficacia giuridica al negozio viziato (quod nullum est nullum producit
effectum) e ne consente il rilievo generalizzato da parte di chiunque ne abbia
interesse, nonché quello officioso del giudice, come riaffermazione cogen-
te e “militare” dell’ordinamento sull’autonomia privata ». Emerge per con-
verso – continua il giudice – « la forte affinità della nullità in esame, almeno
sul piano soggettivo e degli effetti, con l’azione di annullamento di cui all’art.

(141) Sui caratteri del recesso di pentimento v. da ultimo Rende, Il recesso comunitario do-
po l’ultima pronuncia della corte di giustizia, in Riv. dir. civ., 2009, p. 525 ss.
(142) Trib. Verona, 17 aprile 2009, in www.ilcaso.it, doc. n. 1839/2009.
(143) Su cui, di recente, Girolami, Le nullità di protezione nel sistema delle invalidità nego-
ziali. Per una teoria della moderna nullità relativa, Padova, 2008, p. 150 ss.
50 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

1441 c.c. lì dove, al pari di quest’ultima (e ben diversamente dalla generale


legittimazione all’azione di nullità: art. 1421 c.c.), conferisce il relativo dirit-
to potestativo assoluto soltanto a colui nel cui interesse l’annullamento del
contratto è previsto (art. 1441 c.c.) ».
Se ne fa discendere una conseguenza di non poco conto: la convalidabi-
lità del vizio (di forma, a pena di nullità testuale, relativa) del contratto. Si
legge infatti che è proprio la relatività soggettiva del rimedio a consentire il
superamento dell’ostacolo dell’art. 1423 c.c. – « più tecnico che teleologi-
co » – come rivelerebbe la formula aperta della norma « il contratto nullo
non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente ». Invero,
si fa notare, ciò che osta alla convalida del negozio nullo è proprio l’insupe-
rabile incompletezza della platea dei soggetti chiamati di volta in volta ad
esprimere il consenso, « essendo praticamente impossibile individuare a
priori l’area di “chiunque vi abbia interesse” e, in ogni caso, inutile laddove
permanga il potere del rilievo officioso del giudice ».
Diversamente in tema di nullità di protezione: in ragione della sua « re-
latività assoluta » – così pregnante da escludere persino il controllo giurisdi-
zionale officioso – l’individuazione dell’unico soggetto legittimato tanto al-
la convalida espressa che a quella tacita mediante esecuzione volontaria del
negozio nella consapevolezza del vizio è immediata, al pari dell’annullabi-
lità classica.
Nel caso di specie, la circostanza che l’investitore avesse incassato le nu-
merose e fruttuose cedole relative ai titoli acquistati senza lamentare alcun-
ché e senza mostrare perplessità circa l’inadeguatezza dell’investimento,
esprimerebbe in modo implicito, ma pur sempre chiaro ed inequivoco, la
volontà di convalidare tacitamente il negozio annullabile (144).
Ne esce ridimensionato il timore talvolta manifestato in dottrina che in-
travede nella torsione delle categorie un eccesso di tutela a vantaggio del
contraente debole: l’investitore, infatti, cui si riferivano numerose ed in-
genti operazioni della più varia natura, « lungi dal denunciare tutti gli acqui-
sti effettuati negli anni e dal qualificare coerentemente come indebito og-
gettivo ogni pagamento effettuato per essi – tutti attuati entro la medesima
cornice negoziale viziata – ha invece optato per una selezionata contesta-
zione, circoscrivendola ai soli titoli rivelatisi infruttuosi, fermo il resto ».
Ora, « se, da una parte, si può forse convenire sull’equivocità dell’ordine
di acquisto come espressione di validazione consapevole del contratto-qua-
dro “a monte” (l’ordine, di per sé, potrebbe ancora non implicare l’univoca
volontà di voler trarre vantaggio, in senso giuridico, dal contratto viziato),
dall’altro, la volontà di conservare a tutti gli effetti i titoli fruttuosi e le som-

(144) Sulla scorta di Trib. Roma, 5 maggio 2005, in Corr. giur., 2005, p. 1275.
SAGGI 51

me di cui alle numerose e proficue cedole incassate pur sapendo della nul-
lità del contratto-quadro [. . .] sta inequivocabilmente a significare la sim-
metrica volontà di giovarsi di quel contratto ».
Risulta dunque applicato, sebbene implicitamente, il principio nemo ve-
nire contra factum proprium, attribuendo decisivo rilievo al comportamento
che il contraente ha tenuto in epoca successiva alla conclusione del contrat-
to, utilizzato come argomento (non per negare la legittimazione ad agire
ma) per ammettere la « validazione consapevole » del contratto-quadro af-
fetto da un vizio di forma previsto a pena di nullità (relativa).
Il Tribunale precisa, vale la pena citarlo, che simile conclusione consen-
te, come effetto secondario ma assai rilevante, di evitare « il rischio che l’im-
prescrittibilità della nullità esaminata possa favorire [. . .] strategie “a geo-
metria variabile” dell’investitore con portafogli differenziati, volte a far va-
lere ex post la nullità derivata delle sole operazioni negative o insoddisfa-
centi ».
L’escamotage della convalida, in effetti, consente di risolvere (indiretta-
mente ma) in radice il problema tecnico della compatibilità fra relatività
della legittimazione e imprescrittibilità dell’azione, poiché mentre « né l’i-
nerzia né la consapevole esecuzione possono integrare una acquiescenza e
fondare una preclusione soggettiva all’impugnazione » (145), le stesse posso-
no invece, in presenza di determinati indici fattuali, addirittura sanare l’at-
to. Cosicché il contraente non potrà più azionare la nullità per la semplice
ragione che il negozio non è più nullo. E di un negozio valido (convalidato)
nessuno può chiedere la nullità, neanche il contraente che era originaria-
mente legittimato a farlo.
Qui dunque non si assiste ad un impiego della clausola di buona fede a
mo’ di filtro della legittimità del concreto interesse ad agire: la fuga, si è det-
to, prima che dai giudici è dalle clausole generali (146). E più che fare que-
stione di exceptio doli generalis ed occuparsi dell’eventuale uso pretestuoso
dell’azione di nullità (147), si approda ad un risultato che può apparire tran-

(145) Gentili, Le invalidità, in I contratti in generale, II, nel Tratt. dei contratti, diretto da
Rescigno, Torino, 1999, p. 1347.
(146) Incisivamente De Nova, I contratti di oggi, cit., p. 458: « dettare norme uniformi.
Questo è in effetti ciò di cui si ha oggi bisogno, di fronte ad una prassi contrattuale uniforme
e tendenzialmente completa. Non, sia chiaro, affermare generici principi, come quello di
buona fede ».
(147) Pagliantini, Forma e formalismo, cit., p. 33. Nello stesso senso Gentili, Nullità an-
nullabilità inefficacia, cit., p. 205: « la prima protezione del consumatore è un mercato effi-
ciente e la nullità vi cospira », mentre ciò che davvero servirebbe è un’operatività il più possi-
bile limitata quanto alla estensione oggettiva ed una legittimazione assoluta assistita da un
vaglio serio del concreto interesse ad agire.
52 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

chant (ma neanche troppo) e che però ha il pregio di un pragmatismo pur


sempre orientato dai « criteri di coerente tutela dei beni giuridici fonda-
mentali coinvolti » nella problematica in esame (148).
Certo, alla luce della dialettica diritto primo/diritti secondi, non può
non condividersi il rilievo che, a forza di coniugare relatività e sanabilità,
della nullità non resterebbe nient’altro che il nomen e « più nulla del suo
meccanismo operativo; che finirebbe per coincidere in tutto o in parte con
quello della annullabilità » (149).
Ma che siamo fuori da quella logica è confermato dalla circostanza per
cui lo scivolamento verso l’annullabilità – almeno quella a noi familiare - è
solo apparente, laddove invece, si osserva opportunamente, è stato proprio
il diritto europeo dei contratti ad « eliminare l’annullabilità », che è rimedio
tipicamente posto a salvaguardia della « autenticità e razionalità individuale
della scelta contrattuale » e pertanto inadeguato quando, come nel caso di
specie, si vuole rimediare a fenomeni di carattere seriale, quali la distorsio-
ne della concorrenza e le asimmetrie informative, delineando soluzioni
ispirate « alla razionalità ed all’efficienza del mercato » (150).
In gioco è la gestione di asimmetrie di potere « fisiologiche », vale a dire
risultanti dalle « obiettive posizioni di mercato occupate dall’una e rispetti-
vamente dall’altra parte del contratto », in termini, dunque, « non indivi-
dualizzati, ma piuttosto standardizzati per intere classi di contraenti »; inap-
propriati appaiono pertanto i richiami a strumenti tipicamente volti a go-
vernare un’asimmetria « patologica », quella, per intenderci, che interviene
fra soggetti originariamente pari la cui relazione si è per accidente incrinata:
l’errante, l’ingannato, il minacciato sono « patologicamente » deboli di
fronte alla controparte ed invocano rimedi pensati per fallimenti della sin-
gola relazione negoziale (151). Rimedi che necessariamente attribuiscono al
giudice un potere che le norme in materia di forma adesso gli vogliono sot-
trarre propendendo per quella nullità che ha invece il pregio di « auto-appli-
carsi » (152). Ed è appena il caso di rimarcare che relatività e sanabilità ripro-
pongono dell’annullabilità solo profili di flessibilità a beneficio di colui nel
cui interesse è posto il rimedio; ma troppo poco per mimare di essa anche la
logica individualizzante dei presupposti e della verifica giudiziale, dalla
quale la nullità di protezione si vuole tenere assai lontana.

(148) Libertini, Alla ricerca del “diritto privato generale”, cit., p. 273.
(149) Gentili, Le invalidità, cit., p. 1373.
(150) Gentili, Nullità, annullabilità, inefficacia, cit., p. 201, il quale però giunge a conclu-
sioni opposte rispetto a quelle qui sostenute.
(151) Roppo, Parte generale del contratto, cit., nota 35.
(152) Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 52.
SAGGI 53

Vero è che una moltiplicazione delle cause di nullità restituisce un ne-


gozio complessivamente più vulnerabile, con possibili insidiose refluenze
sulla certezza dei traffici; ma è vero altresì che si tratterebbe comunque di
una vulnerabilità « a metà », in grado di assolvere anche una funzione lata-
mente sanzionatoria nei confronti del predisponente, espropriato della pos-
sibilità di caducare il contratto in presenza di un vizio di forma (153): rispetto
al vizio formale soltanto – la cui genesi non può che collocarsi nella fase di
predisposizione dei documenti contrattuali e dunque ascriversi al soggetto
« forte » del rapporto – il problema della selezione all’ingresso dei concreti
interessi all’esperimento dell’azione si ritiene risolto a monte.
L’interprete è semmai costretto a fare i conti con un fenomeno di pro-
gressiva fungibilità e ibridazione dei rimedi, rispetto al quale non sempre gli
soccorre l’armamentario delle categorie note; più feconda profilandosi l’in-
terpretazione teleologica delle norme, come assecondata, se non addirittu-
ra imposta, dal modello dell’effetto utile.
Non sorprende che « gestore » più adeguato di questa trasformazione si
riveli il giudice di merito, dal quale provengono aperture non sempre con-
trollate ma certo di sicuro interesse nella prospettiva qui accolta. Si pensi al
consistente recupero del discorso in tema di « nullità sopravvenuta » (a pro-
posito di ordini eseguiti sotto il vigore di una data disciplina ma originatisi
da un contratto quadro stipulato sotto il vigore di diversa disciplina, di nuo-
vo con riferimento al problema dei requisiti formali) (154), alla quale fino a
pochi anni fa la giurisprudenza non riservava grande favore assumendola in
contrasto con la concezione (tradizionale) che vuole la nullità – in quanto
vulnus della fattispecie – necessariamente originaria (155).

6. – Qualche notazione conclusiva


Il quadro è certo ben lontano dal potersi considerare definito: « le lacu-
ne sono tuttora troppo numerose; e massima è l’incertezza nella pratica » (156).
Soprattutto ove si ponga mente alla circostanza che completamente svuota-
to di senso si rivela qui il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit: il si-
lenzio non ha un significato decisivo né quando provenga dalle fonti sovra-

(153) In questo senso Putti, La nullità parziale. Diritto interno e diritto comunitario, Napo-
li, 2002, p. 308.
(154) Trib. Ferrara, 28 gennaio 2010, cit.; Trib. Saluzzo, 28 aprile 2009, in www.ilcaso.it,
doc. n. 1729/2009; Trib. Parma 3 aprile 2008, ivi, doc. 1193/2008.
(155) Di Majo, La nullità, cit., p. 98; Monticelli, La recuperabilità del contratto nullo, in
Not., 2009, p. 180 ss.
(156) Breccia, La forma, cit., p. 541.
54 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

nazionali, né quando appartenga al legislatore italiano. Il quale, limitandosi


a recepire telle quelle la normativa europea, disattende ad una invece im-
mancabile opera di adeguamento alle coordinate interne; inerzia che pare
ancor più inaccettabile quando in altre materie e a fini ben differenti, che
forse non casualmente hanno scopi del tutto diversi da quelli protettivi, lo
stesso si premuri di indicare, e puntualmente, l’apparato sanzionatorio da
riconnettere al difetto (157).
Anche per questo il formalismo informativo cela ben più di una con-
traddizione.
A monte, è però la suggestiva idea che si possa, insieme, proteggere i
soggetti deboli e garantire il libero gioco della concorrenza per il tramite del
contratto (ciò che in sostanza aspira a fare il legislatore comunitario troppo
confidando, fin qui, sulla razionalità dell’homo oeconomicus), a rivelarsi chi-
merica se non addirittura controproducente (158): la vicenda della forma-
contenuto, con la divaricazione tra indicazioni di (micro)sistema ed effetti-
vità delle tutele, lo testimonia.
Di « vanità » del consumerismo si discute (159) anche a voler segnalare,
condivisibilmente, l’impossibilità di fornire risposte forti in termini di (au-
tentica) protezione mediante l’esclusivo impiego di strumenti giusprivati-
stici, specie contrattuali (160).
Rinunciando a volervi scorgere a tutti i costi effetti protettivi che spesso
non è in grado di assicurare, il cosiddetto neoformalismo – che è tecnica di
governo del mercato interferente piuttosto con le condotte dei soggetti for-
ti, di cui uniforma le offerte assoggettandole a preventivo controllo – tem-

(157) Cfr. art. 29, comma 1° bis, della l. 27 febbraio 1985 n. 52, introdotto dall’art. 19, com-
ma 14°, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, come risultante dalla l. di conversione 30 luglio 2010, n.
122: « Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferi-
mento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esisten-
ti devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazio-
ne catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in at-
ti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. Pri-
ma della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro
conformità con le risultanze dei registri immobiliari ».
(158) Breccia, La forma, cit., p. 541.
(159) Rudden, Le juste et l’inefficace; pour un non devoir de renseignement, in Rev. trim. dir.
civ., 1985, p. 91.
(160) Ove solo si consideri che « qualsiasi informazione che si debba dare, lungi dal ricon-
dursi ad essere una mera trasparenza, riassume in sé del lavoro e delle spese che hanno un co-
sto. Sarebbe ingenuo immaginare che i produttori sopporteranno questo surplus di impegni
senza reagire. Ne incorporeranno la stima nel prezzo di vendita, e gli acquirenti pagheranno
sin dalla formazione del contratto il miglioramento del servizio eventualmente atteso al mo-
mento dell’esecuzione »: Carbonnier, Flessibile diritto, trad. it., Milano, 1997, p. 131.
SAGGI 55

pera il suo potenziale rigore nell’incontro con rimedi la cui attitudine di-
struttiva è forzosamente contenuta. Pur nel parziale silenzio delle norme,
infatti, la nuova forma esibisce propri tratti distintivi che – oltre ad impedir-
ne la riconduzione ai canoni consueti del formalismo quale requisito della
fattispecie – ne fanno significativo banco di prova dell’approccio rimediale
proprio del « diritto privato europeo » (161).
Non a caso è il panorama giurisprudenziale in tema di forma (rectius for-
me), fra incertezze e incongruenze (e con qualche fuga in avanti), a farsi og-
gi vivace laboratorio della nullità speciale.

Lara Modica

(161) Castronovo e Mazzamuto, L’idea, in Manuale di diritto privato europeo, cit., p. 11 ss.
La natura contrattuale dei verbali di conciliazione giudiziale
e la loro impugnabilità per illiceità della causa in concreto

1. – Il verbale di conciliazione ex art. 185 c.p.c. e la sua natura contrattuale


Spesso succede che nel corso di un procedimento le parti si mettano d’ac-
cordo per definire bonariamente la lite con conciliazione giudiziale ai sensi
dell’art. 185 c.p.c. (1). Al riguardo viene redatto processo verbale della con-
venzione conclusa in via conciliativa (2), che costituisce titolo esecutivo (3).
Il predetto verbale di conciliazione giudiziale (4), ancorché sottoscritto

(1) Ai sensi degli artt. 126, 130, 185 c.p.c. e 88 disp. att. c.p.c. è sottoscritto dalle parti, dal
giudice e dal cancelliere. La Suprema corte ha precisato che “la conciliazione giudiziale è atto
che esula dai poteri del difensore (salvo espresso conferimento del potere medesimo) e, inci-
dendo direttamente sul diritto controverso, può validamente essere compiuto dalla parte sen-
za il ministero del difensore stesso; ne consegue che il verbale di conciliazione è valido ed ef-
ficace anche quando non sia sottoscritto dal difensore, né questi abbia partecipato all’udien-
za nella quale le parti si sono conciliate” (Cass., sez. II, 18 settembre 2009, n. 20236), e che
“l’ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo, che sia stata resa per effetto di conciliazio-
ne delle parti e redazione del relativo processo verbale a norma dell’art. 185 c.p.c., non osta,
qualora la conciliazione medesima risulti invalida ed inefficace per difetto dei requisiti di leg-
ge (nella specie: in quanto intervenuta con il difensore privo di specifica procura), a che il pro-
cesso venga riassunto e proseguito su istanza dell’interessato, stante la revocabilità della sud-
detta ordinanza, specie in carenza dei presupposti” (Cass., 9 luglio 1984, n. 3985).
(2) Cfr. Cass., sez. II, 22 giugno 2004, n. 11571, la quale ha statuito che “il verbale di con-
ciliazione giudiziale contiene una convenzione tra le parti di giudizio, da interpretarsi sulla
base della volontà dalle medesime espressa nelle pattuizioni ivi consacrate e di cui esso costi-
tuisce prova documentale”.
(3) Cfr. Cass., sez. III, 18 aprile 2003, n. 6288, la quale ha statuito che “poiché la redazione
di un verbale separato da quello di udienza, prevista dall’art. 88 disp. att. c.p.c. non è requisi-
to di validità dell’atto, la conciliazione giudiziale, che produce per effetto dell’accordo delle
parti effetti sostanziali e processuali, costituisce, in presenza dei requisiti di legge, titolo ese-
cutivo ex art. 474 c.p.c., anche se sia inserita nel verbale d’udienza”. A riguardo è bene segna-
lare che il verbale di conciliazione giudiziale, pur essendo titolo esecutivo ai sensi dell’art. 185
c.p.c., idoneo all’esecuzione per le obbligazioni pecuniarie, alla esecuzione specifica ai sensi
dell’art. 2932 c.c. e alla esecuzione per consegna e rilascio, non legittima alla esecuzione for-
zata degli obblighi di fare e di non fare, poiché l’art. 612 c.p.c. menziona quale unico titolo va-
lido per l’esecuzione la sentenza di condanna (dovendosi intendere estensivamente con tale
espressione ogni provvedimento giudiziale di condanna), in considerazione della esigenza di
un previo accertamento della fungibilità e quindi della coercibilità dell’obbligo di fare o di
non fare (Cass., sez. III, 13 gennaio 1997, n. 258).
(4) In dottrina si è sostenuto che per effetto del nuovo art. 474, n. 1, c.p.c., che ha equipa-
rato gli “altri atti” alle sentenze, i verbali di conciliazione dovrebbero essere ritenuti titoli ese-
cutivi giudiziali: cfr. M. Acone, Titolo esecutivo, in Il processo civile di riforma in riforma, Mila-
DIBATTITI 57

alla presenza del giudice, ha natura contrattuale (5) e, pertanto, il titolo ese-
cutivo in questione potrebbe essere impugnato sia con l’azione di nullità (6)
sia con gli altri rimedi civilistici, mediante opposizione di merito all’esecu-
zione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. (7), con richiesta, nei casi urgenti, di sospen-
sione dell’efficacia esecutiva del titolo, ai sensi dell’art. 615, comma 1°,
c.p.c. (8), ovvero del processo esecutivo, ai sensi dell’art. 624 c.p.c. (9).

2. – La consolidata regola di validità coniata dalla Cassazione in merito alle


transazioni in materia di locazione
La giurisprudenza della S.C. ha da tempo consolidato il principio di di-

no, 2006, p. 3; Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo II, in Trattato di diritto
processuale civile, diretto da Montesano e Arieta, Padova, 2007, p. 62. Questa equiparazione
formale ai fini della qualifica di titolo esecutivo ai verbali di conciliazione, non può certa-
mente comportare una equiparazione sostanziale con la sentenza, dato che il compito e il
ruolo del giudice ai fini della redazione del verbale di conciliazione è ben diverso rispetto al
compito e al ruolo che svolge il giudice ai fini della redazione della sentenza. Il giudice, infat-
ti, non esercita e non potrebbe esercitare in via preventiva e d’ufficio un accertamento ed un
controllo di merito sulle volontà delle parti riportate nel verbale di conciliazione, che rimane
sostanzialmente un contratto liberamente impugnabile. Il contenuto del verbale non può ri-
tenersi “giudicato” dal giudice e pertanto ad esso non possono essere applicati i limiti che ge-
neralmente vengono ricollegati alla sentenza quale titolo esecutivo giudiziale. La Cassazione
ha, infatti, statuito che “il potere di cognizione del giudice dell’opposizione all’esecuzione è
limitato all’accertamento della portata esecutiva del titolo posto a fondamento dell’esecuzio-
ne stessa, mentre le eventuali ragioni di merito incidenti sulla formazione del titolo devono
essere fatte valere unicamente tramite l’impugnazione della sentenza che costituisce il titolo
medesimo” (Cass., sez. III, 7 ottobre 2008, n. 24752). Nel caso del verbale di conciliazione,
dunque, le eventuali ragioni di merito incidenti sulla formazione del titolo si possono fare va-
lere con l’opposizione di merito all’esecuzione, dato che nessun giudizio di appello potrebbe
esperirsi avverso al verbale di conciliazione.
(5) Cfr. Cass., 29 aprile 1993, n. 5032; Cass., 18 luglio 1987, n. 6333; Franzoni, La transa-
zione, Padova, 2001, p. 454 ss.
(6) Cfr. Trib. Napoli, 28 giugno 1996, in Arch. locazioni, 1996, 940, che correttamente rite-
nuto nulle le pattuizioni, contenute in un verbale di conciliazione giudiziale, con le quali le
parti avevano determinato non solo la durata del contratto di locazione in violazione del prin-
cipio della durata minima legale di cui alla legge n. 392/1978, ma anche la pattuizione con la
quale il locatore si era fatto attribuire dei vantaggi in contrasto con le disposizioni della legge
n. 392/78.
(7) Cfr. Mandrioli, Diritto processuale civile, I, Torino, 2002, p. 31; ID., Diritto processua-
le civile, III, Torino, 2002, p. 154; Massetani, Considerazioni schematiche sulle impugnative
contrattuali, in Riv. dir. civ., 1992, p. 320; Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, to-
mo II, cit., p. 1641.
(8) Cfr. Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo II, cit., p. 261.
(9) Cfr. Arieta-De Santis, L’esecuzione forzata, vol. III, tomo II, cit., p. 1548.
58 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ritto secondo cui le parti di un contratto di locazione possono definire tran-


sattivamente la lite tra loro pendente relativa all’ammontare del canone e
alla durata del rapporto, convenendo una differente scadenza per il rilascio
dell’immobile e un diverso maggiore corrispettivo per il suo godimento, e la
transazione cosi conclusa, rimanendo irrilevanti i motivi e gli interessi sot-
tesi al raggiungimento di tale accordo sopravvenuto, non è nulla per contra-
rietà al disposto dell’art. 79 l. n. 392 del 1978 (ancora in vigore limitatamen-
te alle locazioni non abitative per effetto dell’art. 14, 4° comma, l. n. 431 del
1998), poiché tale norma, volta ad evitare l’elusione dei diritti del condutto-
re a mezzo di rinuncia preventiva ad essi, non esclude la possibilità di di-
sporre dei diritti stessi, una volta che i medesimi siano già sorti e dunque già
acquisiti in capo al disponente (10).
La Cassazione ha altresì precisato che il nuovo rapporto che si viene ad
instaurare per effetto dell’accordo transattivo, ancorché di natura locatizia,
trova la sua inderogabile regolamentazione nell’accordo medesimo, restan-
do sottratto alla speciale disciplina che regola la materia delle locazioni, tra
cui la l. n. 392 del 1978. La transazione così conclusa non è nulla per contra-
rietà al disposto dell’art. 79 l. cit., poiché tale norma, volta ad evitare l’elu-
sione dei diritti del conduttore a mezzo di rinuncia preventiva ad essi, non
esclude la possibilità di disporre dei diritti stessi, una volta che i medesimi
siano stati già acquisiti. In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha
cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato la do-
manda di riscatto proposta ritenendo che dalla data della stipulata transa-
zione il contratto di locazione, relativo ad un immobile adibito a negozio, si
era estinto e che il rapporto era ormai regolato dall’accordo transattivo che

(10) Cfr. Cass., sez. III, 9 novembre 2006, n. 23910, Pres. Varrone, Est. Fico; Cass., sez. III,
9 giugno 2003, n. 9197, Pres. Fiduccia, Est. Lupo; Cass., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11323, Pres.
Fiduccia, Est. Limongelli, in Giur. it., 2004, 1613, la quale ha statuito che “è nulla la transazio-
ne conclusa anteriormente alla prima scadenza del contratto di locazione, con la quale il con-
duttore rinunzi al diritto alla rinnovazione dopo la prima scadenza, in quanto configura una
pattuizione preventiva volta a limitare la durata legale del contratto stesso” e che “la sanzione
di nullità prevista dall’art. 79 l. n. 392 del 1978, per le pattuizioni dirette a limitare la durata le-
gale del contratto di locazione o ad attribuire al locatore un canone maggiore di quello dovu-
to o altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della legge sull’equo canone, si riferisce
solo alle clausole del contratto di locazione e non può essere estesa, pertanto, agli accordi
transattivi conclusi dal conduttore, che già si trovi nel possesso del bene, per regolare gli ef-
fetti di fatti verificatisi nel corso del rapporto e che, perciò, incidono su situazioni giuridiche
patrimoniali già sorte e disponibili (in applicazione di tale principio la corte ha cassato la sen-
tenza impugnata, in quanto la conduttrice aveva rinunciato non solo validamente alla prose-
cuzione del rapporto locativo novennale ancora in corso al momento della transazione ma
anche al diritto alla rinnovazione, dopo la prima scadenza, del nuovo costituendo rapporto lo-
cativo)”.
DIBATTITI 59

non prevedeva alcun diritto di prelazione in favore della conduttrice in caso


di vendita dell’immobile (11).
Va subito segnalato che la S.C., per ovviare ad alcune elusioni del dirit-
to di prelazione, ha comunque statuito che la circostanza che la vendita del-
l’immobile al terzo sia stata perfezionata dopo la cessazione de iure del con-
tratto di locazione non esclude la configurabilità del diritto di riscatto, ai
sensi dell’art. 39 l. 392/78, in capo al conduttore che non abbia ricevuto dal
locatore la denuntiatio prevista dal precedente art. 38, qualora il trasferi-
mento della proprietà sia avvenuto in esecuzione di un contratto prelimina-
re stipulato prima della scadenza della locazione (12).
I suddetti principi, a ben vedere, vanno coordinati con la massima con-
solidata secondo cui la transazione, pur modificando la fonte del rapporto
obbligatorio preesistente, non ne determina necessariamente l’estinzione,
potendo configurarsi tanto in forma novativa, quanto non novativa, e con la
prima soltanto delle quali creando le parti un nuovo vincolo giuridico, in-
compatibile con quello preesistente e direttamente scaturito dalla novazio-
ne così realizzata, di talché soltanto la transazione novativa, ove una delle
parti non adempia gli obblighi assunti, può essere legittimamente risolta
entro i limiti di cui all’art. 1976 c.c. (13).

(11) Cfr. Cass., sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4714, Pres. Preden, Rel. Lanzillo, in Foro it., 2008,
I, 1090, in Arch. Locazioni, 2008, 364; Cass., sez. III, 14 novembre 1995, n. 11806, Pres. Roma-
gnoli, Est. Duva, in Contratti, 1996, 261, con nota di Benetti, la quale ha statuito che “l’accordo
con cui le parti di un contratto di locazione definiscono transattivamente le liti giudiziarie fra lo-
ro pendenti circa la durata del rapporto e l’ammontare del canone, stabilendo una determinata
scadenza per il rilascio dell’immobile ed un corrispettivo per il suo ulteriore godimento, trova la
sua inderogabile regolamentazione nei patti del negozio transattivo e, in via analogica, nella
normativa generale delle locazioni urbane, ma si sottrae - data la sua genesi e l’unicità della cau-
sa che avvince il complesso rapporto - alla speciale disciplina giuridica che regola la materia del-
le locazioni (leggi di proroga legale, legge c.d. dell’equo canone e successive modificazioni); pe-
raltro il precedente rapporto (convenzionalmente estinto alla data della transazione) resta re-
golato dallo stesso negozio transattivo e, in mancanza di patti contrari, dalla normativa ordina-
ria e speciale previgenti”; Cass., sez. III, 26 marzo 1991, n. 3270, Pres. Quaglione, Est. Duva, in
Arch. locazioni, 1991, 537, in Corriere giur., 1991, 897, con nota di D’Ascola.
(12) Cfr. Cass., sez. III, 29 febbraio 2008, n. 5502, Pres. Vittoria, Est. Mazza, in Foro it.,
2008, I, 1089, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1184, con nota di Toresini, la quale ha altresì
precisato che “in tema di locazione di immobile ad uso diverso dall’abitazione, non è confi-
gurabile il diritto di prelazione del conduttore, ai sensi dell’art. 38 l. 392/78, allorché oggetto
della vendita non sia l’immobile locato singolarmente considerato, ma un complesso di beni
che, pur suscettibili di separata alienazione, presentino, in relazione alla loro prevista utiliz-
zazione, un nesso strutturale e funzionale unificante, l’accertamento della cui sussistenza
spetta al giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se condotto con logica va-
lutazione degli elementi emergenti dagli atti”.
(13) Cfr. Cass., sez. III, 29 aprile 2005, n. 8983, Pres. Fiduccia, Est. Di Nanni, in Giust. civ.,
60 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

3. – Le immunità create dalla giurisprudenza e le facili frodi alla legge 27 luglio


1978, n. 392
I principi di diritto sopra richiamati possono creare delle irragionevoli
immunità, con facili frodi alla legge 27 luglio 1978, n. 392. In particolare le
parti, alla scadenza del contratto, ma in data anteriore all’effettivo rilascio
dell’immobile locato ad esempio ad uso albergo, invece di redigere un nuo-
vo contratto di locazione, con l’osservanza delle disposizioni imperative di
cui alla legge 27 luglio 1978, n. 392, potrebbero convenire in via conciliativa
e/o transattiva di definire la lite di sfratto per finita locazione tra loro pen-
dente, relativa alla durata o ad altri aspetti del rapporto, alle seguenti condi-
zioni: 1) il proprietario locatore concede di prorogare al conduttore la data
del rilascio dell’immobile dal 31 dicembre 2010 (data prevista nel contratto
di locazione scaduto) al 31 dicembre 2015; 2) il conduttore, a sua volta, con-
cede al proprietario locatore il pagamento di un maggiore importo (da Euro
1.350,00, previsto nel contratto di locazione scaduto, ad Euro 4.000,00) a ti-
tolo di canone durante il periodo di proroga del rilascio; 3) le parti prevedo-
no che l’indennità di avviamento dovuta al conduttore all’atto del rilascio al
31 dicembre 2015, sarà calcolata non già, come prevede l’art. 34 l. 392/78, fa-
cendo riferimento all’ultimo canone convenuto con il verbale di concilia-
zione di Euro 4.000,00, bensì facendo riferimento al canone di Euro
1.350,00 di cui al precedente contratto di locazione scaduto; 4) per quanto
non espressamente convenuto nel verbale di conciliazione, le parti fanno ri-
ferimento al contratto di locazione scaduto.
La suddetta conciliazione e/o transazione, alla luce dei principi di dirit-
to enunciato dalla Cassazione, potrebbe erroneamente considerarsi valida,
nonostante la stessa transazione e/o conciliazione costituisca, in violazione
dell’art. 1344 c.c., il mezzo per eludere l’applicazione delle norme imperati-
ve di cui alla legge 27 luglio 1978, n. 392.

2006, I, 133, la quale in motivazione enuncia che “nel sistema vigente la transazione è il con-
fine più avanzato dell’espressione dell’autonomia privata: il contenuto della transazione, in-
fatti, può essere non solo quello di eliminare una lite (art. 1965, primo comma, cod. civ.), ma
anche quello di costituire, modificare o estinguere rapporti diversi da quello che ha formato
oggetto della pretesa o della contestazione (secondo comma della norma). Secondo la norma,
il contratto di transazione, quindi, può avere un doppio effetto: preclusivo, determinato dalla
composizione della lite mediante reciproche concessioni, e creativo di vicende attinenti ad al-
tri rapporti. In altre parole, vi può essere una transazione non novativa e una transazione no-
vativa. La novazione presa in considerazione dall’art. 1976 cod. civ. è quella novativa. In essa
le parti creano un nuovo rapporto, che non può coesistere con quello precedente, oggetto del-
la lite, con il quale quello intercorso precedentemente tra le parti è rinnovato e le obbligazio-
ni che vi sono indicate nascono dalla novazione: in questi termini generali, già Cass., 1° ago-
sto 2002, n. 11439; Cass., 9 dicembre 1996, n. 10937; Cass., 12 maggio 1994, n. 4647”.
DIBATTITI 61

4. – (segue) Nullità del verbale di conciliazione e/o della transazione per frode
alla legge 27 luglio 1978, n. 392, e per mancanza di causa in concreto
Anche a volere attribuire al verbale di conciliazione in questione la na-
tura di contratto di transazione, essendosi le parti limitate a “prorogare la
data di rilascio con la rideterminazione del canone di locazione per l’ulte-
riore godimento”, tale transazione è comunque nulla, per illiceità della cau-
sa, costituendo il mezzo per eludere l’applicazione delle norme imperative
di cui agli artt. 27, 32 e 79 l. n. 392/78 (art. 1344 c.c.). Se è vero che il condut-
tore, dopo la scadenza del contratto di locazione, avvenuta il 31 dicembre
2010, avrebbero potuto disporre dei diritti acquisiti, stabilendo la data di ri-
lascio ed il corrispettivo per l’ulteriore godimento, senza per questo violare
il disposto dell’art. 79 l. n. 392/78 (14), è altrettanto vero che, attraverso le
mentite spoglie di una apparente “proroga della data del rilascio”, si è di fat-
to realmente prorogato il termine finale del contratto scaduto, o più sempli-
cemente si è costituito un nuovo duraturo rapporto di locazione, analogo al
precedente, in violazione sia della norma imperativa relativa alla durata mi-
nima di cui all’art. 27, comma 3°, l. 392/1978, sia della norma imperativa re-
lativa all’aggiornamento del canone di cui all’art. 32 l. 392/1978 (15). La pro-
prietaria dell’immobile, infatti, dopo la scadenza dell’originario contratto,
per evitare di concludere un nuovo contratto di locazione con il precedente
conduttore, con l’obbligo di osservare le norme imperative sulla durata mi-
nima, potrebbe stipulare un contratto di transazione e/o verbale di conci-
liazione avente ad oggetto la semplice proroga della data di rilascio dell’im-
mobile ed il corrispettivo per il suo ulteriore godimento, ma tale data po-
trebbe essere fissata non già in un ragionevole e limitato lasso di tempo, co-
me è naturale che sia, trattandosi di una mera proroga del rilascio (16), bensì
in un lunghissimo lasso di tempo di ben cinque anni (dal 31 dicembre 2010
al 31 dicembre 2015), che con tutta evidenza rappresenta, nelle locazioni di
immobili adibiti ad attività alberghiera, più della metà del termine legale di

(14) Cfr. Cass., sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4714, Pres. Preden, Rel. Lanzillo, in Foro it.,
2008, I, 1090, in Arch. Locazioni, 2008, 364; Cass., sez. III, 9 novembre 2006, n. 23910, Pres.
Varrone, Est. Fico; Cass., sez. III, 9 giugno 2003, n. 9197, Pres. Fiduccia, Est. Lupo; Cass., sez.
III, 21 luglio 2003, n. 11323, Pres. Fiduccia, Est. Limongelli, in Giur. it., 2004, 1613; Cass., sez.
III, 14 novembre 1995, n. 11806, Pres. Romagnoli, Est. Duva, in Contratti, 1996, 261, con nota
di Benetti.
(15) Cfr. Cass., sez. III, 27 luglio 2001, n. 10286, Pres. Nicastro, Est. Preden, in Foro it.,
2002, I, 2118, in Giur. it., 2002, 708, con nota di Barbieri; Cass., sez. III, 20 dicembre 2004, n.
23638, Pres. Giuliano, Est. Segreto, in Foro it., 2005, I, 2767.
(16) Cfr. Cass., sez. III, 25 febbraio 2008, n. 4714, dove nel caso deciso la proroga della da-
ta del rilascio era di circa un anno.
62 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

9 anni previsto dall’art. 27, comma 3°, l. n. 392/78, e non può certo conside-
rarsi una vera e propria proroga del rilascio.
Orbene, poiché attraverso la semplice proroga del termine del rilascio si
è voluto in concreto eludere il termine di durata minima di nove anni di cui
all’art. 27 l. 392/1978, non vi è dubbio che il contratto di transazione e/o il
verbale di conciliazione è nullo ai sensi dell’art. 1344 c.c. Infatti, come è sta-
to anche recentemente evidenziato, si aggira inequivocabilmente l’applica-
zione della suddetta norma imperativa, qualora la proroga del termine del
rilascio sia di oltre dodici mesi, che è il termine massimo previsto dall’art.
56 l. 392/1978 (17). Qualora addirittura, come nel caso di specie, il termine di
proroga del rilascio dell’immobile da parte del conduttore sia fissato in cin-
que anni, non vi è dubbio che attraverso tale apparente proroga al rilascio,
si sia voluta effettivamente eludere, col nuovo rapporto costituito con il
verbale di conciliazione e/o transazione, l’applicazione della suddetta nor-
ma imperativa, ed il relativo contratto di transazione dovrà essere dichiara-
to nullo per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1344 c.c. (18). Al riguardo si
segnala che l’accordo simulatorio volto ad eludere l’applicazione delle nor-
me della l. n. 392/78, vertenti in tema di durata e di equo canone del con-
tratto di locazione, può essere provato, a norma dell’art. 1417 c.c., anche
con testimoni e con presunzioni (19). In accoglimento della nuova conce-
zione della causa in concreto (20), è evidente che il verbale di conciliazione
e/o il contratto di transazione in questione è nullo. Il giudice non potrà li-
mitarsi ad accertare la liceità e/o l’esistenza della causa in astratto (21), ben-

(17) Cfr. A. Riccio, Contratto di locazione d’immobili ad uso commerciale, in Azienda &
Contratti, Il Sole 24 Ore, n.3/2009, p. 57.
(18) Cfr. A. Riccio, Contratto di locazione d’immobili ad uso commerciale, cit., p. 58.
(19) Cfr. Cass., sez. III, 21 luglio 2006, n. 16759, Pres. Vittoria, Est. Mazza, in Rass. loca-
zioni, 2006, 251.
(20) Sulla nuova concezione della causa in concreto si v. Cass., sez. III, 7 ottobre 2008, n.
24769; Cass., sez. II, 24 marzo 2006, n. 6631; Cass., 22 marzo 2007, n. 6969; Cass., sez. III, 24
luglio 2007, n. 16315; Cass., sez. III, 20 dicembre 2007, n. 26958; Cass., 8 maggio 2006, n.
10490; Cass., sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932; Cass., sez. trib., 21 ottobre 2005, n. 20398,
tutte commentate da Rolli, Il rilancio della causa del contratto: la causa concreta, in questa ri-
vista, 2007, p. 416 ss.; ID., Causa in astratto e causa in concreto, in Le monografie di Contratto e
impresa, serie diretta da Francesco Galgano, Padova, 2008, p. 80 e p. 247.
(21) Cfr. Cass., sez. III, 4 aprile 2003, n. 5324, Pres. Nicastro, Est. Varrone, la quale ha sta-
tuito che “la causa del contratto si identifica con la funzione economico sociale che il negozio
obiettivamente persegue e che il diritto riconosce come rilevante ai fini della tutela appresta-
ta, rimanendo ontologicamente distinta rispetto allo scopo particolare che ciascuna delle due
parti si propone di realizzare; ne consegue che si ha illiceità della causa, sia nell’ipotesi di con-
trarietà di essa a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, sia nell’ipotesi di
utilizzazione dello strumento negoziale per frodare la legge, qualora entrambe le parti attri-
DIBATTITI 63

sì dovrà accertare e valutare la liceità e/o l’esistenza della causa in concre-


to, esaminando lo scopo pratico del contratto, la sintesi, cioè, degli interes-
si che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa in concre-
to), quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di
là del modello astratto utilizzato (22). Orbene, nel caso di specie il contratto
in questione (verbale di conciliazione) è nullo per illiceità della causa in
concreto, in quanto lo scopo pratico perseguito non è funzionale al mero
rilascio (considerato anche il lunghissimo ed irragionevole termine previ-
sto, che costituisce un significativo ed univoco elemento di fatto), bensì al-
la protrazione di un vero e proprio rapporto di locazione per un tempo in-
feriore a quello previsto dalla legge, in violazione dell’art. 27, comma 3°, l.
n. 392/78. Il contratto in questione, dunque, rappresenta in concreto il
mezzo per eludere l’applicazione della predetta norma imperativa (art.
1344 c.c.).
Il verbale di conciliazione in questione, infine, è nullo per contrasto con
gli artt. 34 e 79, l. n. 392/78 (23), in quanto attribuisce al proprietario locatore,
in via preventiva rispetto alla maturazione del diritto alla indennità di avvia-
mento, un vantaggio in contrasto con la disposizione dell’art. 34 l. 392/78 (24).
Come è noto, infatti, il diritto all’indennità di avviamento matura all’atto del
rilascio e pertanto il locatore non avrebbe potuto con il verbale di conciliazio-
ne, prima della maturazione del diritto a suo favore con il rilascio, ottenere
una preventiva riduzione dell’indennità che sarebbe maturata successiva-
mente. Infatti, con il verbale di conciliazione il rilascio è stato prorogato al 31
dicembre 2015 e quindi non si poteva ottenere in data anteriore alla matura-
zione del diritto, una illegittima riduzione in palese violazione degli artt. 34 e
79, l. n. 392/78.
La nullità del verbale di conciliazione e, dunque, del titolo esecutivo,

buiscano al negozio una funzione obiettiva volta al raggiungimento di una comune finalità
contraria alla legge”. Negli stessi termini Trib. Bologna, ord., 15 febbraio 2010, Pres. Rel. dott.
Liccardo, inedita.
(22) Cfr. Cass., sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490, Pres. Preden, Est. Travaglino, in Corriere
giur., 2006, 1718, con nota di Rolfi, in Rass. dir. civ., 2008, 564, con nota di Rossi, in questa ri-
vista, 2007, p. 416 ss., con commento di Rolli, Il rilancio della causa del contratto: la causa
concreta.
(23) In contrasto con la giurisprudenza citata nella precedente nota 14, si è infatti disposto
di un diritto prima della sua concreta ed effettiva maturazione.
(24) Nell’esempio fatto le parti prevedono che l’indennità di avviamento dovuta al con-
duttore all’atto del rilascio al 31 dicembre 2015, sarà calcolata non già, come prevede l’art. 34
l. 392/78, facendo riferimento all’ultimo canone convenuto con il verbale di conciliazione di
Euro 4.000,00, bensì facendo riferimento al canone di Euro 1.350,00 di cui al precedente con-
tratto di locazione scaduto.
64 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

rende conseguentemente nullo sia l’atto di precetto sia l’atto di preavviso ai


sensi dell’art. 608 c.p.c., che si potranno impugnare con l’opposizione ex art.
615 c.p.c.

Angelo Riccio
Fonti del diritto e delegificazione:
statuti universitari e potestà normativa in deroga alla legge

1. – La questione
In un momento di crisi del sistema universitario e di grandi riforme an-
nunciate (ma non ancora realizzate), la materia della delegificazione all’in-
terno delle fonti del diritto – sulla quale questa rivista da sempre ha posto
attenzione (1) – si pone in maniera significativa con riferimento agli statuti e
ai regolamenti universitari e alla potestà di questi di porre regole in deroga
alla legge (2).
Il tema è di particolare attualità in quanto il diverso grado di autonomia
riconosciuto agli atenei incide in maniera importante non solo sulla diffe-
renziazione dell’offerta formativa proposta dagli stessi, ma anche sulle scel-
te organizzative e sugli status del personale docente e ricercatore. Lo stesso
tema presenta ad ogni modo tutta una serie di aspetti problematici che non
potranno naturalmente essere trattati nel presente contributo, ma che ne ri-
chiederebbero specifici approfondimenti in relazione, ad esempio, al rap-
porto tra le norme poste con gli statuti e i regolamenti per l’amministrazio-
ne, la contabilità e la finanza e per la didattica e le norme poste con leggi so-
pravvenute (applicabili alle università) incompatibili.
Ci si limiterà, quindi, ad offrire un quadro generale su potenzialità e li-
miti del potere regolatorio degli atenei e ci si soffermerà, in particolare, sul-
la vexata quaestio dello status giuridico dei docenti universitari e sulle pos-
sibilità (precluse o aperte) riferibili a quelli che tra di essi, hanno optato per
il regime a tempo definito.

2. – Gli statuti universitari nel sistema delle fonti: l’articolo 33 della Costitu-
zione e la normativa di attuazione
L’art. 33, ultimo comma, della Costituzione riconosce alle università e
altre istituzioni di alta cultura “il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei
limiti stabiliti dalle leggi dello Stato”. Con tale formulazione, la Costituzio-
ne enuclea prima di ogni cosa il diritto di ciascun ateneo di governarsi attra-
verso i propri organi, scelti dalla comunità dei suoi docenti: dato, questo,

(1) V. assai recentemente Riccio, Fonti del diritto e delegificazione: la Cassa Forense ha po-
testà normativa in deroga alla legge, in questa rivista, 2010, p. 839.
(2) Ho avuto modo di occuparmi della materia in L’Università e le sue fonti di regolamen-
tazione, in Miriello e Malavolta (a cura di), L’ordinamento universitario, Rimini, 2005, p. 13
ss.
66 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

acquisito nella scienza giuridica (3) e nella giurisprudenza (cd. autogoverno


dell’ente da parte del corpo docente) (4).
All’autogoverno, già previsto dal testo unico n. 1592/1933 si aggiunge
l’autonomia normativa, la quale non è riferita alle università nel loro com-
plesso, ma alle singole università, il che comporta una potenziale differenzia-
zione delle norme di autoregolamentazione. Spetta poi allo Stato assicurare
che quella differenziazione non leda altri interessi di grado pari o superiore,
nel rispetto ovviamente della riserva di legge prevista dalla Costituzione (5).
Ne consegue, in sostanza, che se una norma statale precisasse in ogni det-
taglio quel che è consentito e quello che non è consentito ai singoli Atenei, si
spingerebbe al di là della funzione assegnata dall’art. 33. Paragonando la for-
mulazione letterale di questa disposizione costituzionale a quella che la stes-
sa Costituzione dedicava agli enti locali con l’art. 128 Cost. (6) si constatava –
e si constata – che l’autonomia universitaria è più ampia e comunque sta su
un piano diverso rispetto a quella riconosciuta agli enti locali (7): in altre paro-
le, “il diritto di darsi ordinamenti autonomi” pare corrispondere al più alto
grado di espansione che un soggetto giuridico possa ottenere, facendola ap-
parire vicina più che alle autonomie pubbliche alle libertà dei privati (8).
Il testo costituzionale guarda alle università come sedi di libera ricerca e
di libero insegnamento dei risultati di questa ricerca e proprio per garantire
la libertà delle attività che vi si svolgono attribuisce alle stesse la massima
autonomia. Natura e funzioni delle università non sono quindi assimilabili
a quelle degli enti e apparati che costituiscono l’ordinamento statuale, ap-
partenendo – così come è stato detto (9) – al versante della “società civile” e
non dello Stato.

(3) Cassese, L’Università e le istituzioni autonome nello sviluppo politico dell’Europa, in


Riv. trim. dir. pubbl., 1990, p. 755.
(4) Corte cost., 9 novembre 1988, n. 1017, § 4, in Foro it., 1989, I, p. 2416.
(5) Corte cost., 23 novembre 1998, n. 383, in Giust. civ., 1999, I, p. 361; Riv. dir. internaz.,
1999, p. 212; Corriere giuridico, 1999, p. 554, con nota di Angiolini; Foro it., 1999, I, p. 2475 con
nota di Castorina e D’Aloia; Giornale dir. amm., 1999, p. 221, con nota di Mari; Riv. it. dir.
pubbl. comunit., 1999, p. 864, con nota di Greco.
(6) Articolo abrogato dall’art 9, comma 2°, l. cost. 3/2001, Modifiche al Titolo V della parte
seconda della Costituzione.
(7) Così Sorace, L’autonomia universitaria degli anni novanta: problemi e prospettive, in
Dir. pubb., 1996, p. 139 ss.
(8) Per contro, Fenucci, Autonomia universitaria e libertà culturali, Milano, 1991, avanza
il dubbio che di fronte a formulazioni e quantificazioni così diverse e confuse, le varie agget-
tivazioni usate per l’autonomia universitaria siano non tanto delle specificazioni, ma piutto-
sto delle volute limitazioni di questa autonomia: si arguirebbe ciò dal fatto che nei testi nor-
mativi la serie di aggettivi compare sempre come una serie chiusa, nell’ambito della quale le
singole specificazioni finiscono con l’acquistare valore esclusivo.
(9) G. F. Ferrari, Accademia, in Dig. disc. pubbl., vol. I, Torino, 1987.
DIBATTITI 67

Una riprova di ciò può trarsi dalla legge 9 maggio 1989, n. 168: nel dare
attuazione alla direttiva costituzionale, la normativa ha ribadito l’autono-
mia “delle università” e il loro diritto di darsi “ordinamenti autonomi con
propri statuti e regolamenti” (art. 6, comma1°). Ne ha quindi tratto le logi-
che conseguenze, affermando che le università sono “disciplinate, oltre che
dai rispettivi statuti e regolamenti, esclusivamente da norme legislative che
vi operino espresso riferimento” (art. 6, comma 2°). Inoltre, esse sono state
sottratte ai controlli preventivi della Corte dei conti (eccetto alcune classi di
provvedimenti), mentre soggiacciono ai controlli successivi della Corte,
che si aggiungono al controllo del Ministro.
A partire dalla legge richiamata, pertanto, si sono riorganizzate le fun-
zioni ministeriali attinenti all’Università e alla ricerca e si sono attribuite si-
gnificative competenze autonome alle singole università per la disciplina
della loro organizzazione di governo ed amministrativa. In tal modo la leg-
ge dà una lettura corretta della disposizione costituzionale cui fa specifica-
mente riferimento, riconoscendo che l’autonomia universitaria è un valore
costituzionale di particolare intensità.

3. – L’autonomia come differenziazione. Il caso dell’eleggibilità a cariche acca-


demiche dei professori a tempo definito
Sulla base dei presupposti passati in rassegna, alle fonti autonome uni-
versitarie (statuti e regolamenti) viene riconosciuta una competenza nel cui
ambito esse sono in posizione gerarchicamente subordinata soltanto nei con-
fronti delle leggi che mostrino di avere specificamente considerato l’esigenza
che l’autonomia universitaria ceda a fronte di valori prevalenti (10). Il che si-
gnifica, ad esempio, che non possono applicarsi alle università norme limita-
trici della loro autonomia solo perché generali, oppure in via analogica.
L’università ha diritto di darsi un proprio ordinamento e il relativo conte-
nuto è libero, cioè deve costituire oggetto di esclusiva determinazione degli or-
gani di governo dell’università medesima, senza che esso debba “conformarsi”
a principi eteronomi, quali potrebbero essere le leggi dello stato (11). L’ambito
della sua autonomia non è prefissabile, nemmeno a livello di principi generali,
da fonti normative eteronome, rispetto all’ordinamento che la stessa autono-
mia voglia attribuirsi, predisponendo un proprio assetto statutario (12).

(10) Sorace, L’autonomia universitaria degli anni novanta: problemi e prospettive, op. cit.,
p. 153.
(11) Correale, Libertà della scienza e limiti all’ordinamento universitario, in Dir. e soc.,
1988, p. 423.
(12) Lo stesso Correale nel contributo citato alla nota precedente afferma che “ciascuna
università può essere considerata titolare di una posizione d’indipendenza nei confronti an-
che dello Stato”.
68 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Ad oltre venti anni di distanza dalla prima legge di attuazione dell’auto-


nomia sancita dall’art. 33 Cost., rimane ancora indefinita la soluzione del
problema delle fonti della disciplina dello stato giuridico del personale do-
cente (13). E, in particolare, non è stato risolto il problema del contrasto, in
materia di status dei professori universitari, tra discipline statutarie e norme
di legge ordinaria.
È emblematico il caso dell’eleggibilità a cariche accademiche dei do-
centi che hanno scelto il regime del tempo definito (in particolare Preside di
Facoltà e Direttore di Dipartimento), in quanto molti statuti universitari at-
tribuiscono il diritto di elettorato passivo a tutti i professori di prima fascia,
senza distinguere tra quelli che hanno optato per il regime a tempo pieno
piuttosto che per quello a tempo definito. Per contro, una normativa statale
risalente nel tempo (art. 11 del d.p.r. 382/1980) stabilisce che “il regime a
tempo definito è incompatibile con le funzioni di rettore, preside e diretto-
re di dipartimento”. Lo stesso d.p.r. 382 prevedeva diverse ulteriori incom-
patibilità sia per i professori a tempo definito che per i professori a tempo
pieno, i quali non potevano svolgere alcuna attività professionale e di con-
sulenza, né assumere incarichi retribuiti.
Tali incompatibilità sono state riviste nel tempo: ad esempio, oggi i pro-
fessori a tempo pieno possono assumere incarichi retribuiti, purché auto-
rizzati dall’amministrazione di appartenenza sulla base dei criteri stabiliti
dagli statuti o dai regolamenti degli atenei (art. 53, d. lgs. 165/2001).
Altre norme statali, poi, hanno rinviato agli statuti delle Università la di-
sciplina dell’elettorato attivo per le cariche accademiche, ivi compresa quel-
la di Direttore di Dipartimento (14): per questi, ad esempio, le stesse norme
hanno consentito l’estensione dell’elettorato passivo ai professori di secon-
da fascia, nel caso in cui nessun professore di prima fascia sia disponibi-
le (15). È chiaro qui che ad una norma di tipo proibitivo sia subentrata una
norma di tipo permissivo condizionato, che rinvia agli statuti e ai regola-
menti.
È chiara, dunque, anche in materia (status giuridico dei docenti, com-
posizione degli organi, ecc.), una progressiva e sostenuta apertura alla auto-
nomia universitaria, con un’estensione dell’ara rimessa alla potestà statuta-
ria.

(13) Si registra, a metà degli anni ’90 qualche presa di posizione a favore della riconduzio-
ne della disciplina dello stato giuridico ed economico dei ricercatori e dei docenti universita-
ri alla contrattazione sindacale. Cfr. ad esempio Cammelli, Autonomia universitaria. Ovvero:
il caso e la necessità, in Diritto Pubblico, 1995, p. 161.
(14) Mi sia consentito anche qua il rinvio a L’organizzazione dell’Università, in Miriello e
Malavolta (a cura di), L’ordinamento universitario, Rimini, 2005, p. 23 ss.
(15) V. art. 4, comma 2°, l. 56/2002.
DIBATTITI 69

L’importanza che la Costituzione e le leggi di attuazione attribuiscono


all’autonomia normativa spettante ai singoli atenei, consentendo scelte dif-
ferenziate, spiega perché le varie comunità di docenti abbiano determinato
indirizzi divergenti, espressi negli statuti, per scongiurare il rischio (che in
fatto si è concretizzato sovente) della “eccessiva riduzione del numero di
coloro i quali possono accedere” alle cariche riservate ai professori a tempo
pieno (16).
Una rapida analisi di alcuni statuti consente di distinguerli, in primo
luogo, a seconda che si attengano alla scelta effettuata dalla normativa sta-
tale del 1980 o se ne discostino, come hanno fatto lo Statuto dell’Università
di Bologna e quello dell’Università di Udine (17). Anche tra le altre univer-
sità, peraltro, vi sono non pochi tratti distintivi: alcune stabiliscono la riser-
va in termini assoluti, nel senso che il Preside può essere scelto soltanto tra
quanti abbiano optato per il regime di tempo pieno (art. 45, comma 3°, Sta-
tuto dell’Università di Palermo (18); art. 24, comma 1°, Statuto dell’Univer-
sità di Perugia) (19); altre, invece, ammettono che il preside possa optare per
il tempo pieno dopo l’elezione (art. 37, comma 3°, Statuto dell’Università di
Padova) (20).
L’analisi dei vari statuti, insomma, conferma prima di ogni cosa che “au-
tonomia vuol dire anche differenziazione” (21); differenziazione che non si
manifesta soltanto in ordine alla scelta se riservare l’elettorato passivo ai so-
li professori a tempo pieno o estenderla a quanti abbiano optato per il tem-
po definito, ma anche in relazione alla possibilità che l’opzione sia effettua-
ta dopo la nomina. Anche questa è una divergenza rispetto alla normativa
statale del 1980, la quale funge tuttora da punto di riferimento per molti ate-
nei, ma non per tutti.
Orbene, rispetto alla disciplina del 1980, e alla rigida separazione che es-
sa introduceva tra il regime di tempo pieno e il regime di tempo definito, è
stata attuata una sorta di rivoluzione copernicana: le norme di rango prima-
rio hanno attenuato le incompatibilità disposte per i professori a tempo pie-
no, introducendo una diversa interpretazione delle incompatibilità riguar-
danti i professori a tempo definito, in modo da renderle coerenti con il prin-
cipio della più ampia accessibilità alle cariche elettive e agli incarichi di go-

(16) Raimondi, Lo stato giuridico dei professori universitari tra autonomia statutaria e spin-
te corporative, in Diritto amministrativo, 2002, n. 2.
(17) Il primo è reperibile al sito www.unibo.it e il secondo al sito www.uniud.it.
(18) Reperibile al sito www.unipa.it.
(19) Reperibile al sito www.unipg.it.
(20) reperibile al sito www.unipd.it.
(21) Cassese, L’autonomia delle università nel rinnovamento delle istituzioni, in Foro it.,
1993, V, p. 10.
70 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

verno delle università. Altre norme statali hanno impresso un ulteriore im-
pulso all’autonomia normativa dei singoli atenei, rinviando agli statuti e ai
regolamenti la definizione dei profili funzionali (primo fra tutti la composi-
zione degli organi collegiali) confermando la necessaria diversità delle solu-
zioni in ragione dei diversi contesti e delle diverse realtà.

4. – (segue) Lo status come limite all’interferenza esterna


Ci si chiede, ora, se alla ricostruzione prospettata si possa obiettare che
le norme riguardanti l’elettorato attivo e passivo debbano essere tenute di-
stinte dalle norme di organizzazione, perché relative allo status dei profes-
sori universitari.
Invero, mentre le norme di status non ammettono deroghe (non si può,
per esempio, eleggere nel Parlamento un cittadino che non abbia raggiunto
l’età prevista), le norme di organizzazione consentono al corpo dei soggetti
cui spetta la potestà di autogoverno di modulare le proprie scelte: consen-
tendo che sia eletto qualsiasi professore di prima fascia, come è previsto dal-
lo Statuto dell’Università di Bologna, o ammettendo che, in mancanza di
un professore di prima fascia a tempo pieno, ne sia eletto uno a tempo defi-
nito, come è previsto dallo Statuto dell’Università di Napoli “Federico II” (22).
Allo stesso modo, se, per la direzione dei dipartimenti, viene permessa l’e-
stensione dell’elettorato passivo ai professori di seconda fascia, nel caso in
cui nessun professore di prima fascia sia disponibile (art. 4, comma 2°, l.
56/2002) è perché non si tratta di scelte rigide, ma che possono variare in
funzione delle esigenze che di volta in volta si presentano.
Ad ogni modo, anche se si optasse per la tesi in base alla quale le norme
sull’elettorato debbano essere ricondotte alle norme di status, è da sottoli-
neare che la loro funzione non è di limitare l’autogoverno dei docenti, ma
di tutelarlo da interferenze da parte di altri soggetti. Si considerino, in parti-
colare, le svariate pronunce con le quali il giudice amministrativo ha annul-
lato le disposizioni degli statuti che alteravano le regole sull’elezione del
rettore e del preside, estendendo l’elettorato attivo ad altre categorie di per-
sonale, come i ricercatori o gli studenti (23).
Il problema che la giurisprudenza ha inteso risolvere è quello della tute-
la dei professori universitari dalle lesioni derivanti dalle disposizioni statu-
tarie che innovavano “profondamente le modalità di elezione degli organi
monocratici e collegiali, ammettendo al voto per l’elezione del Preside e del

(22) Reperibile su www.unina.it.


(23) Cons. St., VI, 23 settembre 1998, n. 1269 in Foro Amm., 1998, p. 2400 o in Cons. Stato,
1998, I, p. 1352; Cons. St., 20 giugno 2001, n. 3296 in Foro Amm., 2001, 6; Cons. giust. amm.
Reg. Sicilia, 14 ottobre 1999, n. 564, in Cons. Stato, 1999, I, p. 1772.
DIBATTITI 71

Rettore soggetti prima non legittimati, e ampliando la partecipazione nei


consigli di facoltà e nei consigli di corsi di laurea ai ricercatori, che non ne
hanno titolo” (24). Si è trattato, cioè, di tutelare l’autogoverno dell’ente da
parte del corpo docente: in buona sostanza, l’unico limite all’autonomia
normativa degli atenei è quello volto a garantire che essi siano, come in pas-
sato, governati dai propri docenti, non da altre componenti. Presenta un
preciso significato, in questa ottica, anche la più recente sentenza della Cor-
te costituzionale 8 marzo 2006, n. 102 (25), con cui è stata dichiarata incosti-
tuzionale l’ingerenza da parte della normativa regionale (26).
Lo stesso testo di riforma del sistema universitario (cd. Riforma Gelmi-
ni) al momento approvato solo al Senato il 29 luglio 2010 – prevedendo che
“lo statuto di ateneo stabilisce eventuali condizioni di incompatibilità dei
professori a tempo definito rispetto alle cariche accademiche – sembra an-
dare nel senso di riservare la materia alla competenza statutaria risolvendo
così in radice il problema.
Naturalmente, l’autonomia normativa delle università deve fare i conti
anche con i condizionamenti derivanti dalla necessità del più pieno rispetto
del principio di imparzialità, così da evitare la possibilità per alcuno di avan-
zare arditi paragoni, come quello già in verità avanzato oltre un secolo fa, tra
l’amministrazione autonoma delle università e un “capitolo di canonici, che
pur adempiendo pienamente a’ loro doveri, amministrano le loro prebende sen-
za renderne conto a nessuno” (27).

Cesare Miriello

(24) Cons. St., VI, 20 giugno 2001, n. 3296, cit.


(25) In Giur. cost., 2006, 1, o in Foro amm., 2006, 3, p. 730. Con tale pronuncia la Corte ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 2°, lett. b), l. reg. Campania 20 di-
cembre 2004, n. 13, nella parte in cui prevede l’istituzione di scuole di eccellenza e di master.
La disposizione impugnata, infatti, nel prevedere da parte della Regione l’istituzione di nuo-
vi corsi di studio universitario, interveniva in un settore della materia dell’istruzione – quello
della disciplina degli studi universitari – nel quale alle università è affidata, ai sensi dell’art. 33,
comma ultimo, Cost., la competenza a definire, nei limiti stabili dalle leggi dello Stato (in par-
ticolare, l. 15 maggio 1997, n. 127, e d.m. 22 ottobre 2004, n. 270), i propri ordinamenti, sicché
in tale parte essa è lesiva della competenza attribuita all’autonomia universitaria.
(26) Circa il probelma riguardante il rispettivo ambito di competenza in materia tra Stato
e Regioni cfr. Balduzzi, L’autonomia universitaria dopo la riforma del Titolo V della Costitu-
zione, in Le istituzioni del federalismo, 2004, p. 263.
(27) La frase è tratta da un famoso discorso parlamentare di Silvio Spaventa del 23 gen-
naio 1884 contro il primo d.d.l. Baccelli (discorso riportato in Discorsi parlamentari di Silvio
Spaventa, pubblicati per deliberazione della Camera dei Deputati, Roma, 1913).
Saggi

GIOVANNA VISINTINI

La circolazione delle giurisprudenze (*)

Sommario: 1. La circolazione dei modelli giuridici e i contrasti ideologici tra diritto naziona-
le e diritto comunitario in materia di proprietà. – 2. Influenza delle direttive della Corte
di Strasburgo, in particolare in materia di danno da ingiusto processo. – 3. Le distanze tra
principi europei e diritto interno in materia di poste di danno risarcibili. – 4. L’esigenza di
uno stile delle decisioni italiane fruibile anche all’estero ai fini della circolazione di un
precedente giudiziale innovativo.

1. – Nel 1993 organizzai insieme ad Anna de Vita a Genova le Journées


italiennes della Association H. Capitant des amis de la culture juridique
française, un’associazione che statutariamente da quando è nata persegue
la finalità di verificare la tenuta del code civil in tutti i paesi che direttamen-
te o indirettamente hanno recepito il codice civile francese, o perché impo-
sto con l’occupazione napoleonica, o perché imitato, e i giuristi francesi
iscritti all’associazione, che reca il nome di un grande civilista, confrontano
periodicamente le soluzioni adottate dal code civil con quelle dei codici
adottati in questi paesi. L’obiettivo è di valutarne gli aspetti comuni e le
eventuali differenze a proposito di determinati istituti, sicché di volta in vol-
ta i convegni organizzati dall’Associazione vertono su singoli istituti come
proprietà, contratto, responsabilità civile, ecc. Quella volta il tema, poiché
noi ospitavamo in Italia le Journées venne scelto dal prof. Rodolfo Sacco,
professore emerito dell’Università di Torino e fondatore di una importante
scuola di diritto comparato, il quale suggerì il tema della circolazione dei
modelli giuridici, che dai francesi, per ragioni di statuto, fu circoscritto alla
circolazione del modello giuridico francese (1).
L’idea di Sacco era molto originale per l’epoca e mirava a richiamare

(*) Relazione svolta al Seminario di Contratto e Impresa presso il Centro Studi Toscola-
no il 26 giugno 2010 dal titolo « Il diritto come fattore dello sviluppo economico ».
(1) La circulation du modele juridique français, in Travaux de l’Association Henri Capitant,
tome XLIV, 1993
74 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

l’attenzione, sulla scorta anche di altri studiosi che avevano affrontato il te-
ma (2), sul dato imprescindibile che il diritto è in continua evoluzione e che
la creatività di certe risposte ai bisogni nuovi delle società civili il più delle
volte è il risultato di imitazioni di modelli stranieri. In definitiva il diritto cir-
cola e se in qualche paese qualcuno ha la capacità di inventare nuovi e mi-
gliori modelli di soluzione di problemi reali, avvertiti anche nei paesi vicini,
il modello potrà diffondersi anche in questi.
Ma mentre in un passato non tanto lontano l’imitazione consisteva so-
prattutto nel recepire modelli legislativi (mi riferisco alla grande stagione
delle codificazioni) o nell’importare le metodologie della scienza giuridica
ufficiale (si pensi all’influenza sugli interpreti italiani dell’ottocento dei
grandi commentatori francesi e poi nella prima metà del novecento della
scienza dogmatica di origine tedesca) oggi sempre di più si avverte la ten-
denza ad uniformare il diritto sulla scorta della circolazione delle giurispru-
denze.
Come ha sovente sottolineato Francesco Galgano nei suoi scritti, sem-
pre di più gli avvocati devono esercitarsi nell’affinare la tecnica di interpre-
tazione delle sentenze e non della legge, soprattutto nell’area del diritto ci-
vile dove le disposizioni legislative (spec. quelle del codice civile) sono ar-
caiche e hanno bisogno di un adeguamento alle problematiche odierne e
dunque di integrazione dei loro contenuti da parte dei giudici.
Da qui l’importanza di una cultura dei precedenti giudiziali e della co-
noscenza delle sentenze straniere quando si presentano significativamente
più al passo dei tempi rispetto agli orientamenti dei giudici nazionali.
È in questo contesto che i giuristi devono dar prova, soprattutto nel di-
ritto civile (dalla pratica degli affari alle questioni di diritto familiare e ai di-
ritti umani), della loro capacità di proporre nuovi strumenti giuridici fonda-
ti su un razionale bilanciamento tra costi e benefici, sui valori dell’equità e
dell’efficienza. Soprattutto negli spazi lasciati vuoti dalle norme l’interprete
può creare delle regole per le liti future con tecniche di decisione importate
da altri ordinamenti come, esemplificando, il criterio di ragionevolezza nel-
l’ottica dell’analisi economica del diritto, su cui ha richiamato l’attenzione
di recente, nell’ultimo fascicolo della nostra Rivista, Massimo Franzoni (3).

(2) Gaudemet, Les transferts de droit, in L’Année sociologique, 1976, p. 29; Rodière, Ap-
proche d’un phénomène: les migrations de systèmes juridiques, in Mélanges dédiés à Marty, Tou-
louse, 1978, p. 947 ss.; Watson, Legal transplants, Edimburg, 1974; Agostini, Droit comparé,
Paris, 1988, ivi i capitoli dedicati a « L’évolution des systèmes juridiques » e « Les migrations des
systèmes juridiques ».
(3) M. Franzoni, L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, in questa rivista, 2010,
pag. 367 ss.
SAGGI 75

Il diritto comunitario ha aperto la strada a tutto ciò in quanto sempre più


spesso i giudici italiani hanno dovuto prender atto dell’evoluzione della
giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea e della Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Farò ora qualche esempio di come nell’ambito del diritto interno i giu-
dici nazionali abbiano utilizzato schemi e argomentazioni giuridiche im-
portati dalla giurisprudenza di altri paesi della UE, specialmente francese ed
inglese, modelli inglobati nella giurisprudenza comunitaria, innovando in
questo modo il nostro diritto nazionale.
Ma occorre preliminarmente rilevare che il cammino delle modernizza-
zioni e delle scoperte di nuovi e più razionali strumenti giuridici è contras-
segnato da iniziali contrasti tra il diritto nazionale, da un lato, e quello di
matrice comunitaria, dall’altro lato, e non sempre, bisogna riconoscere, la
composizione dei contrasti è augurabile che si svolga con la predominanza
del modello straniero perché dobbiamo anche difendere le nostre migliori
tradizioni giuridiche.
Ad esempio in tema di proprietà, il diritto a livello europeo sembra es-
sere permeato da liberalismo laddove nella nostra Costituzione, oltreché
nell’interpretazione della Corte costituzionale italiana, incontra il limite
della solidarietà e della funzione sociale (di cui non vi è traccia nella carta di
Nizza e nella costituzione europea in itinere).
Non so se si troverà un equilibrio tra le ideologie di cui è portatore la
Corte di Strasburgo e la concezione fatta propria dalla nostra Costituzione
secondo cui la proprietà non è da qualificare solo in termini di diritto ma è
anche fonte di doveri.
Nella mia biblioteca di famiglia figurano diversi libri di fine ottocento
dedicati alla funzione sociale della proprietà e al socialismo giuridico che
costituirono una lettura privilegiata dei miei antenati che volevano impron-
tare le loro aziende alle nuove idee.
Erano piccoli imprenditori che svolgevano un’attività agricolo-indu-
striale sulla sponda bresciana del lago di Garda: c’erano in fondo al giardino
annesso alla casa padronale, una cartiera, a lato una segheria e dall’altra par-
te, verso il lago, i campi coltivati a grano, il gelso per la produzione della se-
ta, i vigneti e gli oliveti nelle colline a ridosso del lago, per non dire del pa-
scolo in montagna, un mondo che non c’è più da queste parti – dove ormai
predomina il turismo – un mondo tipico dell’economia ottocentesca (4).

(4) Mondo che è ben descritto nel libro di Fabio Visintini, Memorie di un cittadino psi-
chiatra, edito dalle Edizioni scientifiche italiane nel 1983. Quanto alla biblioteca di cui parlo
nel testo, mi limito a ricordare i seguenti libri quasi tutti in edizione in lingua francese: La pro-
priété, thèse comuniste par Paul Lafargue, Réfutation par Yves Guyot, Paris, 1895; La pro-
76 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Quali erano i cardini che hanno ispirato la letteratura che ho ricordato?


Essi, senza ispirarsi del tutto alle tesi marxiane sulla proprietà socialista, im-
plicavano a carico dei proprietari imprenditori una serie di doveri verso i di-
pendenti e la società in cui vivevano e la storia della mia famiglia ne è intes-
suta perché a Toscolano, un paese noto soprattutto per la presenza di un no-
tevole numero di cartiere, lo zio Carlo e il nonno Giovanni le misero in pra-
tica facendo le prime casse mutue per i loro operai e costruendo le condot-
te dell’acqua per il paese e la comunità in cui vivevano.
Principi che furono magistralmente descritti in Italia da Enrico Finzi
che, come ha ricordato Grossi nel suo libro sulla Cultura del civilista italia-
no, ebbe il coraggio di sostenere nel 1923, andando contro corrente, e cioè
contro il modello tradizionale di stampo individualistico, che “la proprietà è
oggi forse più che un diritto, un centro da cui si irraggiano infiniti doveri (5).
D’altronde così si esprimeva l’art. 153 della Costituzione di Weimar del
1919 cui sono ispirati gli artt. 42 e 44 della nostra Costituzione, laddove si
leggono chiare direttive in favore delle proprietà della casa di abitazione e
della proprietà coltivatrice diretta in quanto svolgenti una funzione sociale.
È un interrogativo questo sul contrasto ideologico in materia di pro-
prietà che gli avvocati, che sempre più numerosi lavorano in una dimensio-
ne europea, devono porsi.

2. – Fino ad ora sul terreno del diritto immobiliare gli esempi più em-
blematici di circolazione delle giurisprudenze sono sfavorevoli alla imita-
zione del modello italiano. Si pensi al caso dell’occupazione acquisitiva.
Come è noto la Corte di cassazione ha ritenuto conforme alla Costituzione
l’appropriazione da parte della pubblica amministrazione della proprietà
privata anche se occupata illegittimamente purché giustificata da pubblico
interesse e accompagnata dalla corresponsione di un indennizzo mentre la
Corte di Strasburgo ha condannato lo Stato italiano per aver ammesso tale
sistema in violazione del diritto di proprietà così come inteso in ambito so-
vranazionale.
Altro esempio significativo è quello relativo alle modalità di calcolo del-
l’indennizzo da espropriazione. Qui il nostro legislatore con la legge n.
244/2007 e le pronunce più recenti della Corte di cassazione e della Corte

prietà sociale in due volumi di Alessandro Garelli (professore di scienza delle finanze nel-
la R. Università di Torino), ivi, Proprietà individuale o proprietà collettiva?, Torino, 1898, e una
serie di volumi sull’azione socialista, sul cattolicesimo sociale e in generale sulla “Questione
sociale” dei più famosi filosofi e cultori di scienze sociali ed economiche a partire da Rous-
seau e Jaurès.
(5) P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Giuffrè, 2002, a pag. 69.
SAGGI 77

costituzionale italiana cercano di adeguarsi in questa fase alle direttive del-


la Corte di Strasburgo, anche se rimangono divergenze per ora non sogget-
te a censura.
E dunque oggi sembra che non possiamo più interpretare il significato
della formula “funzione sociale” che si legge nell’art. 42 Cost. alla sola stre-
gua delle idee che l’hanno preceduta ma occorre fare i conti con l’influenza
dei princìpi europei, anche se, a mio giudizio, restano degli spazi all’inter-
prete per argomentare dai princìpi costituzionali italiani (ad esempio come
dirò qui di seguito nella difesa dell’ambiente) e, comunque, dovremmo fa-
re tutto il possibile per accreditarne la sopravvivenza.
Il discorso è, invece, contrassegnato augurabilmente dall’influenza dei
princìpi europei laddove l’evoluzione dei diritti umani è l’effetto di direttive
della Comunità come è avvenuto per il diritto alla privacy che, da diritto ad
essere lasciati soli, all’oblio, si è evoluto fino a comprendere il diritto alla
protezione dei dati personali, una pretesa ad essere conosciuti in modo cor-
retto e corrispondente al vero. Anche se le divergenze tra il nostro sistema
nazionale e quello degli altri paesi europei non mancano laddove si deve af-
frontare il conflitto tra questo diritto e la libertà di stampa, come ci raccon-
tano i giornali di questi giorni sulle intercettazioni. Con riguardo a questo
diritto l’influenza europea può essere salutare.
E in generale non vi è dubbio che lo spazio giuridico globale costituisce
un’arena per contestare il potere esecutivo statale ed ampliare la gamma dei
diritti assicurati ai cittadini nei confronti dei loro stessi Stati di appartenen-
za perché le interazioni tra il commercio mondiale e le regole del diritto
operano in funzione evolutiva e portano alla diffusione dei modelli più evo-
luti (6).
Uno dei diritti di cui si parla molto oggi e che ha provocato una massa di
sentenze della Corte di giustizia ai danni dello Stato italiano è, come è noto,
il diritto alla durata ragionevole dei processi, ove le nostre Corti non si sono
del tutto allineate agli standards europei.
Si tratta di un diritto sacrosanto che stenta ad affermarsi in Italia dove
qualunque cittadino che abbia a che fare con un processo civile sa che le
lungaggini vanno a favore di chi ha torto. Qui, e cioè a causa delle resisten-
ze dei giudici di merito a riconoscere risarcimenti adeguati, è stato necessa-
rio l’intervento nel 2004 delle Sezioni Unite della Cassazione per supporta-
re una interpretazione della legge Pinto conforme alla giurisprudenza della
Corte.
In particolare le Sezioni Unite hanno affermato expressis verbis che: « Ai

(6) Così testualmente S. Cassese, C’è un ordine nello spazio giuridico globale? in Politica
del diritto, 2010, pag.137 ss.
78 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conse-


guente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai
sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, l’ambito della valutazione equitativa,
affidato al giudice di merito, è segnato dal rispetto della Convenzione euro-
pea dei diritti dell’uomo, per come essa vive nelle decisioni, da parte della
Corte europea dei diritti dell’uomo, di casi simili a quello portato all’esame
del giudice nazionale, di tal che è configurabile, in capo al giudice del meri-
to, un obbligo di tener conto dei criteri di determinazione della riparazione
applicati dalla corte europea, pur conservando egli un margine di valutazione
che gli consente di discostarsi, purché in misura ragionevole, dalle liquida-
zioni effettuate da quella Corte in casi simili. Tale regola di conformazione,
inerendo ai rapporti tra la citata legge e la convenzione ed essendo espres-
sione dell’obbligo della giurisdizione nazionale di interpretare e applicare il
diritto interno, per quanto possibile, conformemente alla Convenzione e al-
la giurisprudenza di Strasburgo, ha natura giuridica, onde il mancato rispet-
to di essa da parte del giudice del merito concretizza il vizio di violazione di
legge, denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione [. . .] » (7).
La direttiva che risulta da queste affermazioni sembra piuttosto chiara,
anche se si può sottolineare una certa ambiguità laddove si vuol in qualche
misura salvaguardare uno spazio di autonomia del giudice nazionale (8).
Ma veniamo alla casistica. Il principale motivo di dissidio è stato il crite-
rio c.d. della posta in gioco che i giudici italiani applicavano per ridimensio-
nare l’ammontare del risarcimento o addirittura per escluderlo, ovvero il
criterio dell’entità degli interessi economici in gioco nel processo dove si è
verificato il mancato rispetto del termine ragionevole. Viceversa, nella giu-

(7) Cfr. Cass. Sez.Un., 26 gennaio 2004, n. 1340, in Corr. giur., 2004, 5, p. 607 con nota di R.
Conti, in Giur. it., 2004, p. 944 con nota di Didone. In senso conforme Sez. Un., 26 gennaio
2004, n. 1338, in Foro it., 2004, p. 693 e in Giur. it., 2004, p. 2295 con nota di Vitelli; e Sez. Un.,
26 gennaio 2004, n.1339, in Giur. it., 2004, p. 944 con nota di Didone; Sez. Un., 23 dicembre
2005, n. 28507, in Danno e resp., 2006, p. 745.
(8) Tuttavia vi è stato in dottrina qualche autore che ha sottolineato l’ambiguità della sen-
tenza laddove, da un lato, si avalla una sorta di common law all’italiana indicando il faro dei
precedenti giudiziali di Strasburgo per la valutazione del danno e, dall’altro, si giustifica la le-
gittimità del ricorso a un diverso criterio di calcolo purché in misura ragionevole. Cfr. Sac-
chettini, Un rinvio a principi non definiti ostacola il compito del magistrato, in Guida al diritto,
2004, 43, p. 28; v. anche F. Morozzo Della Rocca, Irragionevole durata del processo: l’alli-
neamento della giurisprudenza nazionale agli standards europei, in Giust. civ., 2006, I, p. 285 ss.;
V. Esposito, Il non ragionevole contrasto del giudice italiano con quello di Strasburgo sulla ra-
gionevole durata del processo, in Corr. giur., 2004, 3, p. 378 ss.; Ferrua, Il Giusto Processo, Bo-
logna, 2005; M. Franzoni, Fatti illeciti, in Commentario codice civile Scialoja-Branca a cura di
F. Galgano, Libro quarto, Delle obbligazioni, artt. 2043, 2056-2059, Bologna-Roma, 2004, sub
art. 2043, p. 204 ss.
SAGGI 79

risprudenza della Corte europea il ricorso a tale criterio è servito ad aumen-


tare il risarcimento del danno morale nelle cause aventi ad oggetto i diritti
fondamentali della persona e gli status personali ove, secondo la Corte, la
speditezza del processo a causa della cruciale importanza della decisione
per i diretti interessati riveste una notevole importanza. Emblematici i casi
dei giudizi promossi da individui danneggiati a seguito di contagio da H.I.V.
o dei procedimenti di divorzio relativamente alle modalità inerenti alla cu-
stodia dei figli e all’abitazione della casa familiare e ancora di quelli per il ri-
conoscimento di paternità.
Attualmente anche la nostra Corte di cassazione sta progressivamente
abbandonando il criterio in esame per allinearsi alla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo, e ha affermato a partire da una sentenza del 2005 che:
« l’ansia ed il patema d’animo conseguenti alla pendenza del processo si ve-
rificano normalmente anche nei giudizi in cui sia esigua la posta in gioco ».
Anche se in un altro passaggio della sentenza si ammette che tale aspetto
può avere un effetto riduttivo dell’entità del risarcimento (9). Anche una
sentenza dell’8 marzo 2010, n. 5532, ha riaffermato il nuovo orientamento
censurando la Corte di Appello di Roma che aveva escluso il risarcimento
in una causa di lavoro in base al modesto valore della controversia, ma ha
aggiunto il seguente enunciato che, mi sembra costituire un altro tentativo
di ridurre le distanze e nel contempo di salvare una certa discrezionalità del
giudice nazionale nella valutazione personalizzata del danno non patrimo-
niale:
« Peraltro la mera esiguità del valore della controversia neppure riveste
incidenza esclusiva sulla riduzione del “quantum debeatur” (il riferimento è
al danno non patrimoniale), siccome deve essere apprezzata, in correlazio-
ne alle condizioni socio-economiche dell’istante, dal momento che solo da
tale riscontro, che deve essere condotto in punto di fatto, può emergere la
prova della misura effettiva dello stress dedotto ».
La tendenza europea alla standardizzazione, peraltro, sembra prevalere
e anche questo forse va in contrasto con il ricorso frequente che i nostri giu-
dici fanno alla valutazione equitativa in questa materia.
Altre differenze nella valutazione dei pregiudizi connessi a una eccessi-
va durata dei processi: il calcolo del periodo rilevante per il computo del-
l’indennizzo. Esemplificando, nel 2005 la Corte di cassazione ha conferma-
to la validità di un diverso criterio di calcolo in conformità alla legge italia-
na, affermando che occorre tener conto del solo periodo eccedente il termi-
ne ragionevole e non anche di ogni anno di pendenza del processo come in-
vece avviene nel sistema di liquidazione dell’indennizzo praticato dalla

(9) Cass. civ., 10 gennaio 2005, n. 297, in Giust. civ., 2005, p. 1204 ss.
80 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Corte europea (10). Qui, dunque, non c’è ancora stato allineamento agli
standard europei, e non mi risulta che vi siano state a tutt’oggi censure.

3. – Le differenze tra i princìpi europei e il nostro diritto interno persi-


stono soprattutto con riferimento alle poste di danno di cui si chiede il ri-
sarcimento.
È noto che in Italia proprio in riferimento alla fattispecie del danno da
ingiusto processo è stata elaborata la figura del danno esistenziale che si è
venuta ad aggiungere al danno non patrimoniale tradizionalmente inteso
come danno morale soggettivo, ovvero il danno consistente nella sofferen-
za e negli stati di ansia e angoscia provocati dall’illecito (si parla come è no-
to di pretium doloris con riferimento al calcolo che si deve fare in via equita-
tiva di questo pregiudizio rigorosamente non rilevante sul piano patrimo-
niale).
Viceversa la Corte europea non conosce questa figura e parla indiffe-
rentemente di pregiudizio morale in dipendenza dall’incertezza e dall’ansia
circa l’esito del giudizio con ripercussioni sulla situazione complessiva eco-
nomica e di salute dell’interessato (11).
Non so dire a questo punto se dobbiamo augurarci che prevalga il mo-
dello italiano in tema di danno esistenziale, ma è certo che in questo setto-
re dei danni alla persona le distanze tra il diritto comunitario e il diritto in-
terno italiano persistono e non è estranea a ciò, lasciatemi dire, la confusio-
ne che caratterizza la disciplina del danno non patrimoniale nel nostro or-
dinamento.
L’emergere di sempre nuove categorie di danno nuoce alla chiarezza e
alla traducibilità a livello europeo delle istanze di cui si fanno portatori i no-
stri giudici.
Non vi è dubbio che le lungaggini processuali creano un disagio esi-
stenziale per le parti in causa e anche per altri soggetti a queste in qualche
modo legati. Ma non vi è bisogno di immaginare una categoria nuova di
danno laddove la legge consente il risarcimento del danno non patrimonia-
le e sottoporla ad un regime probatorio differenziato.
A mio avviso la creazione giurisprudenziale di nuovi danni ha senso nel
nostro ordinamento quando manchino i dati legislativi a cui ancorare una

(10) Cass., 26 aprile 2005, n. 8603, in www.iurisdata.net.


(11) In altra sede ho messo in rilievo che sussistono differenze sul piano probatorio perché
la Corte europea ritiene che il danno in parola non deve essere provato ma calcolato sulla ba-
se di una cifra standard per ogni anno della durata del processo mentre la nostra Cassazione
ha più volte ripetuto che tale danno non può dirsi in re ipsa e va provato da chi invoca il risar-
cimento.
SAGGI 81

responsabilità adeguata al pregiudizio subito dalla vittima. Se si va a vedere


dove operativamente il danno esistenziale viene liquidato dai giudici come
voce autonoma, si tratta dei danni riflessi da uccisione o lesione personale
del congiunto, da mobbing, da illeciti familiari, da pericolo di danni futuri,
specialmente ambientali, e di altre situazioni analoghe. Non vi è dubbio
che, in questi casi, la sensibilità dei nostri giudici nell’apprezzare il disagio
esistenziale dei danneggiati dovrebbe trovare un veicolo per influenzare la
regolamentazione degli altri Paesi.
Il cammino giurisprudenziale che ha caratterizzato la materia, dal dan-
no biologico alla versione costituzionalmente orientata del danno non pa-
trimoniale, ha percorso tappe molto significative e si caratterizza per una
maggiore estensione dei risarcimenti a prescindere dallo stato economico
del danneggiato e a parità di lesione e all’insegna della tutela di interessi im-
portanti della persona, che in passato venivano ignorati a causa di una visio-
ne eccessivamente patrimonialistica dei pregiudizi connessi alla violazione
dei diritti umani. E, dunque, dovremmo augurarci di costituire un modello,
dal punto di vista della tutela sostanziale dei diritti, per gli altri Paesi. Ma ciò
può avvenire solo a patto di assicurare uno stile delle decisioni fruibile an-
che all’estero.

4. – In particolare è emersa ormai nel quadro di studi comparati con lo


stile delle sentenze francesi, inglesi e tedesche, l’esigenza che i giudici ita-
liani modifichino lo stile delle loro decisioni perché la sentenza-trattato, ca-
ratterizzata da uno stile prolisso e da un inutile richiamo di nozioni e istitu-
ti la cui conoscenza non è influente sull’iter decisionale del giudice, è causa
di notevoli fraintendimenti. Ma anche la sentenza stringata per relationem,
ovvero la sentenza che non è autosufficiente in quanto si riferisce a prece-
denti giudiziali senza darne conto, è una sentenza oscura e come tale non
esportabile. L’obbligo della motivazione ribadito anche dall’art. 111, com-
ma primo della Costituzione, non è ottemperato con il semplice rinvio ad
un precedente perché la motivazione della sentenza costituisce il tramite
non solo per il controllo da parte del giudice dell’impugnazione ma anche
per quello extraprocessuale, ovvero il controllo democratico da parte di
qualunque cittadino. In altri termini la sentenza che, come dice l’intesta-
zione di rito, deve essere pronunciata nel nome del popolo, deve essere leg-
gibile anche da parte di soggetti non addetti ai lavori, soprattutto dai giorna-
listi che sempre più affollano i giornali di cronaca giudiziaria fraintenden-
dola e comunicando notizie infondate.
Naturalmente occorre anche un aggiornamento continuo da parte dei
magistrati per evitare, come a volte succede, che rimangano ancorati agli
studi fatti al momento dell’entrata in carriera.
Per restare nell’ambito del danno alla persona non può ammettersi che
82 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

la Suprema Corte, per rifiutare la delibazione di una sentenza di condanna


statunitense al pagamento dei punitives damages, affermi a chiare lettere:
« l’idea della sanzione e della punizione è estranea al risarcimento del dan-
no, così come è indifferente la condotta del danneggiante: alla responsabi-
lità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale
del soggetto che ha subìto la lesione mediante il pagamento di una somma
di danaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato » (12); o
che, in presenza di immissioni di onde elettromagnetiche, sempre la stessa
Corte affermi che « in mancanza di un principio codificato di precauzione
che consenta una tutela avanzata a fronte di eventi di potenziale ma non
provata pericolosità, deve escludersi in questi casi il diritto al risarcimento
di un danno del tutto ipotetico » (13). Queste prese di posizione sono infatti
superate dal momento che il principio di precauzione è già entrato nel no-
stro ordinamento grazie a una direttiva comunitaria (14) e che non esiste al-
cun principio di ordine pubblico che impedisca ai giudici italiani, come han-
no fatto pacificamente i loro colleghi francesi, di tener conto, nella valuta-
zione dei danni alla persona, della particolare intensità dell’offesa e della
colpa grave del danneggiante.
In questo settore l’interprete dovrebbe recuperare tutto il bagaglio di ar-
gomentazioni a partire dai valori costituzionali che hanno consentito ai giu-
risti italiani di difendere gli abitanti, proprietari o non, delle case vicine agli
stabilimenti industriali che producono inquinamenti tutte le volte che la lo-
ro richiesta di tutela coincideva con l’interesse collettivo alla salubrità del-

(12) Cfr. Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in Corriere giur. 2007, p. 498 con nota di Fava, Pu-
nitive damage e ordine pubblico: la Cassazione blocca lo sbarco.
(13) Cass., 23 gennaio 2007, n. 1391, da CED Cassazione, 2007.
(14) V. art 304 intitolato: “Azione di prevenzione del Codice dell’ambiente” che recita:
1. Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia im-
minente che si verifichi, l’operatore interessato adotta, entro ventiquattro ore e a proprie spe-
se, le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza.
2. L’operatore deve far precedere gli interventi di cui al comma 1° da apposita comunica-
zione al comune, alla provincia, alla regione, o alla provincia autonoma nel cui territorio si
prospetta l’evento lesivo, nonché al Prefetto della provincia che nelle ventiquattro ore suc-
cessive informa il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio. Tale comunicazione de-
ve avere ad oggetto tutti gli aspetti pertinenti della situazione, ed in particolare le generalità
dell’operatore, le caratteristiche del sito interessato, le matrici ambientali presumibilmente
coinvolte e la descrizione degli interventi da eseguire. La comunicazione, non appena perve-
nuta al comune, abilita immediatamente l’operatore alla realizzazione degli interventi di cui
al comma 1° . Se l’operatore non provvede agli interventi di cui al comma 1° e alla comunica-
zione di cui al presente comma, l’autorità preposta al controllo o comunque il Ministero del-
l’ambiente e della tutela del territorio irroga una sanzione amministrativa non inferiore a mil-
le euro né superiore a tremila euro per ogni giorno di ritardo.
SAGGI 83

l’ambiente. Argomentazioni che a partire dall’art. 32 Cost. suggerivano di


concedere non solo un indennizzo ma l’inibitoria delle immissioni nocive e
l’adozione di impianti riduttivi delle immissioni, attraverso un bilancia-
mento tra l’interesse alla produzione e quello, altrettanto di natura colletti-
va, della difesa dell’ambiente, in applicazione dell’art. 844 c. c.
Per non dire del precedente giudiziale delle Sezioni Unite (il caso Seve-
so) ignorato dalle sentenze testé citate e di cui riporto la massima, peraltro
elaborata da chi vi parla, e corrispondente alla effettiva decisione espressa in
quella vicenda. Ecco un precedente vincolante perché espresso dalle Sezio-
ni Unite che ribalta la concezione classica della responsabilità civile:
« In caso di compromissione dell’ambiente a seguito di disastro colposo
il danno morale soggettivo lamentato dai soggetti che si trovano in una par-
ticolare situazione (in quanto abitano o lavorano in detto ambiente) e che
provino in concreto di aver subìto un turbamento psichico di natura transi-
toria a causa dell’esposizione a sostanze inquinanti e alle conseguenti limi-
tazioni del normale svolgimento della loro vita, è risarcibile autonomamen-
te anche in mancanza di una lesione all’integrità psicofisica » (15).
In definitiva, uno scambio di flussi giurisprudenziali in questa materia
così complessa e relativa al diritto umano più rilevante, quello della salute,
sarebbe salutare (mi si scusi il bisticcio) perché possa imporsi il modello di
tutela più razionale e al passo con i tempi che segnalano episodi sempre più
ingenti di disastri ecologici e la necessità di nuovi strumenti giuridici che as-
sicurino una tutela preventiva e non solo riparatoria.
Ben vengano anche le nuove tipologie di danni all’italiana purché non
ripetitive di quelle già esistenti e recepite legislativamente. Nel campo dei
danni da ingiusto processo ove la legge Pinto consente il risarcimento del
danno non patrimoniale, il mio auspicio è che in questo settore si parli di
danno patrimoniale e di danno morale, quest’ultimo in una accezione am-
pia, comprensiva anche del disagio dovuto al protrarsi dell’incertezza sul-
l’esito della lite, senza accreditare anche la figura del cd. danno esistenziale.
Sono in definitiva gli avvocati con l’ausilio della dottrina che devono
funzionare da custodi dei diritti, ma senza dimenticare il rapporto che deve
sussistere tra la violazione dei diritti e una condotta illecita, perseguibile sia
pure solo civilmente. In altri termini richiamo l’attenzione sull’art. 2043 c.c.
e su quelli che lo seguono: per riconoscere un risarcimento occorre dimo-
strare la ricorrenza di un danno ingiusto, di un criterio di imputazione della
responsabilità civile, anche meramente oggettivo, e del nesso causale tra il

(15) Cass. Sez. Un., 21 febbraio 2002, n. 25615 in Giur. it., 2003, 691, con note di Bona e Mi-
gliorati, e in Danno e resp., 2002, con nota di Ponzanelli.
84 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

danno e il fatto da cui è derivato. Non basta inventare nuovi diritti e nuove
categorie di danno.
In conclusione, a mio giudizio, la previsione delle decisioni in questa
materia non sarà facile per gli avvocati e oggi ci troviamo qui a darci carico
di promuovere una cultura del precedente giudiziale e dei flussi giuridici
sufficiente ad affrontare la professione in Europa e non solo a livello del di-
ritto nazionale.
Sono convinta che la “circolazione delle giurisprudenze”, cui ho intito-
lato il mio intervento, rappresenta uno strumento essenziale per capire, al
di là delle differenti concezioni, i valori e i principi che trascendono i confi-
ni territoriali e che hanno una forza vincolante universale in ogni paese ci-
vile.
SOCIETÀ

ANDREA CAPRARA

Decadenza dei sindaci e profili dell’organizzazione

Sommario: 1. Premessa – 2. La natura giuridica della decadenza e la distinzione dalla revoca


per giusta causa – 3. (segue) Accertamento della decadenza e subentro dei supplenti – 4.
Decadenza e ineleggibilità: due facce della stessa medaglia o due medaglie senza faccia?
– 5. Decadenza e riflessi organizzativi: dall’illegittimità degli atti compiuti dall’organo . . .
– 6. (segue) . . . all’invalidità delle delibere del collegio sindacale e (in)applicabilità della
“prova di resistenza”.

1. – In materia di cause di ineleggibilità e decadenza di sindaci il legisla-


tore della riforma, pur non abbandonando la tradizionale impostazione
“per casi e fattispecie” a favore della tecnica normativa per standard, ha pre-
visto, sia pur con diverse formulazioni e ampiezza, tanto per le società chiu-
se (art. 2399 c.c.), quanto per quelle quotate (art. 148 T.U.F.), una clausola
generale che opera quale norma di chiusura in grado di attrarre alla discipli-
na della decadenza e dell’ineleggibilità tutta una serie di ipotesi non tipizza-
te (1).

(1) In argomento v., da ultimo, Tantini, L’indipendenza dei sindaci, Padova, 2010, p. 38 ss.
Peraltro, se si accetta che la normazione “per principi” non costituisce più una remora ri-
guardo alle cause di decadenza, se si accetta, cioè, l’idea che non sono più l’immediatezza e
l’assenza di discrezionalità gli elementi caratterizzanti le ipotesi di ineleggibilità e di deca-
denza, non dovrebbero sorgere problemi nell’ammettere una clausola (generale) statutaria
che preveda, ad esempio, quale causa di decadenza, la sussistenza di rapporti di natura perso-
nale (anche, di fatto) che compromettano l’indipendenza. Cfr. già Pisani Massamormile,
Appunti sugli amministratori indipendenti, in RDS, 2008, p. 237 ss., in part. p. 246.
Maggior perplessità, invece, desterebbero quelle clausole “interpretative” dei possibili
rapporti patrimoniali che incidono sull’indipendenza. In sostanza, si dubita che sia possibile
“tipizzare”, ad esempio, le varie ipotesi di “rapporti patrimoniali” pregiudizievoli per l’indi-
pendenza. Una clausola siffatta, però, in ossequio alla regola della conservazione dell’atto
(art. 1367 c.c.), se ritenuta applicabile nell’interpretazione degli atti costitutivi (cfr. Ibba, L’in-
terpretazione degli statuti societari fra criteri oggettivi e criteri soggettivi, in Riv. dir. civ., 1995, I, p.
525 ss.; Id., L’interpretazione delle regole contrattuali nei contratti associativi, in Riv. dir. civ.,
2006, I, p. 271 ss.; in giurisprudenza v. Cass., 1 marzo 1973, n. 561, in Dir. fall., 1973, II, p. 915),
potrebbe essere intesa come esemplificativa e non esaustiva delle cause di decadenza.
86 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

In questo modo si risolve non solo un problema di tassatività delle ipo-


tesi di decadenza previste dall’art. 2399 c.c., ma anche di non eccezionalità
delle stesse (2).
Questa impostazione non può non incidere anche sulla modalità di con-
cepire sia l’ineleggibilità che la decadenza o, meglio, sembra irradiare sugli
stessi una nuova luce, che lascia nell’ombra argomenti avanzati in passato
soprattutto dalla dottrina.
L’indagine è suggerita da una recente decisione della Cassazione (3) che,
pur pronunciandosi sulla base del diritto previgente, cerca di fare il punto,
tra l’altro, sia sulla modalità con cui opera la decadenza e sulla necessità o

Peraltro, già nella disciplina previgente si ammetteva, seppur con il limite della necessa-
ria determinatezza della fattispecie, la creazione di ulteriori ipotesi di decadenza per via sta-
tutaria. In questo senso v. Libertini, Note in materia di ineleggibilità e decadenza del sindaco
consulente della società, in Giur. comm., 2002, I, p. 270 ss., in part. p. 272, mentre per Fazzutti,
La nomina dei sindaci nelle società “quotate” (e non), in Giur. comm., 2000, I, p. 25 ss., in part. p.
55 s., non sussistono ostacoli normativi insuperabili che precludano l’ammissibilità della
clausola simul stabunt simul cadent con riferimento al sindaco di minoranza nelle società quo-
tate.
Secondo Providenti, in Società per azioni-amministrazione e controlli, a cura di Lo Ca-
scio, Milano, 2003, sub art. 2399, p. 242, l’apertura all’introduzione di clausole statutarie di de-
cadenza è sintomo della consapevolezza dell’insufficienza di quelle legali contenute nell’art.
2399. Svaluta la portata innovativa dell’apertura all’autonomia privata Rigotti, Collegio sin-
dacale. Controllo contabile, Comm. diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano,
2005, sub art. 2397, p. 129 ss.
Infine, nessuna obiezione sembra doversi riscontrare in una procedimentalizzazione
dell’accertamento delle clausole di decadenza, attraverso l’indicazione di un organo idoneo
all’accertamento.
(2) Nel vigore del nuovo testo dell’art. 2399 c.c., Montalenti, Conflitto di interessi e fun-
zioni di controllo: collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, revisori, in Giur. comm., 2007, I, p.
555 ss., in part. p. 558 ritiene, però, che “le disposizioni in tema di incompatibilità del sindaco
siano di stretta interpretazione, non suscettibili di letture analogiche”.
(3) Cass., 15 febbraio-9 maggio 2008, n. 11554, in Guida dir., 2008 31, p. 64 ss., con nota di
M. Leo, La causa d’ineleggibilità dei componenti prescinde da un procedimento di verifica; in
Riv. notariato, 2008, 5, p. 1120 ss., con nota di Ancillotti, Principio di chiarezza e funzione
informativa del bilancio sociale. Decadenza di un membro del collegio sindacale e conseguenze
sugli atti del collegio e degli altri organi sociali; in Foro it., 2009, I, c. 2175 ss., con nota di Naz-
zicone, Sindaco decaduto ed invalidità, diretta e derivata, di deliberazioni societarie; in Giur.
comm., 2009, II, p. 924 ss., con nota di I. Russo, La rilevanza esterna dei chiarimenti forniti da-
gli amministratori in sede di approvazione del bilancio d’esercizio.
La decisione è commentata altresì da Romolotti, Decadenza automatica e atti collegiali
illegittimi: la gestione del rischio, in Dir. e prat. società, 2008 17, p. 58 ss., e da Pastori, Deca-
denza del sindaco ed illegittimità della deliberazione del collegio sindacale, in Giur. comm., 2009,
II, p. 1110 ss.
SAGGI 87

meno di un suo accertamento, sia sulle conseguenze organizzative derivan-


ti dalla persistente presenza di un sindaco decaduto rispetto agli atti com-
piuti dal collegio sindacale “illegittimamente costituito” (4).
La Corte si trova ad affrontare il tema della decadenza del sindaco al fi-
ne di valutare la validità degli atti nel cui procedimento di formazione inter-
viene il collegio. In sostanza, ci si interrogava se la validità della delibera di
un organo (assemblea) può essere pregiudicata da atti (illegittimi) posti in
essere da un altro organo (collegio sindacale). Seguendo l’insegnamento
metodologico di Gino Gorla (5), se il “caso” (“fatti” e “questioni”) era costi-
tuito dall’invalidità derivata, la “risoluzione del caso” è stata rinvenuta nel
principio secondo cui il vizio di costituzione e funzionamento di un organo
della società “è idoneo ad incidere sulla legittimità degli atti da quel mede-
simo organo compiuti, ma non pure degli atti di organi diversi, salvo che
[. . .] si tratti di atti confluenti in un medesimo procedimento, o comunque
di atti tra loro legati da un nesso di consequenzialità necessaria sul piano
giuridico” (6).
Pertanto, nella fattispecie concreta sottoposta alla Corte, l’accertamen-
to del possibile vizio di costituzione del collegio sindacale diventa inutile
(“palesemente superfluo”) rispetto alla delibera di approvazione del bilan-
cio la cui nullità si fa risalire alla violazione della clausola generale della
chiarezza e irrilevante rispetto alla delibera relativa al compenso degli am-
ministratori “perché tale deliberazione [. . .] non comporta alcun ruolo atti-
vo del collegio sindacale [. . .]” (7). Eppure la Corte spende non poche ener-
gie sul punto. Per verificare la correttezza delle argomentazioni addotte, an-
che alla luce delle nuove regole introdotte con la riforma del diritto societa-
rio, occorrerà analizzare la natura della decadenza e la funzione svolta dal-
l’accertamento della stessa e le conseguenze organizzative della mancata
sostituzione del sindaco decaduto.

2. – La Cassazione non si sofferma sulla natura giuridica della decaden-


za (8), limitandosi ad osservare, alla luce dei suoi precedenti che ivi richia-

(4) Cfr. il punto 5.3 della motivazione.


(5) Gorla, voce Precedente giudiziale, in Enc. giur. Treccani, XXIII, Roma, 1990, in part. p.
10 ss.
(6) Così nel punto 6 della motivazione.
(7) Punto 6 della motivazione. Nel punto 5, però, la Corte giustifica l’approfondimento
delle questioni relative alla decadenza per i riflessi che la stessa avrebbe avuto sulla delibera
relativa al compenso degli amministratori.
(8) La Cassazione analizza, infatti, il caso di decadenza determinata dalla sussistenza di
un rapporto continuativo di prestazione d’opera retribuita tra il sindaco, nello specifico il pre-
sidente del collegio, e la società. Fattispecie oggi calata nella lett. c dell’art. 2399 c.c., con lievi
88 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ma, e conscia del dibattito ancora vivo in dottrina, che la stessa opera ipso
iure e non necessita di alcun atto di accertamento (9).
In passato, per giustificare l’automaticità della decadenza, si è ricono-
sciuto, nelle varie ipotesi previste dall’art. 2399 c.c., un comune carattere di
immediata percezione dell’incompatibilità che non richiederebbe, perciò,
alcun giudizio di valore. Si tratterebbe di un meccanismo diretto a garanti-
re l’“efficienza dell’organizzazione societaria” e che risponde all’“esigenza
di certezza, che [. . .] è implicita nella ricostruzione delle fattispecie rilevanti
ai fini della determinazione dei requisiti di ineleggibilità e decadenza” (10).
Una spiegazione siffatta mal si concilia con il nuovo testo dell’art. 2399
c.c., e in particolare con la fattispecie dai confini indeterminati prevista dal-
la sua lett. c, tanto che la miglior dottrina, pur confermando l’impostazione
precedente, ha sostenuto che la decadenza opererebbe talvolta ex lege, tal-
volta a seguito dell’accertamento del verificarsi della fattispecie (11); accer-

modifiche letterali (cfr. sul nuovo testo Cavalli, Il collegio sindacale, in Il nuovo diritto socie-
tario, a cura di Ambrosini, Torino, 2004, I, p. 267 ss., in part. p. 272 s.); ipotesi cioè di decaden-
za c.d. ordinaria (art. 2399 c.c.), normalmente contrapposta, in dottrina, a quella c.d. sanzio-
natoria (v., tra i tanti, Cavalli, I sindaci, in Tratt. delle s.p.a, diretto da Colombo e Portale, 5,
Torino, 1988, p. 56 ss.; Domenichini, Il collegio sindacale nelle società per azioni, in Tratt. dir.
priv., diretto da Rescigno, 16, Torino, 1985, p. 552, Libertini, Note in materia di ineleggibilità e
decadenza del sindaco consulente della società, cit., in part. p. 281 ss.), che si ricollega a meri fat-
ti oggettivi e assenza di profili valutativi, come la mancata partecipazione del sindaco alle riu-
nioni del consiglio di amministrazione o dell’assemblea (cfr. art. 2405 c.c.).
(9) Per i riferimenti, anche giurisprudenziali, si veda Cavalli, Collegio sindacale, in Ca-
valli, Marulli, Silvetti, Le società per azioni, II, 2, Torino, 1996, p. 734 ss.
(10) Così Libertini, Note in materia di ineleggibilità e decadenza del sindaco consulente del-
la società, cit., p. 270 ss., in part. p. 272, da dove è tratto il virgolettato. Per la tesi in parola,
l’“esigenza di certezza” si traduce nella necessità di poter “definire sufficientemente a priori,
ipotesi di incompatibilità e decadenza” (Libertini, Note in materia di ineleggibilità e decaden-
za del sindaco consulente della società, cit., in part. p. 277).
V. anche Angelici, Cavalli, Libertini, Parere pro veritate in materia d’ineleggibilità del
sindaco e società tra professionisti (4 febbraio 2005, indirizzato al Consiglio Nazionale Ragio-
nieri e Periti Commerciali) e Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di società per
azioni, in Giur. comm., 2005, I, p. 237 ss. La tesi sembra peraltro già presente in nuce già nelle
parole di Sasso, A proposito dell’indipendenza del sindaco, in Giur. comm., 1999, I, p. 220 ss., in
part. p. 221, nota 2, ove si esprimono i timori che derivano da un’interpretazione troppo am-
pia delle ipotesi previste dall’art. 2399 c.c., e, con riferimento alla famiglia di fatto, significati-
vamente precisa che se si accetta una tale apertura “si finisce con l’introdurre elementi d’in-
certezza circa l’area di operatività della norma”. Tuttavia, l’a. è conscio che è possibile rinve-
nire molte situazioni di pericolo “astrattamente idonee ad incidere sulla capacità di controllo
del sindaco”, ma ritiene che il problema andrà risolto “sulla base della diligenza prestata e se-
condo gli obblighi che fanno carico all’organo di controllo”.
(11) Cfr. Angelici, Cavalli, Libertini, Parere pro veritate in materia d’ineleggibilità del
SAGGI 89

tamento che dovrebbe avvenire mediante una delibera dell’assemblea, con


la conseguente difficoltà di distinguere la decadenza dalla revoca (12).
Va tuttavia rilevato che, per questa via, si giunge ad alterare un tratto
fondamentale delle garanzie di indipendenza che caratterizzano il sistema
tradizionale rispetto ai sistemi alternativi (e oggi ai revisori) (13), arrivando,
di fatto, ad aggirare il controllo giudiziale sulla giusta causa di revoca (arg. ex
art. 1344 c.c.). Infatti, non si sposta solo ex ante il (potenziale) controllo del-
la legittimità della causa di cessazione dell’incarico, ma muta completa-
mente la prospettiva. Nel caso di specifica ulteriore ipotesi di decadenza si
tratta, infatti, di stabilire, probabilmente in via incidentale, ossia in caso di
impugnazione del provvedimento di comunicazione della decadenza, la
compatibilità tra una norma per sua natura generale ed astratta, posta dal-
l’autonomia privata, e l’ordinamento. In caso di revoca, invece, occorre va-
lutare se in concreto sussiste una giusta causa, per definizione non tipizzata:
cambia pertanto non solo l’oggetto su cui verte l’onere della prova, ma an-
che il suo contenuto e muta l’efficacia della cessazione del rapporto. In pra-
tica, il rischio è di tradurre la decadenza in una presunzione assoluta di giu-
sta causa di revoca; una presunzione vincibile solo dimostrando l’illegitti-
mità della clausola statutaria o la non coincidenza tra fattispecie concreta e
astratta previsione statutaria.
Probabilmente, per tener su due piani distinti revoca e decadenza, so-
prattutto quando si procede all’accertamento mediante una delibera as-
sembleare, è necessario considerare la diversa natura sostanziale che le ca-
ratterizza: la revoca: i) è l’oggetto della delibera e, in quanto tale, determina
precise conseguenze sul piano organizzativo e obbligatorio (necessità che si
nomini il sostituto e, in assenza di giusta causa, obbligo di risarcire il dan-

sindaco e società tra professionisti, cit., p. 22 per i quali dalla decadenza prevista dalla lett. c del-
l’art. 2399 sarebbe “meno plausibile [. . .] trarre la conseguenza di una decadenza automatica,
a prescindere da ogni accertamento”; Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di so-
cietà per azioni, cit., p. 239 s., per il quale la “tesi dell’operatività solo a seguito di un atto di ac-
certamento costitutivo rimane ragionevolmente sostenibile solo nei casi in cui vi possano es-
sere oggettive incertezze sulla compatibilità delle situazioni concrete”.
(12) Tant’è vero che lo stesso Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di società
per azioni, cit., p. 240, nota 6, si vede costretto ad affermare che la “deliberazione sulla deca-
denza si avvicinerebbe pertanto a quella di revoca per giusta causa (art. 2400, comma 2°), con
la differenza che non richiederebbe l’approvazione del Tribunale”. Una distinzione che, al
più, potrebbe trovare qualche (solo apparente) riscontro per il sistema tradizionale, non già in
quelli alternativi, dove la revoca dei soggetti deputati al controllo non è soggetta ad approva-
zione del tribunale.
(13) Si noti come con la riforma sulla revisione legale dei conti, approvata il 27 gennaio
2010 (d.lgs. 39/2010), è stato abolito anche l’art. 2409quater, c.c., che prevedeva il decreto del
tribunale per l’approvazione della delibera di revoca dell’incarico di revisione.
90 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

no); ii) si materializza in un atto (la delibera) i cui effetti, una volta approva-
ta dal tribunale, non hanno bisogno di ulteriori atti di esecuzione.
Altra cosa è la decadenza che, in quanto norma secondaria (ossia san-
zionatoria), opera direttamente sugli effetti dell’atto (l’atto di nomina) pree-
sistente ed efficace.
La qualificazione della decadenza come sanzione (14), ossia come conse-
guenza che l’ordinamento ricollega alla violazione di una regola di condotta,
permette di collocare su due piani distinti elementi (la fattispecie e la sanzio-
ne) che, dal punto di vista funzionale, sono dotati di reciproca autonomia (15).
Infatti, come si è in parte anticipato, non solo non ha alcun riscontro la
definizione come “eccezionali” delle ipotesi di ineleggibilità e decaden-
za (16), ma, anzi, essa è il sintomo dell’inversione, da un punto di vista inter-
pretativo, del rapporto tra mezzo e fine; di aver visto, cioè, nell’elencazione
delle cause di ineleggibilità e decadenza non dei possibili strumenti per fa-
vorire (in particolare) l’indipendenza, ma degli istituti dotati di una propria
finalità: quella di garantire un’esigenza di certezza assicurata dalla modalità
tecnica del loro operare (ipso iure). In sostanza, per la tesi tradizionale: i) la
decadenza (la sanzione) non era più un mezzo per favorire (tra l’altro) l’in-
dipendenza (la norma primaria), ma era essa stessa la fattispecie a cui piega-
re le varie “cause” che la potevano originare: il modo di operare della deca-
denza imponeva di leggere le varie cause in modo “coerente” con tale “fat-

(14) Talvolta si parla anche di norma secondaria. La contrapposizione tra norma primaria
e norma secondaria ha avuto, in dottrina, molto seguito, anche se ha spesso assunto signifi-
cati assai diversi. Per una ricostruzione, nonché per i necessari riferimenti bibliografici v. Fer-
rajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, 1, Teoria del diritto, Bari, 2007, p.
679 ss., e nota 50, E. Russo, L’interpretazione delle leggi civili, Torino, 2000, p. 278 ss.
(15) Cfr. già Betti, Teoria generale del negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. it., diretto da Vas-
salli, XV, Torino, 1960, p. 468, che ritiene opportuno “tenere distinti i due ordini di problemi:
quelli concernenti la diagnosi delle anormalità (la patologia) e quelli concernenti il loro trat-
tamento giuridico”, ma la scissione tra precetto e sanzione si riscontra anche nelle concezio-
ni normativistiche che vedono nell’invalidità il trattamento sanzionatorio dell’atto viziato. Su
questi temi si veda Ascarelli, Inesistenza e nullità, in Scritti giuridici, Milano, 1959, p. 225 ss.;
Irti, La nullità come sanzione civile, in questa rivista, 1987, p. 541 ss.; per un accenno v. Sacco,
De Nova, Il contratto, II, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 496.
(16) La dottrina non si è preoccupata di dimostrare il carattere eccezionale delle disposi-
zioni circa l’ineleggibilità e decadenza, limitandosi ad affermare che “[. . .] si ritengono essere
[disposizioni eccezionali] quelle che pongono limiti alla capacità di assumere cariche od uffi-
ci di qualsiasi tipo”. Così Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 686. L’eccezionalità di una norma
presuppone l’individuazione di un sistema di valori collocato in una posizione poziore nella
catena kelseniana, contraddetta dal disvalore insito, nel caso di specie, nel meccanismo dell’i-
neleggibilità e decadenza. Per un’analoga argomentazione, seppur riferita all’elencazione
delle cause di recesso previste dall’allora vigente art. 2437 c.c., cfr. Galletti, Il recesso nelle
società di capitali, Milano, 2000, p. 305 ss., ove riferimenti di teoria generale.
SAGGI 91

tispecie”; ii) l’ineleggibilità era la mera proiezione nel momento, iniziale,


dell’instaurazione del rapporto tra sindaco e società dell’efficienza “sanzio-
natoria” della decadenza.
In realtà, la corretta prospettiva dovrebbe essere un’altra, ossia quella di
vedere la tipicità nel modo di operare della sanzione (ossia ipso iure), non
nelle fattispecie che ad essa si riconducono: in altri termini, tipicità della
sanzione non è tassatività o eccezionalità delle fattispecie che ne richiedono
l’applicazione.

3. – Se quanto detto consente di precisare la natura della decadenza, oc-


corre ora chiarire le conseguenze che derivano, sempre sul piano organizza-
tivo, dal suo verificarsi e che fanno emergere la (sola) utilità pratica dell’atto
che l’accerta (17).
Si è affermato che la mancata previsione circa l’operatività delle cause di
decadenza e dell’individuazione dell’organo competente “si è tradotta in
un’occasione mancata” (18). Un’affermazione su cui non si ritiene di dover
convenire visto che la disciplina sembra agevolmente ricavabile da un’atten-
ta qualificazione della fattispecie e da disposizioni già presenti nel sistema.
Infatti, se lo statuto o la legge non dispongono diversamente (19), saran-
no i sindaci i primi “interessati” a tale accertamento, poiché, diversamente,
il collegio sindacale rischierebbe di trovarsi costretto ad operare in condi-
zione di non assoluta efficienza (come invece vorrebbe proprio l’automati-
smo dell’art. 2400 c.c.) (20). Un accertamento che non necessariamente do-

(17) Su tali questioni ci si è già intrattenuti nel nostro Le funzioni dei sindaci tra principi ge-
nerali e disciplina, Padova, 2008, p. 281 ss.
(18) Così, commentando la sentenza della S.C., Leo, La causa d’ineleggibilità dei compo-
nenti prescinde da un procedimento di verifica, cit., p. 71 ss., in part. p. 73.
(19) Con riferimento alle possibili aperture statutarie v. quanto si è osservato supra in no-
ta 1.
Sul piano legislativo regole speciali sono previste, ad esempio, per le società bancarie (e
finanziarie capogruppo di gruppi bancari), per gli intermediari e per le società quotate (v. il ri-
chiamo della S. C. al punto 5.1 della decisione del 2008, nonché il commento di Nazzicone,
Sindaco decaduto ed invalidità, diretta e derivata, di deliberazioni societarie, cit., c. 2182 s.).
Peraltro nulla esclude, anche se non fosse previsto dallo statuto, che si proceda, ferma la
sua efficacia ipso iure, ad un accertamento della decadenza per consentire, da un lato, il pro-
dursi dei meccanismi automatici ad essa riconnessi (il subentro del sindaco supplente ex art.
2401 c.c.) e, dall’altro, la tutela dello stesso sindaco decaduto. In questo senso v. già Cavalli,
I sindaci, cit., p. 64. Per ulteriori riferimenti, anche alla dottrina e giurisprudenza contrari, cfr.
Id., Collegio sindacale, cit., p. 734 ss., in part. p. 736 ss.
(20) Per le società quotate, similmente a quanto già accade per le banche (v. Freni, Requi-
siti di professionalità e di onorabilità, in Ferro Luzzi-Gastaldi (a cura di), La nuova legge ban-
caria, I, Milano, 1996, p. 381 ss., in part. p. 430 ss.), il legislatore ha ritenuto opportuno chiari-
92 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

vrà sfociare in una delibera di un organo collegiale (21), data l’efficacia (ipso
iure) con cui opera la decadenza che, dunque, potrebbe essere rilevata me-
diante un qualsiasi atto formale, anche del presidente del collegio o da altro
sindaco (22). Sarà perciò sufficiente una comunicazione che dovrà essere in-
viata sia al sindaco decaduto, sia al supplente chiamato a subentrare (23).
Non è da escludere, inoltre, che tale accertamento possa essere pro-
mosso anche da parte del singolo socio (24) e forse anche del terzo (25) e sen-

re quale sia l’organo competente per l’accertamento. Infatti, l’art. 148 T.U.F., al comma 4°qua-
ter, così come novellato dalla l. risp. (l. 262/2005), attribuisce tale compito al consiglio di am-
ministrazione e, “nelle società organizzate secondo i sistemi dualistico e monistico, [all’]as-
semblea [. . .]”, nonché, in caso di inerzia, la Consob su richiesta di qualsiasi interessato o d’uf-
ficio. La disposizione, che si apre con una clausola che ne limita la portata ai “casi previsti dal
presente articolo”, sembra dettare una regola speciale, agevolando la conclusione per la qua-
le è proprio l’organo di controllo a dover dichiarare la decadenza dei propri membri per i casi
non riconducibili, neppure in via analogica, all’art. 148 T.U.F. (Cfr. Sasso, L’ampliamento dei
poteri di informazione di convocazione dei componenti l’organo di controllo, in De Angelis-Ron-
dinone (a cura di), La tutela del risparmio nella riforma dell’ordinamento finanziario, Torino,
2008, p. 93 ss., in part. 103 ss.).
Più in generale la legislazione speciale sembrerebbe confermare che, in mancanza di di-
versa indicazione, sia proprio il collegio, il cui componente è decaduto, a dover accertare, mo-
tivare e comunicare la causa di cessazione dall’incarico.
In giurisprudenza v. Trib. Milano, 16 marzo 1956, in Foro it., 1957, I, c. 1348; in Riv. dir.
comm., 1957, II, p. 52, per il quale “le cause di decadenza dei sindaci, al pari di quelle degli am-
ministratori [. . .] devono essere rilevate dall’organo sociale competente [. . .]”.
(21) Come, invece, sembra sostenere Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 736 ss.
(22) Anzi costituisce un vero e proprio obbligo giuridico da parte degli altri componenti
del collegio acclarare la verificazione di una causa di decadenza, in quanto rappresenta un do-
vere ricollegabile alla vigilanza sul rispetto della legge e dello statuto. Pertanto il mancato ri-
lievo della decadenza potrebbe fondare anche la promozione dell’azione di responsabilità (se
ne deriva un danno) da parte dell’assemblea o della minoranza ex art. 2393bis c.c. o la revoca
per giusta causa (inadempimento).
(23) La comunicazione andrà estesa a tutti gli interessati, seppur in forme diverse: ai soci,
poiché l’assemblea successiva dovrà “provvedere alla nomina dei sindaci effettivi e supplenti
necessari per l’integrazione del collegio, nel rispetto dell’art. 2397, comma 2°” (2401, comma
1°, c.c.); agli amministratori, affinché adempiano agli oneri pubblicitari (art. 2400, comma 3°,
c.c.). Cfr. a tal proposito il Trib. Mantova, 25 luglio 2009, inedita ma reperibile sul sito www.il-
caso.it, dove, seppur con riferimento alle dimissioni, discostandosi dichiaratamente dall’o-
rientamento della corte di legittimità, si afferma che “[. . .] le dimissioni, per essere efficaci, de-
vono essere comunque comunicate ai sindaci supplenti; la conoscenza dell’effettività della
funzione costituisce, infatti, il presupposto indefettibile [. . .] per l’adempimento dei doveri e
l’esercizio dei poteri che la carica comporta [. . .]” (p. 7 ss. del documento).
(24) Per una rassegna dei diritti individuali di controllo intesi come “verifica della legalità
e regolarità dell’attività della società ed in particolare dell’amministrazione, al fine di assicu-
rare legittimità ed efficienza dell’agire sociale a partire dalla gestione, a protezione in definiti-
SAGGI 93

za che ciò pregiudichi o limiti la tutela del sindaco (26), il quale potrà co-
munque ottenere dal giudice l’accertamento della mancata verificazione
della causa di decadenza e il reintegro nella carica, sgombrando così il cam-
po da dubbie costruzioni soprattutto in tema di impugnazione delle delibe-
re del collegio sindacale che abbia dichiarato (rectius: accertato) la decaden-
za (27).

4. – Se si accetta l’idea che la decadenza è una sanzione organizzativa


per il caso in cui ricorrano determinate condizioni, e che tra le fattispecie in-

va dell’interesse stesso della società, nella sua dimensione collettiva ed unitaria”, si veda Per-
rino, Il controllo individuale del socio di società di capitali: tra funzione e diritto, in Giur.
comm., 2006, I, p. 639 ss., in part. p. 647 ss. L’a., però, non considera, nella sua analisi, la fatti-
specie che si sta analizzando nel testo.
(25) Soprattutto “nelle ipotesi in cui l’indipendenza implichi un giudizio (o una valutazio-
ne giuridica sull’applicazione estensiva o analogica dell’incompatibilità relativa agli status)
[. . .]”; in questi casi “è più consona alla fattispecie e, di fatto, più realistica, una valutazione da
parte del giudice su iniziativa del singolo socio o terzo”. Così Poli, La nuova disciplina del col-
legio sindacale, Padova, 1997, p. 183, nota 109.
È pur vero che nella disciplina positiva non vi sono disposizioni che espressamente legit-
timino il singolo socio ad adire il giudice per ottenere, in contraddittorio con la società, una
tale pronuncia, ma la soluzione ben si attaglia all’efficacia (ipso iure) della decadenza (e alla
natura dichiarativa della pronuncia) e consente, sul piano organizzativo, l’attivazione dei
meccanismi automatici di sostituzione.
(26) Cfr. Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 740. Peraltro la giurisprudenza ammette la le-
gittimazione del sindaco all’impugnazione della delibera assembleare che ne abbia accertato
e dichiarato la decadenza (v. Trib. Milano, 9 giugno 1975, in Giur. comm., 1976, II, p. 551). Ri-
guardo l’onere della prova con riferimento, ad esempio, alla mancata partecipazione alle riu-
nioni assembleari, si è precisato che dovrà essere il sindaco a fornire la prova del giustificato
motivo della sua assenza. Cfr. Trib. Genova, 19 luglio 1993, in Giur. it., 1994, I, 2, c. 327, con
nota di Cottino, Questioni in tema di decadenza (e funzionalità) del Collegio sindacale; Trib.
Genova, 27 aprile 1995, in Società, 1995, p. 1605, con nota di Bonavera.
(27) In caso di delibera del collegio che accerti la decadenza, il sindaco cessato non dovrà
impugnare la delibera chiedendone l’annullamento o la dichiarazione di nullità, perché il giu-
dice non dovrà soffermarsi sulla validità o invalidità della delibera, bensì accertare se vi è sta-
ta o meno una causa legittima di decadenza. In sostanza, proprio per l’automaticità del suo
operare, la decadenza trascende l’atto in cui è contenuto il suo accertamento, che, perciò, ben
potrà essere una delibera o una mera comunicazione. Pertanto quand’anche la delibera non
fosse stata adottata in ossequio alle regole sulla collegialità dell’attività sindacale, il giudice
che accertasse la decadenza, non potrebbe, ponendo nel nulla la delibera, reintegrare il sin-
daco decaduto.
L’intervento del giudice non è condizione di efficacia, né elemento costitutivo e ciò ben
si coordina con l’assenza di un termine per proporre “opposizione” al provvedimento moti-
vato di decadenza e con il limite degli effetti organizzativi già prodotti.
94 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

dicate nell’art. 2399 c.c. (e 148 T.U.F.) va inclusa l’indipendenza (in senso so-
stanziale) (28), da intendersi non solo come principio generale, ma come ve-
ra e propria clausola generale, occorre, seppur brevemente, capire che ruo-
lo svolge l’ineleggibilità e il rapporto con la decadenza.
L’impulso all’indagine proviene proprio dalla fattispecie considerata
dalla Cassazione e dalla funzione che quest’ultima sembra assegnare alla
decadenza nell’ambito dei presidi posti a tutela dell’indipendenza. Infatti,
da un lato l’incompatibilità legata, nel caso sottoposto ai giudici di legitti-
mità, alla sussistenza di un “rapporto continuativo di prestazione d’opera
retribuita” tra sindaco e società viene letta alla luce della tutela dell’indi-
pendenza, intesa come principio cardine del sistema dei controlli (29); dal-
l’altro si precisa che quella accertata è una causa per la quale l’art. 2399 (sia
vecchio che nuovo testo) “fa discendere l’ineleggibilità – e quindi la deca-
denza – del sindaco” (30): la decadenza pertanto opera, nel ragionamento se-
guito dalla Corte, anche per il caso di sindaco eletto ancorché privo del re-
quisito.
Il primo aspetto porta a leggere quella evidenziata come una mera “fat-
tispecie sintomatica” di assenza di indipendenza, ossia una fattispecie che
non assume rilevanza in se e per sé, ma solo in quanto diretta a tutelare l’in-
dipendenza del controllore in presenza di possibili “indici di rischio” (31).
Che poi l’indipendenza sia l’oggetto immediato della tutela è confermato
dalla lettera c dell’attuale formulazione dell’art. 2399 c.c. In sostanza, l’indi-
pendenza troverà sanzione sul piano obbligatorio e della responsabilità in
quanto, se intesa come clausola generale, come fattispecie generatrice di
obbligazioni, consente di individuare uno specifico obbligo di agire indipen-

(28) Si allude ad una qualificazione dell’indipendenza dal punto di vista del contenuto; al-
tra cosa la funzione che essa è deputata a svolgere, su cui v. infra. Su questi temi ci sia consen-
tito il rinvio al nostro Le funzioni dei sindaci tra principi generali e disciplina, cit., p. 143 ss.
(29) Visto che altrimenti “risulterebbe sin troppo agevole aggirare la norma e ne verrebbe
comunque palesemente tradita la ratio, che risiede nell’esigenza di garantire l’indipendenza
di chi è incaricato di delicate funzioni di controllo, in presenza di situazioni idonee a compro-
mettere tale indipendenza quando il controllore sia direttamente implicato nell’attività sulla
quale dovrebbe in seguito esercitare dette funzioni di controllo” (punto 5.2 della motivazio-
ne).
(30) Loc. cit., corsivo nostro, sottolineando implicitamente l’equivalenza tra le due figure.
(31) Circostanze che, cioè, possono maggiormente favorire la lesione del requisito del-
l’indipendenza dei sindaci. Una delimitazione di tali indici di rischio sotto il profilo organiz-
zativo può essere favorita dalla delimitazione dell’area del controllo disegnata dall’art. 2403
c.c.: l’indipendenza andrà assicurata rispetto a quanti, intervenendo in quell’area, potranno
incidere sul corretto esercizio della funzione di controllo, cui l’agire indipendente è valore es-
senziale, ancorché strumentale. Ulteriori riferimenti in Caprara, Le funzioni dei sindaci tra
principi generali e disciplina, cit., p. 143 ss.
SAGGI 95

dente la cui violazione, se genera un danno, costituisce un illecito civile (32).


Ma la sua emersione sul piano direttamente dell’atto è garantita dalla nuo-
va formulazione della lett. c dell’art. 2399 c.c. che, oggi in termini espliciti,
traccia un ponte tra le due sponde: quella della responsabilità e quella del-
l’atto. La violazione della regola di comportamento dell’agire indipendente
esporrà il sindaco alla decadenza dall’incarico.
Circa il secondo aspetto relativo alla nomina di un soggetto ab origine
non indipendente, occorre capire quale relazione corra tra l’ineleggibilità e
la decadenza e che trattamento giuridico riservare a chi, ancorché ineleggi-
bile, sia comunque eletto sindaco.
In passato si era molto discusso sulle conseguenze derivanti dalla nomina
di un sindaco ineleggibile: mentre alcuni ritenevano comunque applicabile il
rimedio della decadenza (33), altri preferivano, seppur con diverse sfumature,
invocare l’invalidità della delibera di nomina sub specie di nullità (34).
A ben vedere però l’ineleggibilità, ancorché condivida le medesime fat-
tispecie della decadenza, non sembra avere natura sanzionatoria, né svolge-
re la medesima funzione. Infatti, essa merita una “lettura in positivo”, ossia
come espressione dei requisiti necessari per l’assunzione della carica. Ap-
pare, perciò, netta la linea distintiva tra ineleggibilità e decadenza che trova-
no come elemento di comunione solo la (occasionale) coincidenza di (talu-
ne) fattispecie.
In altre parole, l’indipendenza si traduce, sul piano organizzativo, in
modo differente a seconda che la tutela sia offerta da una norma (di com-
portamento) primaria (l’ineleggibilità) o da una norma secondaria (la deca-
denza) (35).

(32) L’indipendenza svolge, infatti, una pluralità di funzioni. In argomento si rinvia, per
una più ampia trattazione, il nostro La clausola generale dell’indipendenza: nozione e declina-
zioni operative (in part. § 9), in Tantini-Meruzzi (a cura di), Le clausole generali nel diritto socie-
tario, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., diretto da Galgano, Padova, in corso di pub-
blicazione.
(33) Così Salanitro, L’invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione di so-
cietà per azioni, Milano, 1965, in part. p. 108 ss.; recentemente Franzoni, Gli amministratori e
i sindaci, in Le società, Tratt. diretto da Galgano.
(34) Tra gli altri, Frè, Le società per azioni, cit., 1982, p. 549, ma già nel vigore del codice di
commercio, De Gregorio, Delle società e delle associazioni commerciali, Torino, 1938, p. 625;
ma v. anche Domenichini, Il collegio sindacale nelle società per azioni, cit., p. 558, che costrui-
sce la “nullità relativa” della delibera, attraverso i tradizionali schemi negoziali, limitando l’in-
validità solo alla nomina di quel, o quei, soggetti privi dei requisiti previsti dall’art. 2399 c.c.
Dopo la riforma preferisce parlare di delibera “parzialmente nulla”, Rigotti, Collegio sinda-
cale. Controllo contabile, cit., sub art. 2397, p. 32.
(35) È il modo di operare dell’istituto (sul piano dell’atto) che probabilmente ha portato a
considerare eccezionali le ipotesi di ineleggibilità/decadenza, ossia la caratteristica di “tra-
96 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Infatti, se è vero che per le ipotesi previste dall’art. 2399 c.c. (e dall’art.
148 T.U.F) è difficile superare il dato letterale che sembra comminare la de-
cadenza anche per il sindaco ineleggibile una volta nominato, è altrettanto
vero che vi possono essere anche altre ipotesi a queste non riconducibili.
In altre parole, l’impossibilità di contenere l’indipendenza in senso so-
stanziale entro i confini tracciati, a monte, dall’ineleggibilità e, a valle, dalla
decadenza, spinge ad interrogarsi sulle conseguenze della nomina di un
sindaco senza tale requisito al di fuori delle fattispecie tipizzate.
Rispetto alle tesi tradizionali, elaborate con riferimento al caso di nomi-
na di un sindaco ineleggibile, quella che considera come decaduto il sinda-
co eletto senza i necessari requisiti per ricoprire l’ufficio, incontra, oltre i già
opposti ostacoli di ordine concettuale (36), il rischio che, facendo riferimen-
to a fattispecie che non sono riconducibili, nemmeno in via analogica, a
quelle previste dalla legge, si determinerebbe, a livello pratico, una situa-
zione che favorirebbe la conflittualità tra i soci (37).
Si potrebbe pensare, sempre nel solco delle tesi tradizionali, all’invali-
dità dell’atto di nomina.
In astratto si possono considerare due fattispecie: da un lato la violazio-
ne del dovere di informazione preassembleare e, dall’altro, l’illiceità del-
l’oggetto della delibera.
Rispetto alla prima, la violazione del dovere di informazione, che dirige
verso l’annullabilità della delibera di nomina, trova un aggancio normativo
nel nuovo ult. cpv. dell’art. 2400 c.c., con il quale si impone al candidato di
rendere noti all’assemblea gli “incarichi di amministrazione e di controllo
da essi [i.e. dai candidati sindaci] ricoperti presso altre società” (38). Questo

durre” una regola di comportamento in regola (talvolta) di validità dell’atto (di nomina). Ele-
mento, però, per nulla decisivo in quanto, ancorché sia possibile cogliere un profilo di “spe-
cialità” (non certo l’eccezionalità), questo andrà riferito, come si è già sottolineato in prece-
denza, al modo di operare dell’istituto (ineleggibilità e, rispettivamente, decadenza) e non al-
le fattispecie che trovano tutela mediante esso.
(36) È nota l’obiezione che la decadenza presupporrebbe la regolare costituzione del rap-
porto; circostanza che non ricorre nel caso di specie, poiché il sindaco sin dall’origine difetta-
va dei requisiti necessari per l’assunzione dell’incarico. Cfr. per i riferimenti Cavalli, Collegio
sindacale, cit., p. 699 ss.
(37) Sull’importanza e sui limiti dell’utilizzo dell’argomento conseguenzialista nell’inter-
pretazione cfr. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1994, p. 1 ss.
(38) Disposizione introdotta solo recentemente grazie alla legge sul risparmio (l.n.
262/2005), che, però, ha un chiaro precedente nella disciplina tedesca v. Baums, Il sistema di
« corporate governance » in Germania ed i suoi recenti sviluppi, in Riv. soc., 1999, p. 1 ss., in part.
p. 17. Una disposizione che, secondo un’accreditata dottrina, va estesa “a tutti i requisiti di in-
dipendenza” (Salanitro, Nozione e disciplina degli amministratori indipendenti, in Banca,
borsa, tit. cred., 2008, I, p. 1 ss., in part. p. 8, nota 11).
SAGGI 97

dovere di informazione può ricondursi a due finalità: i) rendere edotti i so-


ci del carico professionale che già grava sul candidato sindaco affinché que-
sti possano valutare, prima di eleggerlo, l’effettiva dedizione che l’eletto po-
trebbe offrire alla società in cui sta per assumere la carica; ii) evidenziare un
potenziale conflitto di interessi tra cariche attualmente (ma, almeno attra-
verso una precisa, ed opportuna, clausola statutaria anche precedentemen-
te) ricoperte dal candidato che, pur non essendo ricomprese nella previsio-
ne dell’art. 2399 c.c., potrebbero, di fatto, ostacolare il corretto espletamen-
to dell’incarico (39). Ora, se è imposto dalla legge comunicare questi dati, a
maggior ragione sarà necessario comunicare le circostanze che potrebbero
incidere sulla serenità di giudizio del futuro sindaco (40). Infatti, nei casi ap-

Nelle società quotate, poi, il dovere di rendere noti gli incarichi già ricoperti (v. anche art.
144duodecies ss. reg. emitt.) è rilevante anche per una nuova ipotesi di decadenza, dichiarata
dalla Consob, introdotta anch’essa dalla legge risparmio con il nuovo art. 148bis T.U.F. (v. an-
che le sanzioni previste nell’art. 193, comma 3bis, T.U.F.).
(39) Nella relazione alla l. 262/2005 (v. in Nigro-Santoro (a cura di), La tutela del rispar-
mio: comm. della l. 28 dicembre 2005, n. 262 e del d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, Torino, 2007,
p. 39) sembrano emergere entrambe. Infatti, questa “disposizione tende a consentire all’as-
semblea di valutare l’idoneità del soggetto rispetto al cumulo degli incarichi rivestiti (e, inci-
dentalmente, di conoscere relazioni con altri soggetti che possano configurare situazioni di
conflitto)”.
(40) Il dovere di informazione preventivo è stato valorizzato, seppur con riferimento al-
l’operatività di una polizza assicurativa per responsabilità professionale da Trib. Milano, 7
febbraio 2003, in Società, 2003, p. 1385, con nota di Redeghieri Baroni, Questioni in tema di
responsabilità degli organi sociali: quantificazione dei danni, omessa vigilanza dei sindaci e co-
pertura assicurativa, per il quale l’omessa “comunicazione di un evento [la dichiarazione di
fallimento della società ove i contraenti operavano come sindaci], il cui significato (in genera-
le e nell’economia del contratto di assicurazione) non poteva sfuggire al contraente facente
uso dei normali canoni di diligenza, anche e soprattutto perché istituzionalmente munito del-
le specifiche nozioni professionali necessarie ad apprezzarlo, integra, a parere del tribunale,
gli estremi della colpa grave di cui all’art. 1892 c.c. [. . .]. L’omissione rileva anche sul versante
oggettivo, poiché incide « sulla reale rappresentazione del rischio », nel senso che appare « di
tale natura (da doversi ritenere) che l’assicuratore non avrebbe dato il suo consenso o non l’a-
vrebbe dato alle medesime condizioni, se avesse conosciuto l’esatta e completa verità » (Cass.
n. 5115/1994)”. I giudici, però, non hanno potuto disporre anche l’annullamento dei contrat-
ti di assicurazione, richiesto in via riconvenzionale, poiché la comparsa di costituzione era
stata depositata solo il giorno precedente all’udienza, in violazione dei termini ex artt. 167 e
171 c.p.c.
La sentenza è significativa perché evidenzia un generale dovere informativo in relazione
alle finalità della clausola contrattuale: l’esatta rappresentazione del rischio corso dall’assicu-
rato. Nel nostro caso il dovere informativo indicato dall’art. 2400 c.c. è espressione parziale e
minima dell’obbligo di rendere edotti i soci di tutte le circostanze che potrebbero incidere
sull’esatto adempimento dell’incarico di vigilanza. In dottrina su questi temi v. Gallo, Asim-
metrie informative e doveri di informazione, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 641 ss., in part. p. 670.
98 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

pena citati, il contenuto dell’informazione ritenuta rilevante dal legislatore


rappresenta un minus e quindi, a fortiori, si dovrebbe ritenere compreso un
dovere informativo di maggior peso, come quello relativo all’indipendenza
dei sindaci.
Tuttavia questa soluzione non è priva di inconvenienti pratici di note-
vole spessore. Infatti, occorre fare i conti con i ridotti termini per l’impu-
gnazione e con una forte compressione della legittimazione all’azione pre-
visti dall’odierno art. 2377 c.c. Si tratta di inconvenienti che potrebbero es-
sere superati prediligendo la soluzione della nullità della delibera, in coe-
renza con la tesi che già è invalsa per il caso di nomina di sindaco ineleggi-
bile. Infatti, si potrebbe affermare che l’indipendenza è un requisito solo in
parte valorizzato dall’art. 2399 c.c. (e 148 T.U.F. per le società quotate), ma
la cui essenzialità rispetto al corretto svolgimento dell’incarico è facilmente
desumibile dal sistema. Pertanto sarebbe irragionevole trattare in modo
differente situazioni giuridiche che rispondono ad una medesima funzione
ed hanno la medesima ratio. In altre parole, se l’indipendenza è un requisi-
to essenziale per chi svolge la funzione di controllo, lo stesso è certamente
assistito da una natura imperativa e, perciò, la sua carenza originaria rende-
rebbe illecito l’oggetto della delibera di nomina (41).
Questo rimedio, tuttavia, importa possibili controindicazioni pratiche
legate sia ad intuibili potenziali risvolti ricattatori, visto che la legittimazio-

(41) La questione è tornata d’attualità soprattutto con riferimento ai rimedi applicabili in


caso di nomina di “amministratori indipendenti” privi di tale requisito. Per Regoli, Gli am-
ministratori indipendenti, in Liber amicorum di Campobasso, Assemblea, amministrazione, 2, a
cura di Portale, Abbadessa, Torino, 2006, p. 385 ss., in part. p. 412 s., in “caso di accertata falsa
auto-attribuzione della qualifica di indipendente” potrebbe invocarsi la decadenza dall’inca-
rico (almeno nei casi previsti, per le società quotate, dall’art. 147ter, commi 3° e 4° e dall’art.
147quater, T.U.F.), ovvero la revoca per giusta causa. L’a., in questo caso, seppur in via dubi-
tativa, prospetta l’applicazione anche della sanzione penale per false comunicazioni sociali ex
art. 2622 c.c., mentre, per la promozione dell’azione sociale o individuale di responsabilità al
fine di ottenere il ristoro dei danni, rinvia a Stella Richter jr., Gli amministratori non ese-
cutivi nell’esperienza italiana, in Banca, impr., soc., 2005, p. 163 ss., in part. p. 170.
Sempre con riguardo agli amministratori indipendenti, N. Salanitro, Nozione e discipli-
na degli amministratori indipendenti, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, p. 1 ss., in part. p. 8 s., ri-
correndo al combinato disposto tra l’art. 2387 e l’art. 2382 c.c., non esita a far derivare, nel si-
stema tradizionale, la decadenza per l’amministratore non indipendente per carenza dei re-
quisiti statutari.
Una via non praticabile, però, per il caso di mancato (originario) rispetto, nel sistema mo-
nistico, della proporzione di “almeno un terzo” di amministratori indipendenti nel consiglio
di amministrazione. L’a., in questa ipotesi, giunge a considerare la delibera di nomina nulla
per illiceità dell’oggetto “[. . .] e si può anche pensare ad un’applicazione a fortiori della disci-
plina dell’art. 2409 c.c. [. . .]”.
SAGGI 99

ne spetterebbe a chiunque vi abbia interesse e per un arco temporale so-


stanzialmente coincidente con l’intera durata dell’incarico; sia all’utilità
concreta del rimedio, visto che i tempi necessari per ottenere una declara-
toria di nullità della delibera non consentono, se non forse in via cautelare,
di ottenere una tempestiva, e quindi efficace, tutela.
Probabilmente la soluzione più soddisfacente è quella che valorizza l’i-
dea che l’indipendenza è, innannzi tutto, una regola di condotta (e non di
validità o efficacia); una soluzione che dirige verso la revoca per giusta cau-
sa. Infatti, il carattere imperativo della norma non contrasta con la qualifi-
cazione della stessa come regola di comportamento, né l’imperatività dirige
necessariamente verso un giudizio di illiceità (42).
Si tratta del rimedio che, anche a livello operativo, sembra offrire una
miglior tutela per l’indipendenza del sindaco, in quanto garantisce una ve-
rifica giudiziale della sussistenza di una giusta causa di revoca. Non manca-
no però, anche in questo caso, possibili rilievi in ordine alla sua efficacia
concreta.
Infatti, per ottenere l’approvazione del tribunale è necessaria una “deli-
berazione di revoca” (art. 2400, comma 2°, c.c.) che difficilmente si otterrà
nel caso in cui la carenza di indipendenza sia da addebitare, ad esempio, ad
un forte legame tra lo stesso sindaco e il socio di maggioranza (43).

(42) Cfr. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 2004, p. 345 ss.; Id., Simula-
zione, nullità del contratto annullabilità del contratto, in Codice civile, Comm. Scialoja-Branca,
Bologna-Roma, sub art. 1418, p. 81 s.; Bianca, Il contratto, 3, Milano, 2000, p. 618. Per un’appli-
cazione specifica di queste distinzioni v. in giurisprudenza, Cass. sez. un., 19 dicembre 2007, n.
26725, in Contratti, 2008, p. 2008, 221 ss., con commento di Sangiovanni, Inosservanza delle
norme di comportamento: la Cassazione esclude la nullità e commentata, tra gli altri anche da
Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni unite della Cassazione,
in questa rivista, 2008, p. 1 ss., in part. p. 8 ss.; Prosperi, Violazione degli obblighi di informazione
nei servizi di investimento e rimedi contrattuali (a proposito di Cass. sez. un., 19 dicembre 2007, nn.
26724 e 26725), in questa rivista, 2008, p. 936 ss. e Autelitano, La natura imperativa delle regole
di condotta degli intermediari finanziari, in I Contratti, 2008, p. 1157 ss. Su questi temi v. già Sar-
tori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari: disciplina e forme di tutela, Milano, 2004.
(43) In tal caso, la soluzione potrebbe passare dall’impugnazione della delibera negativa e
al ricorso a forme di tutela risarcitoria. Cfr. in proposito Cian, La deliberazione negativa del-
l’assemblea nella società per azioni, Torino, 2003, p. 186, che, dopo aver analizzato criticamen-
te le varie teorie (di impronta negoziale e di impronta organizzativo-procedimentale) accoglie
una concezione intermedia che ha le sue radici in una visione negoziale dell’atto deliberativo,
ma aperta ai riflessi organizzativi dell’atto (p. 77 ss.) e, proprio su quel piano, dimostra la rile-
vanza della delibera a contenuto negativo come “delibera in senso tecnico” suscettibile, per-
ciò, di impugnazione. Ma è in quella sede che emergono tutte le difficoltà ad ammettere una
tutela “reale” per l’impugnante; una tutela di tipo “costitutivo-esecutiva” che passa dall’am-
missibilità di una decisione giudiziale che tenga luogo della delibera “positiva” non adottata,
100 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

5. – I Supremi giudici rilevano come l’accertata, ma non tempestiva-


mente dichiarata, decadenza di un sindaco renda illegittimi gli atti (le deli-
bere) del collegio a prescindere dalla misura del contributo del decaduto al-
la formazione dell’atto.
Infatti, nella ricostruzione operata dai giudici di legittimità, la decaden-
za di un sindaco, operando automaticamente, senza che sia necessario un
atto accertativo, determina, se il decaduto non è prontamente sostituito dai
supplenti, l’illegittima composizione del collegio; elemento che, in “man-
canza di una specifica disciplina dell’invalidità degli atti del collegio sinda-
cale [. . .] è idoneo ad incidere sulla legittimità degli atti da quel medesimo
organo compiuti, ma [. . .] pure di organi diversi [. . .]” (44).
Secondo la Corte la collegialità non si riduce alla sola votazione, ma at-
traverso le sue varie fasi consente “sovente forme di integrazione di compe-
tenze professionali diverse che [. . .] rendono [. . .] l’attività di ciascun com-
ponente dell’organo complementare a quella degli altri”: la decadenza di un
sindaco genera, perciò, “l’impossibilità del collegio stesso di correttamente
operare”, realizzando, continua la Corte, un “difetto di costituzione dell’or-
gano e, di riflesso, [. . .] una ragione d’illegittimità degli atti da esso compiu-
ti” (45), se non addirittura la sua “inesistenza giuridica” (46).
Nel caso di specie la Corte giunge all’affermazione del principio attra-
verso l’esaltazione della funzione ponderatoria (47), elevata a carattere tipiz-
zante della collegialità (48), la cui violazione determina l’illegittimità degli
atti adottati dal collegio sindacale con il solo limite che “si tratti di atti con-

soprattutto nei casi in cui il rigetto sia determinato da conflitto di interessi (p. 139 ss. e, per l’in-
vocabilità dello specifico rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., p. 157 ss.). L’a. è tornato recente-
mente sulla questione commentando la pronuncia di Trib. Catania, sez. IV, 10 agosto 2007
(Cian, Abus d’égalité, tutela demolitoria e tutela risarcitoria, in Corriere giur., 2008, p. 399 ss.).
(44) Cfr. punto 6 della motivazione.
(45) Loc. cit. Un’interpretazione che per Romolotti, Decadenza automatica e atti collegia-
li illegittimi: la gestione del rischio, cit., in part. p. 68 ss., finisce per frenare l’attività del collegio
senza favorire la certezza del diritto.
(46) Questione su cui si sofferma Pastori, Decadenza del sindaco ed illegittimità della deli-
berazione del collegio sindacale, cit., p. 1122. V., però, Trib. Milano, 16 marzo 1956, in Foro it.,
1957, I, c. 1348; in Riv. dir. comm., 1957, II, p. 52, per il quale “le cause di decadenza dei sinda-
ci [. . .] non possono essere addotte dal socio per invalidare l’atto, compiuto da uno degli orga-
ni sociali sul presupposto della decadenza di uno dei suoi membri, salvo il caso di collusione,
se tale decadenza non sia stata resa pubblica nel modo dalla legge stabilito”.
(47) In argomento Sodi, Riunioni e deliberazioni del collegio sindacale: profili procedimen-
tali, in Il collegio sindacale, Milano, 2007, p. 125 ss., in part. p. 131 ss., ove si analizzano altre
giustificazioni della collegialità nell’azione dei sindaci.
(48) Cfr., anche per gli ulteriori riferimenti, Pastori, Decadenza del sindaco ed illegittimità
della deliberazione del collegio sindacale, cit., p. 1114.
SAGGI 101

fluenti in un medesimo procedimento, o comunque di atti tra loro legati da


un nesso di consequenzialità necessaria sul piano giuridico”: in questo caso
l’illegittima partecipazione alle riunioni del collegio da parte di un sindaco
decaduto rappresenta un vizio del procedimento complesso che sfocia nel-
la delibera assembleare (49).

6. – La soluzione adottata dalla Corte, condizionata, come la stessa sot-


tolinea, anche dall’assenza di una disciplina specifica per le impugnazioni
delle delibere del collegio sindacale (50), appare eccessiva e ricalca un’idea di

(49) Un tipico esempio è rappresentato dalle delibere di approvazione del bilancio d’eser-
cizio. Parla di “delibere procedimentali”, che si spiegano all’interno di un più ampio procedi-
mento e i cui vizi si traducono in motivi di impugnazione del “provvedimento finale” e non
dell’“atto endoprocedimentale”, Angelici, voce Società per azioni e in accomandita per azio-
ni, in Enc. dir., Milano, 1990, XLII, p. 977 ss., in part., p. 1003 s. L’impostazione risente dell’e-
laborazione teorica sviluppata nei contributi sul procedimento amministrativo, dove si è so-
stenuto che “la struttura seriale del procedimento implica che l’omissione [. . .], così come l’in-
validità di un elemento della serie procedimentale, si rifletta sui successivi e sull’atto finale in-
validandoli in via derivata”. Così Villata, Sala, voce “Procedimento amministrativo”, in Di-
gesto disc. pubbl., XI, Torino, 1996, p. 574 ss., in part., p. 597. Cfr., anche per gli ulteriori riferi-
menti, Butturini, L’impugnazione del bilancio d’esercizio, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. del-
l’econ., diretto da Galgano, XLIV, Padova, 2007, p. 60 e p. 87.
Seppur per diverse ragioni, condivide l’opinione anche Cesqui, I poteri individuali dei
sindaci, Parma, s.d. (ma 1984), p. 256, per il quale lo scarso interesse della dottrina per l’impu-
gnativa delle delibere del collegio sindacale è da ricollegare non solo all’“elasticità del funzio-
namento dell’attività di controllo sulla gestione sociale [. . .]” ma anche “all’inevitabile conse-
guenza di un sistema di controllo sull’amministrazione sociale qualificata dall’essere [. . .] a
carattere eminentemente individuale”.
(50) Peraltro sono assai scarse le occasioni in cui la giurisprudenza ha avuto modo di pro-
nunciarsi sulla stessa impugnabilità di tali delibere. Sembra propendere per l’impugnabilità
Pret. Roma, 2 febbraio 1978, in Riv. dott. comm., 1978, p. 1055; in Foro it., 1978, I, c. 761. In
quell’occasione il consiglio di amministrazione richiedeva la concessione di un provvedi-
mento ex art. 700 c.p.c. per paralizzare la delibera del collegio sindacale con cui si era disposta
la convocazione dell’assemblea per deliberare, tra l’altro, la revoca del consiglio di ammini-
strazione. Il Giudice respinse la domanda, affermando, però, che, in caso di contrasti interor-
ganici, “si ritiene sussistente la legittimazione all’azione, sia attiva che passiva di entrambi gli
organi”.
Un accenno si trova anche in Cass., 5 aprile 1973, n. 2489, in Giur. comm., 1974, II, p. 271
ss., con nota di Portale, Problemi in tema di valutazione e revisione della stima dei conferimenti
in natura (con postilla sul sindaco “minorenne”), per la quale, in un caso di conferimento in na-
tura in cui veniva impugnata dal conferente la delibera di revisione della stima operata da am-
ministratori e sindaci ex art. 2343 c.c., “l’impugnazione separata della deliberazione degli am-
ministratori e dei sindaci [. . .] è [. . .] inammissibile, perché non da essa deriva direttamente e
immediatamente il danno al socio conferente, ma dalla deliberazione assembleare, che riduce
il numero delle azioni da assegnare al socio come controprestazione del conferimento”.
102 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

collegialità molto rigorosa e formale (di ispirazione pubblicistica) a cui è


estranea anche la c.d. prova di resistenza (51), cui spesso la giurisprudenza
ha fatto ricorso anche in campo societario (52).
Con riferimento alla stessa impugnabilità delle delibere collegiali, an-
che la dottrina si è dimostrata molto divisa.
Senza entrare nel coacervo di opinioni che si registrano sul punto (53),
sarà qui sufficiente osservare che se ci si limitasse a ricercare una soluzione
sul piano organizzativo, l’intera attività si snoderebbe tra le difficoltà di qua-
lificazione dell’atto e il suo trattamento giuridico (54).
In realtà, però, il problema è un altro: non è necessario capire se sia pos-
sibile configurare delle irregolarità nel procedimento o nel contenuto della
delibera del collegio in riferimento ad un modello di collegialità (55), quanto

(51) Nel punto 5.2 della motivazione si legge, infatti, che “appare arbitraria la pretesa di fa-
re applicazione della cosiddetta prova di resistenza anche per le deliberazioni di tale organo”.
(52) Non ricorrono, a quanto consta, precedenti editi specifici sull’applicabilità della pro-
va di resistenza a delibere del collegio sindacale. Tuttavia la giurisprudenza ha fatto ampio ri-
corso a questo principio anche in assenza di una disposizione puntuale. Cfr. Trib. Udine, 8 ot-
tobre 2001, in Società, 2002, p. 364, con commento di Gennari, Adozione, con voto di soggetti
non legittimati, di delibera per il ripianamento delle perdite mediante versamenti dei soci, con ri-
chiami anche alla giurisprudenza della S.C., ove, seppur con riferimento all’approvazione di
una delibera cui partecipino soggetti non legittimati, si afferma che è “principio consolidato e
pienamente condivisibile che la c.d. prova di resistenza [. . .] costituisca un principio di più am-
pia applicazione in materia di funzionamento degli organi collegiali [. . .]”.
Peraltro uno specifico riferimento alla prova di resistenza si ricava dall’art. 2373 c.c.; di-
sposizione ritenuta non eccezionale dalla dottrina che ne ammette l’applicazione analogica
anche a fattispecie non contemplate. Cfr. Guerrera, La responsabilità “deliberativa” nelle so-
cietà di capitali, Torino, 2004, p. 184.
Condivide l’opinione dei supremi giudici, Nazzicone, Sindaco decaduto ed invalidità, di-
retta e derivata, di deliberazioni societarie, cit., c. 2186 s., rifacendosi anche ai principi espressi
dalla giustizia amministrativa.
(53) Riferimenti in Cavalli, Collegio sindacale, cit., p. 759 ss., Magnani, Collegio sindaca-
le. Controllo contabile, Comm. diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano, 2005,
sub art. 2404, p. 233, Sodi, Riunioni e deliberazioni del collegio sindacale: profili procedimenta-
li, cit., in part. p. 142 s.
(54) Sul “fenomeno di imputazione” si rinvia a Angelici, La società nulla, Milano, 1974,
p. 88 ss.
(55) Il contrasto (o la non conformità) tra norma e azione (rispetto ad un comportamento
violato o omissione rispetto a un comportamento dovuto) non è un dato storicamente suffi-
ciente per cogliere le conseguenze dell’antinomia: è l’ordinamento che predispone quei mec-
canismi ritenuti idonei per la sua conservazione; è l’ordinamento che prevede le “sanzioni”,
come misure cui ricorrere “[. . .] per ottenere la massima osservanza delle sue norme [. . .]” e
tra le quali può trovare spazio anche la nullità (o annullamento) e il risarcimento del danno
per violazione del neminem laedere (v. Bobbio, voce Sanzione, cit., p. 530 ss., in part. p. 535 ss.).
SAGGI 103

se tali irregolarità si possono tradurre in cause di impugnazione (56). Se si co-


struisce la funzione di controllo in termini di attività e, quindi, in termini di
comportamento, ci si rende subito conto di come resti ben poco spazio al-
l’individuazione di una disciplina dell’impugnativa delle delibere del colle-
gio sindacale: non c’è una lacuna da colmare e una diversa soluzione sareb-
be solo un pericolo proprio per l’indipendenza dell’organo di controllo (57).
L’analisi operata dalla dottrina tradizionale, e fondamentalmente ripro-
posta nei recenti commenti al testo novellato, pur nell’apparente coerenza
logica e sistematica, sembra cadere nel medesimo equivoco. In sostanza, l’i-
dea centrale comune alle diverse posizioni presenti in dottrina è quella se-
condo la quale, quando i sindaci operano come collegio, il risultato dell’at-
tività è un atto che, in quanto tale, è suscettibile di un giudizio di validità o
invalidità (58). Il discorso, invece, andrebbe capovolto: la delibera del colle-
gio sindacale non deve essere vista come manifestazione collegiale della vo-
lontà di un organo, bensì come modo attraverso cui l’attività del collegio si
esplica. In altri termini, l’atto non è il momento finale, ma il mezzo attra-
verso cui si realizza l’attività del collegio: la descrizione legislativa della fun-
zione del collegio sindacale è operata in termini di “comportamento” e non
di “atto”, come invece avviene per le delibere assembleari (59).

Cfr., inoltre, sui concetti di illegalità (antigiuridicità) e illiceità Trimarchi, voce Illecito
(dir. priv.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, p. 90, e Scognamiglio, voce Illecito, in Noviss. dig.
it., VII, Torino, 1972, p. 164 ss.
(56) Con riferimento alle delibere assembleari, non si è spezzata la corrispondenza specu-
lare tra validità e invalidità delle delibere (Cfr. Sacchi, Tutela reale e tutela obbligatoria, in
Abadessa-Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società, 2, Torino, 2006, p. 133 ss.; Stagno
d’Alcontres, L’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea di s.p.a. La nuova disciplina, ivi, p.
167 ss.), ma si è operata, attraverso l’istituto della legittimazione attiva, una compressione del
possibile contenuto della domanda. Rispetto al collegio sindacale, il problema è diverso, in
quanto se l’atto deliberato è in realtà solo una modalità di esecuzione di un’attività, è su quel
piano, ossia della violazione della regola di comportamento, che occorre trovare la sanzione.
(57) Diversa l’opinione di Nazzicone, Sindaco decaduto ed invalidità, diretta e derivata, di
deliberazioni societarie, cit., c. 2185 s.
(58) Questa concezione è presente anche in quella dottrina che nega l’impugnabilità del-
la delibera del collegio sulla base del fatto che i sindaci non operano collegialmente o che af-
ferma la non impugnabilità per mancanza di un’espressa previsione di legge.
(59) La tesi è stata sviluppata nello studio sulla patologia delle delibere assembleari e del
consiglio di amministrazione da Ferro Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari
alla legge e all’atto costitutivo, Milano, 1993, rist., p. 183 ss., in part. p. 197 ss.
Ad analoghe conclusioni si deve giungere anche in presenza di un interesse particolare di
un sindaco nell’esercizio dell’attività di controllo. V., però, per il dovere di astensione, Liber-
tini, Note in materia di ineleggibilità e decadenza del sindaco consulente della società, cit., in
part. p. 289; Desideri, Indipendenza e collegialità dell’organo di controllo, in Società, 1997, p.
104 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Gli atti collegiali sono, dunque, mera espressione tecnica dell’azione


collettiva, che potrà essere censurata solo sul piano della responsabilità e
dell’efficacia (60), salva, se ritenuta ammissibile nei confronti dei sindaci, la
denuncia ex art. 2409 c.c. (61).
Peraltro, appare eccessiva anche la soluzione che si ispira all’applicazio-
ne dei principi amministrativistici sui vizi endoprocedimentali in presenza
di procedimenti complessi, principi che porterebbero all’automatica impu-
gnabilità della delibera assembleare (in particolare le delibere di approva-
zione del bilancio) se il collegio opera (per esempio approvando la relazio-
ne ex art. 2429 c.c.) pur in presenza di un sindaco decaduto (62).
Il tema meriterebbe ben altro spazio, ma la soluzione ventilata dalla
Cassazione, per la quale la mera composizione illegittima del collegio si po-
trebbe tradurre nella “inesistenza giuridica” del suo operato sembra difficil-
mente accoglibile sul piano concettuale e molto pericolosa su quello prati-
co.
Infatti, la decadenza non rilevata di un sindaco potrà incidere (astratta-
mente) sul piano formale della formazione dell’atto (collegiale) deliberato

144 ss.; Tedeschi, Il collegio sindacale, in Codice civile, Comm. diretto da Schlesinger, Milano,
1992, sub art. 2404, p. 267.
Inoltre, con riguardo alle società con azioni quotate, il codice di autodisciplina del 2006
prevede, al criterio applicativo 10.C.4, che il sindaco il quale, “per conto proprio o di terzi, ab-
bia un interesse in una determinata operazione dell’emittente informa tempestivamente e in
modo esauriente gli altri sindaci e il presidente del consiglio di amministrazione circa natura,
termini, origine e portata del proprio interesse”.
(60) L’argomento è già stato impiegato in dottrina per spiegare l’inefficacia delle delibere
assembleari, ma anche del consiglio di amministrazione che incidano su diritti individuali dei
soci, cercando di portare la tutela sulla (assoluta) inefficacia dell’atto prima ancora che sulla
sua validità, in quanto così si individuano dei limiti all’esercizio del “potere”, non dei para-
metri cui rapportare il suo esercizio per valutarne la validità. Parla di “limite esterno all’ope-
ratività del procedimento che determina l’inefficacia della delibera assunta in loro violazio-
ne”, Ferro Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari alla legge e all’atto costitutivo,
cit., p. 138, nota 32.
(61) In proposito v. Chizzini, Modifiche al controllo giudiziale sulla gestione del novellato
art. 2409 c.c., in Riv. dir. civ., 2004, II, p. 727 ss., in part. p. 738; Dalmotto, in Il nuovo diritto so-
cietario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Bologna, 2004, sub art. 2409, p.
1252; Montagnani, Il controllo giudiziario: ambito di applicazione e limiti dell’attuale tutela, in
Riv. soc., 2004, p. 1105 ss., in part. p. 1133. In giurisprudenza, prima della riforma, si è ritenuto
costituiscano gravi irregolarità anche, tra l’altro, “il mancato funzionamento del collegio sin-
dacale” (cfr. Trib. Palermo, 1 dicembre 1972, in Giur. merito, 1974, II, p. 104, affermazione ri-
badita anche nel successivo grado di giudizio di App. Palermo, 20 luglio 1973, in Giur. comm.,
1974, II, p. 106).
(62) Nella giurisprudenza di merito v. Trib. Monza, 16 febbraio 1993, in Dir. fall., 1993, II,
p. 873.
SAGGI 105

dai sindaci, ma non incide necessariamente sul valore informativo a cui l’at-
to stesso è deputato: un piano, dunque, procedurale che, se trasportato su
quello procedimentale di approvazione del bilancio, porterebbe all’inevita-
bile invalità della delibera assembleare. Questa soluzione diventa peraltro
un mero automatismo se si considera la rigida combinazione tra efficacia
ipso iure della decadenza ed inammissibilità della prova di resistenza.
Sul piano pratico-operativo la conseguenza potrebbe essere il favorire
impugnazioni delle delibere assembleari (soprattutto di approvazione del
bilancio) per cause legate alla decadenza di un sindaco per violazione, ad
esempio, del criterio (regola di comportamento) dell’agire indipendente ex
art. 2399, lett. c, c.c., agevolando per tal via la conflittualità e le manovre ri-
cattatorie. Senza trascurare che parlare di un organo giuridicamente inesi-
stente implica che anche gli atti che esso emana sono giuridicamente inesi-
stenti con la conseguenza, aberrante ma non remota, secondo taluni orien-
tamenti, di considerare addirittura nulla la delibera assembleare (63), con
quel che ne consegue sul piano della legittimazione e dei termini per l’im-
pugnazione (artt. 2377 ss., c.c.).
In definitiva, la mera decadenza del sindaco non consente, di per sé,
l’accesso a rimedi di tipo invalidativo dell’atto assembleare, ma solo di na-
tura obbligatoria.

(63) Per i riferimenti v. Butturini, L’impugnazione del bilancio d’esercizio, cit., p. 81 ss.
DARIO SCARPA

La delega gestoria nella spa:


architettura delle interazioni tra delegati e deleganti

Sommario: 1. Delega gestoria nella società per azioni in funzione del perseguimento dell’ef-
ficacia della corporate governance e della razionalizzazione dell’esercizio del potere ge-
storio. Qualificazione giuridica del rapporto giuridico tra delegato e società. – 2. Concor-
renza gestoria tra organo collegiale e singolo amministratore delegato e potere di avoca-
zione come limiti di estensione applicativa della delega: rapporto tra collegialità dell’or-
gano amministrativo e conferimento di delega. – 3. Studio delle modalità di attuazione
della delega e funzioni, determinazione di contenuto e limiti di esercizio della delega,
analisi della ratio delle attribuzioni indelegabili. – 4. Sindacato dell’attività gestoria (e di-
screzionale) dell’organo delegato e analisi del dovere di diligenza in funzione dell’accer-
tamento della responsabilità dell’amministratore delegato. – 5. Individuazione del rap-
porto tra delega e flussi informativi tra deleganti e delegati all’esito dell’introduzione del
principio dell’agire in modo informato nella gestione della spa.

1. – La constatazione delle difficoltà derivanti dalla circostanza che la


gestione della società per azioni sia, complessivamente, esercitata da un or-
gano collegiale, di fronte all’evidente opportunità che la gestione societaria
sia, in modo maggiormente efficiente e dinamico, affidata ad un board più
ristretto o a singoli membri del consiglio di amministrazione (1), fa emerge-

(1) Sulla delega la dottrina commercialistica è ampia, per un riferimento classico si veda
Fanelli, La delega di potere amministrativo nella società per azioni, Milano, 1952 e Minervi-
ni, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956. Ed inoltre Frè, Società per azioni,
Artt. 2325-2461, in Comm. Scialoja-Branca, 1951, (ora Frè-Sbisà, Della società per azioni, to-
mo I, Artt. 2325-2409, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, 1997, p. 34 ss.; Desario,
La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, Cacucci, 2007, p. 5 ss.; Pesce,
Amministrazione e delega di potere amministrativo nella società per azioni (Comitato esecutivo e
amministratore delegato), Milano, 1969, p. 69; Ferri, Le società, in Tratt. Vassalli, X, tomo III,
Torino, 1987, p. 684; Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze, 1982, p. 132 ss.; Desario,
La gestione delegata nelle società di capitali, Bari, 2007, p. 5 ss.; Barachini, La gestione delega-
ta nella società per azioni, Torino, 2004, p. 82 ss.; Pisani, Le obbligazioni, in Liber amicorum
Gian Franco Campobasso, Torino, 2004, vol. 1, p. 778. Si conviene sul divieto di delega di ta-
lune materie, quale tecnica di corporate governance al fine di rafforzare l’effettività della fun-
zione consiliare, cfr., per una visione comparatistica, Esteban Velasco, La renovación de la
estructura de la administración en el marco del debate sobre el gobierno corporativo, in Aa.Vv.,
El gobierno de las sociedades cotizadas, Esteban Velasco (Coordinador), Madrid-Barcelona,
1999, p. 180; e, nella nostra dottrina, Montalenti, L’amministrazione sociale dal testo unico al-
SAGGI 107

re, di guisa, l’esigenza di attribuire, in tutto o almeno in parte, le complessi-


ve funzioni del consiglio di amministrazione ad uno o più dei membri del-
l’organo consiliare, attribuendo loro la determinazione di decidere ed agire
in luogo del consiglio (2).
Volendo, difatti, tracciare la semiotica del termine delega, si vuole signi-
ficare come il delegato deve supplire con la propria volontà, la propria deci-
sione e la propria iniziativa a ciò che altrimenti risulta essere compito istitu-
zionale del consiglio d’amministrazione.

la riforma del diritto societario, in La riforma del diritto societario (Atti del Convegno, Cour-
mayeur, 27-28 settembre 2002), Milano, 2003, p. 73 ss., p. 78 ss.
(2) In tema si legga Desario, L’amministratore delegato nella riforma delle società, in So-
cietà, 2004, p. 940, il quale afferma che: “Sono fin troppo cognite le motivazioni sottese alla
nascita, nonché all’indiscusso successo, della figura dell’amministratore delegato perché
adesso vi si debba ritornare sopra. Nelle più complesse organizzazioni imprenditoriali collet-
tive, nelle quali si registrano corposi investimenti a opera di un numero non trascurabile di
sodali, questi ultimi a ragione ottengono di poter esprimere personalità di propria fiducia nel-
l’organo gestorio, che in conseguenza tende a divenire pletorico e a configurarsi conclusiva-
mente come stanza di compensazione e di ponderazione di un più o meno ampio ventaglio di
interessi e istanze sovente non coincidenti. Ne discende un’articolazione collegiale del detto
organo, non ottimale sotto il profilo dell’efficienza e della rapidità decisionale, per ovviare al-
la quale si ricorre allora – appunto – alla figura dell’amministratore delegato. Questi si muove
entro uno spazio operativo condizionato dalla latitudine della delega rilasciatagli, nonché dal
legame che sempre continua ad astringerlo all’organo collegiale delegante, non senza il pro-
dursi, quanto meno sotto la vigenza della disciplina or ora profondamente riformata, di gravi
e vicendevoli equivoci, massimamente in punto di responsabilità per gli atti posti in essere e
per gli effetti conseguitine. Mi è spesse volte capitato, nello svolgimento della mia attività pro-
fessionale di avvocato, di assistere a un patetico “scaricabarile” tra amministratori deleganti e
delegati, che, per schivare gli strali delle azioni risarcitorie loro intentate contro, valorizzava-
no, gli uni, proprio la delega accordata e, gli altri, le vincolanti direttive ricevute ai fini dell’e-
spletamento delle funzioni delegate. Ecco, allora, che la nuova regolazione appena entrata a
regime proprio questo obiettivo si prefigge, di contribuire a definire – come recita la relazio-
ne di accompagnamento – un quadro sufficientemente chiaro delle rispettive responsabilità,
di modo che possa non doversi più assistere al triste spettacolo dei capponi di manzoniana
memoria”. Ed ancora l’autore afferma che: “Per quanto concerne, poi, il potere di impartire
direttive, esso – a ben guardare – è intrinseco e immanente al rilascio stesso della delega. Co-
sa vuol dire, infatti, se non impartire direttive, additare al delegato, come detto, il quomodo
dell’esercizio delle funzioni demandategli? Da un’angolazione prettamente ricostruttiva si
mostra, invece, interessante sottolineare come le direttive eventualmente impartite debbano
stimarsi vincolanti e ciò perché, diversamente, il legislatore non si sarebbe scomodato con
un’espressa previsione. L’autonomia del delegato non ne esce, in ogni caso, dimidiata: ove
egli reputi le direttive ricevute pregiudizievoli e deleterie, vi si atterrà compiendo l’atto ma, fa-
cendo constare a verbale il proprio dissenso e informandone per iscritto il presidente dell’or-
gano interno di controllo, fruirà dello scarico di responsabilità di cui all’ultimo comma del-
l’art. 2392”.
108 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Se si riflette sulla fenomenologia del sistema di delega a favore di singo-


li soggetti all’interno delle dinamiche gestionali delle società per azioni, si
ravvisa che la costituzione dell’organo delegato vuole raggiungere il fine
della ripartizione della complessa attività di amministrazione della società
fra i vari membri del consiglio, di guisa che si possa affidare ad alcuni com-
ponenti del consiglio stesso la direzione dell’impresa sociale e favorire una
specializzazione nell’esercizio dell’attività amministrativa (3).
La delega gestoria razionalizza l’esercizio del potere amministrativo
nell’ambito della società: si garantisce uno snellimento dell’attività di ge-
stione, l’esercizio del potere amministrativo diviene adeguato (rectius ade-
guabile) alle variabili circostanze ed esigenze dell’attività imprenditoriale,
realizzando quindi una maggiore rapidità decisionale (4).
Propedeutica alla delegabilità del potere è l’espressione del consenso
dei soci, il quale può essere contenuto, e, di risulta, manifestato nell’atto co-
stitutivo o, in mancanza, espresso da una successiva apposita deliberazione
assembleare di modificazione dell’atto costitutivo: la delega trova il proprio
presupposto in un atto di autonomia dei soci, giacché, attraverso la possibi-
lità di delega dell’attività amministrativa da parte del consiglio di ammini-
strazione all’organo delegato, si deroga al principio di collegialità (5).
Il conferimento di delega amministrativa determina una diversificazio-
ne nell’accertamento della responsabilità degli amministratori; si può, a ra-
gione, sostenere che la delega comporta un regime di responsabilità più at-
tenuato per gli amministratori deleganti (non esecutivi), all’esito della con-
centrazione degli obblighi di gestione per determinati settori aziendali in
capo ai delegati, con la correlativa liberazione degli altri amministratori per

(3) D’Alessandro, Il diritto delle società da “i battelli del Reno” alle “navi vichinghe”, in Fo-
ro it., 1988, V, c. 48 ss.; Mignoli, Interesse di gruppo e società a sovranità limitata, in questa ri-
vista, 1986, p. 753 ss.; Gambino, Responsabilità amministrativa nei gruppi societari, in Giur.
comm., 1993, I, p. 841 ss.; Bin, Gruppi di società e diritto commerciale, in questa rivista, 1990, p.
507 ss.; Salafia, Patologia dei gruppi di società, in Società, 1995, p. 1141 ss.
(4) In tema Cagnasso, Il dovere di vigilanza degli amministratori e “la delega di fatto” tra
norme “vecchie” e “nuove”, in Giur. it., 2004, p. 557 e Id., L’amministrazione collegiale e la dele-
ga, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, 4, Torino, 1991, p. 311.
(5) All’organo amministrativo spetta la gestione della società e cioè l’esercizio di un’atti-
vità continuativa che mal si presta ad essere svolta da un organo collegiale. Di qui la necessità
di delegare, quanto meno in parte, le attribuzioni del consiglio di amministrazione ad uno o
più dei membri di questo, ponendoli in condizione di decidere ed agire in luogo del consiglio:
l’espressione delega vuole appunto significare come il delegato debba supplire con la propria
volontà, la propria decisione e la propria iniziativa a ciò che altrimenti sarebbe compito del
consiglio. V. Minervini, Gli amministratori di s.p.a., Milano, 1956 ed inoltre Frè, Società per
azioni, 1, Artt. 2325-2461, in Comm. Scialoja-Branca, 1951, p. 32 ss.
SAGGI 109

i fatti e gli atti del particolare segmento gestorio delegato. Se si ragiona sul-
l’ultima affermazione, si comprende la ratio dell’esigenza legislativa di un
consenso dei soci alla delega. Questi, infatti, mediante la previsione di un
consiglio di amministrazione per l’esercizio del potere amministrativo,
hanno fatto affidamento sulla responsabilità solidale di tutti gli amministra-
tori, a garanzia del corretto svolgimento dell’attività di gestione.
Di guisa, risultando necessaria ed imprescindibile un’autorizzazione, la
delega non è rimessa ad un atto meramente discrezionale del consiglio di
amministrazione, ma, al contrario, laddove la previsione statutaria manchi,
non vi è possibilità da parte del consiglio di amministrazione di delegare le
proprie funzioni a singoli amministratori (6).
Efficienza della gestione ed efficacia della corporate governance rappre-
sentano il prodromo della prosperità della società per azioni; nell’ottica del-
la tutela endo-societaria, la disciplina della responsabilità costituisce l’ele-
mento di stabile congiunzione tra potere di gestione e risultato della gestio-
ne, ciò al fine di raggiungere sia l’obiettivo prioritario di favorire la nascita,
la crescita e la competitività delle imprese, anche attraverso l’accesso ai
mercati interni ed internazionali dei capitali, e quindi facilitare la valorizza-
zione del carattere imprenditoriale della società, con affermazioni tanto ge-
neriche quanto difficilmente discutibili, sia la prospettiva, meramente pra-
tica, di semplificare la disciplina delle società, tenendo conto delle esigenze
delle imprese e del mercato concorrenziale in ordine alla necessità di am-
pliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di
tutela dei diversi interessi coinvolti, precetto, quest’ultimo, che il legislato-
re trova utile rimarcare proprio in relazione alla disciplina dell’amministra-
zione delle spa, stabilendo che la riforma è diretta ad attribuire all’autono-
mia statutaria un adeguato spazio con riferimento all’articolazione interna

(6) Al riguardo si legga Denozza, Norme efficienti. L’analisi economica delle regole giuridi-
che, Milano, 2002, p. 39 e Guidantoni, La riforma societaria e i nuovi obblighi di informativa:
le comunicazioni infrannuali, in Società, 2004, p. 1352; Fauceglia, Note in tema di rappresen-
tanza nelle società per azioni (nota a Cass. civ., 9 novembre 1983, n. 6621), in Giur. comm., 1985,
II, p. 482; Id., Profili del potere degli amministratori in tema di aumento del capitale sociale (no-
ta a Trib. Palermo, 11 ottobre 1983), in Giur. merito, 1985, p. 626; Ferrari, Opponibilità ai ter-
zi delle limitazioni al potere di rappresentanza (nota a Cass., 8 novembre 2000, n. 14509), in So-
cietà, 4/3001, p. 418. In tema Jaeger, Dell’obbligo degli amministratori di dichiarare alla CON-
SOB le proprie partecipazioni, in Giur. comm., 1985, I, p. 635; Lo Cascio, La responsabilità del-
l’amministratore di fatto di società di capitali, in Giur. comm., 1986, I, p. 189; Salafia, Durata
dell’incarico amministrativo difforme dallo statuto (nota a Trib. Milano, 6 marzo 1986), in So-
cietà, 1986, p. 616 e Id., L’amministrazione delle società di capitali, in Società, 1998, p. 129; San-
tini, Proposte per un’assicurazione “all risks” degli amministratori di società, in Giur. it., 1985,
IV, p. 465.
110 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

dell’organo amministrativo, al suo funzionamento, alla circolazione delle


informazioni (7).
In tema di delega dei poteri di amministrazione, la scarna prescrizione
del 2° comma dell’art. 2381 c.c. ante riforma, a tenore del quale il consiglio di
amministrazione, se l’atto costitutivo o l’assemblea lo consentono, può de-
legare le proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto di alcuni
suoi membri o ad uno o più dei suoi membri, determinando i limiti della de-
lega, dava adito alla tendenza interpretativa a individuare la configurabilità
delle cd. deleghe atipiche, vale a dire la possibilità di conferire la delega ge-

(7) Cfr. Desario, L’amministratore delegato nella riforma delle società, cit., p. 941 ss.:
“Qualcosa, in effetti, si mostra ancora non completamente condivisibile e, quindi, suscettibi-
le di perfezionamento. Penso ad esempio, al reporting cadenzato ogni sei mesi, che è lasso
temporale obiettivamente significativo, nel quale, a motivo di insistite operazioni dissennate,
può registrarsi l’affossamento delle sorti delle imprese anche più floride e pingui. Sarebbe poi
stato probabilmente meglio se i deleganti avessero dovuto non solo esaminare bensì pure ap-
provare i piani. Immagino, infatti, piani non condivisi dal consiglio di amministrazione, che
addirittura si spinga a esigerne talune modifiche, tuttavia non accettate da un testardo e per-
vicace delegato. All’evidenza s’ingenera una situazione deleteria di stallo, cui si ovvierà esclu-
sivamente attraverso la revoca della delega a suo tempo accordata o, quanto meno, mediante
l’estemporaneo riassorbimento di essa da parte dell’organo collegiale. Non v’è dubbio, però,
che nell’interregno la società, in quanto sprovvista di piani di riferimento, sarà a rischio di
sbandamento. Al di là di queste menome critiche, non è chi non veda come tutta la nuova im-
palcatura poggi – assai positivamente – sul flusso informativo che deve scorrere dai delegati
(ivi compresi gli “irregolari”) verso i deleganti. Anzi, vi è addirittura di più: la circolarizzazio-
ne delle informazioni tra delegati e deleganti si mostra cruciale per il dimensionamento del-
l’ambito di eventuale responsabilità dei deleganti. Nel vecchio sistema questi rispondevano
dei fatti dannosi compiuti dai delegati, qualora avessero tenuto condotte improntate a culpa
in vigilando; ma oltre questa generica previsione sinceramente non s’andava. Adesso la previ-
sione è confermata, però fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art. 2381 (v. art. 2392,
comma 2°). Ne discende, a mio parere, che il delegante risponde del fatto dannoso del dele-
gato, se, non informatone, non si sia preoccupato comunque di richiedere le notizie dovute-
gli. Il delegante ne risponde anche quando, informatone, dall’informativa la dannosità emer-
geva agevolmente (come potrà appurarsi attraverso l’opera di preziosi consulenti d’ufficio nel
relativo contenzioso) e, ciò nonostante, nulla si sia fatto per porvi rimedio. Escluderei, vice-
versa, ogni addebito allorché l’informativa, effettuata e fruita, nulla lasci trapelare, nel qual
caso la responsabilità non potendosi appuntare che sul solo delegato. In questo senso ragio-
navo poc’anzi di crucialità del flusso informativo. E posso stilizzare ancora di più: – l’infor-
mativa deve esserci (in difetto, l’operato del delegato collocandosi in una luce di discutibilità,
poi facile a scivolare in responsabilità); – essa deve essere completa e, soprattutto, la si deve
saper leggere, estraendone tutte le relative conseguenze, con gli occhiali che possono preten-
dersi – in termini di competenza, perizia e diligenza – dai deleganti; – ipotetiche perplessità
non possono permanere tali, ma vanno fugate attraverso supplementi d’informativa che il de-
legante ha il potere-dovere di richiedere, in funzione del suo agire informato (e cfr. l’art. 2381,
ult. cpv.)”.
SAGGI 111

storia anche al di fuori del procedimento formale dell’art. 2381 c.c. e la legit-
timità delle disposizioni statutarie o della determinazione assembleare che
eccedessero il limite del semplice consenso indicato dall’art. 2381 c.c. (8).
Atteso il fondamento dogmatico della delega, quale forma di autorizza-
zione consiliare, è certo, in linea di principio, che i delegati non possono
agire se non vi sia una preventiva investitura degli altri, dato che questi a lo-
ro volta di regola non interferiscono nelle determinazioni di carattere ope-
rativo assunte dai membri delegati (9).
La vastità dell’area relazionale tra le diverse articolazioni interne del-
l’organo amministrativo necessita, ad indiscutibile evidenza e nonostante
l’assenza di alcuna prescrizione normativa pre riforma, dell’adozione di un
sistema di necessarie informazioni di cui disporre da parte degli ammini-

(8) Si legga Buonocore, Le nuove frontiere del diritto commerciale, dalla Collana Quaderni
del Dipartimento di Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Salerno, Napoli, 2006, p.
199 ss. e Id., Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi 3°
e 5°, del c.c., in Giur. comm., 2006, p. 6. L’a. sostiene che “si percepirà quanto sia mutato il qua-
dro raffigurante l’organizzazione interna della società per azioni ed in particolare quanto sia
valorizzato il potere degli amministratori e quanto cambieranno contenuto e confini della re-
sponsabilità di questi e dell’impresa-società.” Ed ancora: “Con l’art. 2381 la legge non si ac-
contenta di imporre all’impresa – come pure è accaduto sovente in passato – una data forma
ovvero di prescrivere minimi di capitale sociale ovvero ancora di imporre la tenuta di deter-
minate scritture contabili, ma interviene per incidere sulle concrete modalità di organizza-
zione interna dell’attività d’impresa, che è campo tradizionalmente lasciato all’autonomia de-
cisionale dell’imprenditore”.
(9) In argomento si veda Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., in
Società, 2004, per il quale: “La recente riforma societaria ha confermato, nell’ambito del mo-
dello tradizionale di amministrazione, la facoltà del consiglio di amministrazione di delegare
in tutto, nei limiti espressamente indicati dall’art. 2381, comma 4°, c.c., o in parte le proprie
funzioni a singoli propri componenti o a gruppi dei suddetti componenti, che la legge deno-
mina, rispettivamente, amministratori delegati o comitati esecutivi. Tuttavia, la suddetta fa-
coltà viene subordinata all’espressa previsione statutaria o al consenso dell’assemblea,
espresso o in occasione dell’elezione del consiglio di amministrazione o successivamente,
mediante specifico intervento (cfr. art. 2381, comma 2°, c.c.). La stessa facoltà viene ricono-
sciuta al consiglio di gestione, nominato dal consiglio di sorveglianza, nell’ambito del sistema
alternativo di amministrazione e controllo regolato dagli artt. 2409 octies ss., c.c., senza tutta-
via subordinarla alla previsione statutaria o al consenso assembleare. Lo statuto o l’assemblea
potrebbero, però, non attribuire espressamente al consiglio di gestione la facoltà di delega, di
cui si tratta, dato che all’autonomia dei soci questo potere può essere riconosciuto in quanto
non contrasta con alcun interesse generale. Per quanto riguarda il modello alternativo di am-
ministrazione e controllo cosiddetto monistico, l’art. 2409 noviesdecies richiama, fra le norme
applicabili, l’intero art. 2381 e, quindi, riconosce al consiglio di amministrazione il potere di
delegare le proprie funzioni con gli stessi limiti, che la norma richiamata indica con riferi-
mento al modello tradizionale di amministrazione”.
112 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

stratori deleganti onde assicurare al dovere di vigilanza un’efficacia non so-


lo teorica (10).
In sede di principi e criteri direttivi, l’art. 4, comma 8°, lett. a), della l. n.
366 del 2001 detta, attesa la fiducia mostrata in materia gestoria verso l’au-
tonomia statutaria, la traccia che, con riguardo allo specifico tema della de-
lega gestoria, la disciplina deve seguire: precisare contenuti e limiti delle de-
leghe a singoli amministratori o comitati esecutivi, lasciando con ciò inten-
dere che sia intenzione del legislatore delegante, quasi in controtendenza
rispetto all’opzione in favore dell’autonomia statutaria, restringere in que-
sto settore gli spazi lasciati all’autodeterminazione sociale.
Se si riflette attentamente sulla struttura della delega, si evidenzia come
siamo in presenza di un rapporto bifasico, vale a dire che l’organo delegato
rimane organo amministrativo, ma, al contempo, risulta essere, su autoriz-
zazione consiliare, titolare di un rapporto contrattuale derivativo che sem-
bra, a parere di chi scrive, possa essere ricondotto nell’ottica del contratto di
mandato (11).

(10) Cfr. Cass., 28 gennaio 1997, n. 1427, la cui massima sostiene che “l’amministratore di
società (ovvero l’amministratore delegato) di s.p.a. ex art. 2384 c.c. è titolare del potere di ge-
stione nonché del potere di rappresentanza per tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale,
e quindi di compiere quell’attività economica che la società si propone per ritrarne un utile. E
tale attività necessariamente comprende ogni azione che tenda al raggiungimento del fine di
vantaggio economico rientrante nell’oggetto sociale, compreso quindi il potere di presentare
querela a tutela di posizioni patrimoniali dell’ente. Sicché non necessita, al predetto scopo, la
preventiva deliberazione del consiglio di amministrazione”.
(11) In materia si veda Santagata, Del mandato. Disposizioni generali. Artt. 1703-1709, in
Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1985, p. 3 ss.; Scardulla, voce Interposizione di perso-
na, in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1972, p. 143 ss.; Settesoldi, Il mandato ad acquistare e ad
alienare in Alcaro, (a cura di), Il mandato, Milano, 2000, p. 68 ss.; Tilocca, Il problema del
mandato, in Riv. trim. civ., 1969, p. 872 ss.; Visalli, In tema di acquisti del mandatario (art. 1706
c.c.), in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 73 ss. Sul tema del rapporto di cooperazione tra organo ammi-
nistrativo e società cfr. Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, 5a ed., vol. III,
Torino, 1958, p. 54 ss.; Battaglia, Rilievi critici in tema di mandato e regime di circolazione dei
beni giuridici, in Giust. civ., I, 1995, p. 2166. In tema Pugliatti, La rappresentanza indiretta e la
morte del rappresentante (1953), ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 449; Id., Ri-
levanza del rapporto interno nella rappresentanza indiretta (1959), ora in Studi sulla rappresen-
tanza, Milano, 1965, p. 458. Cfr. Colombatto, Patto bilaterale d’interposizione e suoi effetti nei
confronti del terzo contraente, in Riv. dir. comm., 1981, II, p. 71 ss.; De Angelis, Trust e fiducia
nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 353 ss.; Id., voce Fiduciaria (Società), in
Digesto delle Discipline Privatistiche. Sezione commerciale, vol. VI, Torino, 1991, p. 91; De Lo-
renzi, Il mandato alla luce dell’analisi economica del diritto, in questa rivista, 1993, p. 965 ss.;
Carbone, “Pactum fiduciae” ed interposizione reale, in Corr. giur., 1993, p. 855 ss.; Caredda,
Intestazione fiduciaria di quote di s.r.l. e mandato, in Banca borsa e tit. cred., 1994, II, p. 540 ss.;
Carnevali, Intestazione fiduciaria, in Irti (a cura di), Dizionari del diritto privato, tomo I, Dirit-
SAGGI 113

La delega dà vita ad un nuovo organo della società, che acquista una


competenza concorrente con quella del consiglio di amministrazione sulle
attribuzioni oggetto della delega, divenendo responsabile per l’esercizio dei
poteri conferiti. Gli organi delegati, pertanto, non sono dotati di una sfera di
poteri autonoma e separata da quella del consiglio di amministrazione, che
conserva il diritto di impartire direttive ed avocare a sé operazioni rientran-
ti nella delega (12).
La nozione di delega viene utilizzata per indicare come i delegati deb-
bano supplire con la propria volontà, la propria decisione e la propria inizia-
tiva a ciò che altrimenti sarebbe compito del consiglio. Come detto, lo stru-
mento della delega consente, così, di derogare alla necessaria collegialità
propria del funzionamento del consiglio di amministrazione, al fine di ga-
rantire, in relazione alle attribuzioni delegate, la rapidità di decisione pro-
pria degli organi monocratici o comunque di composizione più ristretta ri-
spetto all’intero consiglio di amministrazione.

to civile, Milano, 1980, p. 457. Cfr. in tema Salamone, La c.d. proprietà del mandatario, in Riv.
dir. civ., 1999, p. 77 ss.; Salafia, Note in tema di mandato conferito dai fiducianti a società fidu-
ciaria, in Giust. civ., 1999, I, p. 2641 ss. Cfr. Papanti, Pelletier, Rappresentanza e cooperazione
rappresentativa, Milano, 1984, p. 180; Id., (a cura di), Codice civile annotato con la dottrina e la
giurisprudenza, vol. I, Napoli, 1991, p. 10 ss.; Id., Introduzione alla problematica della « pro-
prietà », Camerino, 1971, p. 203. Id., Manuale di diritto civile, Napoli, 1997, p. 71. E infine Per-
segani, Trimarchi, Acquisti di beni mobili del mandatario, in Giur. merito, 1994, p. 393; Mon-
talenti, Il contratto di commissione, in Cottino, (a cura di), Contratti commerciali, vol. XVI del
Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., Padova, 1991, p. 554 ss. Conf. Maccarone, Considera-
zioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, in questa rivista, 1998, p. 627;
Mari, Interposizione fittizia e reale, in Foro pad., 1992, I, c. 413; Marino, Riorganizzazioni perso-
nali internazionali, trusts ed elusione fiscale, in Riv. dott. comm., 1998, p. 29. In tema si legga, an-
che, Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano, 1968, p. 5 ss. Da ul-
timo, si veda Graziadei, Mandato, in Riv. dir. civ., 1997, II, p. 147 ss.; Id., voce Mandato, in Di-
gesto discipline privatistiche. Sezione Civile, vol. XI, Torino, 1994, p. 154 ss.; Id., voce Mandato in
diritto comparato, in Digesto discipline privatistiche. Sezione civile, vol. XI, Torino, 1994, p. 192 ss.
(12) In tema Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit.,
p. 5 ss. Cfr., in giurisprudenza, Trib. Firenze, 15 febbraio 2005, in Giur. merito, 2007, c. 397: “di
fronte all’inerzia dell’amministratore delegato rispetto alle direttive, da lui conosciute, essen-
ziali al proficuo ed efficace svolgimento del ruolo di direzione unitaria da parte della società
capogruppo, il rapporto tra quest’ultima e il primo può incrinarsi, fino a condurre alla revoca
dell’amministratore stesso fatta secondo criteri di giusta causa”. Ed ancora App. Milano, 21
gennaio 1994, in Società, 1994, p. 923: “I componenti del consiglio di amministrazione di una
società di capitali, i quali abbiano delegato la funzione amministrativa ad uno di loro stessi,
non si privano delle funzioni delegate e possono quindi sempre dare istruzioni al delegato,
con la conseguenza che, ove abbiano omesso di vigilare ed intervenire con ragionevole tem-
pestività sull’operato del delegato, rispondono del danno provocato al patrimonio sociale dal-
la gestione di quest’ultimo, che essi avrebbero potuto evitare”.
114 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

In tema di individuazione della natura del rapporto giuridico tra ammi-


nistratore delegato e società, si deve, da subito, escludere l’opzione inter-
pretativa che vede la natura del rapporto in esame in una collaborazione
coordinata e continuativa tra l’amministratore delegato e la società. L’im-
possibilità di tale accostamento deriva dalla costatazione che l’amministra-
tore delegato costituisce il vertice della società per azioni, e non risulta sus-
sistere l’elemento della coordinazione, caratteristico del rapporto di parasu-
bordinazione, e, in più, il compenso dell’amministratore è elemento natu-
rale del rapporto e quindi rinunciabile, a differenza del compenso del colla-
boratore (13).
La valutazione del rapporto di immedesimazione organica tra l’ammi-
nistratore delegato e la società per azioni esclude che le funzioni connesse
alla carica svolte dall’amministratore medesimo siano riferibili a due distin-
ti centri di interesse; di guisa, le prestazioni relative a tali funzioni non ri-
sultano riconducibili né ad un rapporto di lavoro subordinato, né ad un rap-
porto di parasubordinazione (14).

2. – In mancanza di determinazione statutaria di appositi limiti gestori,


la delega non può, comunque, avere ad oggetto talune attribuzioni previste

(13) La l. 11 agosto 1973, n. 533, che ha disciplinato il processo del lavoro nel nostro ordi-
namento, ha introdotto una nuova figura di rapporto di lavoro, distinto sia dal rapporto di la-
voro subordinato che dal contratto d’opera. Si tratta dei cd. rapporti di collaborazione che, se-
condo l’art. 409, n. 3, c.p.c., si concretano in una prestazione d’opera continuativa e coordina-
ta prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato. Ancor prima la l. 14 lu-
glio 1959, n. 741 (norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e norma-
tivo ai lavoratori), all’art. 2 indicava anche i rapporti di collaborazione che si concretino in pre-
stazioni d’opera continuativa e coordinata degni di tutela. Una parte della dottrina riconduce
a tale figura non qualsiasi rapporto di collaborazione caratterizzato dagli elementi ivi indicati
ma soltanto quelli in cui il prestatore di lavoro possa apparire come debole: non, ad esempio,
i rapporti di alta consulenza. Rimarrebbero così soggette alla tutela in discorso le prestazioni
di lavoro che presentino un tratto in comune con quelle rese in regime di subordinazione.
(14) Cfr. Cass., 2 marzo 1999, n. 1726, in Giust. civ. 1999, c. 1354: “La qualifica di lavorato-
re subordinato non è compatibile con quella di amministratore delegato di società di capitali,
né con quella di amministratore che abbia comunque la titolarità effettiva di tutto il potere ge-
stionale (nella specie, in quanto appartenente alla famiglia azionista di riferimento della so-
cietà controllante la società amministrata), non essendo configurabile il vincolo di subordi-
nazione ove manchi la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e di-
sciplina, escluso dall’immedesimazione in un unico soggetto della veste di esecutore della
volontà sociale e di quella di organo competente ad esprimerle; con la conseguenza che la
competenza a conoscere dell’azione sociale di responsabilità proposta nei confronti dei pre-
detti amministratori spetta in primo grado al tribunale ed in secondo grado alla Corte d’ap-
pello, non al giudice del lavoro”.
SAGGI 115

espressamente dall’art. 2381 c.c., e prescritte come non delegabili: non pos-
sono essere delegate la redazione del bilancio (art. 2423 c.c.), la facoltà di
aumentare il capitale (art. 2443 c.c.) nonché le incombenze attribuite agli
amministratori in caso di riduzione del capitale sociale per perdite (art. 2446
c.c.) o al di sotto del limite legale (art. 2447 c.c.), materie che il dato norma-
tivo, attesa la rilevanza societaria delle evenienze per la vita e la crescita del-
la società, riserva inderogabilmente all’organo consiliare nella sua interez-
za, vietandone la delegabilità a uno o più amministratori e richiedendo
dunque che, nelle indicate situazioni, tutti gli amministratori operino in
modo collegiale.
La previsione determinativa della delegabilità dei poteri ad un singolo
amministratore (delegato), geneticamente presente nell’atto costitutivo o
inserita in seguito con deliberazione assembleare che introduca nello statu-
to sociale la facoltà di delega, consente al consiglio di amministrazione di
valutare l’opportunità della delega nonché la sua ampiezza, determinando i
modi di operatività dell’organo delegato.
All’esito della valutazione da parte dell’organo consiliare nel senso del-
la traduzione effettiva in una delibera di delega, tale delega di funzioni am-
ministrative al comitato esecutivo o ad uno o più amministratori determina
la nascita di un ulteriore organo della società dotato di competenza concor-
rente con quella del consiglio di amministrazione, di modo che quest’ulti-
mo non viene privato delle funzioni che sono oggetto di delega (15).

(15) In tema Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, in So-
cietà, 2005, p. 711 ss., il quale sostiene che: “I compiti del consiglio di amministrazione non si
esauriscono alla costituzione dell’organo delegato ed alla nomina del suo titolare, perché, co-
me risulta dal terzo comma del novellato art. 2381 c.c., il consiglio di amministrazione deter-
mina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega. Inevitabile, come
si vede, è la determinazione del contenuto e dei limiti della delega, mentre è facoltativa la fis-
sazione delle modalità di esercizio della stessa. Vigente la disciplina pregressa, l’art. 2381 c.c.
richiedeva unicamente la determinazione dei limiti della delega. Sembra giusto che la delibe-
razione consiliare si occupi, innanzitutto, del contenuto della delega, da formare, ovviamen-
te, attingendo all’insieme dei poteri consiliari che risultano delegabili. In concomitanza al-
l’individuazione del contenuto, sono da fissare, come sempre, i limiti della delega, ed ora an-
che – se si vuole – le modalità per il suo concreto esercizio da parte di ciascun delegato. In de-
finitiva la delega è da modellare secondo le necessità operative della società. In ordine al con-
tenuto ed ai limiti della delega, dalla lettura del novellato congegno normativo si evince che,
seguendo un indirizzo osservato in precedenza (per la parte dei limiti) il legislatore della ri-
forma societaria non ha sentito la necessità di specificare quali attribuzioni possono formare
oggetto di delega, compito, peraltro, quanto mai arduo in relazione all’estrema varietà dei
compiti che si incontrano sol che si prendano in attento esame le attività di un limitato nu-
mero di consigli di amministrazione. Molte sono le circostanze che influiscono sulle scelte
per il contenuto ed i limiti, in sostanza per la divisione del lavoro fra consiglio nel suo com-
116 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Si rifletta: la competenza del consiglio di amministrazione rimane inte-


gra, poiché esso può, normativamente, revocare gli atti dell’organo delega-
to o avocare a sé il compimento diretto delle attività o delle operazioni del-
la società; occorre chiarire che l’atto di delega non priva, in assoluto, l’orga-
no delegante del potere amministrativo delegato, ma, al contrario, autoriz-
za, semplicemente, l’organo delegato a compiere atti che, anche dopo la de-
lega, restano tuttavia nei poteri e cioè nelle competenze del delegante. La
delega crea quindi, per l’esercizio di tali poteri, una competenza dell’organo
delegato che è concorrente con quella dell’organo delegante.
La lettura del disposto dell’art. 2381 c.c., all’esito della riforma societa-
ria, mostra il carattere facoltativo della delega e la relativa revocabilità tota-
le o parziale. Volendo tracciare un parallelo con la contrattazione e, nello
specifico, la sostituzione giuridica, nel diritto privato colui che ha facoltà di
attribuire, di limitare e di togliere un determinato potere ha, altresì, la pos-
sibilità di compiere direttamente l’atto che costituisce manifestazione di
quel medesimo potere (16).

plesso e singoli amministratori delegati. Nella grande maggioranza dei casi, ha maggior peso
il contenuto della delega o delle deleghe rispetto a quello che il consiglio avoca alla sua col-
lettiva competenza. Questa “esuberanza” dei poteri delegabili è stata tenuta presente dal legi-
slatore, che, al posto di indicare i (molti) poteri delegabili, si è soffermato sui (pochi) poteri
non delegabili. Le materie non delegabili formano oggetto di un apposito paragrafo nel se-
guito della presente trattazione. All’amministratore che diventa delegato, dunque, il consi-
glio di amministrazione attribuisce una parte più o meno notevole dei propri poteri, quali si
desumono dallo statuto e dalle deliberazioni assembleari, poteri che sono ad un tempo di ca-
rattere decisionale o di rappresentanza. Ne discende che l’attività dell’amministratore dele-
gato si colloca sullo stesso piano di quella del consiglio di amministrazione (tutti i compiti, in-
fatti, appartengono alla stessa matrice). Ed egli, entro i limiti della delega ricevuta, ha piena li-
bertà di muoversi nel modo ritenuto più opportuno ma conveniente nell’interesse della so-
cietà, come, d’altronde, il consiglio nella sua interezza ed i singoli amministratori, ancorché
non delegati, che lo compongono. In altre parole, non esiste una subordinazione fra l’ammi-
nistratore delegato ed il consiglio di amministrazione, proprio perché il primo è investito di
facoltà che sono del secondo. È da tener presente, tuttavia, che dal consiglio “derivano” i po-
teri che portano all’operatività dell’amministratore delegato. Il consiglio, sotto questo profi-
lo, si pone quanto meno nella posizione di “primus inter pares”, circostanza che si è accentua-
ta attraverso la riforma societaria in quanto dal consiglio non deriva soltanto il conferimento
di poteri; dal terzo comma dell’art. 2381 c.c., infatti, risulta che il consiglio può sempre impar-
tire direttive agli organi delegati, quindi all’amministratore delegato. Questo rende più com-
posito il quadro operativo, ma non è capace di alterare la natura del rapporto tra il consiglio e
l’amministratore delegato, che è profondamente diverso rispetto al rapporto intercorrente fra
l’amministratore delegato ed i dirigenti della società, i quali – pur esercitando anch’essi un’a-
zione direttiva e godendo di una certa libertà di decisione e di iniziativa – sono pur sempre dei
prestatori di lavoro subordinato”.
(16) Cfr., in tema, ancora, Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli compo-
SAGGI 117

Volendo schematizzare i requisiti richiesti dalla norma di legge per la

nenti, cit., p. 713: “Pur disponendo di un’ampia latitudine discrezionale, il legislatore delegato,
nel complesso, si è allontanato di poco dalla pregressa regolamentazione dell’attività gestoria,
relativamente alla definizione del modello tradizionale di governance (così è denominato dal-
la relazione governativa di accompagnamento al testo divenuto il d.lgs. n. 6/2003). Le disposi-
zioni sugli amministratori (si è ora nel comparto delle s.p.a.) sono contenute in uno dei sei pa-
ragrafi che formano la Sezione VI bis del Capo V, intitolata “Dell’amministrazione e del con-
trollo”; il par. 2 è dedicato agli amministratori secondo tale configurazione. L’art. 2380 bis, di
apertura, racchiude le regole generali: vengono confermate alla lettera alcune norme del so-
stituito art. 2380 c.c. e precisamente: a) possibilità che l’amministrazione possa essere affidata
anche a non soci; b) possibilità che l’amministrazione sia affidata ad un amministratore unico
o a più amministratori, i quali, in tal caso, costituiscono il consiglio di amministrazione; c) po-
tere dell’assemblea di determinare, al momento della nomina, il numero degli amministrato-
ri, se lo statuto ne indica solo un numero massimo e minimo. Il c.c. del 1942 usava la locuzio-
ne “atto costitutivo”, ma la modifica è da mettere in rapporto al maggior rilievo dato dalla ri-
forma allo statuto come corpus di regole per il corretto funzionamento dell’organismo socie-
tario; il terzo ed ultimo comma dell’art. 2328 c.c., infatti, dopo aver affermato che lo statuto
contenente le norme relative al funzionamento della società, anche se forma oggetto di atto
separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo, stabilisce che in caso di contrasto tra
le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde; d) potere del con-
siglio di amministrazione di nominare il proprio presidente tra i suoi componenti (il testo del
c.c. del 1942 usava il termine “membri”), quando la nomina non sia avvenuta ad opera dell’as-
semblea dei soci. È decisamente innovativa – anche se manifesta principi già affermati – la re-
gola esposta nel primo comma dell’art. 2380 bis, secondo la quale la gestione dell’impresa (rec-
tius: della società) spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni
necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale. Non si leggeva tale regola nell’art. 2380 c.c. del
previgente regime. La relazione governativa ne dà esplicita conferma, precisando che: – la ge-
stione dell’impresa sociale spetta in via esclusiva agli amministratori (art. 2380 bis, comma 1°,
c.c.), i quali hanno poteri di gestione estesi a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale (art.
2380 bis, comma 1°, c.c.) e una rappresentanza generale per tutti gli atti compiuti in nome del-
la società (art. 2384, comma 1°, c.c.); – lo statuto o l’atto di nomina o di delega possono limita-
re in vario modo questi poteri di gestione o di rappresentanza, o entrambi, anche prevedendo
una dissociazione tra rappresentanza generale (ad esempio attribuita al presidente) e poteri di
gestione (ad es. attribuiti al consiglio, al comitato esecutivo o ad amministratori delegati). La
previsione del comma 1° dell’art. 2380 bis, c.c., non ha soltanto una funzione descrittiva dei
compiti degli amministratori, ma rende l’attività gestoria un dovere previsto e delineato dalla
legge. Fatte queste constatazioni, non possiamo andare oltre nell’analisi dell’art. 2380 bis, c.c.,
di natura propedeutica e programmatica; abbiamo visto a sufficienza la parte che serve per af-
frontare la problematica delle deleghe. È fondamentale, al riguardo, l’art. 2381 c.c., su presi-
dente, comitato esecutivo e amministratori delegati. È un insieme di regole di grande rilevan-
za, in linea con quella – vero e proprio principio base – secondo la quale la gestione intesa co-
me attuazione dell’oggetto sociale è di esclusiva spettanza dell’amministratore o degli ammi-
nistratori (gestione unipersonale e gestione collegiale). L’art. 2381 c.c. ha il pregio di definire i
compiti del presidente (comma 1°), di occuparsi con larghezza della problematica delle dele-
ghe (commi 2°, 3° e 4°) e di stabilire delle correnti di informazioni, in particolare dagli organi
delegati verso gli amministratori deleganti ed il collegio sindacale”.
118 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

delegabilità di poteri gestori, si può sostenere che la presenza dell’autoriz-


zazione alla delega derivante dal consenso dei soci, la qualità di ammini-
stratore dei soggetti cui viene delegato in tutto o in parte il potere ammini-
strativo e la non esorbitanza della delega dalle materie riservate alla neces-
saria competenza dell’organo collegiale enucleano la possibilità di delega
del potere gestorio.
Il comitato esecutivo è un ulteriore organo collegiale della società, per-
tanto assume le proprie decisioni nel rispetto del principi della collegialità e
adotta vere e proprie deliberazioni, da ritenersi soggette alle stesse norme
che regolano le deliberazioni consiliari. La previsione della pluralità degli
amministratori delegati è stata, invece, comunemente intesa nel senso che
essi sono esentati dal rispettare il metodo collegiale e agiscono a seconda di
ciò che è stato stabilito all’atto della nomina, disgiuntamente o congiunta-
mente, analogamente agli amministratori di società di persone (artt. 2257 e
2258 c.c.).
In caso di una pluralità di amministratori delegati, possono prospettarsi
diverse situazioni gestorie in merito alle concrete modalità dell’esercizio
dell’attività: si può così verificare l’ipotesi di una pluralità di amministratori
delegati, investiti (in via congiunta oppure disgiunta) dal consiglio di ammi-
nistrazione di attribuzioni tra loro distinte; oppure può esservi una pluralità
di amministratori delegati, investiti (in via congiunta oppure disgiunta) dal
consiglio di amministrazione di attribuzioni comuni (17).
Gli amministratori delegati possono svolgere in via disgiunta funzioni
differenti fra loro nelle ipotesi concrete nelle quali sia demandata in via di-
sgiunta ad una pluralità di amministratori delegati la possibilità di agire sul-
la medesima materia che sia a ciascuno di essi stata delegata: in tema di am-
missibilità della delega in via disgiuntiva di poteri amministrativi, la stessa
trova conforto normativo nella formulazione dell’art. 2381 c.c., laddove si
prevede la delega delle attribuzioni del consiglio ad un comitato esecutivo
o ad uno o più dei suoi membri, senza specificazione ulteriore in merito al-
la determinazione contenutistica della delega (18).

(17) Cfr. Rovelli, Limiti alla delega di poteri amministrativi (nota a Trib. Bologna, 10 otto-
bre 1989, - decr.), in Società, 12/1989, 1319; Salafia, Durata dell’incarico amministrativo
difforme dallo statuto (nota a Trib. Milano, 6 marzo 1986), in Società, 6/1986, p. 616; Id., L’am-
ministrazione delle società di capitali, in Società, 2/1998, p. 129; Santini, Proposte per un’assi-
curazione “all risks” degli amministratori di società, in Giur. it., 1985, IV, p. 465; Cabras, L’am-
ministratore - dipendente nelle società per azioni, in Cons. impresa, 1987, p. 1341; Calandra
Buonaura, Amministrazione bipersonale, metodo collegiale e clausola di prevalenza del voto del
presidente (nota a Trib. Milano, 18 luglio 1984), in Giur. comm., 1985, II, p. 653.
(18) Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p. 716: “Con
riferimento all’art. 2381, comma 6°, c.c., si nota il ricorso ad una soluzione intermedia per il
SAGGI 119

Di guisa, sembra corretto ritenere che esista ampia autonomia dei soci o
del consiglio d’amministrazione nella determinazione delle modalità di
esercizio del potere delegato. Non basta, l’ammissibilità della modalità di
esercizio disgiunto del potere delegato risulta rafforzata dalla considerazio-
ne, logico-pratica prima che giuridica, che la continuità della gestione socia-
le è garantita dalla competenza concorrente del consiglio e dai poteri di vi-
gilanza e di intervento normativamente previsti (19).

potere di intervento dell’amministratore delegante: l’amministratore delegante può chiedere


tutte le informazioni agli organi delegati, perché ne riferiscano in consiglio; non può, dunque,
chiederle privatamente, né può rivolgere la richiesta ai dirigenti ed al personale della società.
Sebbene questa seconda opzione fosse stata ipotizzata – sia per la considerazione che la ri-
chiesta di atti e di documenti andrebbe favorita, sia perché essa potrebbe non ricevere ade-
guata soddisfazione da parte dei delegati – la proposta non è stata accolta, nel timore di un ec-
cessivo carico di lavoro per i dirigenti e i dipendenti, nonché di una responsabilizzazione ul-
teriore dell’amministratore delegante. Si abbia presente, d’altra parte, che l’attribuzione al-
l’amministratore di un esteso potere individuale di esigere informazioni ne comporta il paral-
lelo ampliamento di responsabilità. In ogni caso, secondo il principio di buona amministra-
zione delle società, codificato anche in altri ordinamenti, le deliberazioni del consiglio di am-
ministrazione sono collegiali, ma, nella fase istruttoria, almeno alcuni poteri di indagine de-
vono essere concessi individualmente agli amministratori, poteri da esercitare con buon sen-
so ed in modo discreto. Il dovere di tenersi informati da parte dei singoli amministratori, in at-
tuazione dell’art. 4, comma 8°, lett. g) della l. n. 366/2001, e già affermato dalla giurispruden-
za precedente, è una specificazione del dovere di diligenza tipico dell’amministratore: vale a
dire, la diligenza è quella professionale del gestore d’impresa, dunque a conoscenza delle
norme tecniche della buona gestione e delle concrete circostanze della singola operazione. Si
ricorda che per l’art. 2392, comma 1°, c.c., novellato, gli amministratori devono adempiere i
doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’in-
carico e dalle loro specifiche competenze. Come si evince dalla relazione governativa, la nor-
ma predetta non sta a significare “che gli amministratori debbano necessariamente essere pe-
riti in contabilità, in materia finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell’amministrazio-
ne dell’impresa sociale, ma significa che le loro scelte devono essere informate e meditate, ba-
sate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato e non di irresponsabile o negli-
gente improvvisazione”. Attraverso la circolazione delle informazioni, vengono colmate le
lacune dell’uno con le conoscenze dell’altro, cosicché le decisioni risultano più competenti
ed appropriate. Con una norma di chiusura, all’art. 2381 c.c., viene sancito il principio per il
quale gli amministratori devono sempre agire in modo informato. Dal sistema regolamenta-
re così posto in essere (e da fare proprio da parte di ogni società) si evince che la gestione so-
ciale va realizzata sulla base di un costante dialogo tra consiglio di amministrazione ed organi
delegati. La divulgazione dei principi che formano la struttura portante dell’art. 2381 c.c. è au-
spicabile, come lo è l’adesione ai medesimi da parte degli organi di gestione della società”.
(19) Cfr. Mongiello, Ordinaria e straordinaria amministrazione in materia di società (nota
a Cass. civ. 2 ottobre 1978, n. 4369), in Dir. fall., 1979, II, p. 439; Moro Visconti G., Il presi-
dente del Consiglio di amministrazione, in Impresa, 1988, p. 1797; Mozzarelli, Amministrato-
ri di fatto: fine di una contesa (nota ad App. Milano, 26 settembre 2000), in Giur. comm., 4/2001,
120 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Attesa la possibilità dell’assenza di specificazioni statutarie nell’atto di


delega in tema di determinazione delle modalità di funzionamento dell’or-
gano delegato pluripersonale, appare corretto ritenere sussistente un comi-
tato esecutivo, in applicazione del principio, presente nelle forme associati-
ve, in virtù del quale all’interno di un organo pluripersonale vige il metodo
collegiale, nel rispetto della massima ponderazione di interessi fra i singoli
partecipanti e, quindi, del perseguimento dell’ottimizzazione dei risultati
della società.
Da quanto sinora affermato, risulta necessario individuare il ruolo della
collegialità dell’organo amministrativo. Nel caso di amministrazione affida-
ta ad un organo che non sia composto in modo monopersonale, il potere e
il dovere di amministrare spettano ad un organo unitario, vale a dire al con-
siglio di amministrazione quale struttura a composizione pluripersonale di-
retta a svolgere attività giuridicamente rilevanti, con attitudine ad operare
come organo collegiale: ne discende che nell’ambito del consiglio di ammi-
nistrazione i poteri amministrativi debbano di necessità, essere esercitati
collegialmente, dovendo ricorrere imprescindibili presupposti circa la sua
regolare costituzione e la determinazione della maggioranza di voti utile
per l’assunzione delle deliberazioni: il dato della norma è chiaro nel pre-
scrivere che, al fine della validità delle deliberazioni del consiglio di ammi-
nistrazione, è necessaria la presenza della maggioranza degli amministrato-
ri in carica; quando l’atto costitutivo non richiede un maggior numero di
presenti, le deliberazioni sono prese a maggioranza assoluta, salvo, sempre,
diversa disposizione dell’atto costitutivo. Il voto è personale e non può
quindi essere dato per rappresentanza (20).

II, p. 562. Cfr. in arg. Desario, Numero degli amministratori e clausola di stile, in Riv. dir.
comm., 1991, II, p. 42; Ferraro, Le delibere del Consiglio di amministrazione, in Società,
11/1983, p. 1368; Id., Rapporto di amministrazione e rapporto di lavoro subordinato: un proble-
ma ancora molto discusso, in Nuovo dir., 1985, p. 317; Id., Variazione della composizione del-
l’organo amministrativo in sede di assemblea ordinaria di s.r.l., in Le Società-Casi e questioni,
1990. Ancora Pacchi Pesucci, Gli amministratori di società per azioni nella prassi statutaria,
in Riv. soc., 1974, p. 606; Piccini, Evoluzione delle idee sull’amministrazione delle società - Le re-
sponsabilità degli amministratori e dei principali azionisti di una società, in Rass. forense, 1981,
p. 461; Portale, Postille in tema di competenza a variare il numero degli amministratori di s.p.a.
nel corso del “primo triennio”, in Giur. comm., 1990, II, p. 458.
(20) “Dato che la legge (art. 2381, comma 2°, c.c.) non impone che la delega delle attribu-
zioni proprie del consiglio di amministrazione debba necessariamente essere disposta in fa-
vore del comitato esecutivo, la delibera consiliare adottata a maggioranza che attribuisca de-
leghe gestorie ad uno o più amministratori delegati non può ritenersi per ciò stesso contraria
al precetto dell’art. 1375 c.c., quand’anche questa delibera contempli ulteriori rimunerazioni
per i consiglieri titolari di particolari cariche”, così Trib. Roma, 18 dicembre 2006, in Riv. dir.
comm., 2007, p. 133.
SAGGI 121

Si rifletta: l’estrinsecazione della collegialità si manifesta solo all’inter-


no del collegio, non potendo apprezzarsi fuori del collegio, momento ge-
storio in cui il singolo amministratore non ha poteri, ad eccezione della ri-
chiesta di veicolazione transitiva di informazioni a carico degli amministra-
tori esecutivi e di consultazione personale dei documenti sociali. D’altron-
de, l’affermazione del carattere cogente ed inderogabile del metodo colle-
giale rende possibile sostenere, sistematicamente, l’illegittimità di delibera-
zioni consiliari adottate dalla maggioranza degli amministratori senza che
gli altri siano stati convocati, ovvero adottate all’unanimità dagli ammini-
stratori, senza lo svolgimento di alcuna adunanza, e, di guisa, in assenza
della preventiva convocazione degli amministratori e della necessaria infor-
mativa sugli argomenti oggetto di decisione a loro favore.
Il metodo collegiale risponde ad una pluralità di funzioni e di esigenze:
come detto, ad una maggiore ponderazione delle decisioni da adottare; a
determinare in modo unitario e non contraddittorio la volontà dell’organo
amministrativo, al fine di coordinare l’attività degli amministratori; a facili-
tare l’assunzione delle decisioni evitando conflitti sulle scelte di gestione, e
consentendo la loro composizione; ad un dettagliato accertamento nella
definizione delle responsabilità connesse alla carica di amministratore (21).
Attesa l’impossibilità di trasposizione concettuale, in sede di consiglio

(21) Cfr. Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., 1376, il quale so-
stiene che: “La delegazione delle funzioni proprie del consiglio di amministrazione è un isti-
tuto classico del nostro ordinamento, e non solo di esso, elaborato allo scopo di conciliare
l’interesse dei soci ad una direzione collegiale della gestione dell’impresa con quello dell’effi-
cienza e duttilità della direzione stessa. È, infatti, evidente che la collegialità della gestione
delle imprese, se risponde all’esigenza di adeguata ponderazione delle decisioni, ne ostacola
la tempestività; donde, la delega ad organismi più semplici e più rapidi nella decisione serve,
appunto, per correggere la necessaria lentezza della direzione collegiale dell’impresa. Nella
prassi societaria, però, l’istituto è stato in passato spesso utilizzato per deresponsabilizzare il
consiglio e trasferire sui delegati tutta intera la responsabilità per le scelte gestionali e per la
loro attuazione, trascurando l’interesse dei soci. Questi, infatti, nel consentire al consiglio di
delegare in tutto o in parte le proprie funzioni, non intendeva privarsi dei benefici della dire-
zione collegiale della gestione, ma solo rendere più agile la direzione stessa, nell’intesa che, in
ogni caso, il consiglio avrebbe dovuto sovrintendere alla gestione dei delegati, dirigendoli e
sorvegliandoli. Nell’ordinamento precedente, l’art. 2392 aveva scarnamente disciplinato il
predetto interesse dei soci in relazione al predetto modello di amministrazione collegiale, di-
sponendo solo che gli amministratori non operativi dovevano vigilare sull’andamento gene-
rale della gestione; formula precettiva questa ambigua e suscettibile di interpretazioni anche
opposte fra di loro. Nella prassi corrente, la formula veniva interpretata anche nel senso che il
consiglio dei deleganti attendeva alla fine di ogni esercizio un resoconto dei delegati sul qua-
le esprimeva le proprie valutazioni, rinunciando in tal modo sostanzialmente a quella funzio-
ne di indirizzo, che la legge e i soci, invece, all’intero consiglio attribuivano”.
122 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

di amministrazione, della funzione della collegialità nella semplice risolu-


zione della contrapposizione tra interesse della maggioranza e interesse
della minoranza azionaria, il dato della legge, attraverso un’operazione di
interpretazione sistematica, attribuisce alla collegialità il ruolo di garantire
una formazione più ponderata della decisione, nel rispetto del criterio del-
l’affiatamento gestorio, adottando il quale, attraverso la costituzione di un
collegio, si ottiene un coeso gruppo dirigente, eludendo la continua con-
trapposizione fra interessi suscettivi di trovare la corretta composizione, nel
rispetto del principio del metodo collegiale.
La collegialità dell’amministrazione comporta pari doveri e responsabi-
lità a carico dei componenti dell’organo gestorio: sulla base di tali norme,
infatti, può andare esente da responsabilità solo quell’amministratore che
abbia fatto annotare il proprio dissenso rispetto agli atti posti in essere dagli
altri amministratori, dandone in pari tempo notizia al presidente dell’orga-
no di controllo. Il principio in esame trova validità ed efficacia a seguito del-
la riforma del diritto societario, con la precisazione per cui la responsabilità
dell’amministratore, per i danni cagionati dalla condotta di un organo dele-
gato, trova spazio anche nell’ipotesi di deleghe di fatto (22).
Difatti, il compimento dell’atto dannoso da parte del delegato può esse-
re imputato al delegante nel caso si accerti la sussistenza di un concorso nel-
la verificazione dell’evento, attraverso la concreta partecipazione all’atto
ovvero l’omissione di quanto necessario ad impedire il compimento dell’at-
to dannoso, a ridurne o eliminarne le conseguenze (23).

(22) Cfr. Bonelli, La responsabilità degli amministratori di s.p.a.: giurisprudenza attuale e


prospettive, in Giur. comm., 1986, I, p. 419; Borgioli, Attribuzioni in materia di gestione e re-
sponsabilità degli amministratori, in Giur. comm., 1977, II, p. 726; Bruni, Natura dell’azione
contro gli amministratori (nota a Trib. Bologna, 19 gennaio 1993), in Società, 8/1993, p. 1063;
Carnevali, La responsabilità civile degli amministratori per danno ai risparmiatori, in questa ri-
vista, 1/1988, p. 83; Cupido, Diritto del socio o del terzo “direttamente danneggiato” al risarci-
mento del danno (nota ad App. Milano 9 novembre 1993), in Società, 5/1994, p. 618; D’Ora-
zio, Le azioni civili contro gli organi societari: l’azione di responsabilità. I reati fallimentari: ban-
carotta semplice e fraudolenta, in Dir. fall., 2000, I, p. 252.
(23) Si veda Frè-Sbisà, Della società per azioni, tomo I, Artt. 2325-2409, in Comm. Scialoja-
Branca, a cura di Galgano, 1997, p. 34 ss.: “Può essere opportuno rilevare come la delega di de-
terminate attribuzioni del consiglio ad uno o più dei suoi membri non importi una specie di
trasferimento definitivo delle attribuzioni stesse. La delega, in altri termini, non spoglia il
consiglio delle normali sue attribuzioni allo stesso modo che il mandato non toglie al man-
dante la facoltà di compiere gli atti che il mandatario può compiere per conto di lui. Nono-
stante la nomina di un amministratore delegato, il consiglio potrà dunque in ogni momento
avocare a sé la decisione in ordine a un determinato affare che l’amministratore delegato
avrebbe il potere di concludere e ciò anche se questi ne abbia già iniziato la trattazione. In
questi casi si avrà su quel determinato oggetto una deliberazione del consiglio a cui l’ammi-
SAGGI 123

Attesa la presenza di disposizione sui limiti delle attribuzioni delegabi-


li, quale tendenza verso la procedimentalizzazione del modello di costitu-
zione degli organi delegati, il dato normativo prescrive che il consiglio di
amministrazione possa delegare proprie attribuzioni ad uno o più dei suoi
componenti a condizione che ciò sia consentito dallo statuto o dall’assem-
blea, il conferimento della delega gestoria continua ad essere momento
conclusivo di una fattispecie a formazione progressiva, nella quale prodro-
mi dell’efficacia del conferimento di delega sono l’autorizzazione statutaria
o assembleare, la deliberazione di conferimento da parte dell’organo colle-
giale e l’accettazione della carica da parte dei componenti del consiglio
chiamati ad assumere le funzioni delegate (24).
La prassi societaria conosce, altresì, la possibilità di conferire a singoli
componenti dell’organo esecutivo attribuzioni consiliari, di regola interne
al consiglio stesso ed esercitabili collegialmente, senza che ciò trovi giustifi-
cazione in una preventiva determinazione statutaria o dell’assemblea. Se si
riflette su tale modalità interna di conferimento di poteri, si addiviene alla
constatazione della frequenza fenomenologica molto elevata nelle società
di notevoli dimensioni, in cui la tempestività nelle decisioni e la speditezza
delle procedure tendono, naturaliter, verso una ripartizione interna delle in-
combenze del consiglio anche in difetto di autorizzazione, con l’effetto che

nistratore delegato dovrà attenersi senza peraltro che si possa affermare per questo che l’am-
ministratore delegato sia subordinato al consiglio o che si verifichi in tale ipotesi una revoca
parziale della delega”.
(24) Cfr. Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p. 715:
« Appare pienamente giustificata la scelta del legislatore con la formula, riferita al consiglio di
amministrazione, “può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé opera-
zioni rientranti nella delega”, sol che si abbia presente quanto viene dopo nello stesso art.
2381 c.c., cioè “sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto orga-
nizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strate-
gici, industriali e finanziari della società; valuta sulla base della relazione degli organi delega-
ti, il generale andamento della gestione”. Alla luce di questo innovativo corpus di norme, nes-
sun dubbio può sorgere in merito al ruolo sovraordinato del consiglio rispetto al delegato. Il
consiglio “valuta” l’andamento della gestione: ne può derivare un’iniziativa o nel senso di in-
tervento diretto o di istruzioni al delegato. Il legislatore ha utilizzato la parola “valuta”, inve-
ce di “vigila”, per indicare l’attività compiuta dal consiglio di amministrazione con riguardo
alla sorveglianza sugli atti degli organi delegati. Gli estensori del testo dell’art. 2381 c.c. han-
no, nel corso dei lavori della commissione ministeriale, ragionato nel senso che occorresse
restringere le affermazioni di responsabilità dei delegati, ove sganciata dall’effettivo concorso
della condotta causativa del danno. Si è quindi ritenuto che l’obbligo di vigilanza sugli organi
delegati fosse troppo gravoso e che, invece, la mera valutazione dell’altrui attività (sia essa la
predisposizione dell’organizzazione societaria o il generale andamento della gestione) potes-
se meglio delineare il dovere residuale, ma ugualmente importante, dell’organo delegante ».
124 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

la solidarietà, nell’accertamento della responsabilità, non può essere esclu-


sa in difetto di una delega formale (25).
I rapporti interorganici risultano disciplinati nel dettaglio, al fine di dare
coerenza al disegno legislativo di ottenere organicità del sistema di ammi-
nistrazione della società per azioni, in modo da assicurare un costante equi-
librio tra opposte esigenze di governance, nel rispetto dell’efficienza della
gestione e dell’efficacia dei controlli.
Il legame tra delega dei poteri e responsabilità della gestione, atteso il
dato giurisprudenziale che associava al disinteresse degli organi deleganti
per la gestione sociale un accertamento della loro responsabilità in senso
meramente oggettivo, costituisce motivo di sollecitazione nella specifica-
zione normativa del dovere di vigilanza sul generale andamento della ge-
stione, con il contestuale riconoscimento a favore dell’organo delegante di
poteri e doveri di ordine valutativo in merito all’assetto funzionale e alle
strategie della società (26).

(25) In argomento si veda Marulli, La delega gestoria tra regole di corporate governance
e diritto societario riformato, in Giur. comm., 2005, p. 85 ss.: “Il giudizio non è tuttavia propria-
mente puntuale se si resta nel quadro previsionale descritto dall’art. 4, comma 8°, lett. a), da-
to che in questo ambito il mandato affidato al legislatore delegato riguarda solo “contenuti e
limiti” della delega gestoria, mentre per ogni altro aspetto e segnatamente per quel che attie-
ne al funzionamento dell’organo amministrativo e alla circolazione delle informazioni al suo
interno dovrebbe probabilmente riprendere quota il voto di principio in favore dell’autono-
mia statutaria; e ciò tanto più se, esegeticamente, si convenga sul fatto che mentre l’indica-
zione concernente i “contenuti” della delega potrebbe forse rivestire una qualche portata in-
novativa, ove si fosse pensato al contenuto della delega come a qualcosa di diverso dalle ma-
terie oggetto di essa, non altrettanto si potrebbe dire per i “limiti”, posto che quello dei limiti
era, a ben vedere, nel previgente regolamento dell’art. 2381 l’unico aspetto della delega dei
poteri di amministrazione di cui il legislatore del ‘42 si era compiutamente occupato. Questo
giudizio diviene però meno discutibile non appena si allarghi il raggio di osservazione oltre il
principio citato e si passi a considerare, giusta quanto si è più sopra osservato a proposito del
reticolo motivazionale che sta alla base della rinnovata disciplina della delega gestoria, il ruo-
lo che vi giocano altri due principi dettati dalla l. n. 366 del 2001 in tema di amministrazione
della società. [. . .] Nondimeno, come ben avvertito dallo stesso legislatore delegato in sede di
attuazione del principio, l’agire in modo informato diviene altresì l’indefettibile postulato di
una sana amministrazione delegata: una volta abbandonata l’incerta frontiera della vigilanza
sul generale andamento della gestione sociale, la conservazione in capo agli amministratori
non esecutivi di una responsabilità solidale ad opera dell’art. 2392, comma 2°, nel testo scatu-
rito dalla riforma, presuppone e rende in qualche modo perfino necessario, restando altri-
menti la sanzione della responsabilità fine a se stessa, che gli amministratori che non parteci-
pino alla gestione sociale siano tuttavia posti in condizione di poter disporre di ogni utile
informazione riguardo all’andamento della società, della gestione, infatti, potendo pur sem-
pre essere chiamati a rispondere anche in base al novellato art. 2392, comma 2°”.
(26) In tema Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p.
SAGGI 125

All’esito della comprensione della necessità di dotare i deleganti dei


mezzi per acquisire le necessarie conoscenze, nasce l’istituzionalizzazione
di un sistema coordinato di flussi informativi a favore degli amministratori
deleganti, con la prescrizione normativa attribuente agli stessi il potere di
chiedere le informazioni relative alla gestione della società (27).
La natura derivativa della delega gestoria trova la propria essenza nel da-
to di legge che consente all’organo conferente il potere di compiere diretta-
mente le attività delegate, impedendo agli amministratori delegati il com-
pletamento dell’attività delegata; di guisa, non si determina un trasferimen-
to definitivo dei poteri attribuiti, ma si concede un’autorizzazione a che l’e-
sercizio di poteri, ancorché collegiali, possa essere affidato ad un compo-
nente del consiglio di amministrazione.
Il consiglio di amministrazione è chiamato a valutare l’adeguatezza del-
l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. Si tratta di
una competenza affidata agli amministratori non esecutivi; tale prescrizio-
ne, letta in simbiosi con la previsione dell’analoga competenza attribuita ai
delegati, costituisce la prospettiva di indagine nella valutazione di una ri-
partizione corretta dei compiti di governance tra organo delegante, investito
della valutazione in ordine all’adeguatezza funzionale dell’organizzazione
societaria, ed organo delegato, teso a curarne la predisposizione in confor-
mità alle caratteristiche ed alle finalità dell’impresa (28).

715: “È chiaro che, sul piano pratico, l’esercizio concorrente, da parte del consiglio, di funzio-
ni oggetto di delega deve avere il requisito dell’occasionalità, non della sistematicità, per non
causare delle ripercussioni deleterie sullo stato d’animo e sul comportamento del delegato.
Soltanto argomenti particolarmente complessi, pertanto, saranno avocati a sé dal consiglio,
naturalmente avvertendo, nel contempo, il delegato, anche perché non si formino indirizzi
difformi sulla medesima materia o addirittura decisioni contrastanti. In determinati casi, può
essere stimato conveniente dallo stesso delegato deferire al consiglio l’esame del problema e
la conseguente decisione”.
(27) Cagnasso, Il dovere di vigilanza degli amministratori e “la delega di fatto” tra norme
“vecchie” e “nuove”, in Giur. it., 2004, p. 558: “La disciplina relativa alla circolazione tra dele-
ganti e delegati sembra quindi articolarsi su due piani. Un primo – di base e constante – che
prevede un obbligo di informazione, secondo certe modalità e con un contenuto determina-
to, dai delegati nei confronti dei deleganti. Un secondo piano – di carattere integrativo e con
modalità variabili caso per caso – che introduce il potere-dovere dei deleganti di richiedere ul-
teriori informazioni ai delegati”.
(28) Si legga Minervini, Gli interessi degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2006, p.
147; Macri’, A proposito di rapporto amministratori-società: la c.d. parasubordinazione (nota a
Cass., 14 dicembre 1994, n. 10680), in Società, 5/1995, p. 635; Menghini, L’amministratore del-
la società può essere lavoratore subordinato della stessa?, in Società, 7/1982, p. 774; Cacchi
Pessani, Corporate governance, sistema dei controlli e intermediari reputazionali negli Stati Uni-
ti d’America, in Giur. comm., 2003, 746; Ambrosini, L’amministrazione e i controlli nella società
126 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Il consiglio di amministrazione non viene spogliato dei poteri delegati,


dato che mantiene una competenza concorrente rispetto a quella degli or-
gani delegati. Tale principio, affermato da tempo dalla dottrina e dalla giuri-
sprudenza, ha acquistato portata normativa con la riforma. In particolare,
proprio in ragione del fatto che l’organo delegante non viene spogliato del-
le funzioni delegate, l’art. 2381 c.c. attribuisce al consiglio il potere di im-
partire direttive agli organi delegati ed avocare a sé operazioni rientranti
nella delega. Come si evince agevolmente dalla lettera della norma, i pre-
detti poteri possono essere esercitati solo collegialmente e non dai singoli
consiglieri individualmente.
Le direttive sono istruzioni vincolanti del consiglio di amministrazione
impartite agli organi delegati onde indirizzarne l’attività e consentire un mi-
glior coordinamento tra l’attività dei delegati e quella del consiglio. Mentre,
all’atto della costituzione del rapporto di delega, le istruzioni si traducono
nella delibera di delega, che definisce contenuto, limiti ed eventuali moda-
lità d’esercizio dei poteri conferiti, nel corso del rapporto, il consiglio può
far pervenire le proprie istruzioni ai delegati attraverso le direttive. Se è in-
dubbio che le direttive sono vincolanti, e pertanto i delegati devono atte-
nersi alle istruzioni ad essi rivolte, la norma introdotta con la riforma non
chiarisce come debbano agire gli organi delegati allorquando l’esecuzione
delle direttive del consiglio possa farli incorrere in responsabilità verso la
società e verso i creditori sociali (29).

per azioni, in Giur. comm., 2003, p. 308; Caselli, Elogio, con riverse, del collegio sindacale, in
Giur. comm., 2003, p. 251; Salodini, Il parere del collegio sindacale in merito alla revoca dell’in-
carico di revisione contabile nelle società quotate, in Giur. comm., II, 2004, p. 416. Cfr. Lener, La
diffusione delle informazioni “price sensitive” fra informazione societaria e informazione riserva-
ta, in Società, 1999, p. 142 ss. In generale sul tema delle comunicazioni societarie Annunzia-
ta, La nuova disciplina delle comunicazioni societarie al pubblico e alla Consob, in Società,
1999, p. 520 ss.
(29) In tema Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., p. 1330:
“Tuttavia, nella riforma la base normativa di questo coinvolgimento non è più costituita dal-
la generica norma contenuta nel vecchio testo del secondo comma dell’art. 2392 c.c., secondo
la quale il consiglio delegante era solidalmente responsabile dei danni causati dai delegati, se
non avessero vigilato sul generale andamento della gestione, ma dal nuovo testo dello stesso
comma. Questo ora dispone che, fermo quanto disposto dal terzo comma dell’art. 2381, i
componenti del consiglio delegante sono solidalmente responsabili con i delegati se, essendo
a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il com-
pimento o per attenuarne o eliminarne le conseguenze. Questa complessa regola, pertanto,
anzitutto afferma la solidale responsabilità del consiglio delegante, esclusa quella dei compo-
nenti che si siano dissociati a norma del terzo comma dell’articolo in esame, a causa del com-
portamento con cui hanno approvato quanto i delegati hanno periodicamente comunicato, in
tema di piani strategici o di affari rilevanti, la cui attuazione ha arrecato danni alla società o ai
SAGGI 127

I delegati possono disattendere le direttive del consiglio ove le ritenga-


no dannose per la società, evitando così di incorrere in responsabilità. Atte-
so che la segmentazione gestionale sottende una diversificazione di re-
sponsabilità patrimoniale, la possibilità, interpretativamente ricercata, da
parte dei delegati, di disattendere le direttive, non vuole significare una sva-
lutazione della funzione delle direttive, giacché, come detto, le conseguen-
ze dannose per il singolo amministratore delegato sono costituite da un ac-
crescimento della propria responsabilità verso la società, i soci e i terzi.
Come specificato, pur tuttavia, occorre ribadire che il consiglio, non
spogliandosi dei poteri delegati, mantiene un ruolo prioritario e sovraordi-
nato rispetto agli organi delegati. D’altra parte i delegati, pur eseguendo una
direttiva ritenuta dannosa per la società, ben potranno escludere la propria
responsabilità contestando la direttiva ricevuta e facendo formalmente rile-
vare il proprio dissenso. In tale ipotesi troverà applicazione l’art. 2392 c.c., ai
sensi del quale la responsabilità degli amministratori non si estende a chi,
essendo immune da colpa, abbia fatto annotare il proprio dissenso.
Attraverso il potere di avocazione, il consiglio si sostituisce agli ammi-
nistratori delegati nel compimento di operazioni rientranti nella sfera dei
poteri delegati. Difatti, atteso che il consiglio mantiene una competenza
concorrente su tutte le funzioni delegate, esso ha il potere-dovere di com-
piere atti al posto degli organi delegati, in tutti i casi in cui ritenga necessa-
rio, nell’interesse della società, avocare a sé specifiche competenze che era-
no state oggetto di delega (30).

soci o ai creditori o ai terzi. Inoltre, aggiunge che la stessa solidale responsabilità potrà deri-
vare dal fatto che, conoscendo fatti pregiudizievoli, quindi non solo atti dei delegati ma anche
fatti attinenti alla gestione dell’impresa, non siano intervenuti per eliminarne o attenuarne gli
effetti. Mi pare ovvio che l’intervento correttivo può essere preso solo dal consiglio e non dai
componenti individualmente, che non ne avrebbero la competenza e il potere; con l’effetto
che l’eventuale condotta omissiva del consiglio, con la relativa responsabilità per non aver
impedito il danno derivante dai predetti fatti pregiudizievoli o per non aver contribuito ad eli-
minarne o attenuarne le conseguenze, non potrà essere ascritta a quello dei componenti che
si sia dissociato nel modo formale sopra indicato”.
(30) Si veda Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, in So-
cietà, 6/2005, p. 709; Guerrera, La società di capitali come formula organizzativa dei servizi
pubblici locali dopo la riforma del diritto societario, in Società, 2005, p. 683; Mancinelli, Prin-
cipi di corretta amministrazione e patrimonio sociale: evoluzione dei controlli?, in Società, 2005,
p. 549. Cfr. Bonazza, Conflitto di interessi dell’ amministratore: conferma o revirement della giu-
risprudenza della Suprema Corte?, in Dir. fall., 1999, II, p. 1032; Borgioli, La delega di attribu-
zioni amministrative, in Riv. soc., 1981, p. 17; Busani, Attribuzione di deleghe in via disgiunta a
una pluralità di amministratori (nota a Trib. Parma, 16 giugno 2000 - decr.), in Società, 2000, p.
1216; Cagnasso, Obbligo di rendiconto e responsabilità dell’amministratore investito di potere
delegato, in Giur. comm., 1977, II, p. 660.
128 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

L’avocazione risulta essere espressa in caso di deliberazione esplicita


del consiglio, ovvero implicita, qualora il consiglio ponga direttamente in
essere l’atto compreso nei poteri delegati. La lettura del dato normativo at-
tribuisce espressamente al consiglio il potere di avocazione, di guisa, il de-
legato non può vantare alcun diritto al mantenimento della delega, né al ri-
sarcimento del danno in caso di avocazione (31).
La sovraordinazione dell’organo consiliare rispetto alle funzioni degli
organi delegati, legittima il consiglio ad esercitare la facoltà di revocare in
qualsiasi momento la delega o le decisioni assunte dagli organi delegati e di
modificarne il contenuto, fatti salvi, ovviamente, i diritti dei terzi.

3. – Pur costituendo l’autorizzazione assembleare o statutaria un pre-


supposto necessario per il valido conferimento della delega, i consiglieri
che vanno a ricoprire l’incarico di amministratore delegato devono essere
nominati dal consiglio di amministrazione e pertanto non possono essere
designati direttamente tramite delibera assembleare o disposizione statuta-
ria, atteso che l’organo delegato, esercitando poteri spettanti al consiglio di
amministrazione, non può ricevere la delega da un organo diverso dal con-
siglio.
L’assunzione di responsabilità solidale anche da parte dei consiglieri de-
leganti presuppone la natura fiduciaria del rapporto in esame, che può sus-
sistere esclusivamente nel caso in cui i delegati siano stati scelti dal consi-
glio stesso, il quale ha in qualsiasi momento la possibilità di revocare la de-
lega conferita. Ciò nonostante, si segnala che è stata ritenuta valida la no-
mina dell’amministratore delegato fatta dall’assemblea dei soci, quando vi
partecipino come soci tutti i componenti del consiglio di amministrazione
ed essi votino favorevolmente (32).

(31) V. Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 20
ss.
(32) Cfr. Trib. Biella, 10 giugno 1996, in Dir. fall., 1996, p. 685: “Manca di poteri l’ammini-
stratore delegato di una s.p.a. che costituisce un pegno sulle azioni della società per garantire
un finanziamento ad altra società del gruppo, sulla base di una deliberazione adottata dall’as-
semblea della società rappresentata dall’amministratore delegato concedente il pegno nella
quale non viene indicato che il finanziamento veniva concesso ad una società diversa. In tal
caso, l’istituto che ha concesso il finanziamento non può essere ammesso al passivo della so-
cietà garante in amministrazione straordinaria. È inefficace sub specie del conflitto di interes-
si la costituzione di una garanzia pignoratizia da parte dell’amministratore delegato di una
s.p.a. su titoli azionari in proprietà di altra società di cui egli sia amministratore unico, me-
diante girata in garanzia ad un istituto finanziario. Qualora l’amministratore delegato abbia
agito nell’ambito dei poteri conferitigli, quindi, senza preventiva deliberazione del consiglio
di amministrazione, trovano applicazione gli artt. 1394 e 1395 c.c.”
SAGGI 129

La legittimità delle clausole statutarie, che impongono al consiglio di


amministrazione di delegare parte delle proprie attribuzioni e di designare
un amministratore delegato (cd. delega obbligatoria), passa dalla osserva-
zione interpretativa della non imperatività del disposto normativo in meri-
to all’esclusività dell’attribuzione della gestione della società agli ammini-
stratori.
All’esito della delibera di delega del consiglio di amministrazione, me-
diante la quale vengono istituiti gli organi delegati e nominati i rispettivi ti-
tolari, la costituzione del rapporto di delega si perfeziona con l’accettazione
da parte dei soggetti designati. Nel caso in cui all’organo delegato vengano
conferiti poteri di rappresentanza, la delibera di delega del consiglio di am-
ministrazione deve essere depositata presso il registro delle imprese, unita-
mente alla firma autografa del delegato.
La prassi societaria, in mancanza dell’autorizzazione statutaria o assem-
bleare prevista, conosce l’uso in virtù del quale il consiglio di amministra-
zione attua una ripartizione delle funzioni meramente interna, in modo che
alcune competenze vengano attribuite a singoli consiglieri, per attuare una
divisione del lavoro all’interno del consiglio.
La ripartizione atipica della delega costituisce una modalità interna di
organizzazione dell’attività, non estrinsecatasi all’esterno, che dispiega ef-
fetti solo per quanto attiene ai rapporti interni al consiglio. L’effetto pratico
della non esteriorizzazione della divisione meramente interna dei poteri è
rappresentato dall’impossibilità di opponibilità della divisata ripartizione a
soggetti, sia terzi che organi sociali, che non sono parte del consiglio d’am-
ministrazione (33).

(33) Cfr., in tema Cass., 14 maggio 2004, n. 9199: “in tema di rappresentanza processuale
delle persone giuridiche che, ai sensi dell’art. 75 c.p.c., spetta al soggetto al quale è conferita a
norma di legge o dello statuto, la capacità di agire o resistere in giudizio in nome e per conto
delle società di capitali, essa è attribuita ai sensi del comma 1° dell’art. 2384 c.c., agli ammini-
stratori che abbiano la rappresentanza esterna, salve peraltro le deroghe stabilite dall’atto co-
stitutivo e dallo statuto, che sono senz’altro opponibili dai terzi, atteso che il principio di cui
al comma 2° dell’art. 2384 c.c. – secondo cui le limitazioni del potere di rappresentanza risul-
tanti dall’atto costitutivo o dallo statuto sono opponibili soltanto se si provi che i terzi abbia-
no agito intenzionalmente in danno della società – ha effetti limitati alla tutela dei terzi e per
certi versi dell’onere gravante sull’amministratore di provare la sussistenza dei poteri spesi.
(La Corte ha cassato la decisione impugnata che, nell’escludere – ai sensi dell’art. 2384, com-
ma 2°, c.c. – l’opponibilità, da parte dei terzi delle limitazioni del potere di rappresentanza de-
gli amministratori risultanti dell’atto costitutivo e dello statuto, aveva ritenuto la capacità pro-
cessuale dell’amministratore delegato della società opponente in virtù di delega del consiglio
di amministrazione della società che gli aveva conferito i poteri di ordinaria amministrazione
con rilevanza esterna, fra i quali rientravano quelli di agire o resistere in giudizio, nonostante
che lo statuto li attribuisse soltanto al presidente)”.
130 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Di guisa, in presenza di delega atipica, non opera la limitazione della re-


sponsabilità degli amministratori deleganti; invero, una divisione di fatto
delle competenze tra gli amministratori, non autorizzata dallo statuto o dal-
l’assemblea, non può avere l’effetto di escludere la responsabilità di alcuni
amministratori per le violazioni commesse dagli altri. Ne risulta che gli am-
ministratori, a prescindere dalla distinzione endo-consiliare operata, resta-
no responsabili solidalmente per gli atti compiuti dall’amministratore cui è
stata conferita una delega atipica.
La disciplina della delega di poteri amministrativi di cui all’art. 2381 c.c.
è applicabile solo in relazione a deleghe conferite all’interno del consiglio di
amministrazione, ad uno o più dei suoi componenti. Pertanto, corretta-
mente, è stata ritenuta invalida una clausola statutaria che prevedeva la pos-
sibilità della delega di attribuzioni proprie del consiglio a terzi estranei al-
l’organo amministrativo, poiché ciò comporterebbe un’illegittima dissocia-
zione fra potere gestorio e sistema di imputazione dell’attività amministra-
tiva e della responsabilità per la medesima (34).
I delegati, investiti della rappresentanza legale di una società per azione
possono legittimamente conferire mandati o procure ad altri soggetti, an-
che estranei alla società. Ciò in omaggio alla necessaria esigenza di decen-
tramento nell’esercizio dell’attività gestoria la quale, se esercitata senza su-
perare determinati limiti, non contrasta con l’obbligo di esecuzione perso-
nale dell’incarico di amministratore (35).
Quanto ai limiti della facoltà di conferire mandati e procure a terzi, per
evitare che il conferimento del mandato o della procura determini lo svuo-
tamento dei poteri di amministrazione del consiglio ed il sostanziale trasfe-
rimento degli stessi a terzi, gli amministratori delegati, quali titolari del po-
tere di rappresentanza della società per azione, possono rilasciare a terzi

(34) Cfr. Irrera, La supplenza nell’esercizio del potere di rappresentanza nelle società di ca-
pitali (nota a Trib. Torino, 4 giugno 1983; App. Torino, 19 luglio 1983), in Giur. comm., 1984, II,
p. 208; Masucci, Sul potere di rappresentanza degli amministratori di società, in Giur. merito,
1974, I, p. 41; Menarini, Supplenza, rappresentanza sociale, pubblicità a tutela dei terzi (nota a
Trib. Torino, 4 giugno 1983; App. Torino, 20 luglio 1983), in Giur. comm., 1984, II, p. 450.
(35) In tema Galgano, Diritto civile e commerciale, 3a ed., vol. III, Padova, 1999, p. 50 ss.;
Id., Il negozio giuridico, vol. III del Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo con-
tinuato da Mengoni, Milano, 1988, p. 8 ss.; Gambaro, Il diritto di proprietà, vol. VIII, tomo II
del Tratt. dir. civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo continuato da Mengoni, Milano,
1995, p. 98. Ancora Gambini, Il negozio fiduciario negli orientamenti della giurisprudenza, in
Rass. dir. civ., 1998, p. 849. Ed ancora Gatti, Interposizione reale e interposizione fittizia. (Una
distinzione ancora valida), in Riv. dir. comm., 1974, I, p. 240; Gentili, Interposizione, simula-
zione e fiducia nell’intestazione di quote di società a responsabilità limitata, in Giur. it., 1982, I,
p. 418.
SAGGI 131

mandati e procure speciali, anche di natura processuale, per singoli affari o


per determinate categorie di atti, ma non possono conferire procure gene-
rali, per il motivo che, in tal modo, svuoterebbero i propri poteri, eludendo
l’inderogabile normativa in materia di competenza ed esercizio della fun-
zione amministrativa (36).
Atteso il dato in virtù del quale risultano indelegabili solo le attribuzio-
ni nominativamente indicate, potendo le altre, a stretto rigore ermeneutico,
formare oggetto di delega, appare, ictu oculi, corretto sostenere che emerge
in maniera quanto mai chiara il principio per il quale la delegabilità delle at-
tribuzioni amministrative, anche nel nuovo sistema, costituisce la regola.
Nel dato di legge si afferma la sovranità in materia di gestione del consi-
glio di amministrazione, conferendo al consiglio il compito di valutare sul-
la base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della so-
cietà, ed al contempo, si prescrive l’affidamento agli organi delegati del
compito di curare che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile
sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa e di riferire sul gene-
rale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione (37).
La determinazione del contenuto e dei limiti della delega si riferisce al-
l’indicazione e delimitazione dei concreti poteri delegati dal consiglio di
amministrazione; nei limiti specificati nella delibera di delega, gli organi de-

(36) In tema si veda Alcaro, Mandato e attività professionale, Milano, 1988, p. 197; Baldi-
ni, Mandato e fiducia. Il trust, in Alcaro (a cura di), Il mandato, Milano, 2000, p. 369 ss. Si legga
Bavetta, voce Mandato (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXV, Milano, 1975, p. 341 ss. Ed inoltre cfr.
Betti, Teoria generale del negozio giuridico, 2a ed., vol. XV, tomo II del Tratt. dir. civ. it., diretto
da Vassalli, Torino, 1960, p. 232 ss. Cfr. Pugliatti, Sulla rappresentanza indiretta, ora in Studi
sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 400 ss.; Ragazzini, Trust « interno » e ordinamento giuri-
dico italiano, in Riv. not., 1999, p. 279 ss.; Rava, Circolazione giuridica e rappresentanza indiret-
ta, Milano, 1953, p. 119. E, istituzionalmente, Rescigno, Manuale del diritto privato italiano,
11a ed., Napoli, 1997, p. 344 ss.; Rubino, La compravendita, 2a ed., vol. XXIII del Tratt. dir. civ.
e comm., già diretto da Cicu e Messineo continuato da Mengoni, Milano, 1962, p. 150; Sacco,
De Nova, Il contratto, tomo I, Torino, 1993, p. 50 ss.; Sacco, Il possesso, vol. VII del Tratt. dir.
civ. e comm., già diretto da Cicu e Messineo continuato da Mengoni, Milano, 1988, p. 122; Id.,
Principio consensualistico ed effetti del mandato, in Foro it., 1966, I, c. 1385 ss. V. Bile, Il man-
dato. La commissione. La spedizione. Commento agli artt. 1703-1741 del c.c., Roma, 1961, p. 22
ss.; Busato, La figura del trust negli ordinamenti di common law e di diritto continentale, in Riv.
dir. civ., 1992, II, p. 347; Calvo, La proprietà del mandatario, Padova, 1996, p. 12 ss.
(37) Si veda Campobasso, La riforma delle società di capitali e delle cooperative, Aggiorna-
mento alla quinta ed. del diritto commerciale 2. Diritto delle società, Torino, 2003, p. 100.
Conformi, Ambrosini, Sub art. 2373, in C .c. commentato, a cura di Alpa, Mariconda, Milano,
2005; Pasquariello, Sub art. 2373, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Maffei Alberti, Pa-
dova, 2005, p. 497; Spagnolo, Sub. art. 2373, in La riforma delle società, a cura di Sandulli,
Santoro, Torino, 2003, p. 321.
132 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

legati sono investiti del potere di compiere non determinati atti, ma tutti gli
atti relativi alle funzioni delegate, e, al riguardo, attesa la non giustapponi-
bilità totale al mandato, non è applicabile l’art. 1708 c.c. che limita il man-
dato generale ai soli atti che non eccedano l’ordinaria amministrazione (38).
Nel caso in cui nello statuto, nell’eventuale delibera assembleare di au-
torizzazione e nella delibera di delega del consiglio di amministrazione non
sia specificato alcunché in merito all’estensione ed ai limiti dei poteri dele-
gati, si ritiene che la delega abbia carattere generale e sia pertanto estesa a
tutti i poteri di gestione di spettanza del consiglio di amministrazione, ecce-
zion fatta per quelli indelegabili.
Laddove sia prevista una pluralità di amministratori delegati, la defini-
zione delle modalità di esercizio della delega riguarda la scelta gestoria se
essi siano tenuti ad operare disgiuntamente o congiuntamente, ovvero se
ciascuno di essi debba operare indipendentemente dall’altro, in relazione
alle specifiche competenze ad esso attribuite.
Si rifletta: il conferimento di una delega ad una pluralità di consiglieri
delegati, con l’obbligo di agire congiuntamente, non può essere illegittimo
per l’affermazione, apodittica, che una tale struttura organizzativa compor-
terebbe la violazione delle norme che impongono la struttura collegiale del
comitato esecutivo: l’amministrazione delegata costituisce in re ipsa una
deroga al metodo collegiale, non vi sono, di guisa, motivazioni, giuridiche o
aziendali, per ritenere illegittima una struttura caratterizzata da una plura-
lità di consiglieri delegati, chiamati ad agire congiuntamente oppure di-
sgiuntamente, senza che ciò dia luogo alla costituzione di un comitato ese-
cutivo.
Le clausole statutarie o le delibere assembleari, autorizzando il consi-
glio di amministrazione a delegare parte delle proprie funzioni, determina-
no la struttura ed i poteri degli organi delegati. In tali ipotesi al consiglio di
amministrazione viene lasciata la scelta se avvalersi o meno dello strumen-

(38) Cfr. Giammaria, Azione del mandante verso il terzo nel mandato senza rappresentanza:
la Cassazione non muta orientamento, in Giust. civ., 1991, I, p. 1559 e Giampaolino, In tema di
intestazione fittizia e fiduciaria di azioni, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 961. Cfr. Barachini, La
pubblicità commerciale dopo l’istituzione del Registro delle imprese, in Giur. comm., 1996, I, p.
273. In tema Giordano, Sulla natura giuridica dell’azione del mandante verso il terzo debitore
prevista dall’art. 1705 c.c., in Riv. dir. comm., 1953, I, p. 100 ss.; Id., Contratto di commissione e
mandato senza rappresentanza, in Giust. civ., 1996, II, p. 186; Id., Mandato. Commissione. Spe-
dizione, Torino, 1969, p. 335 ss.; Giuliani, Interposizione, fiducia e dichiarazioni dell’altrui ap-
partenenza, sulle orme di un caso giurisprudenziale, in Giur. comm., 1994, II, p. 29; Morello, Fi-
ducia e trust: due esperienze a confronto, in Fiducia, trust, mandato ed agency (atti del 2° conve-
gno di studio svoltosi a Madonna di Campiglio nel 1991, quaderno n. 2), Milano, 1991, p. 69;
ed, infine, Nanni, L’interposizione di persona, Padova, 1990, p. 186.
SAGGI 133

to della delega, senza tuttavia consentire a quest’ultimo di definire conte-


nuto, limiti e modalità di esercizio della delega.
Tema particolarmente interessante è la delimitazione del potere statu-
tario nella costruzione di modelli in deroga alla regola legale, prescrivente
la titolarità del potere di stabilire estensione di deleghe in capo al consiglio
di amministrazione.
La fenomenologia diversificata, risultante dalla prassi societaria nella
predisposizione di clausole ad hoc, prevede, nella costanza dei casi, una me-
ra autorizzazione assembleare al quantum delegabile da parte del consiglio,
ovvero una deliberazione assembleare che imponga all’organo consiliare di
delegare senza ulteriori specificazioni o di delegare determinate funzioni
gestorie.
Nella prospettiva della migliore amministrazione della società per azio-
ni, quale valore fondamentale della governance, ed atteso il dato, logico pri-
ma che giuridico, che la segmentazione gestionale deriva dalla specificazio-
ne di competenze diversificate, si palesa la meritevolezza dell’interesse dei
soci ad attribuire deleghe a soggetti maggiormente competenti in determi-
nate materie, ovvero a riservare specifiche competenze a favore dell’organo
consiliare (39).
Il modello normativo italiano, attraverso l’input di modelli comparati,
disegna i rapporti tra consiglio e delegati, evidenziando gli obblighi collabo-
rativi ed informativi dei delegati verso l’organo consiliare. Nella struttura
della delega, composta di direttiva e di avocazione nelle materie delegate,
emerge un modello il cui funzionamento presuppone comportamenti col-
laborativi dei delegati verso il presidente per consentire adeguate informa-
zioni ai consiglieri e verso il consiglio d’amministrazione prima della riu-
nione.

(39) In tema Mosco, Nuovi modelli di amministrazione e controllo e ruolo dell’assemblea, in


Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, a cura di Benazzo, Patriarca, Presti,
Milano, 2003, p. 124. V. anche Libonati, Notarelle a margine dei nuovi sistemi di amministra-
zione della s.p.a., in Giur. comm., 2008, p. 289; Breida, sub art. 2409-novies, in Il nuovo diritto
societario, commentario, diretto da Cottino, Bonfante, Cagnasso, Montalenti,**, 2004, p.
1122; AssociazioneDisianoPreite, Il diritto delle società?, a cura di Olivieri, Presti, Vella, Bo-
logna, 2006, pp. 166 e 204; Nazzicone, Providenti, sub art. 2409-novies, in La riforma del di-
ritto societario, a cura di Lo Cascio, 2003, p. 357; Weigmann, Consiglio di gestione e consiglio di
sorveglianza: le prime applicazioni del modello dualistico, in Analisi giuridica dell’economia,
2007, p. 261 ss. V. anche Schiuma, Il sistema dualistico. I poteri del consiglio di sorveglianza e
del consiglio di gestione, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campo-
basso, diretto da Abbadessa Portale, 2, Torino, 2006, p. 699 ss.; quanto al consiglio di gestione
e Vorstand, cfr., anche, Rondinelli, Il sistema dualistico in Germania e in Italia: il consiglio di
gestione, in questa rivista, 2006, p. 1520 ss.
134 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Atteso che gli statuti societari optino per il modello dell’amministrazio-


ne delegata, i soci scelgono, attraverso l’organizzazione delle funzioni dele-
gate, una tendenziale segmentazione della gestione operativa, demandata
ai delegati, e, di guisa, dell’attività di valutazione e di vigilanza, riservate al
consiglio (40).
Risultano aumentate le limitazioni alle attribuzioni che non possono
formare oggetto di delega da parte del consiglio di amministrazione ai sen-
si dell’art. 2381 c.c. Alle attribuzioni indelegabili, quali la redazione del bi-
lancio, gli aumenti di capitale delegati al consiglio e gli adempimenti in ca-
so di riduzione del capitale di oltre un terzo per perdite, sono state, all’esito
della riforma societaria, aggiunte la redazione dei progetti di fusione e di
scissione e l’emissione di prestiti obbligazionari convertibili. Attesa l’etero-
geneità delle attribuzioni indelegabili, si può riscontrare che tutte le limita-
zioni attengono a momenti particolarmente delicati della vita della società,
in presenza dei quali il legislatore ha ritenuto di non poter consentire dero-
ghe al metodo collegiale, che implica il coinvolgimento del consiglio di am-
ministrazione nella sua interezza (41).
Si deve ritenere che dal divieto della delega delle attribuzioni relative al-
la riduzione del capitale sociale in caso di perdite deriva implicitamente l’in-
delegabilità di talune specifiche funzioni del consiglio in materia di proce-
dure concorsuali, quali le competenze relative alla formulazione di propo-
sta e condizioni del concordato preventivo (art. 152, c. 2, l. fall.), alla do-
manda di concordato (art. 161, c. 4, l. fall.) e alla proposta di concordato fal-
limentare (art. 214, l. fall.).
In merito alla possibilità di delegare il potere di convocare l’assemblea,
alla luce della lettera dell’art. 2366 c.c., si prescrive che l’assemblea venga

(40) Si legga Frè-Sbisà, Della società per azioni, tomo I, Artt. 2325-2409, in Comm. Scia-
loja-Branca, a cura di Galgano, 1997; Pesce, Amministrazione e delega di potere amministrati-
vo nella società per azioni (Comitato esecutivo e amministratore delegato), Milano, 1969, p. 69;
Ferri, Le società, in Trattato Vassalli, X, t. III, Torino, 1987, p. 684; Borgioli, L’amministra-
zione delegata, Firenze, 1982, p. 132 ss.; Barachini, La gestione delegata nella società per azio-
ni, Torino, 2004, p. 82 ss.; Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova di-
sciplina, cit., p. 10 ss.
(41) Si veda D’Alessandro, Rapporti tra assemblea e amministratori nella riforma societa-
ria, in La società per azioni oggi: tradizione, attualità e prospettive (Atti del Convegno interna-
zionale di studi, Venezia, 10-11 novembre 2006), Milano, 2007; Sanfilippo, Funzione ammi-
nistrativa e autonomia statutaria nelle s.p.a., Torino, 2000, p. 120; Campobasso, Diritto com-
merciale, 2, Diritto delle società, a cura di Campobasso, Torino, 2006, p. 356 ss.; Portale, Rap-
porti tra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle so-
cietà. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. 2, Torino,
2006, p. 11 ss.; Maugeri, Sulle competenze “implicite’’ dell’assemblea nella società per azioni, in
Riv. dir. soc., 2007, II, p. 86 ss.
SAGGI 135

convocata dagli amministratori; ebbene, l’espressione, secondo parte della


dottrina, sembra riferirsi esclusivamente al consiglio nella sua totalità, im-
pedendo, di guisa, la delegabilità del potere di convocazione assembleare.
Se si riflette, però, sul ruolo che il legislatore della riforma ha voluto confe-
rire ai singoli amministratori, si può riconsiderare la scelta ermeneutica di
concedere la possibilità di delega per la convocazione dell’assemblea. Di-
fatti, se si tiene conto della prassi ostruzionistica, all’interno delle società
per azioni, dell’organo amministrativo, espressione della maggioranza, si
giunge ad accogliere la delegabilità della convocazione assembleare da par-
te di un singolo amministratore delegato, quale momento di tutela delle
minoranze contro condotte scorrette dell’organo consiliare (42).
Con riferimento alle attribuzioni spettanti ai singoli amministratori in-
dividualmente, di certo, le stesse non possono formare oggetto di delega e
sono: il potere di richiedere informazioni agli organi delegati e il diritto de-
gli amministratori assenti o dissenzienti di impugnare le deliberazioni del
consiglio di amministrazione, che non siano state prese in conformità della
legge e dello statuto (43). L’indelegabilità, in tema, non deriva da un’applica-
zione estensiva del disposto normativo, ma dalla constatazione che il consi-
glio di amministrazione può delegare a singoli amministratori o al comitato
esecutivo esclusivamente le competenze attribuite al consiglio stesso quale
organo collegiale. Restano invece esclusi tutti i poteri ed i diritti che spetta-
no uti singuli a ciascun amministratore, in relazione ai quali la delega risul-
terebbe, peraltro, inutile, in quanto il relativo potere può già essere esercita-

(42) Cfr. Sanfilippo, Funzione amministrativa e autonomia statutaria nelle società per azio-
ni, Torino, 2000, p. 120; Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, a cura di
Campobasso, Torino, 2006, p. 356 ss.; Portale, Rapporti tra assemblea e organo gestorio nei si-
stemi di amministrazione, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campo-
basso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. 2, Torino, 2006, p. 11 ss.
(43) L’espresso riconoscimento della natura di autorizzazioni alle deliberazioni assem-
bleari attinenti al compimento di atti degli amministratori (art. 2364, comma 1°, n. 5), la dele-
gabilità delle deliberazioni in materia di fusioni per incorporazione di società possedute inte-
ramente o al novanta per cento, di istituzione o soppressione di sedi secondarie, di riduzione
del capitale in caso di recesso del socio, di adeguamento dello statuto a disposizioni normati-
ve, di trasferimento della sede nel territorio della sede nel territorio nazionale (art. 2365, 2°
comma), la delegabilità dell’aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione (art.
2443), la competenza a costituire patrimoni separati (ex artt. 2447-bis, 2364, 2365), il potere di
emettere obbligazioni (art. 2410) costituiscono i segni tangibili e inequivocabili di un ulterio-
re netto spostamento del potere decisionale dall’assemblea agli amministratori. Così Monta-
lenti, L’amministrazione sociale dal testo unico alla riforma del diritto societario, in Giur.
comm., 2003, p. 422); Allegri, Gli amministratori delle società per azioni in una prospettiva di
riforma, Milano, in Riv. soc., 1999, p. 387; Desario, La gestione delegata nelle società di capita-
li. La nuova disciplina, cit., p. 2 ss.
136 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

to singolarmente da ciascun componente del consiglio di amministrazione.


La delegabilità di poteri gestori investe anche il campo dell’esteriorizza-
zione delle decisioni prese, vale a dire la possibilità, da parte del consiglio di
amministrazione, di delegabilità del potere rappresentativo. Nel caso lo sta-
tuto o la delibera assembleare di nomina stabiliscano che i consiglieri dele-
gati possano rappresentare la società nei limiti dei poteri delegati, il potere
rappresentativo è conferito validamente ai consiglieri delegati, attraverso
clausola statutaria o comunque tramite la delibera assembleare di nomina.
In difetto di prescrizioni statutarie, si deve ritenere, nell’ottica della tutela
dei terzi che contrattano con la società e della maggiore speditezza delle di-
namiche sociali, che il consiglio possa attribuire la rappresentanza ai consi-
glieri delegati.
Si rifletta: l’autorizzazione alla delega da parte dei soci, contenuta nello
statuto ovvero in una delibera assembleare, determina un’implicita attribu-
zione al consiglio di amministrazione della facoltà di conferire il potere di
rappresentanza ai consiglieri delegati.

4. – L’indeterminatezza del contenuto del dovere di diligenza rende dif-


ficile identificare l’esatto discrimine esistente tra sindacato sul merito della
gestione, inammissibile in omaggio alla cd. judgement rule, e controllo del
rispetto dell’obbligo di diligenza: le scelte di gestione non sono sindacabili,
per la pregnante motivazione che la legge non impone agli amministratori
un obbligo di gestire la società in assenza della possibilità di compiere scel-
te gestionali errate, vale a dire che la compagine sociale e i terzi che contrat-
tano con la società non possono essere protetti dalla qualificazione in ter-
mini periziali dell’operato degli amministratori (44).

(44) Nella letteratura statunitense è assodato che, nella realtà, l’effettiva gestione giorno
per giorno della società è effettuata dagli officers e non dal consiglio d’amministrazione. Gli
outside directors sono vincolati dallo scarso tempo a disposizione e dalla mancanza di detta-
gliate informazioni e non ci si può aspettare che si concentrino su questioni non decisive o
che siano coinvolti nella gestione diretta degli affari della società. cfr. Brodsky, Adamski,
Law of Corporate Officers and Directors, New York, 1984-2006, § 2.02, 3. Il ruolo dei directors
nel sistema statunitense, come compendiato nel Model Business Corporation Act, si articola
sostanzialmente in due parti: la funzione consistente nell’adottare delle decisioni (cd. deci-
sion-making function) e la funzione di vigilanza (oversight function). A differenza della prima,
che implica dei provvedimenti da adottare secondo precise scadenze temporali l’attività di vi-
gilanza e di supervisione comporta un continuo monitoraggio degli affari della società (Model
Business Corporation Act (2002), 8-66); J. Tirole, The Theory of Corporate Finance, Princeton,
2005, p. 29 ss. I consiglieri d’amministrazione hanno poteri in concreto molto ridotti, con la
differenza che, se l’azionista di controllo è un manager-proprietario, il consiglio non ha di fat-
to alcuna funzione, mentre se egli non esercita funzioni esecutive il ruolo del board e solo un
po’ più rilevante: in quest’ultimo caso se gli amministratori “non esecutivi” vengono in qual-
SAGGI 137

Il formante giurisprudenziale evidenzia come il sindacato dell’attività


discrezionale dell’organo delegato non è affatto estraneo al nostro ordina-
mento, essendo l’esercizio di tale forma di controllo condiviso in riferimen-
to a profili dell’attività dell’assemblea e la sua corretta identificazione per-
mette di distinguere tra verifica del merito delle scelte di gestione e verifica
della legalità dell’azione; ciò, naturaliter, permette una più sicura individua-
zione del contenuto del controllo (45).
Occorre, pur tuttavia, nell’individuazione delle modalità e dei parametri
del sindacato, fare riferimento ai criteri della ragionevolezza, della pruden-
za e della correttezza, in quanto esplicativi del generale dovere di diligenza
(art. 1176 c.c.) che grava sugli amministratori. Si vuole che la libertà di scel-
ta decisionale degli amministratori venga esercitata attraverso un procedi-
mento che, attesi i dati fattuali, deve sfociare in un giudizio prognostico in
grado di fondare una ragionevole conclusione in base all’id quod plerumque
accidit.
Non si esercita alcun sindacato sulla scelta in sé, ma, utilizzando i crite-
ri dell’interesse sociale, quale parametro oggettivo di valutazione degli atti
societari, ci si limita a verificare il procedimento logico all’esito del quale è
maturata la volontà decisionale, potendo verificare se l’amministratore ab-

che modo delusi dalla competenza o dall’integrità del manager, possono recarsi direttamente
dal proprietario (che naturalmente può anche essere un semplice consigliere d’amministra-
zione) e riportare la propria insoddisfazione. L’amministratore scontento ha a disposizione
solo questa strada. Cfr. Eisenberg, Corporate Governance: The Board of Directors and Internal
Control, in 19 Cardozo L. Rev., 1997, p. 237, con riferimento anche a Cunningham, Compila-
tion, The Essays of Warren Buffett: Lessons for Corporate America, in 19 Cardozo L. Rev., 1997,
p. 40. Sugli assetti proprietari ed il sistema economico italiano, si veda R. Costi-M. Messori
(a cura di), Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale, Bologna, 2005, p. 83 ss.
Il consiglio di amministrazione consiste in un certo numero di uomini, con la doverosa ag-
giunta di una o due donne, la cui conoscenza dell’impresa può essere la più superficiale. Ec-
cezioni a parte, il ruolo dei suoi membri è di semplice assenso. In cambio di una retribuzione
e di qualche manicaretto, gli amministratori accettano di essere periodicamente informati dal
management sul già deciso e l’universalmente noto. Così Galbraith, The Economics of Inno-
cent Fraud. Truth For Our Time, Boston-New York, 2004, trad. it., L’economia della truffa, Mila-
no, 2004, p. 54 ss.
(45) In tema, ancora, Minervini, Gli interessi degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm.,
2006, I, p. 153 ss.; Aimi, Le delibere del consiglio di amministrazione, Milano, 2000; Ambrosini,
Validità, invalidità ed efficacia delle delibere consiliari, in Società, 1992, p. 1183; Bianchi, Gli
amministratori di società di capitale, Padova, 1998, p. 14 ss.; Bianchi, Amministrazione e con-
trollo delle nuove società di capitali, Milano, 2003, p. 22 ss.; Bonelli, Gli amministratori di
sp.a., Milano, 1985, p. 25 ss.; Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze, 1982, p. 5 ss.; De-
sario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 10 ss.; Cagnas-
so, Gli organi delegati nella società per azioni, Torino, 1976, p. 45 ss.
138 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

bia proceduto all’esatta identificazione dei presupposti di fatto, osservando


le cautele ed acquisendo le informazioni preventive normalmente richieste
per una scelta di quel tipo, avendo riguardo alle circostanze del caso con-
creto: valutazione prognostica dell’atto (46).
Attraverso il conferimento della delega, l’amministratore delegato di-
venta il vero organo gestorio per le funzioni delegate dall’organo consiliare
dal quale deriva il potere gestorio; gli altri amministratori, per le materie de-
legate, svolgono soltanto funzioni di mero controllo, che diventa anche di
merito, relativamente all’opportunità delle singole operazioni compiute da-
gli organi delegati (47).
Gli amministratori delegati sono, di guisa, responsabili per aver com-
messo l’atto dannoso in violazione dei doveri inerenti la carica; gli ammini-
stratori deleganti, di contro, risultano responsabili per non aver corretta-
mente esercitato il compito di diligenza e di intervento informativo loro in-
combente: nel caso di delega, quindi, gli amministratori deleganti e delega-
ti saranno solidalmente responsabili per i danni cagionati, alla società e a
terzi, dagli amministratori delegati e, qualora concorra anche la responsabi-
lità degli amministratori deleganti, per mancato controllo e intervento di
natura informativa (48).

(46) Per tutti, Barachini, La gestione delegata nella società per azioni, Torino, 2004, p. 82
ss.; Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 43 ss.
(47) Cfr. Ghezzi, Commento all’art. 2409-novies, in Comm. alla riforma delle società diret-
to da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Sistemi alternativi di amministrazione e controllo a
cura di Ghezzi (Artt. 2409-octies - 2409-noviesdecies c.c.), Milano, 2005, p. 54 ss.; v. anche Ca-
riello, La disciplina “per derivazione” del sistema di amministrazione e controllo dualistico, in
Riv. soc., 2005, p. 77 ss., e Id., Amministrazione delegata di società per azioni e disciplina degli in-
teressi degli amministratori nell’attività di direzione e coordinamento di società, in Riv. dir. priv.,
2005, p. 388 ss.; e cfr., da ultimo, Deutscher Corporate Governance Kodex, che raccomanda di
demandare ad un regolamento interno la distribuzione dei compiti interni al comitato di ge-
stione; sul punto, Ferrarini, Controlli interni e strutture di governo societario, in Liber amico-
rum, vol. 3, p. 15 ss. Si legga, altresì, Hirte, I sistemi di amministrazione e controllo della società
per azioni nel diritto societario riformato – visti con gli occhi di un giurista tedesco, in Liber ami-
corum, vol. 4, p. 517; Schiuma, Il sistema dualistico. I poteri del consiglio di sorveglianza e del
consiglio di gestione, in Liber amicorum, vol. 2, p. 691 ss. e nota 20, p. 721 ss. Sul modello mo-
nistico (ove il rinvio pieno all’art. 2381 da parte dell’art. 2409-noviesdecies, comma 1°, c.c.),
Ghezzi, Commento all’art. 2409-septiesdecies, in Commentario, cit., p. 222, il quale ipotizza la
nomina di componenti del comitato direttamente dall’assemblea; conf., Morello, Il comita-
to per il controllo sulla gestione tra dipendenza strutturale ed autonomia funzionale, in Riv. dir.
comm., 2005, I, p. 759 ss.
(48) Cfr. Bianchi, Gli amministratori di società di capitale, Padova, 1998, p. 14 ss.; Bianchi,
Amministrazione e controllo delle nuove società di capitali, Milano, 2003, p. 22 ss.; Bonelli, Gli
amministratori di s.p.a., Milano, 1985, p. 25 ss.; Borgioli, L’amministrazione delegata, Firenze,
1982, p. 5 ss.; Cagnasso, Gli organi delegati nella società per azioni, Torino, 1976, p. 45 ss.
SAGGI 139

Atteso l’allontanamento dalla tendenza ermeneutica verso l’oggettiva-


zione della responsabilità amministrativa, l’accertamento della responsabi-
lità degli amministratori deve derivare dal compimento, per fatto proprio,
dell’atto dannoso. L’attribuzione della delega non può portare ad un’indif-
ferenziata forma di responsabilità oggettiva per fatto altrui, quasi che il de-
legante (non esecutivo) sia una sorta di garante degli atti compiuti dagli al-
tri amministratori (49).
Di guisa, operando un raffronto, nel caso di amministrazione collegiale
tutti gli amministratori sono responsabili, salvo nel caso in cui siano state
eseguite le formalità previste dall’ultimo comma dell’art. 2392 c.c.; nel caso
di amministrazione delegata, gli amministratori deleganti sono responsabi-
li con gli amministratori delegati, nel caso in cui non abbiano esercitato un
sufficiente controllo su questi ultimi; ma ciò che risulta necessario è l’ac-
certamento della colpa dei singoli amministratori per potere, indi, giungere
alla declaratoria di responsabilità del singolo amministratore (50).
Di risulta, la solidarietà passiva fra i vari amministratori, delegati e dele-
ganti, non è un mero effetto naturale del rapporto di amministrazione. La
qualificazione soggettiva di amministratore di società per azione non deter-
mina ipso iure solidarietà nella forma di responsabilità: occorre verificare in
concreto la sussistenza dei presupposti della responsabilità in capo ai singo-
li amministratori. Nel caso di amministrazione collegiale, si deve accertare

(49) Si legga Minervini, Il mandato, la commissione, la spedizione, vol. VIII, tomo I del
Tratt. dir. civ. it., diretto da Vassalli, Torino, 1957, p. 8 ss. Ed ancora, come classico, Mirabel-
li, Dei singoli contratti, vol. IV, tomo III del Comm. c.c., Torino, 1962, XV, p. 40 ss. Si veda De
Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, p. 3 ss.; Di Chio, Gestione fiduciaria di patrimoni mo-
biliari e servizi di investimento, in Dir. ed econ., 1997, p. 250. Cfr. Bianca, Diritto Civile, vol. III,
Il contratto, Milano, 2000, p. 719; Id., Il debitore e i mutamenti del destinatario del pagamento,
Milano, 1963, p. 23. Cfr. Distaso, Limiti all’acquisto da parte del mandante della titolarità del
negozio compiuto dal mandatario, in Riv. dir. comm., 1951, II, p. 103 ss. V. anche, Galgano, Vi-
sentini, Degli effetti del contratto. Della rappresentanza. Del contratto per persona da nomina-
re. Artt. 1372-1405, in Galgano, (a cura di), Comm. c.c. Scialoja-Branca, Bologna, 1993, p. 90 ss.
(50) Cfr. App. Palermo, 3 novembre 2009: incombe sull’amministratore di diritto l’onere
di impedire eventi pregiudizievoli per il patrimonio sociale nonché danni a soci e creditori in
forza dell’applicazione della clausola di equivalenza del reato omissivo, di cui all’art. 40 c.p.,
secondo il quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a
cagionarlo; pertanto, l’amministratore delegato di una società per azioni è sempre responsa-
bile dell’operato delittuoso degli altri amministratori a meno che non dimostri di essersi atti-
vato a tutela del patrimonio sociale. Ed anche Trib. Pordenone, 29 marzo 2001: in materia di
illecito amministrativo permane la responsabilità dei presidente del Consiglio di amministra-
zione della società e dell’amministratore delegato, pur in presenza di una formale delega di
funzioni ad altro soggetto, qualora risulti che le decisioni venivano concretamente assunte
dai vertici societari.
140 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

la violazione degli obblighi incombenti sull’organo amministrativo, non-


ché – in presenza di colpa – la mancata annotazione immediata nel libro
verbali del consiglio e la comunicazione al presidente del collegio sindaca-
le; nel caso di amministrazione delegata, si deve, invece, accertare la viola-
zione degli obblighi di controllo e di informazione (51).
Secondo le regole della solidarietà, la responsabilità solidale dà luogo a
litisconsorzio facoltativo. Pertanto, la società, i creditori sociali, il curatore
od i singoli soci e terzi danneggiati dall’operato degli amministratori, a se-
conda dei casi, potranno agire indifferentemente nei confronti di qualsiasi
amministratore per l’intero ammontare del danno; e l’amministratore che
risponde nei confronti dei terzi dell’intero danno ha diritto di azione in via
di regresso nei confronti degli altri amministratori corresponsabili. Nel rap-
porto interno tra gli amministratori, ciascuno sarà responsabile nella misu-
ra del proprio inadempimento; infatti, nel rapporto interno l’obbligazione
risarcitoria torna divisibile e la responsabilità si ripartisce in proporzione
della gravità delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze che ne so-
no derivate: in sede di regresso varranno le comuni regole sulla ripartizione
del danno in relazione alle rispettive colpe ed al concreto apporto causale di
ciascun coobbligato (52).
Nel caso di amministrazione delegata, la solidarietà è la conseguenza
dell’unicità dell’evento danno e non della sua causa; la responsabilità degli
amministratori deleganti non muta in una responsabilità indiretta per fatto
altrui, poiché la fonte dell’obbligo del risarcimento risulta data dal solo ina-
dempimento dell’amministratore delegato. Atteso che l’atto illecito del-
l’amministratore delegato è il presupposto per la responsabilità degli ammi-
nistratori deleganti, occorre accertare che gli amministratori deleganti sono

(51) Si veda Enriques, Capitale sociale, informazione contabile e sistema del netto: una ri-
sposta a Francesco Denozza, in Giur. comm., 2005, p. 607; Macrì, Ancora sul diritto di informa-
zione dei soci e sulla chiarezza del bilancio, in Giur. comm., II, 2006, p. 192; Salodini, Obblighi
informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del danno. La Cassazione e l’interpreta-
zione evolutiva della responsabilità precontrattuale, in Giur. comm., II, 2006, p. 632; Denozza,
La nozione di informazione privilegiata tra “Shareholder Value” e “Socially Responsible Inve-
sting”, in Giur. comm., 2005, p. 585.
(52) Si confronti Marchetti, L’autonomia statutaria delle s.p.a., in Riv. soc., 2000, p. 571;
Caselli, I sistemi di amministrazione nella riforma delle s.p.a., in questa rivista, 2003, p. 154;
Cagnasso, Brevi note in tema di delega di potere gestorio nelle società di capitali, in Società,
2003, p. 803; Ferri jr., L’amministrazione delegata nella riforma, in Riv. dir. comm., 2004, I, p.
627 ss.; Ambrosini, L’amministrazione e i controlli nella società per azioni, in Giur. comm.,
2003, I, p. 313; Nazzicone e Providenti, Società per azioni. Amministrazione e controlli (artt.
2380-2409-noviesdecies), Milano, 2003, p. 34; Corsi, Le nuove società di capitali, Milano, 2003,
p. 67.
SAGGI 141

responsabili per fatto e colpa propria, attraverso la verificazione della man-


cata vigilanza o del mancato intervento informativo.

5. – Unitamente alla possibilità di avocare a sé competenze delegate, il


disposto della norma attribuisce al consiglio di amministrazione specifici
doveri di sorveglianza sull’operato degli organi delegati. L’espunzione nor-
mativa di ogni riferimento ad un obbligo generico di vigilanza prescritto nel
testo ante riforma ha determinato una migliore specificazione delle attività
nelle quali si esplicano i doveri di sorveglianza del consiglio, delimitando il
campo di operatività degli obblighi il cui inadempimento può dar luogo a
responsabilità degli amministratori, al fine di evitare allargamenti in tema di
accertamento delle forme di responsabilità, che, nel formante giurispru-
denziale, ha finito spesso per essere trasformata in una responsabilità so-
stanzialmente oggettiva (53).
Di guisa, il consiglio è tenuto a valutare, sulla base delle informazioni ri-
cevute, l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile
della società, ad esaminare i piani strategici, industriali e finanziari della so-
cietà, quando elaborati, e a valutare, sulla base della relazione degli organi de-
legati, il generale andamento della società. Gli specifici doveri di sorveglianza
del consiglio sono accomunati dal fatto che, di regola, il consiglio può fare le-
gittimo affidamento su quanto viene riferito dai delegati, sempre che i singo-
li amministratori non violino l’obbligo di agire in modo informato (54).

(53) Si consulti Corsi, Le nuove società di capitali, Milano, 2003, p. 101; Colombo, Ammi-
nistrazione e controllo, in Il nuovo ordinamento delle società. Lezioni sulla riforma e modelli sta-
tutari, a cura di S. Rossi, Milano, 2003, p. 191; Mosco, Nuovi modelli di amministrazione e con-
trollo e ruolo dell’assemblea, in Il nuovo diritto societario fra società aperte e società private, a cu-
ra di Benazzo, Patriarca, Presti, Milano, 2003, p. 124. V. anche Libonati, Notarelle a margine
dei nuovi sistemi di amministrazione della società per azioni, in Giur. comm., 2008, p. 289; Brei-
da, sub art. 2409-novies, in Il nuovo diritto societario. Comm., diretto da Cottino, Bonfante, Ca-
gnasso, Montalenti,**, 2004, p. 1122; AssociazioneDisianoPreite, Il diritto delle società?, a
cura di Olivieri, Presti, Vella, Bologna, 2006, pp. 166 e 204; Nazzicone, Providenti, sub art.
2409-novies, in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, 2003, p. 357; Weigmann,
Consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza: le prime applicazioni del modello dualistico, in
Analisi giuridica dell’economia, 2007, p. 261 ss.
(54) In tema Salodini, Obblighi informativi degli intermediari finanziari e risarcimento del
danno. La Cassazione e l’interpretazione evolutiva della responsabilità precontrattuale, in Giur.
comm., II, 2006, p. 632; Denozza, La nozione di informazione privilegiata tra “Shareholder Va-
lue” e “Socially Responsible Investing”, in Giur. comm., 2005, p. 585. Ancora, Minervini, I pote-
ri di controllo degli amministratori di minoranza (membro del Comitato esecutivo con voto con-
sultivo?), in Giur. comm., 1980, I, p. 812; Scotti Camuzzi S., I poteri di controllo degli ammini-
stratori di minoranza (membro del Comitato esecutivo con voto consultivo?), in Giur. comm.,
1980, I, p. 785.
142 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

La valutazione del consiglio, si fonda sulle informazioni ricevute, sui


piani che siano stati eventualmente elaborati e sottoposti al consiglio, e sul-
le relazioni degli organi delegati sull’andamento della società (55).
Si rifletta: la valutazione dell’assetto organizzativo, amministrativo e
contabile si traduce in un esame volto a verificare, sulla base delle informa-
zioni fornite dagli organi delegati, che le strutture organizzative della so-
cietà e le procedure che garantiscono l’ordinato e regolare andamento della
gestione siano adeguate alla natura e alle dimensioni dell’impresa. L’e-
spressione è mutuata dal codice di autodisciplina delle società quotate, che
riferisce dell’obbligo di verifica dell’assetto organizzativo ed amministrati-
vo generale della società e del gruppo. In pratica, si tratta di accertare che le
persone ed i mezzi di cui si avvale l’impresa siano organizzati adeguata-
mente allo scopo di perseguire gli obbiettivi sociali, sia per quanto attiene
alla struttura amministrativa e procedure contabili della società che per
quanto riguarda, in generale, l’organizzazione dell’impresa (56).
L’organo consiliare deve valutare l’assetto organizzativo, amministrati-
vo e contabile della società, mentre agli amministratori delegati spetta il
compito di occuparsi di tale assetto, e, di guisa, di curare che esso sia ade-
guato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa. Il dato normativo non
prescrive l’ipotesi in cui non sia stata conferita alcuna delega ovvero le dele-

(55) Cfr. Pavone La Rosa, La disciplina della grande impresa tra disciplina della struttura
societaria e disciplina del mercato finanziario, in Giur. comm., 1999, I, p. 137; Id., Proposte di di-
sciplina dei gruppi societari, in Riv. soc., 2000, p. 577; Pisoni, Puddu, Società quotate in borsa:
i principali indicatori, in Impresa, 2002, p. 1526. Cfr. Dalmartello, I poteri di controllo degli
amministratori di minoranza (membro del Comitato esecutivo con voto consultivo?), in Giur.
comm., 1980, I, p. 795; Devescovi, Controllo degli amministratori sull’attività degli organi dele-
gati, in Riv. soc., 1981, p. 79; Grassetti, I poteri di controllo degli amministratori di minoranza
(membro del Comitato esecutivo con voto consultivo?), in Giur. comm., 1980, I, p. 807; Gugliel-
mucci, La responsabilità di amministratori, liquidatori e sindaci nelle società per azioni, in Le
Società, 1982, p. 121. Si veda Enriques, Capitale sociale, informazione contabile e sistema del
netto: una risposta a Francesco Denozza, in Giur. comm., 2005, p. 607; Macrì, Ancora sul diritto
di informazione dei soci e sulla chiarezza del bilancio, in Giur. comm., II, 2006, p. 192.
(56) Cfr. Sogno, Diritti dei soci all’informazione da parte dei sindaci (nota a Cass., 12 no-
vembre 1992, n. 1682), in Società, 11/1993, p. 1558; Tagliaferri, I controlli contabili ex art.
2403 c.c. nelle società controllate da società quotate, in Società, 4/2002, p. 422; Ambrosini, Con-
vocazione dell’assemblea: annullabilità delle delibere viziate da irregolarità (nota a App. Bolo-
gna 4 marzo 1995), in Società, 6/1995, p. 806; Marchi, Norme di comportamento e responsabi-
lità del Collegio sindacale, in Riv. dott. comm., 1984, p. 636; Mazzacuva, La responsabilità pe-
nale dei sindaci (tavola rotonda su “I poteri di controllo del Collegio sindacale” organizzata
dalla rivista “Le Società”, intervento), in Società, 4/1989, p. 379; Norelli, Le omissioni di con-
trollo dei sindaci e delle società di revisione, in Dir. fall., 2/2001, I, p. 309; Salafia, Il controllo
della contabilità nelle società quotate in Borsa, in Società, 1/1986, p. 5.
SAGGI 143

ghe conferite siano limitate a determinate operazioni e non si estendano al-


la gestione complessiva della società. Si deve ritenere che la cura dell’asset-
to organizzativo, amministrativo e contabile spetti al consiglio, se costitui-
to, o, comunque, rientri nei doveri degli amministratori, poiché essa è ele-
mento essenziale ai fini della corretta gestione sociale (57).
La previsione relativa all’esame, da parte del consiglio, dei piani strate-
gici, industriali e finanziari della società è anch’essa ripresa dal codice di au-
todisciplina delle società quotate. Si tratta di documenti programmatici, at-
traverso i quali viene pianificata l’attività della società tenendo conto degli
sviluppi futuri dell’impresa e del mercato. La verifica da parte del consiglio
di amministrazione non attiene solo al merito delle scelte gestionali con-
template nei piani, ma implica anche un controllo dell’affidabilità dei piani
sotto il profilo delle regole tecniche applicate per prevedere gli andamenti
futuri della società. La norma non stabilisce l’obbligo di procedere alla pre-
disposizione dei documenti programmatici, limitandosi a prescrivere che,
se elaborati, tali documenti devono essere esaminati dal consiglio. Sarà,
dunque, il consiglio a valutare l’opportunità di richiedere la predisposizione
di piani strategici agli organi delegati, a dipendenti della società o anche a
società di consulenza esterne (58).

(57) In argomento Grippo, Alcune riflessioni sulla collegialità del Consiglio di amministra-
zione di società per azioni, in Giur. it., 1975, I, p. 71; Guidotti, Amministratore di fatto e nego-
tiorum gestio, in Giur. it., 2000, p. 770; Jaeger, Dell’obbligo degli amministratori di dichiarare
alla CONSOB le proprie partecipazioni, in Giur. comm., 1985, I, p. 635; Lo Cascio, La respon-
sabilità dell’amministratore di fatto di società di capitali, in Giur. comm., 1986, I, p. 189. Si veda
Macrì, A proposito di rapporto amministratori-società: la c.d. parasubordinazione (nota a
Cass., 14 dicembre 1994, n. 10680), in Società, 1995, p. 635; Manferoce, La proposta di V dir.
Ce (tavola rotonda organizzata dalla rivista “Le Società”, intervento), in Società, 1985, p. 166;
Marziale, La proposta di V dir. Ce sull’armonizzazione del diritto delle società: il fondamento
giuridico e l’impatto sull’ordinamento italiano (intervento alla tavola rotonda su “La proposta
di V Direttiva CEE”, organizzata dalla rivista “Le Società”), in Società, 1985, p. 121; Menghi,
La cauzione degli amministratori dopo l’abrogazione dell’art. 2387, c.c., in Giur. comm., 1986, I,
p. 597. Si veda Chiomenti, Il principio della collegialità dell’amministrazione pluripersonale
nella società per azioni, in Riv. dir. comm., 1982, I, p. 319; Colavolpe, Condizioni per il cumulo
dei rapporti di amministrazione e di lavoro dipendente (nota a Cass., 12 gennaio 2001, n. 329), in
Società, 2002, p. 690; Collia, Natura del rapporto tra amministratore delegato e società (nota a
Trib. Bologna, 4 luglio 2002), in Società, 2003, p. 1140.
(58) Cfr. in argomento Minervini, Le funzioni del collegio sindacale. Questioni vecchie,
questioni nuove, in Società, 6/2000, p. 649; Olivieri, Le funzioni di sindaco e di revisore delle so-
cietà commerciali nell’ordinamento della professione di dottore commercialista, in Riv. dott.
comm., 1978, p. 799; Salafia, Il collegio sindacale: dalle società quotate alle società ordinarie,
in Società, 3/2000, p. 269; Sandulli, Sui poteri del Collegio sindacale, in Riv. notar., 1977, p.
1152.
144 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Con riferimento alla prescrizione normativa dell’obbligo di valutazione


del generale andamento della gestione, che l’organo consiliare deve effet-
tuare sulla base delle relazioni fatte pervenire dagli organi delegati, si deve
chiarire la portata giuridica dell’espressione generale andamento della ge-
stione: ebbene, per generale andamento si deve intendere la situazione
complessiva della società considerata, ponendo in relazione la corrente ge-
stione con lo scopo di perseguire gli obbiettivi sociali, così come delineati
nell’oggetto sociale (59).
Nel caso in cui, dalle valutazioni effettuate dal consiglio sulla base dei
documenti programmatici e dei flussi informativi o relazioni ricevuti, emer-
gano irregolarità nella gestione della società o si ravvisi l’inadeguatezza del-
la gestione rispetto al fine di attuare l’oggetto sociale, il consiglio ha l’obbli-
go di intervenire, utilizzando gli strumenti giuridici dell’avocazione, dell’e-
manazione di direttive, della revoca della delega o della revoca o modifica
delle deliberazioni degli organi delegati.
L’analisi della funzione della delega amministrativa all’interno delle so-
cietà per azioni vede, all’esito della riforma, arricchire la propria natura sul-
la base dell’introduzione normativa della veicolazione, transitiva e riflessi-
va, di informazioni tra delegati, deleganti e organo di controllo.
Attesa, come detto, la prescrizione legislativa della gestione informata
della società per azione, occorre, preliminarmente, svolgere alcune consi-
derazioni sulla natura e tipologia delle informazioni suscettive di essere ri-
condotte nell’alveo della prescrizione normativa.
L’informazione societaria, intesa quale insieme degli adempimenti
informativi e dei comportamenti che l’ordinamento prescrive, è ormai as-

(59) In tema Fortunato, I “controlli” nella riforma del diritto societario, in Aa.Vv., La ri-
forma del diritto societario (Atti del Convegno di studio « Problemi attuali di diritto e proce-
dura civile », Courmayeur, 27-28 settembre 2002), Milano, 2003. Montalenti, Conflitto di in-
teressi e funzioni di controllo: collegio sindacale, consiglio di sorveglianza, revisori, in Giur.
comm., 2007, p. 555; Olivieri, I controlli “interni”nelle società quotate dopo la legge sulla tutela
del risparmio, in Giur. comm., 2007, p. 409; Michieli, La solidarietà dei sindaci nella responsa-
bilità degli amministratori, II, in Giur. comm., 2007, p. 417; Rordorf, Il nuovo sistema dei con-
trolli sindacali nelle società per azioni quotate, in Foro it., 1999, V, p. 238. Risulta interessante la
lettura di Irrera, Il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari nella leg-
ge sul risparmio e nel decreto correttivo, in Giur. comm., 2007, p. 484; Montalenti, Corporate
governance, consiglio di amministrazione, sistemi di controllo interno: spunti per una riflessione,
in Riv. soc., 2002, IV, p. 821 e Id., L’amministrazione sociale dal testo unico alla riforma del di-
ritto societario, in Giur. comm., 2003, p. 422. Cfr. Rossi, Le regole di “corporate governante” sono
in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?, in Riv. soc., 1/2001, p. 6; Abba-
dessa, La nuova riforma del diritto societario secondo il testo unificato dei progetti di legge per la
tutela del risparmio, in Atti del Convegno di Alba del 20 novembre 2004, “La tutela del rispar-
mio: l’efficienza del sistema”, in Società, 2005, p. 280.
SAGGI 145

sunta al rango di bene pubblico, considerato che, pur avendo prima facie ad
oggetto affari privati di persone fisiche e giuridiche, risulta, tuttavia, tra-
scendere l’interesse di tali soggetti, investendo inevitabilmente anche le
scelte ed i comportamenti degli stakeholders, portatori anch’essi di interes-
si meritevoli di tutela, e del mercato in generale.
La giustificazione dell’intervento imperativo del legislatore a sostegno
della trasparenza informativa prende le mosse dall’affermazione della va-
lenza pubblicistica attribuita al bene-informazione societaria e dalla consta-
tazione circa la tendenziale inadeguatezza ed insufficienza delle informa-
zioni fornite dalle società su base volontaria (voluntary disclosure), in assen-
za di una qualsivoglia regolazione delle dinamiche di disclosure a livello
normativo.
La misura dell’ampiezza della voluntary disclosure scaturisce da un’ana-
lisi costi-benefici che la società effettua, in quanto la produzione e diffusio-
ne di informazione innegabilmente comporta dei costi per i soggetti inte-
ressati. In particolare, l’informazione assume la veste di costo indiretto al-
lorché la si ponga in relazione al pericolo di perdita di competitività, rifles-
so eventuale di una politica societaria orientata verso la trasparenza infor-
mativa.
Un’adeguata informativa da parte degli organi delegati è presupposto ir-
rinunciabile al fine di consentire al consiglio di effettuare, con cognizione di
causa, le proprie valutazioni sull’andamento della gestione (60). Si prevede
l’obbligo degli organi delegati di riferire al consiglio ed al collegio sindacale
sull’andamento generale della gestione e la sua probabile evoluzione, non-
ché in merito alle operazioni più importanti compiute dalla società.
Dalle relazioni degli amministratori, pertanto, devono emergere, oltre
alle informazioni concernenti la situazione corrente, anche le previsioni re-
lative al futuro andamento della gestione. Come già detto, pur stabilendo
una cadenza minima per la presentazione delle relazioni, viene lasciata al-
l’autonomia statutaria la possibilità di prevedere scambi informativi più fre-
quenti, nonché di determinare più in dettaglio quantità e qualità delle infor-
mazioni da fornire. I doveri informativi degli organi delegati sono ampliati

(60) In arg. cfr. Perrone, La struttura organizzativa d’impresa. Criteri e modelli di progetta-
zione, Milano, 1990, p. 5 ss.; Ricciuti, Organizzazione aziendale, Padova 1992, p. 30; Daccò,
L’organizzazione aziendale, Padova, 1997, p. 3 ss.; per un maggiore approfondimento si veda
Caffarata, a cura di, Materiali di studio dell’organizzazione aziendale, Roma, Aracne, 1994 e
sia pure su un provvedimento particolare, Monesi, a cura di, I modelli organizzativi ex d.lgs.
231/2001, Milano, 2005. Tra i classici, Coda, L’orientamento strategico delle imprese, Torino,
1988; Golinelli, L’approccio sistemico al governo delle imprese, vol. III, Padova, 2000. Cfr. in
argomento Santonastaso, Principio di “precauzione” e responsabilità di impresa: rischio tecno-
logico e attività pericolosa “per sua natura”, cit., p. 35 ss.
146 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

dalla prescrizione normativa di fornire in consiglio le informazioni richieste


di volta in volta dagli amministratori (61).
Si stabilisce a carico degli amministratori l’obbligo di agire in modo
informato, conferendo loro il potere-dovere di richiedere agli organi dele-
gati le informazioni relative alla gestione della società. Il dovere riflessivo di
informazione costituisce una specificazione del dovere di diligenza tipico
dell’amministratore e svolge la funzione di controbilanciare la regola che
sancisce l’esclusione della responsabilità degli amministratori che, incolpe-
volmente, abbiano fatto affidamento sulle informazioni fornite dagli organi
delegati. Nel caso di inottemperanza all’obbligo di agire in modo informa-
to, il consiglio può essere indotto a non richiedere agli organi delegati infor-
mazioni precise sulla gestione della società, al fine di precostituirsi una cau-
sa di esenzione della responsabilità.
Di guisa, nell’ottica del rispetto del principio di adeguatezza, gli ammi-
nistratori non esecutivi del consiglio di amministrazione devono attivarsi al
fine di ottenere dagli organi delegati le informazioni necessarie a valutare
l’andamento della gestione ed assumere le relative decisioni. Se si riflette
sul concetto di adeguata gestione della società per azioni, si giunge alla con-
clusione che il dovere di richiedere chiarimenti e notizie più complete sor-
ge in presenza di indizi che dovrebbero far sorgere, in un amministratore di-
ligente, dubbi attinenti alla completezza, esattezza ed affidabilità delle
informazioni fornite dagli organi delegati (62).

(61) Cfr. Ghini, Deleghe del consiglio di amministrazione a singoli componenti, cit., p. 710:
“Per formarsi un’idea dell’organizzazione delle società, il consiglio deve poter consultare tut-
te le fonti informative utili; per valutare l’andamento della gestione sociale è agli organi dele-
gati che deve rivolgersi per attingere elementi di giudizio. Servendosi di altri fonti informati-
ve, in esclusiva, il consiglio può giungere a formarsi un’immagine incompleta e distorta della
situazione. In quanto ad informativa rivolta al consiglio, l’art. 2381, comma 5°, c.c. sancisce
che gli organi delegati riferiscono al consiglio di amministrazione (e al collegio sindacale) con
la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni centottanta giorni, sul generale
andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di mag-
gior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue con-
trollate (ove esistano). Siccome, in base allo stesso comma, gli organi delegati curano che l’as-
setto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni del-
l’impresa, è logico che le periodiche informazioni riguardino questi rilevanti aspetti della ge-
stione, tanto più che al consiglio, per legge, è demandato il compito di valutare l’adeguatezza
di detto assetto. Ma il contenuto di ogni relazione periodica deve essere completo e sostan-
zioso”.
(62) In tema Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., p. 1334: “Lo
statuto potrà (a mio giudizio, dovrà) indicare o soltanto la natura delle operazioni (per es., gli
appalti, l’acquisizione di pacchetti azionari, etc.) o soltanto il loro valore finanziario (per es.,
operazioni di valore non inferiore o superiore ad una determinata somma di denaro), ovvero
SAGGI 147

Se i flussi informativi da parte degli organi delegati sono insufficienti,


l’affidamento del consiglio verso i delegati non esime gli amministratori de-
leganti dalla responsabilità ex art. 2392 c.c., qualora le lacune informative
dipendano dalla loro passività, o mancanza d’iniziativa (63). La norma speci-
fica che le informazioni richieste dagli amministratori debbano essere for-
nite in consiglio dagli organi delegati; i singoli amministratori non possono
richiedere le informazioni direttamente ai dipendenti della società, né farsi
fornire le informazioni privatamente, al di fuori delle riunioni consiliari (64).

indicarne sia la natura che il valore, come requisiti in presenza dei quali nasce l’obbligo di co-
municazione. La legge prescrive una frequenza minima delle suddette comunicazioni, ma
non stabilisce se queste debbano avere per oggetto anche le intenzioni di compiere le opera-
zioni ovvero solo la notizia del loro compimento. A me pare che, se si vuole assegnare ad es-
se, come sembra che il legislatore abbia fatto, la funzione di informare il consiglio per coin-
volgerlo, si dovrebbe sostenere l’obbligo dei delegati di dare l’informazione anche sulle in-
tenzioni, naturalmente non a livello di puro progetto, bensì a livello di scelta compiuta. In tal
modo, si porrebbe il consiglio in condizione di eventualmente intervenire per frenare il dele-
gato o addirittura per vietargli la realizzazione dell’operazione. È vero che letteralmente il
quinto comma dell’art. 2381 c.c. dispone l’informazione del consiglio, da parte dei delegati,
sulle più importanti operazioni gestorie “effettuate” dalla società e dalle sue controllate, ma
penso che la prevista effettuazione si riferisca alla loro ideazione, perché altrimenti esse non
differirebbero da quelle che saranno comprese necessariamente nel rapporto sull’andamento
generale della gestione e sulla sua possibile evoluzione”.
(63) V. Desario, La gestione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 67 ss.
(64) V. ancora Salafia, Gli organi delegati nell’amministrazione della s.p.a., cit., p. 1330,
per il quale: “In termini più semplici, il potere informativo, che la legge implicitamente rico-
nosce a tutti gli amministratori e ai membri non operativi del consiglio, in particolare, serve
per consentire loro di prepararsi alla consapevole partecipazione all’attività del consiglio, ma
non anche per istruire un processo laudativo o accusatorio nei confronti dell’amministratore
delegato. Se dall’esame delle scritture contabili e dei relativi documenti il consigliere non
operativo ricavasse qualche dubbio sulla correttezza dell’operato dell’amministratore delega-
to, sia in termini di convenienza sia in termini di legittimità, egli potrà, appunto, invitarlo a ri-
ferire al consiglio ed, in quella sede, correttamente quel dubbio potrà essere esaminato e va-
lutato in una dialettica nella quale potrà essere coinvolto anche il membro delegato. Lo sta-
tuto può regolare più minuziosamente la condotta della predetta attività ispettiva, subordi-
nandola, per esempio, alla preventiva comunicazione al consiglio di amministrazione o alla
preventiva interpellanza degli altri consiglieri per eventualmente coinvolgerli, in modo da
evitare sovrapposizione di un’ispezione all’altra, con turbamento del normale funzionamen-
to degli uffici. Non può, invece, certamente subordinarla alla preventiva autorizzazione del
consiglio o del suo presidente, perché il potere ispettivo, in quanto strumentale al corretto
esercizio della funzione amministrativa, non tollera limitazioni. La legge ha sentito la neces-
sità di assoggettare l’esercizio della funzione amministrativa ad una preventiva informazione,
in un quadro ordinamentale in cui la funzione di amministrazione della società per azioni è
vista come utile strumento per il buon funzionamento dell’ente e, quindi, per il consegui-
mento di risultati, che finiscono con l’incidere sull’interesse della generalità dei cittadini”.
148 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Difatti, nella prospettiva di un raccordo giuridico tra informazione e re-


sponsabilità degli amministratori, la conoscenza dei fatti gestori pregiudi-
zievoli vale a costituire il parametro di accertamento della responsabilità.
Se gli organi deleganti sono destinatari di un flusso costante e tendenzial-
mente esauriente di informazioni sulla gestione della società per azioni, ne
deriva, a modo di corollario fenomenologico, la tipizzazione degli obblighi
informativi a carico degli organi delegati.
In tema di tipizzazione dei flussi informativi tra organo delegante ed or-
gani delegati, il precetto normativo conosce già la necessaria predisposizio-
ne del progetto di bilancio, contenente le notizie sull’andamento della ge-
stione sociale. Pur tuttavia, la conoscenza dei dati di bilancio spesso risulta
sommaria ed inidonea, quindi, ad una corretta ed attendibile rappresenta-
zione della reale situazione patrimoniale, economica e finanziaria della so-
cietà.
I flussi di informazioni devono essenzialmente riguardare l’andamento
della gestione.
La codificazione dell’agire in modo informato riflette, nella prospettiva
del miglior controllo della governance, l’esigenza che gli amministratori, nel
caso di esercizio delegato della gestione, agiscano in modo consapevole,
ponderando gli interessi della società con gli altri interessi in gioco: la vei-
colazione di continui flussi informativi rappresenta, nella visione del codifi-
catore della riforma, il momento basilare per riuscire ad ottenere trasparen-
za nella gestione societaria e, di guisa, chiarificazione nell’accertamento
delle singole responsabilità.
La sistematicità della transazione di flussi informativi ed il conseguente
rilievo della conoscenza dei fatti sociali in termini di accertamento di re-
sponsabilità solidale, deve suscitare negli amministratori una maggiore atti-
vità comportamentale; pur tuttavia, se si riflette sulle conseguenze patolo-
giche della prescrizione di legge, si nota come, antropologicamente, l’am-
ministratore non esecutivo, per quanto attivo nel controllo, non avrà inte-
resse ad esercitare un potere che comporti un ampliamento della propria re-
sponsabilità se, all’esito della veicolazione di informazioni, si determini la
sua conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società (65).

(65) Cfr. Domenichini, Amministratori di s.p.a. e azione di responsabilità (tavola rotonda


organizzata dalla rivista “Le Società” su “Responsabilità di amministratori e sindaci”, inter-
vento), in Società, 1993, p. 612; Domenichini, Responsabilità civile degli amministratori ex art.
146 L.F.: gli amministratori di fatto (commento a Trib. Milano, Sez. II Civ., 21 dicembre 1992),
in Società e diritto, 1993, p. 355; Eisenberg, Obblighi e responsabilità degli amministratori e dei
funzionari delle società nel diritto americano, in Giur. comm., 1992, I, p. 617; Desario, La ge-
stione delegata nelle società di capitali. La nuova disciplina, cit., p. 67 ss.; Enquires, Azione so-
ciale di responsabilità, abuso della minoranza e divieto di voto in capo ai soci amministratori, in
SAGGI 149

La, normativamente disposta, istituzionalizzazione di un sistema di


flussi informativi tra organi delegati ed organi deleganti, sottende, se si ri-
flette in maniera sistematica, una concezione del governo dell’impresa im-
prontata ad esigenze di snellezza, di rapidità procedurale, di correttezza e di
trasparenza della gestione societaria, al fine di giungere ad un raccordo nor-
mativo nell’esercizio delle diverse funzioni amministrative ed, al contem-
po, ad evitare la tendenza verso un’inesorabile estraniazione dalla gestione
sociale da parte degli amministratori non esecutivi.
Di guisa, si legittima l’organo delegante all’esercizio dei poteri valutati-
vi attribuitigli sulla base delle informazioni ricevute e sulla base della rela-
zione degli organi deleganti; correlativamente, si precisa che i delegati rife-
riscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, mentre, co-
me dogma assoluto, si impone che gli amministratori sono tenuti ad agire in
modo informato, attraverso la richiesta agli organi delegati che in consiglio
siano fornite informazioni relative alla gestione della società.

Giur. comm., 1994, II, p. 144; Pacchi Pesucci, Gli amministratori di società per azioni nella
prassi statutaria, in Riv. soc., 1974, p. 606; Pederzini, Investitura rappresentativa dell’ammini-
stratore delegato di società e opponibilità delle relative limitazioni ai sensi dell’art. 2384, c.c., in
Giur. comm., 1990, I, p. 613; Perassi, Sull’opponibilità ai terzi della dissociazione fra potere de-
liberativo e rappresentativo nell’amministrazione di s.p.a., in Giur. comm., 1988, II, p. 99. In te-
ma di gruppi societari si veda Spada, Gruppi di società, in Riv. dir. civ., 1992, II, p. 221 ss.; Gal-
gano, L’oggetto dell’holding è dunque l’esercizio mediato e indiretto dell’impresa di gruppo, in
questa rivista, 1990, p. 401 ss.; Id., Il punto sulla giurisprudenza in materia di gruppi di società,
in Società, 1991, p. 897 ss.; Jaeger, Considerazioni “parasistematiche” sui controlli e sui gruppi,
in Giur. comm., 1994, I, p. 476 ss.
DIRITTO SPORTIVO

MARGHERITA PITTALIS

La responsabilità contrattuale ed aquiliana


dell’organizzatore di eventi sportivi

Sommario: 1. L’organizzatore di eventi sportivi: la posizione del C.O.N.I. e delle Federazio-


ni sportive. – 2. Gli obblighi di controllo dell’organizzatore. – 3. I titoli di responsabilità.
– 4. La responsabilità delle società di calcio nell’organizzazione di incontri sportivi pro-
fessionistici. – 5. Considerazioni conclusive.

1. – I fatti lesivi che si verificano durante la pratica di attività sportive


possono essere provocati da coloro che praticano le attività stesse, e cioè gli
atleti o i gareggianti, ma anche dagli altri soggetti coinvolti nelle competi-
zioni, fra i quali assumono rilievo, in primo luogo, coloro che organizzano
gli eventi sportivi.
Questi potranno essere chiamati a rispondere dei pregiudizi eventual-
mente arrecati ai partecipanti alla gara (1), oppure a terzi, quali spettatori od
estranei.
Per “organizzatore” di eventi sportivi si intende tradizionalmente la
persona fisica (ipotesi che si verifica raramente), la persona giuridica (in for-
ma di S.p.A. o di S.r.l.), l’associazione non riconosciuta ex art. 36 ss., c.c.,
(ipotesi molto frequente, che ricomprende le cd. “società sportive” soprat-
tutto dilettantistiche) ed il comitato, che “assumendosene tutte le responsa-
bilità (civili, penali, amministrative) nell’ambito dell’ordinamento giuridico
dello stato, promuove l’incontro di uno o più atleti con lo scopo di raggiungere
un risultato in una o più discipline sportive, indipendentemente dalla presenza
o meno di spettatori e, quindi, indipendentemente dal pubblico spettacolo” (2).

(1) A tale proposito, si segnala Cass., 27.10.2005, n. 20908, in Foro it., 2006, 5, c. 1465, non-
ché in Danno e resp., 2006, p. 633, con nota di Ferrari, e in Rass. dir. econ. sport., 2006, p. 508,
con nota di Lepore e in Resp. civ., 2006, p. 601, con nota di Filippi, secondo la quale “…in te-
ma di responsabilità civile per lesioni cagionate nel contesto di un’attività agonistica, non pos-
sono considerarsi partecipanti solo gli atleti in gara ma anche tutti coloro che sono posti al
centro o ai limiti del campo di gara per compiere una funzione indispensabile allo svolgimen-
to della competizione [. . .]”.
(2) La definizione è quella, costantemente richiamata in dottrina, che fa capo a Dini, L’or-
ganizzatore e le competizioni: limiti alla responsabilità, in Riv. dir. sport., 1971, p. 416.
SAGGI 151

Nell’ambito degli organizzatori, si suole distinguere fra organizzatori


“di diritto”, appartenenti ad una Federazione e regolarmente autorizzati ad
organizzare una manifestazione; organizzatori “di fatto”, non federati e non
autorizzati; organizzatori pro-tempore: non federati, ma regolarmente auto-
rizzati ad organizzare un evento sportivo (3).
Tale distinzione sembra peraltro assumere rilievo essenzialmente ai fi-
ni dell’omologazione dei risultati delle gare, piuttosto che in seno all’ordi-
namento giuridico generale, con la conseguenza che l’organizzatore, che
con la propria condotta abbia violato disposizioni penali e/o civili, resterà
verosimilmente assoggettato alla giustizia ordinaria, in linea di principio al
di là del suo inquadramento nell’una o nell’altra tipologia di “organizzato-
re” (4).
Le caratteristiche che contraddistinguono l’organizzatore sono la fina-
lità di promuovere la competizione e il potere di controllo e di direzione
della stessa (5).
In linea con tali criteri, è stata quindi per lo più esclusa la responsabilità
del C.O.N.I. che patrocinasse semplicemente l’evento, senza esserne diret-
tamente l’organizzatore; in particolare, la Suprema Corte (6) ha escluso in
linea di principio la responsabilità del C.O.N.I., sul rilievo che “esula dai
suoi compiti ispettivi la vigilanza sull’organizzazione concreta delle singole
manifestazioni sportive”.
Al C.O.N.I. sarebbe infatti attribuito dalla legge istitutiva n. 426 del 16
febbraio 1942, oggi abrogata dal d.lgs. 23.7.1999, n. 242, portante il “Riordi-

(3) Al riguardo, Bertini, La responsabilità sportiva, ne Il diritto privato oggi, a cura di Cen-
don, Milano, 2002, p. 120; Di Ciommo-Viti, La responsabilità civile in ambito sportivo, in Li-
neamenti di diritto sportivo, a cura di Cantamessa, Riccio, Sciancalepore, Milano, 2008, p.
290.
(4) Galligani-Piscini, Riflessioni per un quadro generale della responsabilità civile nell’or-
ganizzazione di un evento sportivo, in Riv. dir. econ. sport, 2007, p. 115.
(5) Si è infatti esclusa la responsabilità dell’utilizzatore di un impianto a fini di organizza-
zione di una gara, che non aveva l’effettivo potere di gestione e di intervento sullo stesso:
Cass., 10.2.2003, n. 1948, in Foro. it., 2003, I, c. 1439. Si è inoltre affermato che, se più persone
organizzano una gara amichevole di tiro a segno, ciascun partecipante risponde dei danni
causati al passante che transitava sulla strada adiacente, qualora venga accertato che non era-
no state predisposte le opportune cautele: App. Firenze, 20.2.1951, in Giur. tosc., 1951, p. 446,
in tal senso richiamata da Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 115.
(6) Cass., S.U., 12.7.1995, n. 7640, in Riv. dir. sport., 1996, p. 75, con note di Carra e Fon-
tana: trattasi del leading case affacciatosi sul punto, in un caso in cui l’atleta di una competi-
zione di pentathlon moderno era caduto nel corso di una gara di equitazione a causa del rifiu-
to del cavallo di saltare l’ostacolo, ed aveva riportato gravissime lesioni. Ma per l’affermazio-
ne secondo cui al C.O.N.I. “in nessun caso potrebbe dirsi attribuita anche la qualifica di orga-
nizzatore delle manifestazioni sportive”, si v. già Cass., 16.1.1985, n. 97, in Giur. it., 1985, I, 1,
c. 1226.
152 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

no del Comitato olimpico nazionale italiano – C.O.N.I., a norma dell’articolo


11 della legge 15 marzo 1997, n. 59” (cd. “Decreto Melandri”) (7), un potere di
regolamentazione e di controllo delle varie discipline sportive in generale, e
non una funzione di diretta organizzazione delle stesse, che farebbe invece
capo alla singola Federazione di competenza.
Diversa è invece la posizione delle Federazioni Sportive Nazionali di ri-
ferimento, le quali sono infatti sempre titolari di dirette potestà ispettive di
controllo sulle singole discipline e sulle rispettive competizioni, dalle quali
discendono quindi profili di responsabilità.
Le Federazioni sportive, infatti, pur facendo capo al C.O.N.I. – che ne è
la Confederazione (art. 2, d.lgs. n. 242/1999) – e quindi partecipando della
natura pubblicistica dello stesso, godono anche di autonomia giuridica pur
sotto la sua vigilanza (8), cosicché rispondono delle eventuali omissioni (an-

(7) Per una sintetica rassegna delle diverse fonti normative che nel corso del tempo han-
no interessato il C.O.N.I., si v. Frattarolo, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, II
ed., Milano, 2005, p. 1 ss.; si segnala inoltre Romano, L’organizzazione dell’attività sportiva, in
Manuale di diritto dello sport, a cura di Di Nella, Napoli, 2010, p. 99 ss., per un’accurata disa-
mina delle funzioni del Comitato, del funzionamento e dei compiti dei suoi organi e dei suoi
rapporti con la C.O.N.I. Servizi S.p.A., cui sono state attribuite funzioni strumentali e gesto-
rie volte al conseguimento degli obiettivi ed al soddisfacimento delle finalità istituzionali del-
l’Ente. Sulla tematica si richiama inoltre Sanino-Verde, Il diritto sportivo, II ed., Padova,
2008, p. 51 ss.
(8) Si veda già la l. 16.2.1942, n. 426, ma anche la l. 23.3.1981, n. 91, che ha parzialmente
modificato i rapporti fra C.O.N.I. e Federazioni, ed il cui art. 14, comma 2°, espressamente ri-
conosceva alle Federazioni “autonomia tecnica, organizzativa e di gestione, sotto il controllo
del C.O.N.I.”, nonché, da ultimo, il già ricordato d.lgs., 23.7.1999, n. 242, che all’art. 15, com-
ma 2°, ha abrogato sia la l. n. 426/1942, che l’art. 14, l. n. 91/1981, ed ha attribuito personalità
giuridica di diritto privato alle Federazioni, le quali, peraltro, continuano ad essere soggette,
sotto molteplici aspetti, al controllo del C.O.N.I. Tale assetto si evince da diverse disposizioni
del citato decreto, fra le quali: l’art. 5, comma 1°, che attribuisce al consiglio nazionale il com-
pito di disciplinare e coordinare l’attività sportiva nazionale, armonizzando a tal fine l’azione
delle Federazioni; l’art. 5, comma 2°, che impone alle Federazioni di conformare i propri sta-
tuti ai principi fondamentali stabiliti dal consiglio nazionale allo scopo del riconoscimento ai
fini sportivi e prevede che lo stesso consiglio nazionale, su proposta della giunta nazionale, ha
il potere di deliberare il commissariamento delle Federazioni in caso di gravi irregolarità nel-
la gestione o di gravi violazioni dell’ordinamento sportivo da parte degli organi direttivi; l’art,
7, comma 2°, che attribuisce alla giunta il potere di controllo sulle Federazioni in merito al re-
golare svolgimento delle competizioni, alla preparazione olimpica e all’attività sportiva di al-
to livello e all’utilizzo dei contributi finanziari; l’art. 15, comma 1°, che richiede alle Federa-
zioni stesse di svolgere la loro attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi
del C.I.O., delle Federazioni internazionali e del C.O.N.I., anche in considerazione della va-
lenza pubblicistica di specifiche tipologie di attività individuate dallo Statuto del C.O.N.I. . Su
tutti gli aspetti qui esaminati si vedano Romano, L’organizzazione dell’attività sportiva, cit., pp.
SAGGI 153

che solo per culpa in vigilando) nell’organizzazione delle singole gare spor-
tive, che infatti rientra nelle loro competenze quale attività “privatistica” (9).
In applicazione di tale criterio, è stata affermata (10) la responsabilità del-
la F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio), quale committente ex art.
2049, c.c., per la colpevole imperizia di un medico sportivo operante in un
centro riconosciuto, che, omettendo ulteriori accertamenti, aveva attestato
l’idoneità alla pratica agonistica di un quattordicenne, in seguito deceduto
durante un incontro, a causa di un arresto cardiocircolatorio; ciò, in quanto

113 ss.; Napolitano, Il “riordino” del Coni, in Profili evolutivi del diritto dello sport, Napoli,
2001, pp. 19-20. Si richiama inoltre l’attuale art. 20, comma 2°, dello Statuto del C.O.N.I., che
riproduce nella sostanza il disposto del già richiamato ed oggi abrogato art. 14, comma 2°, l. n.
91/1981, stabilendo che “Nell’ambito dell’ordinamento sportivo alle Federazioni Sportive
Nazionali è riconosciuta l’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione, sotto la vigilanza
del CONI”.
(9) La tesi della natura “mista”, di diritto pubblico e di diritto privato, delle Federazioni
sportive, già affermata dalle Sezioni Unite (Cass., S.U., 9.5.1986, n. 3092, in Foro it., 1986, I, c.
1254; Cass., S.U., 9.5.1986, n. 3091, ibidem, c. 1259) prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
242/1999, è oggi pacifica in giurisprudenza alla luce delle disposizioni di detto decreto: sul
punto, si v., fra le altre, Cass., S.U., 23.3.2004, n. 5775, in Giust. civ., 2005, I, p. 1625, con nota
di Vidiri, ove si legge che “La legge 16 febbraio 1942, n. 426, istitutiva del Coni, configurava
le federazioni sportive nazionali come organi dell’Ente, che partecipavano della natura pub-
blica di questo. La successiva legge 23 marzo 1981, n. 91 (contenente norme in materia di rap-
porti tra società e sportivi professionisti), con l’art. 14, ribadì questo inquadramento, ricono-
scendo alle federazioni funzione di natura pubblicistica, riconducibile all’esercizio in senso
lato delle funzioni proprie del Coni, e funzione di natura privatistica per le specifiche attività
da esse svolte. Questa funzione, in quanto autonoma, era separata da quella di natura pubbli-
ca e faceva capo soltanto alle federazioni … La legge n. 91 del 1981 è stata sostituita con il de-
creto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, contenente disposizioni sul riordino del Coni. L’artico-
lo 15 del decreto legislativo ha recepito l’inquadramento attribuito dalla giurisprudenza alle
federazioni sportive nazionali. La norma, infatti, dopo avere disposto che le federazioni spor-
tive nazionali svolgono l’attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Cio
e del Coni (primo comma), così consentendo l’esercizio di attività a valenza pubblicistica sul-
la base di poteri pubblicistici e mediante l’adozione di atti amministrativi, attribuisce loro na-
tura di associazione con personalità giuridica di diritto privato e dichiara che non perseguono
fini di lucro e sono disciplinate, per quanto non espressamente previsto dal decreto, dal codi-
ce civile e dalle disposizioni di attuazione del medesimo (secondo comma)”. Definisce le Fe-
derazioni quali “enti privati di interesse pubblico”, Di Nella, Le federazioni sportive naziona-
li dopo la riforma, in Profili evolutivi del diritto dello sport, Napoli, 2001, p. 122. p. 70. Per ulte-
riori riflessioni sulla natura delle Federazioni nazionali sportive, si veda tuttavia anche la suc-
cessiva n. 14.
(10) Trib. Vigevano, Sez. pen., 9.1.2006, n. 426, in Resp. civ. prev., 2007, p. 334, con nota di
Aureliano; la decisione è commentata anche da Grassani, La responsabilità risarcitoria del-
le federazioni sportive in caso di incidente o infortunio dell’atleta, in Riv. dir. econ. sport, 2006, p.
13 ss.
154 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

lo statuto della F.I.G.C. prevede all’art. 3 che la Federazione persegua il fi-


ne della pratica del calcio anche attraverso “la tutela medico sportiva . . . degli
atleti”, anche in forza del D.M. 18.2.1982, n. 133200 (11).
Si è inoltre riconosciuta la responsabilità ex art. 2043, c.c., del gruppo
sportivo dell’atleta e della Federazione sportiva nazionale di riferimento, in
una fattispecie (12) in cui, in un incontro di basket, un giocatore, giocando
veementemente, aveva urtato contro la porta a vetri dello spogliatoio, sfon-
dandola e procurandosi ferite da taglio multiple agli arti superiori, e ciò, sul
rilievo che la Federazione avrebbe la indiscussa titolarità dell’attività ispet-
tiva e di controllo che si esplica attraverso l’omologazione del campo da gio-
co secondo il regolamento esecutivo.
Per contro, la Suprema Corte ha negato la responsabilità della F.I.S.I.
(Federazione Italiana Sport Invernali), affermando, invece, quella diretta
del C.O.N.I., per l’omologazione di una pista da sci non conforme alle pre-
scrizioni tecniche (13).

(11) Portante “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva agonistica”. Nell’ambito
dello stesso giudizio, si veda altresì Cass. Pen., 5.9.2009, n. 38154, in Resp. civ. prev., 2010, p.
1074, con nota critica di Farolfi, la quale, facendo propria l’impostazione dei giudici di meri-
to, ha confermato che “in caso di erroneo rilascio di certificazione medica, la Federazione è
responsabile solidalmente, per responsabilità contrattuale e vicaria, con il medico esterno al-
la sua struttura associativa per la posizione di garanzia in ordine alla tutela medico-sportiva,
discendente da obbligazione assunta nei confronti dell’atleta all’atto del tesseramento”. La
decisione della Suprema Corte è commentata anche da Stincardini-Piscini, La responsabi-
lità delle federazioni sportive nazionali per erronea certificazione dell’idoneità sportiva rilasciata
presso strutture sanitarie esterne all’atleta dilettante, in Riv. dir. econ. sport, 2010, p. 95 ss.
(12) Trib. Milano, 23.2.2009, n. 2430, in Rass. dir. econ. sport, 2010, p. 160, con nota di Ago-
stinis.
(13) Cass., 23.6.1999, n. 6400, in Riv. dir. sport., 2000, p. 521, con nota di Lambo, secondo la
quale “l’omologazione di una pista di sci, collaudata per cinque anni, compiuta dalla F.I.S.I.
per accertarne, attraverso un proprio tecnico, la conformità alla regolamentazione tecnica
dalla stessa dettata per le gare di sci, è direttamente imputabile al C.O.N.I., al quale sono isti-
tuzionalmente demandate le funzioni di regolamentazione, controllo e coordinamento, ai
sensi dell’art. 3, L. 6 febbraio 1942, n. 426, della varie attività sportive che si svolgono in Italia,
e che esso esercita attraverso le Federazioni nazionali, in qualità di suoi organi – in tali attività
aventi pertanto natura pubblicistica – e non rientra invece nell’autonomia tecnica-organizza-
tiva – di natura privata – di ciascuna Federazione di una singola gara. Di conseguenza il rila-
scio del relativo certificato di omologazione nazionale da parte di quest’ultima rende respon-
sabile direttamente il C.O.N.I. per i danni riportati da un concorrente a seguito di incidente
verificatosi per mancato rispetto, invece, di prescrizioni tecniche, aventi natura di norme in-
terne (quali la mancanza di zone di caduta, all’esterno delle curve, prive di ostacoli, e idonea
protezione di quelli contro i quali i concorrenti possono esser proiettati)”. Al riguardo, occor-
re peraltro notare come la pronuncia de qua sia temporalmente precedente al citato d.lgs n.
242/1999, mediante cui è stato attuato il riordino del C.O.N.I. e che ha abrogato la l. n.
SAGGI 155

Dai casi presentatisi e dall’evoluzione del panorama normativo, sem-


brerebbe così di poter evincere un possibile criterio da adottare agli effetti
dell’attribuzione della responsabilità anche al C.O.N.I. o alle sole Federa-
zioni sportive, facente leva sulla “doppia natura” giuridica di queste ultime,
e che porterebbe ad affermare la responsabilità del C.O.N.I., ogniqualvolta
l’attività svolta nel caso concreto dalla singola Federazione abbia valenza
pubblicistica (14), ed invece la responsabilità della sola Federazione per l’at-
tività rientrante nell’autonomia tecnico-organizzativa di natura privata del-
la stessa.
Il discrimine dovrebbe quindi rinvenirsi fra il perseguimento, da parte
delle Federazioni, dei fini istituzionali propri del C.O.N.I., e la realizzazio-
ne invece, da parte delle medesime, delle proprie autonome finalità, quindi

426/1942, istitutiva dello stesso Comitato. Tale riordino, da un lato, ha formalmente compor-
tato il venir meno del rapporto organico che legava il C.O.N.I. alle diverse Federazioni spor-
tive, dall’altro – come già ricordato – ha attribuito la personalità giuridica di diritto privato a
queste ultime, le quali, dunque, oggi sono sicuramente autonomi centri di imputazione giu-
ridica: ne discende, pertanto, come è stato correttamente osservato (Campione, Attività scii-
stica e responsabilità civile, Padova, 2009, p. 372 ss., spec. p. 374 e p. 376, ove ampie informa-
zioni sul procedimento di omologazione delle piste), che, qualora un atleta riporti dai danni a
causa del mancato rispetto delle norme regolamentari che presiedono all’omologazione del-
la pista, la legittimazione passiva della F.I.S.I. non potrà attualmente essere messa in discus-
sione, dal momento che l’omologazione – oggi come ieri – ha luogo proprio grazie all’esclusi-
vo apporto dei suoi tecnici. Accanto alla responsabilità della F.I.S.I., potrebbe poi intravve-
dersi anche una responsabilità concorrente della società sportiva organizzatrice della compe-
tizione e dei giudici di gara per la mancata rilevazione e/o segnalazione di difetti di sicurezza
atti a comportare la revoca del certificato di idoneità della pista interessata.
(14) L’art. 23, comma 1°, dello Statuto del C.O.N.I. attribuisce valenza pubblicistica esclu-
sivamente alle attività delle Federazioni sportive nazionali relative “all’ammissione e all’affi-
liazione di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati; alla revoca a qualsiasi titolo e
alla modificazione dei provvedimenti di ammissione o di affiliazione; al controllo in ordine al
regolare svolgimento delle competizioni e dei campionati sportivi professionistici; all’utiliz-
zazione dei contributi pubblici; alla prevenzione e repressione del doping”; nonché alle atti-
vità relative “alla preparazione olimpica e all’alto livello della formazione dei tecnici, all’uti-
lizzazione e alla gestione degli impianti sportivi pubblici”. Ma è opportuno ricordare anche
quanto stabilito dal successivo comma 1°-bis, ai sensi del quale “nell’esercizio delle attività a
valenza pubblicistica, di cui al comma 1°, le Federazioni sportive nazionali, si conformano
agli indirizzi e ai controlli del C.O.N.I. ed operano secondo principi di imparzialità e traspa-
renza. La valenza pubblicistica dell’attività non modifica l’ordinario regime di diritto privato
dei singoli atti e delle situazioni giuridiche soggettive connesse”; disposizione, quest’ultima,
introdotta con deliberazione del 26.2.2008, alla luce della quale vi è chi ritiene che oggi la tesi
della natura “mista” delle Federazioni dovrebbe essere rimeditata, « nel senso di affermarne la
piena natura privatistica anche rispetto alle attività “a valenza pubblicistica” da queste svolte »:
così Romano, L’organizzazione dell’attività sportiva, cit., pp. 117-118.
156 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

tra attività pubblicistica e attività privatistica delle Federazioni; sul primo ti-
po di attività il C.O.N.I. avrebbe certamente un pieno potere di controllo e
quindi la relativa responsabilità, mentre sull’attività di natura privatistica
non avrebbe poteri di diretto controllo, e quindi la responsabilità ricadreb-
be unicamente sulla singola Federazione (15).
A seguito del riordino attuato a mezzo del d.lgs. 23.7.1999, n. 242, for-
malmente venuto meno il rapporto organico fra Federazioni e C.O.N.I,
quest’ultimo potrà essere coinvolto soltanto in relazione a quelle attività
delle Federazioni espressamente qualificate come “a valenza pubblicistica”
dall’art. 23, comma 1°, del suo Statuto, ed unicamente laddove, nel caso
concreto, dovessero emergere specifiche negligenze nello svolgimento dei
suoi compiti di vigilanza (16).

2. – Venendo, in particolare, all’esame degli obblighi di controllo facen-


ti capo all’organizzatore, deve rilevarsi che gli stessi appaiono evidente-
mente tanto più incisivi, quanto più complessa è l’attività organizzativa ri-
chiesta dalle singole competizioni sportive (17).

(15) In tal senso, Grassani, La responsabilità risarcitoria delle federazioni, cit., p. 32.
(16) Con specifico riguardo all’attività di omologazione delle piste svolta dalla F.I.S.I., si v.
Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., pp. 376-377, il quale ritiene che il veni-
re meno del rapporto organico fra C.O.N.I. e Federazioni non sia, di per sé, sufficiente ad
escludere la concorrente responsabilità del C.O.N.I. per i danni eventualmente derivati agli
atleti. Tale conclusione viene giustificata alla luce dei già ricordati compiti di coordinamento
e di controllo sulle Federazioni che, a tutt’oggi, il Comitato svolge e specialmente alla luce di
quanto prescritto dall’art. 7, comma 2°, lettera e) del d.lgs. n. 242/1999, che attribuisce alla
giunta nazionale del C.O.N.I. il potere di controllo sulle Federazioni “in merito al regolare
svolgimento delle competizioni” e dall’art. 23 dello Statuto del C.O.N.I., che fa rientrare nei
compiti a valenza pubblicistica attribuiti alle Federazioni il “controllo in ordine al regolare svol-
gimento delle competizioni”: ed infatti, secondo l’a. citato, l’omologazione della pista potrebbe
farsi rientrare proprio nell’ambito dei controlli inerenti alla regolarità delle gare, deputati alla
Federazione, che, in tale ambito, è tuttavia soggetta ai poteri di controllo del Comitato di ver-
tice, del quale potrebbe quindi parimenti prefigurarsi la responsabilità. Per un accenno in
questo senso, sia pur in termini più generali, si v. anche Agostinis, Brevi note in materia di re-
sponsabilità dell’organizzatore di competizioni sportive e della Federazione per gli infortuni subi-
ti dagli atleti, in Rass. dir. econ. sport, 2010, pp. 180-181.
(17) Sull’organizzazione di eventi sportivi in chiave prettamente economica, con partico-
lare riguardo ai diritti mediatici sugli eventi sportivi, si v. Indraccolo, L’organizzazione di
eventi sportivi, in Manuale di diritto sportivo, a cura di Di Nella, Napoli, 2010, p. 177 ss.; sui di-
ritti televisivi sportivi, si v. anche Di Nella, La commercializzazione dei diritti audiovisivi sugli
eventi sportivi, in I contratti del turismo, dello sport e della cultura, a cura di Delfini e Moran-
di, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, Torino, 2010, p. 838 ss.; Cuffa-
ro, Diritti audiovisivi, diritti di archivio, proprietà delle riprese: epicedio del diritto di cronaca, in
Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° Convegno Nazionale S.I.S.Di.C., Na-
SAGGI 157

Al riguardo, si distingue fra “competizione sportiva” e “manifestazione


sportiva”, nel senso che la prima consisterebbe in un incontro individuale
od a squadre che avrebbe per scopo quello di raggiungere un risultato in
una sola e ben determinata disciplina sportiva (incontro di calcio, regata ve-
lica con un solo tipo di imbarcazione, corsa automobilistica con una sola
classe di autovetture …); si avrebbe invece una vera e propria manifestazio-
ne sportiva, ogniqualvolta si organizzi un insieme di competizioni, ciascuna
con propria autonomia e individualità, che si svolgano in uno stesso conte-
sto anche se a tratto successivo (torneo di tennis con singolari, doppi, fem-
minili e maschili; regata velica con più tipi di imbarcazioni, corsa automo-
bilistica con più classi di veicoli …) (18).
È quindi evidente che una “manifestazione” sportiva richiederà una più
complessa organizzazione e comporterà più articolate responsabilità degli
organizzatori, anche avuto riguardo alla necessaria presenza di preposti ed
all’imputazione di responsabilità agli organizzatori anche ex art. 2049 c.c.
Occorre tenere presente, innanzitutto, che, laddove vi è competizione-
spettacolo o manifestazione-spettacolo, si pone un problema di garanzia
dell’ordine pubblico, e ciò, sia al fine di salvaguardare l’incolumità degli
atleti e degli spettatori, che agli effetti dell’integrità dei risultati sportivi.
La presenza delle forze dell’ordine (vigili del fuoco, carabinieri, pubbli-
ca sicurezza, ecc.) appare quindi necessaria, e l’organizzatore che non la at-
tivi tempestivamente potrà incorrere in responsabilità (19).
In merito ai rapporti fra l’organizzatore e le forze dell’ordine, si può pe-
raltro affermare che il primo conserva piena autonomia quanto agli aspetti
tecnici delle manifestazioni sportive, e che comunque le forze dell’ordine
sono tenute ad intervenire soltanto ove non sia possibile all’organizzatore
tutelare diversamente la pubblica incolumità ed assicurare la regolarità del-
le competizioni (20).
Gli essenziali aspetti che, costituendo fattori di rischio, rientrano negli
obblighi di controllo dell’organizzatore, sono (21):
a) l’idoneità e la sicurezza del luogo in cui si svolge la manifestazione e de-
gli impianti che vengono utilizzati;
b) l’idoneità e la sicurezza dei mezzi tecnici utilizzati, siano essi forniti o
meno dall’organizzatore medesimo;

poli, 2009, p. 543 ss.; Zeno-Zencovich, La statalizzazione dei “diritti televisivi sportivi”, ibidem,
p. 585 ss.
(18) Dini, L’organizzatore, cit., p. 418 ss.
(19) Dini, L’organizzatore, cit., p. 422 ss.
(20) Dini, L’organizzatore, cit., p. 423.
(21) Dini, L’organizzatore, cit., p. 424.
158 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

c) l’idoneità dell’atleta a partecipare alla competizione, sia in ragione della


sua esperienza (22), che per le sue condizioni psico-fisiche (23).
Agli effetti di queste complesse verifiche, l’organizzatore si avvale di
propri collaboratori (cronometrista, medico sportivo, allenatore), del cui
operato risponde: in particolare, risponderà propriamente ex artt. 1228 e/o
2049 c.c., rispettivamente con riguardo ai danni da inadempimento ed ai fat-
ti illeciti provocati dai propri preposti agli atleti, in ipotesi legati contrattual-
mente all’organizzatore, ed agli spettatori paganti, mentre risponderà ex art.
2049 c.c. degli illeciti commessi dai propri dipendenti o collaboratori a cari-
co degli spettatori non paganti e comunque dei terzi (24).

(22) A tal proposito, può richiamarsi il caso deciso da Cass. Pen., 21.2.1995, n. 6478, in Riv.
dir. sport., 1996, p. 302, per la quale “rispondono di omicidio colposo i componenti del Consi-
glio direttivo della Lega Navale Italiana, i quali abbiano organizzato una gara di pesca al trai-
no, omettendo di adottare le misure necessarie ad evitare l’evento dannoso”; nella fattispecie,
è stata affermata la responsabilità della Lega per aver ammesso alla competizione il gareg-
giante, poi deceduto in seguito a naufragio, gravato da una limitazione di navigabilità entro le
sei miglia, pur in previsione di un campo di gara in alto mare. Sulla vicenda di specie si sono
pronunciati nei gradi di merito, Trib. Brindisi, 15.5.1991, ibidem, 303 e App. Lecce, 18.1.1994,
ibidem, 303.
(23) Sul punto, Di Ciommo-Viti, La responsabilità civile, cit., p. 291, alla cui stregua, l’or-
ganizzatore “potrebbe risultare adempiente a quest’onere anche semplicemente predispo-
nendo un adeguato servizio medico di controllo”. Secondo Beghini, L’illecito civile e penale
sportivo, Padova, 1999, p. 103, “nel caso di competizioni sportive che comportino un impegno
fisico particolarmente elevato, egli [l’organizzatore n.d.a.] è anche tenuto a controllare l’ido-
neità psico-fisica degli atleti mediante accertamenti sanitari, avvalendosi eventualmente dei
medici federali o di personale comunque specializzato. Se l’atleta è stato ritenuto idoneo dal-
la competente federazione, l’organizzatore non deve effettuare alcun altro controllo medi-
co”.
(24) Profilo connesso è quello, tuttora discusso, dell’eventuale responsabilità vicaria del-
l’organizzatore per gli eventi lesivi provocati con condotte illecite dagli atleti – particolarmen-
te se allo stesso legati da rapporto di lavoro subordinato – ad altri gareggianti, sul quale si ve-
dano le riflessioni ed i riferimenti anche giurisprudenziali di Liotta, Attività sportive e respon-
sabilità dell’organizzatore, cit., p. 89 ss., spec. p. 97 ss., il quale conclude nel senso che, poiché
“l’attività degli atleti soddisfa in maniera diretta l’interesse fondamentale dell’organizzatore
sportivo consistente nell’effettiva realizzazione e messa in scena dello spettacolo program-
mato […] è giocoforza concludere che […] i risultati dell’attività dell’agonista conforme alle
regole del gioco ricadono a tutto vantaggio dell’organizzatore”, con conseguente applicabilità
a quest’ultimo, anche alla stregua del principio cuius commoda eius et incommoda, dell’art.
2049 c.c. . Per una critica a tale assunto, ma con specifico riguardo all’organizzatore di gare di
sci e agli atleti che vi partecipano, Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., pp.
382-383, il quale, sulle orme di Giannini, La responsabilità civile degli organizzatori di manife-
stazioni sportive, in Riv. dir. sport., 1986, p. 279, osserva che l’atleta “oltre ad esercitare l’attività
agonistica in maniera del tutto indipendente […] prende comunque parte alla competizione
nel proprio ed esclusivo interesse, tanto più che la sua prestazione riveste un’estrinsecazione
SAGGI 159

Diversamente avviene invece per l’ufficiale di gara, appartenente ed


inviato dalla rispettiva Federazione con funzione di arbitro o giudice;
questi, infatti, non ha rapporto con l’organizzatore, né con l’atleta, e quin-
di l’illecito, da questi eventualmente posto in essere, interesserà verosi-
milmente soltanto la sua Federazione di appartenenza, ai sensi dell’art.
2049 c.c. (25).
In particolare, per le situazioni in cui l’arbitro è l’unico ad avere un di-
retto ed immediato controllo sulla possibile fonte di danno (es. verifica re-
golarità scarpe da gioco; interruzione del gioco in un incontro di boxe o di
karate), la responsabilità sarà dell’arbitro e non dell’organizzatore (26), ed in

individuale (ricerca dell’affermazione) che non è in rapporto causale con l’attività dell’orga-
nizzatore”. Criticamente anche Tortora, Izzo, Ghia, Guarino, Danese, Nucci, Naccara-
to, Casolino, Novarina, Diritto sportivo, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e com-
merciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1998, pp. 133-134; Izzo, Le responsabilità nello sport, di-
retto da Izzo, Merone, Tortora, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale,
fondata da Bigiavi, Torino, 2007, p. 145; Lepore, La responsabilità nell’esercizio e nell’orga-
nizzazione delle attività sportive, in Manuale di diritto dello sport, a cura di Di Nella, Napoli,
2010, p. 281, il quale afferma che il riferimento all’art. 2049 c.c. “si mostra più convincente se
ricondotto non tanto al rapporto tra organizzatore e atleta, quanto a quello tra il sodalizio
sportivo – che soltanto in alcuni casi può rivestire il ruolo di organizzatore – e il proprio tesse-
rato”. Per un riferimento a quest’ultima ipotesi, si v. Trib. Monza, 5.6.1997, in Riv. dir. sport.,
1997, p. 758, ove si legge che “Qualora risulti accertato che l’infortunio occorso ad un atleta
durante una competizione sportiva, anche contraddistinta da elevato agonismo (nella specie,
una partita ufficiale di hockey su pista), è stato provocato da un gesto avulso dalla dinamica del
gioco e diretto a ledere l’avversario, va dichiarata la responsabilità solidale dell’autore del ge-
sto e della società sportiva nelle cui file quest’ultimo militava”; ma in senso contrario, Trib.
Bari, 10.6.1960, in Dir. e giur., 1963, p. 81, con nota di Scognamiglio, che ha escluso l’applica-
bilità dell’art. 2049 c.c. alla società sportiva di appartenenza del calciatore resosi responsabile
del fallo. Nel senso che la responsabilità del sodalizio sportivo di appartenenza per l’illecito
posto in essere dall’atleta possa essere affermata ex art. 2049 c.c. solo dopo aver valutato l’ef-
fettiva sussistenza, nel caso di specie, di un potere di direzione e vigilanza, Frattarolo, La
responsabilità civile per le attività sportive, Milano, 1984, p. 94; Lepore, Responsabilità civile e
tutela della “persona-atleta”, Napoli, 2009, p. 230 ss. A tal riguardo, è indubbio che tale potere
vi sia ove si tratti di atleta professionista, il quale, secondo quanto stabilito dall’art. 3, l.
23.3.1981, n. 91, è un lavoratore subordinato (Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsa-
bilità civile nello sport, cit., p. 46 e p. 71).
(25) Dini, L’organizzatore, cit., p. 425.
(26) In tal senso, Beghini, L’illecito civile e penale, cit., p. 107, il quale, dopo aver afferma-
to che il giudice di gara ha una posizione di garanzia in relazione all’integrità fisica degli atle-
ti, afferma che lo stesso può incorrere in responsabilità, in concorso con il giocatore, qualora
non abbia preso i provvedimenti necessari al fine di evitare che il fatto lesivo si verificasse; al
riguardo, l’a. fa appunto l’esempio dell’arbitro che abbia concesso all’atleta di giocare con tac-
chetti non regolamentari, o che non sospenda l’incontro di boxe, pur rendendosi conto delle
condizioni precarie di uno dei contendenti, contribuendo a provocare la morte del pugile.
160 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

relazione al suo operato potrà essere chiamata a rispondere anche la Fede-


razione di appartenenza.
L’organizzatore di una manifestazione sportiva è tenuto ad osservare, al
fine di assolvere i propri obblighi di controllo, una pluralità di disposizioni,
finalizzate alla realizzazione della sicurezza dell’evento sportivo, quali es-
senzialmente: a) prescrizioni della legge in senso stretto; b) norme regola-
mentari sportive; c) principi generali di comune prudenza (27).
In particolare, chi organizza un evento sportivo a pagamento in luogo
pubblico o aperto al pubblico è tenuto a richiedere la licenza alla questura,
secondo quanto previsto dagli artt. 68 e 71 del r.d. 18.6.1931, n. 773 (28), men-
tre invece, se la manifestazione è sprovvista di qualsivoglia finalità di lucro,
sarà sufficiente un preavviso di tre giorni all’autorità locale, salva la facoltà,
per quest’ultima, di invitare i promotori a munirsi della licenza prescritta
dall’articolo 68 del r.d. 18.6.1931, n. 773 medesimo, e ad informare tempe-
stivamente la questura, qualora ravvisi che l’evento assuma i caratteri dello
spettacolo e/o intrattenimento pubblico, ai sensi dell’art. 123, r.d. 6.5.1940,
n. 635 (29).
La licenza in questione, ove necessaria, viene concessa a condizione
che l’organizzatore appresti ripari materiali per il pubblico e fornisca servi-
zio di assistenza sanitaria per i casi di infortunio (30).
Non sembra comunque che l’eventuale difetto dell’autorizzazione, di
cui trattasi, possa di per sé spiegare influenza nell’accertamento delle re-
sponsabilità in capo all’organizzatore, in presenza di eventi dannosi (31).

(27) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 122; Conrado, Ordinamento giuridico e re-
sponsabilità dell’organizzatore di una manifestazione sportiva, in Riv. dir. sport., 1991, p. 9; Per-
seo, Sport e responsabilità, in Riv. dir. sport., 1961, pp. 277-278; Lepore, La responsabilità nel-
l’esercizio e nell’organizzazione delle attività sportive, cit., p. 282, il quale sottolinea che “qual-
siasi disposizione sportiva riveste sempre un ruolo sussidiario rispetto ai canoni generali di
prudenza, che non possono essere abbandonati”: ne deriva che “sarà sempre necessario svol-
gere un accertamento concreto del comportamento tenuto dall’organizzatore anche oltre il
rispetto delle safety rules, le quali, da sole, possono non coprire tutte le ipotesi di responsabi-
lità dei soggetti coinvolti negli incidenti”.
(28) Recante l’“Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”.
(29) Portante l’“Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno
1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza”. Occorre comunque tenere presente che la Corte
Costituzionale, con pronunzia del 15.4.1970, n. 56, in Foro it., 1970, I, c. 1293, ha dichiarato
l’incostituzionalità dell’art. 68 del richiamato R.D. 18.6.1931, n. 773, nella parte in cui prescri-
ve che per gli intrattenimenti da tenersi in luoghi aperti al pubblico e non indetti nell’eserci-
zio di attività imprenditoriali, occorre la licenza; deve infatti ritenersi non assoggettata a tale
licenza l’organizzazione dell’evento che difetti di quella natura imprenditoriale che ne giusti-
fica e impone il rilascio.
(30) Art. 119, R.D. 6.5.1940, n. 635, cit.
(31) Bertini, La responsabilità civile, cit., p. 124 ss.; Conrado, Ordinamento giuridico e re-
SAGGI 161

L’organizzatore dovrà inoltre vagliare l’idoneità del luogo prescelto al fi-


ne del regolare svolgimento della gara e della sicurezza dei presenti, e sarà
inoltre tenuto al rispetto delle disposizioni emanate dalle autorità del luo-
go, avendo comunque ben presente che per alcuni sport possono essere ri-
chiesti controlli specifici (32).
Cosicché, si può sinteticamente affermare che l’organizzatore di com-
petizioni sportive è tenuto a predisporre tutte le misure necessarie per ga-
rantire la sicurezza e l’incolumità di gareggianti e spettatori e per prevenire,
rispettando anche le norme generali di prudenza e di diligenza, il verificarsi
di eventi che possano mettere in pericolo tale sicurezza ed incolumità (33).
Al riguardo, la giurisprudenza afferma infatti che non è sufficiente il
mero rispetto delle prescrizioni regolamentari sportive, ma è necessaria sia
l’osservanza delle norme generali e particolari di prudenza della singola di-
sciplina sportiva, che il rispetto delle norme comuni di prudenza e diligen-
za (34).

sponsabilità dell’organizzatore di una manifestazione sportiva, cit., p. 9; Perseo, Sport e respon-


sabilità, cit., p. 277.
(32) Al riguardo, si veda Cass. Pen., 24.11.2009, n. 4912, massimata in Riv. dir. econ. sport,
2010, p. 175 ss. ed ivi commentata da Gentiloni Silveri, Brevi note sulla responsabilità pena-
le dell’arbitro per fatti di reato verificatisi durante la gara: esiste un obbligo giuridico di impedire
l’evento?, nonché per esteso in DeJure, che ha riconosciuto la responsabilità penale, per omi-
cidio colposo, dell’organizzatore (in concorso con quella del direttore di gara) di una compe-
tizione motociclistica enduro, per non aver rispettato le prescrizioni imposte dall’autorizza-
zione prefettizia con riguardo alla predisposizione del tracciato di gara: nella specie, la so-
spensione temporanea della circolazione da parte di tutti i veicoli non interessati alla gara e la
dislocazione lungo tutto il percorso, ed in particolare nei tratti chiusi al traffico, di personale
qualificato munito di bandierine di segnalazione, prescrizioni entrambe disattese.
(33) Al riguardo, si sottolineano in dottrina i due essenziali profili dell’individuazione del-
le misure idonee ad evitare il danno e della prova dell’adozione di tali misure: in tal senso,
Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 117. Si veda inoltre Trib. S. Maria Capua Vetere,
31.3.1998, in Gius., 1998, p. 2935, per il quale “l’organizzatore di un torneo di calcio non è re-
sponsabile per i danni subiti da un calciatore durante una partita a causa di un colpo ricevuto
da un avversario, trattandosi di evento prevedibile ma non prevenibile mediante l’osservanza
dei regolamenti sportivi e delle altre regole di prudenza e diligenza”.
(34) Cass., 28.2.2000, n. 2220, in Danno e resp., 2000, p. 614, con nota di Di Ciommo, che,
in relazione all’organizzazione di una gara di sci, ha affermato che l’esclusione di una colpa
specifica degli organizzatori attenutisi alle prescrizioni del regolamento tecnico della F.I.S.I.,
“non comporta automaticamente anche quella di una colpa generica degli stessi organizzato-
ri, e cioè una condotta caratterizzata da negligenza o imprudenza o imperizia, secondo la pre-
visione dell’art. 43 c.p. (valevole anche per la nozione di colpa ex art. 2043 c.c.)”; Cass.,
16.1.1985, n. 97, cit., che, in relazione all’organizzazione di una partita di hockey su ghiaccio,
nel corso della quale uno spettatore era stato colpito dal disco, ha escluso che l’osservanza dei
regolamenti di gara del C.O.N.I. potesse esimere l’organizzatore dalla responsabilità, attesa
l’ininfluenza dei regolamenti anzidetti nei riguardi degli spettatori, nonché il loro ruolo su-
162 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

L’organizzatore dovrà quindi prevedere a priori, secondo il criterio del-


la prevedibilità ex ante, qualsiasi rischio di eventi lesivi che possa essere ori-
ginato dall’espletamento dell’attività o della manifestazione sportiva in
svolgimento (35).
È quindi necessaria un’attività di specifica e complessa programmazione
in ordine alla sicurezza dell’evento sportivo da organizzare, mediante la
“previsione di tutto il prevedibile, al di là delle prescrizioni statuali e regola-
mentari di settore, e con una valutazione in concreto di ogni strumento vol-
to a contenere il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sporti-

bordinato rispetto alla legge e, segnatamente, all’art. 2043 c.c.; Trib. Milano, 23.2.2009, n.
2430, cit., ove si legge che l’organizzatore “è tenuto a predisporre tutte le misure necessarie a
garantire la sicurezza e l’incolumità degli atleti, rispettando, oltre che le prescrizioni specifi-
che, anche le norme generali di prudenza”; Trib. Busto Arsizio, 22.2.1982, in Riv. dir. sport.,
1982, p. 570, ove si afferma che “la responsabilità dell’organizzatore di una gara motociclisti-
ca per l’incidente occorso ad un concorrente, deve essere valutata non solo in rapporto alla os-
servanza delle regole generali e particolari della materia ma anche al rispetto delle comuni
norme di diligenza e prudenza”; Trib. Rovereto, 5.12.1989, in Riv. dir. sport., 1990, p. 498, che
ha affermato la responsabilità di una società organizzatrice di una gara di tamburello per le le-
sioni derivate ad uno spettatore colpito all’occhio dalla pallina, a fronte della mancata ado-
zione di idonee misure di protezione suggerite dalla comune esperienza e dall’ordinaria pru-
denza e diligenza, anche se tali misure non erano espressamente imposte da alcuna disposi-
zione e nonostante il campo fosse stato omologato dalla Federazione Italiana Palla Tambu-
rello; Trib. Napoli, 21.5.1986, in Riv. dir. sport., 1986, p. 466, che, nel configurare in capo agli
organizzatori l’obbligo di rispettare il generale principio del neminem laedere posto a tutela dei
diritti assoluti, ha affermato la responsabilità degli organizzatori di una gara ippica per la per-
dita di un cavallo provocato dallo slittamento dell’autostart, in un’ipotesi in cui lo svolgimen-
to della stessa gara era stato imposto nonostante la presenza di avverse e proibitive condizio-
ni climatiche che avevano determinato l’instaurarsi di una situazione di manifesta pericolo-
sità per il regolare svolgimento della competizione. In dottrina, insiste sul profilo della neces-
saria osservanza anche delle norme comuni di diligenza e prudenza, Stanca, Natura della re-
sponsabilità dell’organizzatore di gare sportive e criterio della sua imputazione, in Rass. dir. econ.
sport, 2010, pp. 157-158; contra Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 135, che infatti, in li-
nea con autorevole dottrina dal medesimo citata, afferma che “quantomeno per il danno ri-
sentito dallo sportivo, il rispetto da parte dell’organizzatore delle norme regolamentari spor-
tive sarà tendenzialmente sufficiente a escluderne la responsabilità, essendo ragionevole sup-
porre che la norma federale abbia preventivamente contemperato le esigenze della gara con
quelle di incolumità dei partecipanti”.
(35) Al riguardo, Cass. Pen., 21.2.1995, n. 6478, cit., che ha riconosciuto la responsabilità
per omicidio colposo della Lega Navale Italiana, per “non aver predisposto, a mezzo di na-
tanti, un servizio di assistenza in mare; [. . .] non aver informato dello svolgimento della gara
la competente Capitaneria di Porto che, quindi, non aveva attuato servizi speciali di sicurezza
ed aveva potuto intervenire soltanto in ritardo; [. . .] non aver disposto un efficiente e continuo
servizio di ascolto radio con conseguente ritardata ed indiretta ricezione della notizia delle
difficoltà della imbarcazione poi naufragata”.
SAGGI 163

va” (36) (cd. rischio “consentito”), entro i quali infatti nessuna responsabilità
può, in linea di principio, essere addebitata – neppure – all’organizzatore (37).
Per le lesioni che invece vengano arrecate oltre i confini del rischio ac-
cettabile nella specifica disciplina o manifestazione, si tende ad affermare
che il nesso di causalità fra l’attività dell’organizzatore e l’evento lesivo po-
trà dirsi interrotto soltanto in caso di “fatto del terzo o della vittima, o in caso
di identificazione di una specifica causa estranea non imputabile alla sfera
giuridica dell’organizzatore” (38), che avrà quindi, in definitiva, l’onere di
provare il caso fortuito per non incorrere in responsabilità (39).

(36) Così, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 118. Sulla mancanza di responsabilità


dell’organizzatore che contenga il rischio di lesioni entro quello cd. “consentito”, si veda al-
tresì, nuovamente, Cass., 27.10.2005, n. 20908, cit., per la quale “l’attività agonistica implica
l’accettazione del rischio ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, intendendosi
per tali non solo gli atleti in gara ma tutti quelli (come gli arbitri, i guardalinee, i guardaporte,
i meccanici, i tecnici, gli assistenti, ecc.) che sono posti al centro o ai limiti del campo di gara,
per compiere una funzione indispensabile allo svolgimento della competizione, assicurando-
ne il buon andamento, il rispetto delle regole, la correttezza dei comportamenti e la traspa-
renza dei risultati. Sicché, i danni da essi eventualmente sofferti ad opera di un competitore,
rientranti nell’alea normale, ricadono sugli stessi ed è sufficiente che gli organizzatori, al fine
di sottrarsi ad ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele idonee a contenere
il rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali regola-
menti sportivi. Il relativo accertamento è demandato alla valutazione del giudice del merito,
che è insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato. (Nella
specie, la S.C., rigettando il ricorso, ha rilevato l’adeguatezza e logicità della motivazione del-
la sentenza di appello, con cui, in relazione allo svolgimento di una gara di sci, si era escluso –
anche in ordine alla possibile configurabilità della corresponsabilità per atto illecito del “club”
organizzatore – che un concorrente avesse tenuto una condotta anomala, rientrando l’incon-
trollato sbandamento nel rischio tipico ed ordinario dello slalom gigante, tenuto conto, altre-
sì, che il guardaporte, investito dal concorrente medesimo, al fine di compiere l’attività de-
mandatagli, era libero di scegliere la postazione che riteneva opportuna, non esistendo alcu-
na norma regolamentare o, più genericamente, di prudenza che imponesse all’organizzatore
della gara di disporre in merito)”.
(37) Né ad alcun altro soggetto coinvolto nell’evento sportivo, atleti compresi; in tal sen-
so, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 118 ss.
(38) Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsabilità civile nello sport, ne Le nuove fron-
tiere della responsabilità civile, collana diretta da Monateri, Milano, 2002, p. 43.
(39) Per tali rilievi si veda Facci, La responsabilità civile nello sport, in Resp. civ., 2009, p.
651, in tema di incidenti occorsi durante le partite di calcio professionistico, nelle quali l’or-
ganizzatore dell’evento sportivo sarebbe responsabile ex art. 2050 c.c., in tema di attività peri-
colosa, con conseguente applicazione della prova liberatoria consistente nella dimostrazione
del “caso fortuito che interrompe il nesso causale tra l’attività pericolosa e l’evento, nel senso
che il danno verificatosi deve risultare del tutto estraneo al potere di controllo dell’esercente;
inoltre, la condotta del terzo può escludere la responsabilità dell’esercente soltanto quando
sussista un giudizio di non pertinenza tra il danno ed il rischio creato”. Per l’applicazione di
164 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Inoltre, in sede di applicazione pratica, si è assistito di frequente ad una


valutazione della prevedibilità, da parte della giurisprudenza, secondo un
criterio “a posteriori”, anziché – come più sopra evidenziato come necessa-
rio – “ex ante”, e cioè alla stregua, per così dire, dell’equazione per cui lo
stesso verificarsi dell’evento lesivo, nonostante l’osservanza delle norme
regolamentari per la sicurezza dell’impianto e dei luoghi, sarebbe di per sé
indice della sua prevedibilità (40).
Numerosi sono infatti i casi che si annoverano a tal riguardo.
È stata ad esempio affermata la responsabilità di una associazione che
gestiva un circolo sportivo di squash, che, durante un incontro ufficiale ivi
ospitato, pur avendo rispettato tutte le prescrizioni regolamentari in tema
di sicurezza, non aveva previsto che un colpo anomalo avrebbe potuto sca-
valcare le protezioni e colpire gli spettatori (41); nonché la responsabilità
della società di calcio per le lesioni riportate da uno spettatore in seguito
alla caduta dovuta alla presenza sulle gradinate di frammenti di vetro e di
altri rifiuti (42), e addirittura per le lesioni causate dal lancio di monete al-

tali principi in tema di responsabilità dell’organizzatore per gli eventi lesivi rientranti nel suo
potere di controllo, si veda Trib. Milano, 22.9.2008, n. 11133, in Giustizia a Milano, 2008, n. 9
p. 59, che ha condannato il proprietario di una pista di go-kart per le lesioni riportate dal pilo-
ta in seguito all’urto contro le barriere montate per evitare l’uscita di strada, nonostante l’u-
scita di strada stessa fosse stata provocata da un contatto con un altro mezzo, affermando al ri-
guardo che, “nel caso in cui il pilota di un go-kart, durante una competizione sportiva, esca di
strada e urtando la struttura rigida di recinzione si ferisca la mano e la testa, deve essere rico-
nosciuta la responsabilità del proprietario del circuito ex art. 2043 c.c. Infatti, il fatto stesso che
l’urto contro la recinzione predisposta per frenare la fuoriuscita dalla pista dei veicoli, abbia
causato delle lesioni al pilota, comporta il conseguente giudizio di inadeguatezza della stessa
con il conseguente obbligo di risarcimento dei danni. Irrilevante è da ritenersi il fatto che l’u-
scita di strada del go-kart sia stata preceduta da un urto da parte di un veicolo concorrente che
effettuava una regolare manovra di tentativo di sorpasso”.
(40) Nello stesso senso, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 117.
(41) Trib. Milano, 12.11.1992, in Riv. dir. sport., 1993, p. 499.
(42) Trib. Roma 5.2.1992, n. 1393, in Riv. dir. sport., 1992, p. 90, con nota di Bellantuono,
la quale, peraltro, ha affermato la responsabilità della S.S. Lazio, sulla base dell’art. 2043 c.c.,
solo nella misura del 25%, ritenendo che per il restante 75% questa dovesse essere ascritta al-
lo spettatore che, invece di attendere lo sfollamento della massa degli spettatori, con grave
imprudenza e senza la necessaria attenzione, aveva sceso i gradini, nonostante la ressa e la vi-
sibile presenza per terra dei detti detriti. Nella giurisprudenza di merito più risalente, in rela-
zione ad analogo incidente, la responsabilità della società calcistica era invece stata negata:
sul punto, si v. Trib. Roma, 28.6.1957, in Riv. dir. sport., 1959, p. 155, con nota di Tondi, che ha
escluso la responsabilità della A.S. Roma, osservando la presenza dei frammenti di vetro per
terra avrebbe ben potuto essere “conseguenza della caduta di qualche bottiglia avvenuta po-
co prima dell’avverarsi del sinistro. Non si deve dimenticare infatti che, durante le partite, lo
stadio è particolarmente affollato e che non è controllabile, quindi, da chi di dovere, il com-
SAGGI 165

l’interno dello stadio (43). Si può inoltre annoverare, nel medesimo conte-
sto, il caso in cui fu affermata la responsabilità dell’organizzatore di una
gara di atletica e della Federazione di riferimento, per omissione di caute-
le nell’ammettere un minore al riscaldamento in campo mentre si svolge-
va il riscaldamento di altro atleta in preparazione della gara di lancio del
martello (44).
In un caso risalente, durante la partita Fiorentina-Juventus, si era verifi-
cato il cedimento di 12 metri di balaustra dello stadio di Firenze, a causa
della pressione della folla dei tifosi, molti dei quali precipitarono sugli spet-
tatori che si trovavano nel parterre, con ferimento di 139 persone; furono
convenuti in giudizio sia il Comune di Firenze, quale proprietario dello sta-
dio, sia l’Associazione Calcio Fiorentina, quale organizzatrice dell’incon-
tro. La Corte d’Appello di Firenze, nonostante avesse rilevato un vizio di
costruzione della balaustra e quindi l’astratta applicabilità al Comune del-
l’art. 2053 c.c., in tema di rovina di edificio, addossò interamente la respon-
sabilità all’Associazione Calcio Fiorentina (45), alla quale imputò di aver

portamento delle persone che spesso si recano alla partita, anche molto tempo prima che es-
sa abbia inizio. Sicché, il difetto di manutenzione o di pulizia degli impianti, se rapportato al-
la circostanza da cui si vuol far discendere la colpa dei dirigenti dello Stadio, non sembra pos-
sa sostenersi nella specie, potendo – come si è detto sopra – la causa del danno essere dipesa
dal comportamento poco controllabile di terzi”.
(43) Al riguardo, Facci, La responsabilità civile nello sport, cit., p. 651, che riferisce di co-
me sia stata ritenuta responsabile ex art. 2050 c.c., una società sportiva di calcio professioni-
stico, che aveva organizzato la manifestazione, per il danno patito da uno spettatore colpito
da un oggetto contundente (moneta), scagliato da un terzo rimasto ignoto, situato in un set-
tore diverso; nella specie, l’a. ricorda che fu respinta la tesi difensiva della società convenuta
che invocava sia il fatto del terzo sia l’impossibilità di impedire l’introduzione di monete, che
potevano, poi, essere scagliate da un settore all’altro.
(44) Trib. Torino, 14.12.2000, in Gius, 2001, p. 2783, per il quale “gli organizzatori di una
gara sportiva, e la stessa federazione sotto la cui egida la gara si svolga, sono responsabili per
la mancata adozione di regole di prudenza e cautela adeguate al caso anche nella fase di pre-
parazione e di riscaldamento e ciò in particolare laddove alla gara in questione partecipino
soggetti minorenni (nella specie, la federazione organizzatrice della gara sportiva nonché il
direttore di riunione che regolamentava l’accesso al campo, i direttori di campo, l’addetto al
settore, il giudice di gara del lancio, il giudice d’appello – soggetti presenti nel campo al mo-
mento del sinistro – sono stati ritenuti responsabili dei danni occorsi ad un atleta minorenne,
al quale era stato, nella fase di riscaldamento, consentito l’accesso al campo mentre era in cor-
so il riscaldamento di altro atleta impegnato nel lancio del martello)”.
(45) App. Firenze, 3.4.1963, in Riv. dir. sport., 1964, p. 235. Su tale vicenda si era pronun-
ciato, in primo grado, Trib. Firenze, 17.10.1961, in Giur. tosc., 1962, p. 83, che aveva condan-
nato sia il Comune che la Fiorentina. La diversa impostazione fatta propria dalla Corte d’Ap-
pello è stata successivamente confermata da Cass., 31.1.1966, n. 363, in Riv. dir. sport., 1967, p.
112.
166 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

provocato un sovraffollamento dello stadio, ritenuto unica causa del sini-


stro (46).
In un’altra decisione, si è affermato che l’attività di predisposizione del
campo di gara configura attività pericolosa ex art. 2050 c.c., se espone gli
atleti a rischi maggiori rispetto a quello consentito nel singolo sport (47); nel-

(46) Deve infatti tenersi presente, al riguardo, che gli impianti sportivi di proprietà comu-
nale appartengono al patrimonio indisponibile del Comune e possono essere trasferiti nella
disponibilità dei privati soltanto mediante apposite concessioni amministrative. In tal caso,
sul Comune può residuare un obbligo di custodia e quindi una responsabilità ex art. 2051 c.c.
(oltre che ex art. 2053 c.c.), ma la gestione-organizzazione dell’evento sportivo fa capo all’or-
ganizzatore, che quindi ne è comunque responsabile. Sui presupposti di applicabilità della re-
sponsabilità ex art. 2053 c.c., in tema di rovina di edificio, in una fattispecie in cui si era verifi-
cato il crollo di un parapetto in un impianto sportivo, si richiama Cass., 14.10.2005, n. 19975,
in Giust. civ. Mass., 2005, per la quale “la responsabilità del proprietario per i danni cagionati a
terzi dalla rovina dell’edificio sussiste, ai sensi dell’art. 2053 c.c., in dipendenza di ogni disgre-
gazione, sia pure limitata, degli elementi strutturali della costruzione, ovvero degli elementi
accessori in essa stabilmente incorporati; essa integra un’ipotesi particolare di danno da cose
in custodia, che impedisce l’applicazione dell’art. 2051 c.c., per il principio di specialità, e può
essere esclusa ove il proprietario fornisca la prova che la rovina non fu dovuta a difetto di ma-
nutenzione o a vizio di costruzione. Benché la norma non ne faccia menzione, ai fini dell’e-
sonero dalla responsabilità è consentita anche la prova del caso fortuito, ovvero di un fatto do-
tato di efficacia causale autonoma rispetto alla condotta del proprietario medesimo, ivi com-
preso il fatto del terzo o dello stesso danneggiato. È inoltre configurabile il concorso tra la col-
pa presunta del proprietario e quella accertata in concreto del danneggiato, che con la propria
condotta abbia agevolato o accelerato la rovina dell’immobile o di parte di esso. (In applica-
zione di tali principi, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di
risarcimento del danno proposta nei confronti del titolare di un impianto sportivo per la mor-
te di un calciatore che, arrampicatosi con una scala di legno sul tetto dello spogliatoio per re-
cuperare il pallone uscito dal terreno di gioco, e superata una rete di recinzione manomessa
in più punti proprio per consentire l’accesso al solaio, era caduto al suolo a seguito del crollo
del parapetto, al quale si era appoggiato per guardare nella strada sottostante)”.
(47) Cass., 13.2.2009, n. 3528, in Guida al dir., 2009, 12, p. 30, con nota di Sacchettini e in
Rass. dir. econ. sport, 2010, p. 141, con nota di Stanca, per la quale “è certo che l’atleta impe-
gnato in una manifestazione agonistica accetta di esporsi a quegli incidenti che ne rendono
prevedibile la verificazione, perché a produrli vi concorrono gli inevitabili errori del gesto
sportivo proprio o degli altri atleti impegnati nella gara, come gli errori di manovra dei mezzi
usati”; “[…] ma è proprio tale insita pericolosità della attività di cui si assume l’organizzazio-
ne ad imporre che questa non sia aumentata da difetto od errore nella predisposizione delle
misure che debbono connotare il campo di gara, in modo da evitare che si producano anche a
carico dell’atleta conseguenze più gravi di quelle normali. Sicché, l’attività di organizzazione
di una gara sportiva connotata secondo esperienza da elevata possibilità di incidenti dannosi,
non solo per chi vi assiste, ma anche per gli atleti, è da riguardare come esercizio di attività pe-
ricolosa, ancorché in rapporto agli atleti nella misura in cui li esponga a conseguenze più gra-
vi di quelle che possono essere prodotte dagli stessi errori degli atleti impegnati nella gara”; in
tal caso, infatti, l’eventuale lesione supera il rischio consentito e quindi prevedibile nella sin-
SAGGI 167

la specie, durante una corsa con il bob, l’atleta era finito, a causa di un’erra-
ta manovra, contro la staccionata di legno che conteneva la pista e l’urto del
casco aveva fatto staccare una scheggia di legno, la quale aveva ferito grave-
mente al viso l’atleta, poi caduto in coma. La Suprema Corte ha cassato la
sentenza della Corte di Appello, la quale non aveva verificato in concreto, e
quindi secondo un giudizio di probabilità ex post e non ex ante, se l’attività
di predisposizione del campo di gara (mediante l’adozione di tavole di le-
gno di contenimento della pista) non avesse aumentato la rischiosità dell’e-
vento oltre quella consentita nella specifica attività sportiva. Nessuna indi-
cazione è stata invece data dalla Suprema Corte circa la necessità di valuta-
re se il materiale utilizzato per il casco fosse idoneo a preservare il capo del-
l’atleta e se lo sbandamento del veicolo avesse contribuito in maniera de-
terminante al sinistro (48).
Analogo è il recentissimo caso verificatosi ai Giochi Olimpici di Van-
couver del 2010, dove lo slittinista georgiano Nodar Kumaritashvili, uscito
dal budello ghiacciato, è andato a battere contro un palo metallico; al ri-
guardo, ci si è chiesti se la pista fosse diventata troppo veloce a causa di pro-
blemi di umidità, oppure se l’incidente sia stato provocato dalla ridotta al-
tezza del muro di contenimento della pista, ovvero dalla mancata protezio-
ne dei piloni posti ai margini della stessa, od ancora da un errore dell’atleta.
Dai casi analizzati sembra di poter ricavare, in prima approssimazione,
i seguenti criteri:
– il limite della responsabilità dell’organizzatore nei confronti degli atleti
è rappresentato dal rischio consentito in ogni singola attività sportiva,
pericolosa o meno; di tal che, se la lesione è contenuta entro detto ri-
schio, l’organizzatore, in linea di principio, non risponde, né risponderà
del danno l’atleta che lo ha provocato;
– se invece l’evento lesivo si pone oltre il confine del rischio accettato nel-
la singola competizione sportiva, verrà in rilievo l’eventuale responsabi-

gola disciplina. A commento della medesima decisione, si richiamano altresì Cerbara, Natu-
ra dell’attività di predisposizione del campo di gara, in Riv. dir. econ. sport, 2009, p. 111 ss., e Se-
sti, Attività di organizzazione di un evento sportivo: l’inefficacia dell’accettazione del rischio da
parte dell’atleta, in Resp. civ. prev., 2009, p. 1555 ss.
(48) Sempre in tema di predisposizione del campo di gara, ed in linea con la tesi che ravvi-
sa la responsabilità dell’organizzatore soltanto quando esponga gli atleti ad un rischio mag-
giore di quello consentito, si richiama la decisione di Trib. Viterbo, 12.7.2002, in Giur. merito,
2003, p. 2191, alla cui stregua “il giocatore di calcetto che abbia subito una lesione pretesa-
mente per inidoneità del fondo del campo ove si giocava può chiedere di essere risarcito ex
art. 2043 c.c. allegando la responsabilità dell’organizzatore del torneo nel cui ambito la parti-
ta era stata disputata soltanto se ne prova la colpa nell’avere, per negligenza, scelto un im-
pianto che a priori apparisse pericoloso sì da potersi prevedere l’evento dannoso seguito nel-
l’uso dello stesso”.
168 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

lità dell’organizzatore, e si tratterà quindi di verificare se il danno sia sta-


to provocato dalle particolari modalità organizzative della gara, che ab-
biano eventualmente esse stesse esposto gli atleti ad un rischio superio-
re a quello consentito.
Nella pratica, la responsabilità dell’organizzatore è stata sovente ricono-
sciuta a fronte della mancanza di agibilità del luogo di esercizio dell’attività
sportiva, ed a causa della inidoneità dello stesso a garantire, non solo il re-
golare svolgimento della competizione, ma anche la sicurezza di pubblico e
partecipanti (49).

(49) Frequentemente il profilo della “agibilità” della pista è venuto in questione in tema di
rally; si segnala, al riguardo, Cass., 6.5.2008, n. 11040, in Giust. civ., 2008, p. 2136, che, doven-
dosi pronunciare sulle rispettive responsabilità in capo al pilota ed agli organizzatori di una
gara di rally, nella quale era stato ferito uno spettatore, ha affermato fra l’altro, quanto al pilo-
ta, che “nel caso di danni causati da un pilota di rally nel corso di una competizione su un cir-
cuito interdetto al traffico veicolare, mentre deve escludersi l’invocabilità, da parte della vitti-
ma, della presunzione di cui all’art. 2054 c.c. nei confronti del pilota medesimo, la responsa-
bilità di quest’ultimo può essere affermata soltanto ove si accerti la grave violazione di regole
minime di diligenza, ovvero del regolamento di gara. Deve, di conseguenza, escludersi che la
sola elevatissima velocità tenuta nel corso della gara possa costituire fonte di responsabilità
per il pilota”; quanto invece alla condotta degli spettatori ed alla responsabilità dell’organiz-
zatore, la Suprema Corte ha rilevato che “[…] le circostanze (non più esaminabili nelle pre-
sente sede di legittimità) rendono evidente la situazione di pericolo alla quale si esposero gli
spettatori poi investiti, come rendono evidente che sarebbe stato onere proprio ed esclusivo
degli organizzatori della corsa approntare le precauzioni indispensabili al fine di evitare il
concretizzarsi di tale pericolo”; sulla base di tali principi, quindi, la decisione ha ritenuto che
non sussistesse una responsabilità ex art. 2043 c.c. a carico del pilota. Sempre in tema di rally,
si ricorda altresì Cass. Pen., 3.7.2008, n. 35326, in Arch. giur. circol., 2009, p. 619, la quale, in una
fattispecie in cui un’auto in panne era stata lasciata ferma ai bordi della carreggiata anziché es-
sere spostata dalla pista, né era stata sospesa la gara, causando ciò uno scontro in cui un pilo-
ta aveva riportato lesioni personali, ha rigettato la tesi difensiva dell’organizzatore, secondo
cui la pericolosità insita in quel tipo di competizioni lo esimerebbe da responsabilità, sancen-
do che « se […] è corretto affermare che un corsa automobilistica – nella specie un rally di
montagna – rappresenta un classico esempio di attività sportiva pericolosa e viene disciplina-
ta da regole di condotta che non sono ispirate al comune concetto di prudenza, ciò vale per la
valutazione delle condotte dei gareggianti, non certo di coloro che devono organizzare la ga-
ra cui è demandato l’obbligo giuridico di attuare tutte le cautele possibili atte ad evitare inci-
denti “appunto di gara”». Si veda inoltre Cass., 8.11.2005, n. 21664, in Foro it., 2006, I, c. 1459,
che si è pronunciata in una fattispecie in cui un pilota, durante una gara di go-kart, perdeva la
vita schiantandosi contro una vettura parcheggiata in prossimità della pista, dopo essere usci-
to di strada in seguito ad una manovra di sorpasso; in tal caso, la Suprema Corte ha statuito
che “gli organizzatori di una gara sportiva (nella specie, una gara di go-kart) rispondono dei
danni subiti dai partecipanti alla gara o dal pubblico qualora abbiano omesso di predisporre le
normali cautele idonee a contenere il rischio nei limiti confacenti alla singola attività sportiva
(colpa generica), alla stregua dei criteri di garanzia e protezione che l’organizzatore ha l’ob-
SAGGI 169

A tal fine, si è ritenuto che l’omologazione da parte della Federazione


sportiva sia necessaria, ma non sufficiente ad escludere la responsabilità
dell’organizzatore, che comunque è tenuto a provvedere alla regolare ma-
nutenzione, in funzione del mantenimento degli impianti al medesimo li-
vello e stato esistente al momento dell’omologazione stessa (50). Sotto il
profilo considerato, frequente è la sovrapposizione fra la figura dell’orga-
nizzatore e quella del gestore dell’impianto sportivo, e la conseguente ap-
plicazione anche all’organizzatore dell’art. 2051 c.c., in tema di responsabi-
lità per danni da cose in custodia.
Analoghi rilievi suscita il profilo dell’idoneità e della sicurezza dei mez-
zi tecnici utilizzati dagli atleti (51), circa i quali l’organizzatore è tenuto a ri-
spettare tutte le prescrizioni dei regolamenti federali, predisponendo tutte
le misure idonee affinché il loro utilizzo non sia fonte di pericolo (ad esem-
pio, predisponendo nel lancio del martello adeguate reti di protezione, op-
pure posizionando adeguatamente reti e fossati negli autodromi) (52).
L’organizzatore sarà quindi responsabile della inadeguatezza di luoghi,
impianti ed attrezzi, nonchè della loro non corretta custodia, laddove da es-
sa scaturisca un danno (53). Non risponderà invece in caso di condotta del-

bligo di rispettare nel caso concreto (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito,
che aveva ravvisato la colpa dell’organizzatore che non aveva provveduto affinché la zona ai
lati della pista fosse lasciata libera per tutta l’ampiezza prevista dal regolamento, e non aveva
verificato l’avvenuto collocamento di un numero idoneo di balle di paglia ai bordi della pista
e nelle zone a maggior rischio)”. Sui medesimi aspetti, si vedano altresì App. Genova,
4.9.1991, in Riv. dir. sport., 1992, p. 79, per la quale “sussiste la responsabilità dell’organizzato-
re per l’incidente occorso a un atleta durante la competizione sportiva, quando egli abbia
omesso di assicurare con tutte le possibili ed opportune cautele che lo svolgimento della ma-
nifestazione potesse aver luogo senza pericolo per l’incolumità delle persone dei partecipan-
ti”; nonché Trib. Verona, 13.7.1990, in Resp. civ. prev., 1992, p. 808 con nota di Dassi, nonché
in Giur. it., 1993, I, 2, c. 378, con nota di Battisti, per la quale “sussiste la responsabilità del-
l’organizzatore di una autogimcana per i danni provocati agli spettatori dall’incidente avve-
nuto sul luogo della manifestazione, se questi non prova di avere adottato tutte le misure ido-
nee ad evitare il danno. Va esclusa la responsabilità del patrocinatore della manifestazione
sportiva, se questi si è limitato ad erogare contributi per la sua realizzazione, senza partecipa-
re all’organizzazione”.
(50) Dini, L’organizzatore, cit., p. 426 ss.
(51) Sia quelli forniti dall’organizzatore, che quelli di proprietà degli atleti stessi; sul pun-
to, Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 121, per il quale, qualora l’atleta faccia uso di
mezzi tecnici propri, l’organizzatore ha l’obbligo di verificarne la regolarità.
(52) Bertini, La responsabilità nello sport., cit., p. 121.
(53) Come riferisce Bertini, La responsabilità nello sport., cit., p. 122, che infatti, nel sen-
so dell’applicabilità in tal caso dell’art. 2051 c.c., richiama la pronuncia del Trib. Rovereto,
10.12.1971 in Riv. dir. sport., 1971, p. 431, avente ad oggetto un caso in cui un giovane atleta,
dopo essersi impossessato indebitamente di un giavellotto nel corso di una manifestazione
170 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

l’atleta elusiva del controllo sui mezzi tecnici di sua proprietà, come per
esempio nel caso in cui quest’ultimo abbia dolosamente sostituito i mezzi
stessi dopo i controlli tecnici eseguiti dall’organizzatore (54).
Sempre in merito alle responsabilità degli organizzatori relativamente
alla sicurezza degli atleti, degli spettatori, dei terzi, interessati o meno alla
gara, ed agli obblighi degli stessi di predisporre le cautele necessarie ad evi-
tare che nei luoghi dove si svolge lo spettacolo sportivo si possano concre-
tizzare pericoli ai loro danni, si ritiene che l’organizzatore della manifesta-
zione sportiva sia tenuto, a tal fine, ad apporre cartelli segnalatori, ad impar-
tire con manifesti le opportune disposizioni ai concorrenti ed al pubblico,
ad innalzare transenne o altri sistemi protettivi a tutela degli spettatori, non-
ché ad osservare le prescrizioni di pubblica sicurezza, le regole federali, le
circolari e le ulteriori disposizioni che siano eventualmente emesse dalla
competente autorità governativa a tutela degli interessi della collettività ed
in relazione allo specifico livello di pericolosità che si accompagna a ciascun

sportiva, lo aveva lanciato contro un altro atleta, ferendolo; al riguardo, la decisione nell’e-
scludere in concreto la responsabilità dell’organizzatore per omessa custodia degli attrezzi,
ha comunque affermato l’astratta applicabilità al caso di specie dell’art. 2051 c.c. . Al riguardo,
si vedano altresì Cass., 28.10.1995, n. 11264, in Danno e resp., 1996, p. 74, con nota di Ponza-
nelli; nonché in Riv. dir. sport., 1996, p. 87, con nota di Laghezza, che ha affermato la re-
sponsabilità, ex art. 2051 c.c., di una società di tennis, per la distorsione riportata da un gioca-
tore a causa di una buca presente sul campo; nonché Trib. Pinerolo, 3.4.1999, n. 86, inedita,
che in un caso di lesioni di uno sciatore, riportate in seguito ad uno scontro con un pilone non
protetto posizionato su una pista da sci, ha ritenuto la responsabilità della società sportiva
convenuta ex art. 2051 c.c., per aver omesso di predisporre le dovute protezioni; Cass. Pen.,
10.11.2005, n. 11361, in Guida al dir., 2006, n. 20, p. 105, per la quale “il responsabile di attrez-
zature sportive o ricreative è titolare di una posizione di garanzia a tutela dell’incolumità di
coloro che le utilizzano, anche a titolo gratuito, sia in forza del principio del «neminem laede-
re», sia nella sua qualità di « custode » delle stesse attrezzature (come tale civilmente respon-
sabile, per il disposto dell’art. 2051 c.c., fuori dall’ipotesi del caso fortuito, dei danni provoca-
ti dalla cosa), sia, infine, quando l’uso delle attrezzature dia luogo a un’attività da qualificarsi
pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., quale soggetto obbligato ad adottare tutte le misure ido-
nee a evitare l’evento dannoso. (Fattispecie in cui della morte di uno dei partecipanti a una ga-
ra automobilistica era stato chiamato a rispondere, a titolo di omicidio colposo, l’amministra-
tore delegato e direttore dell’autodromo, cui era stato addebitato di non avere adeguatamen-
te protetto, con barriere di pneumatici, un muretto di protezione contro il cui spigolo la vitti-
ma era andata a sbattere dopo una collisione con altra vettura)”; identici principi si rinvengo-
no affermati anche da Cass. Pen., 27.5.2003, n. 34620, in Riv. pen., 2003, p. 959, in una fattispe-
cie in cui un circuito per go-kart è stato reputato carente di barriere idonee ad evitare l’uscita
di pista dei veicoli, tanto da consentire che il mezzo condotto da un minorenne, che ne aveva
perso il controllo, abbattesse la protezione esistente e urtasse violentemente contro un osta-
colo esterno.
(54) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 121.
SAGGI 171

tipo di attività sportiva. L’organizzatore deve inoltre preoccuparsi di segna-


lare adeguatamente il tracciato di gara e di apprestare le dovute misure per
un tempestivo ed adeguato soccorso agli atleti (55).
Volendo tracciare una sintesi in merito alla responsabilità dell’organiz-
zatore nei confronti degli atleti per lesioni agli stessi derivate durante la
competizione sportiva, si può affermare che lo stesso risponde delle lesioni
che esulino rispetto al rischio “consentito” nella singola pratica sportiva e,
comunque, di quelle che siano direttamente riferibili all’apprestamento di
luoghi e misure organizzative inidonee.
Infatti, come si è sopra accennato, per quanto riguarda gli atleti, sussiste
effettivamente, da parte loro, un’accettazione del rischio di infortuni, cosic-
ché gli stessi non dovranno essere risarciti ogniqualvolta i danni sofferti
rientrino nell’alea normale e fisiologica di quel determinato sport (56); in ta-
li casi, peraltro, sembra comunque di poter affermare che spetterà all’atleta
provare – eventualmente – che il danno si è in realtà verificato a causa della
scelta, da parte dell’organizzatore di un impianto difettoso o comunque di
inadeguata gestione dell’evento.
La società sportiva, dunque, per andare esente da responsabilità per i
danni subiti dall’atleta durante le partite, avrà l’onere di provare di aver
messo in atto tutte le misure idonee a garantire che la gara si svolgesse se-
condo le regole sue proprie, con la conseguenza che l’atleta non potrà otte-
nere risarcimenti per danni verificatisi in seguito ad un accaduto rientrante
nell’alea normale dell’attività prescelta e che non sia ricollegabile a carenze
organizzative (57).

(55) Su tutti tali aspetti, Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 129 ss.
(56) Al riguardo, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 119.
(57) In tal senso, Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsabilità civile nello sport, cit.,
p. 33. A supporto – sia pure non del tutto espresso – dell’assunto, sembra altresì di poter ri-
chiamare Trib. Milano, 29.2.2008, n. 2671, in Giustizia a Milano, 2008, n. 3, p. 20, per il quale,
“nel caso di caduta di un concorrente nel corso della fase finale di una gara ciclistica deve es-
sere dichiarata la responsabilità solidale dell’Unione Sportiva, organizzatrice della gara e del-
la Federazione ciclistica italiana ai sensi degli art. 2043 e 2049 c.c. quando dalla espletata
istruttoria siano risultate evidenti carenze e limiti organizzativi e di gestione della sicurezza
della competizione, soprattutto tenuto conto del particolare contesto durante il quale la ca-
duta si è verificata (fase concitata della gara corrispondente alla volata finale dei ciclisti). È in-
dubbio infatti che l’attività agonistica implichi l’accettazione del rischio ad essa inerente da
parte di coloro che vi partecipano, sicché eventuali danni da essi sofferti, rientranti nell’alea
normale, ricadono sugli stessi, mentre è sufficiente che gli organizzatori, al fine di sottrarsi ad
ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele idonee a contenere il rischio nei
limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali regolamenti all’uopo
previsti”. In merito al profilo considerato, si vedano altresì i rilievi di Stanca, Natura della re-
sponsabilità dell’organizzatore di gare sportive, cit., p. 148, per la quale “l’atleta ripone ragione-
172 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Ogniqualvolta sia invece ravvisabile la responsabilità dell’organizzato-


re, che non riesca in ipotesi a dare la prova che la lesione, pur esulante ri-
spetto al rischio consentito, sia stata tuttavia provocata da fatto del terzo o
del danneggiato, oppure da una specifica causa configurante caso fortuito,
l’organizzatore medesimo risponderà ai sensi della l. 23.3.1981, n. 91, nei
confronti dell’atleta a lui legato da contratto, e ciò, sia che si tratti di rappor-
to di lavoro subordinato, in quanto ex art. 2087 c.c. “L’imprenditore è tenuto
ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità
del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica
e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; sia che il rapporto che lega
l’atleta alla società sportiva sia invece inquadrabile nel contratto di lavoro
autonomo, la qual cosa, sempre secondo la l. n. 91 del 1981 (58), si verifi-
cherà “a) quando l’attività dell’atleta sia svolta nell’ambito di una singola ma-
nifestazione sportiva o di più manifestazioni fra loro collegate in un breve pe-
riodo di tempo; b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che ri-
guarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento; c) la prestazio-
ne che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi ot-
to ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni an-
no”.
In forza di tali rapporti contrattuali, peraltro, le società sportive datrici di
lavoro, e quindi organizzatrici degli incontri sportivi, sono tenute a stipula-
re polizze assicurative e a proteggere l’integrità psico-fisica degli atleti, a
partire dalla tutela sanitaria che si attua tramite controlli medici periodici.
A tal proposito, l’organizzatore di manifestazioni sportive dovrà infatti,
ove prescritto, vigilare sull’idoneità psico-fisica degli atleti ammessi alla
competizione (59). Detto obbligo di vigilanza viene considerato ottempera-
to in base alla presunzione di idoneità ricavabile dagli accertamenti medici,
di tal che, la completezza degli accertamenti sanitari cui le singole Federa-
zioni sottopongono i loro atleti esime da qualsiasi responsabilità l’organiz-
zatore che si attenga alle risultanze di tali accertamenti (60).

vole affidamento sulla circostanza che l’organizzatore abbia predisposto le misure volte a ga-
rantire la sicurezza del campo di gara o della pista da gioco”, di tal che “i danni riportati dallo
sportivo a causa della violazione di leggi o di regolamenti tecnici da parte degli organizzatori
non rientrano nell’area di rischio assunto”.
(58) V. spec. art. 3.
(59) Indaga la questione con specifico riguardo all’idoneità psico-fisica dello sciatore par-
tecipante ad una gara, Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., p. 344 ss.
(60) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 127. Si tenga conto che può capitare che sia
l’atleta a nascondere malori per impedire la formulazione di una corretta diagnosi; al riguar-
do giova ricordare il famoso caso Curi, inerente un calciatore del Perugia deceduto nel corso
di una partita di calcio a seguito di un improvviso attacco di cuore. La Suprema Corte, nel va-
SAGGI 173

L’organizzatore dovrà quindi escludere dalla competizione l’atleta che


non risulti idoneo sulla base di tali accertamenti, ma non sarà tenuto ad ad-
dentrarsi in uno specifico ed ulteriore controllo sullo stato di salute dell’a-
tleta, né tantomeno risponderà di eventuali falsità del certificato.
Naturalmente, qualora non esista una diagnosi federale, o circostanze so-
pravvenute facciano presumere che il responso federale non sia più attendi-
bile, oppure qualora un incidente in prossimità della gara abbia inciso sulla
salute dell’atleta, l’organizzatore avrà l’obbligo di far visitare l’atleta da uno
specialista e successivamente di attenersi al suo insindacabile giudizio (61).
L’organizzatore dovrà inoltre vigilare in merito alle condizioni dell’atle-
ta, evitando che si affrontino atleti di diversa esperienza e capacità (62), al fi-
ne di evitare il verificarsi di possibili situazioni di pericolo, basandosi di vol-
ta in volta sul relativo ranking, ovverosia il piazzamento in graduatoria, la
cui verifica varrebbe ad esonerarlo dallo svolgimento di più accurati con-
trolli.
La responsabilità dell’organizzatore – a titolo contrattuale se l’atleta è di-
pendente o collaboratore della società sportiva organizzatrice, ovvero non
contrattuale se non sussiste alcun rapporto contrattuale con l’organizzatore
– sarà quindi certamente configurabile laddove questi, nonostante fosse a
conoscenza delle non ottimali condizioni fisiche dell’atleta o del divieto op-
posto dal medico di gara, gli abbia tuttavia concesso di gareggiare (63), oppu-
re quando abbia fatto incontrare fra loro atleti di differente livello (64).

lutare l’imputazione di omicidio colposo a carico del medico della società, ha evidenziato che
l’atleta, nonostante fosse affetto da un’infermità che gli cagionava notevoli sofferenze nel cor-
so dei suoi impegni sportivi, non si era mai lamentato di ciò con alcuno (medici, familiari,
amici), ma aveva, anzi, partecipato all’attività agonistica in modo brillante, riscuotendo popo-
larità e ammirazione, sia superando i compagni di squadra sia, a livelli elevati, le ripetute pro-
ve sotto sforzo cui veniva sottoposto; cosicché, la decisione ha affermato la rilevanza del con-
corso colposo dell’atleta nel sottacere le proprie patologie al medico: Cass. Pen., 9.6.1981, in
Foro it., 1982, II, c. 268. Si veda inoltre, sul punto, la precedente nota 23.
(61) Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 127 ss. In merito alla necessità, sancita dal-
le norme regolamentari della F.I.G.C., che, nell’ambito di una partita di calcio fra dilettanti, la
squadra organizzatrice – ovvero quella ospitante – assicuri la presenza a bordo campo di un
medico al fine di assicurare un pronto soccorso agli atleti che si dovessero infortunare nel cor-
so della gara, si v. Trib. Napoli, 29.1.1996, in Riv. dir. sport., 1997, p. 91, con nota di De Marzo,
che, alla luce di tali previsioni, ha escluso la possibilità di imputare la responsabilità derivante
dall’assenza di un sanitario in campo a carico della squadra ospitata, la quale era stata conve-
nuta in giudizio per il risarcimento del danno dal giocatore che nella stessa militava e che,
infortunatosi nel corso della partita, non aveva ricevuto adeguate cure.
(62) Trib. Genova, 4.5.2000, in Foro it., 2001, I, c. 1402.
(63) Izzo, Le responsabilità nello sport, cit., p. 143.
(64) Trib. Genova, 4.5.2000, cit.
174 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Il principio dell’accettazione del rischio, che determina la soglia entro la


quale l’organizzatore si considera in linea di principio esonerato da respon-
sabilità nei confronti degli atleti, non opera tuttavia nei confronti degli spet-
tatori, paganti e non, come pure per la generalità dei terzi (65), che infatti,
nell’assistere all’evento sportivo, possono invero ipotizzare, senza peraltro
accettare il rischio di infortuni derivanti dalla manifestazione sportiva ai lo-
ro danni.

3. – Volendo sintetizzare i titoli che fondano la responsabilità dell’orga-


nizzatore, occorre distinguere fra le lesioni occorse agli atleti legati all’orga-
nizzatore da rapporto contestuale ed agli spettatori paganti, e i danni provo-
cati invece ad atleti non legati contrattualmente all’organizzatore, agli spet-
tatori non paganti, agli abusivi e comunque agli estranei (66).
Quanto al primo aspetto, l’organizzatore risponde a titolo contrattuale
se nei confronti del danneggiato (atleta, spettatore pagante o utente) sussi-
steva un rapporto giuridico preesistente al sinistro (lavoro dipendente o au-
tonomo per l’atleta professionista; partecipazione a corsi sportivi interni ad
una associazione (67), e così via).
In particolare, l’atleta-contraente, che sia stato leso al di là del rischio
“consentito” o comunque in dipendenza di carenze organizzative, potrà
chiedere il risarcimento, limitandosi ad allegare il rapporto di lavoro e di-
mostrando il danno subíto durante la prestazione dell’attività sportiva (art.
1218 c.c.).
Quanto allo spettatore, si ritiene che la vendita di un biglietto non com-
porti soltanto l’obbligo per l’organizzatore di assicurare la visione diretta
dello spettacolo sportivo (contratto innominato cd. di “spettacolo”), ma al-
tresì l’obbligo strumentale di garantire la sicurezza e l’incolumità del pub-
blico (68), per il quale non vale invero il principio dell’accettazione del ri-
schio, dovendo quindi l’organizzatore approntare, fra l’altro, ogni necessa-
rio controllo agli ingressi e sugli spalti, onde evitare che vengano introdotti
mezzi idonei ad offendere.

(65) Fra gli altri, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 119.


(66) Al riguardo, si richiama liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit.,
che alla p. 129, distingue fra spettatore pagante, spettatore amichevole e spettatore a titolo
gratuito, ovvero “abilitato ad accedere liberamente allo stadio”, ipotesi, quest’ultima, che co-
stituirebbe quella più ricorrente di soggetto estraneo, danneggiato dallo svolgimento della
competizione sportiva.
(67) Trib. Genova, 4.5.2000, cit., che ha dichiarato inadempiente la società sportiva orga-
nizzatrice di corsi di karate, condannandola a risarcire il danno per le lesioni subite da una al-
lieva che, invitata durante un allenamento a lottare contro una cintura nera, riportava la rot-
tura del menisco a causa di una mossa, detta “gancio”.
(68) Trib. Milano, 21.3.1988, in Riv. dir. sport., 1989, p. 68; nonché Trib. Milano, 18.1.1973,
in Foro it., 1973, I, c. 1953, sulle quali più ampiamente infra, sub par. 4.
SAGGI 175

Sotto il secondo profilo, relativo agli infortuni eventualmente occorsi ai


gareggianti non legati all’organizzatore da alcun rapporto contrattuale, agli
spettatori non paganti, ai terzi abusivi e comunque agli estranei, l’organiz-
zatore medesimo risponderà a titolo esclusivamente extracontrattuale, in
linea di principio ai sensi dell’art. 2043 c.c. (69).
In questi casi, dunque, il danneggiato, per il quale – diversamente da co-
me avviene nel caso dell’atleta-contraente, precedentemente considerato –
non vale il principio dell’accettazione del rischio, dovrà provare tutti gli ele-
menti di cui all’art. 2043 c.c. (anche in relazione a tutte le cautele ed obbli-
ghi a carico dell’organizzatore), e chi ha poteri di direzione sull’evento po-
trà essere chiamato a rispondere anche per il fatto dei propri preposti ed au-
siliari, ai sensi dell’art. 2049 c.c. (70).
Si ritiene che lo spettatore pagante danneggiato possa scegliere l’azione
contrattuale o quella extracontrattuale, la prima delle quali comporterà un
onere probatorio più semplice ed un più lungo termine di prescrizione,
mentre la seconda, seppure più gravosa sotto il profilo dell’onere probato-
rio e più limitata quanto al termine prescrizionale, consentirà invece il ri-

(69) Conrado, Ordinamento giuridico sportivo e responsabilità dell’organizzatore di una


manifestazione sportiva, cit., p. 12.
(70) Siano essi dipendenti dell’organizzatore – quindi anche gli atleti in forza del rapporto
di lavoro subordinato come da legge del 1981 n. 91 – o comunque soggetti alla direzione del-
lo stesso od a qualsiasi titolo inseriti nella sua organizzazione e sotto la sua vigilanza, ivi com-
presi eventuali collaboratori a titolo gratuito. Con particolare riguardo agli istruttori, si richia-
ma, al riguardo, il caso deciso da Trib. Genova, 4.5.2000, cit., relativamente ad una scuola di
karate, nell’ambito della quale, sotto la vigilanza di un istruttore, un’allieva aveva riportato le-
sioni; la pronuncia ha affermato la responsabilità vicaria ex art. 2049 c.c. della scuola, in virtù
di una presunzione assoluta di culpa in eligendo vel in vigilando, operante a condizione che il
preposto abbia commesso un illecito completo in tutti i suoi elementi, soggettivo ed oggetti-
vo. In una fattispecie analoga, in cui era stata peraltro invocata la responsabilità contrattuale
di una scuola di sci nell’ambito di lezioni impartite da un maestro dipendente della stessa, si
è affermato che “deve escludersi la responsabilità contrattuale di una scuola di sci per le le-
sioni che un allievo subisca nel corso di una lezione ad opera di terzi che lo investa su una pi-
sta aperta a tutti ove il maestro del quale la scuola si avvale, si trovi nella materiale impossibi-
lità di evitare l’evento dannoso e nel suo comportamento esulino profili di colpa”: Cass.,
25.5.2000, n. 6866, in Giust. civ. Mass., 2000. Si veda inoltre la risalente Cass., 10.7.1968, n.
2414, in Resp. civ. prev., 1969, p. 335, che ha riconosciuto la responsabilità dell’organizzatore
per i danni arrecati ad un partecipante ad un gara di tiro al piattello, rimasto ferito in seguito
allo scoppio di una munizione, mentre l’armarolo la inseriva nel fucile, senza preoccuparsi di
verificare previamente la sussistenza dei difetti meccanici denunciati dal concorrente; infine,
si richiama altresì Cass., 6.3.1998, n. 2486, in Giur. it., 1999, p. 265, con nota di Piccirilli, la
quale ha affermato che “sussiste la responsabilità dell’organizzatore della gara per avere l’i-
struttore omesso di predisporre le cautele necessarie ad evitare le lesioni personali riportate
da un minore ad opera di un compagno di squadra durante l’attività sportiva svoltasi sotto la
sua sorveglianza”.
176 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

sarcimento anche dei danni non prevedibili (71); al riguardo, si ammette al-
tresì la possibilità del cumulo fra le due azioni (72).
La tematica della responsabilità extracontrattuale dell’organizzatore in-
troduce l’ulteriore aspetto dell’eventuale pericolosità della manifestazione
sportiva da organizzare, con possibile applicazione dell’art. 2050 c.c. (73).

(71) Su tale profilo si v. Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 122, ove si evidenzia la mag-
giore elasticità dell’azione extracontrattuale sotto il profilo delle voci di danno risarcibili. Sui
riflessi concreti della distinzione fra danni prevedibili e non prevedibili nell’ambito sportivo, si
veda Liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit., p. 146 ss., nonché Lepore,
La responsabilità nell’esercizio e nell’organizzazione delle attività sportive, cit., pp. 279-280.
(72) In tal senso, con riferimento all’organizzazione di un incontro di calcio professioni-
stico, Trib. Milano, 21.9.1998, n. 10037, in Riv. dir. sport., 1999, p. 556, nonché in Danno e resp.,
1999, p. 234, per il quale “sussiste responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dell’orga-
nizzatore di un incontro di calcio professionistico per i danni subiti da uno spettatore colpito
da oggetti lanciati da parte di altri tifosi in quanto l’attività di gestione di uno stadio di calcio
costituisce attività pericolosa in relazione alla sua stessa natura e per le caratteristiche dei
mezzi adoperati”. Si veda altresì Di Ciommo-Viti, La responsabilità civile, cit., 291, alla cui
stregua, per quanto riguarda i danni subiti dagli sportivi “potrebbero concorrere due diversi
titoli di imputazione, rappresentati dalla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale,
chiamati in causa o meno, a seconda che al danneggiato facciano capo diverse situazioni pro-
tette”; nonché Bertini, La responsabilità civile, cit. p. 131 ss., che sul punto riporta la decisio-
ne di Trib. Roma, 31.12.1952, in Temi romana, 1954, p. 211, la quale afferma, in presenza di
danni sofferti dagli spettatori, la possibilità di cumulo della responsabilità contrattuale e di
quella extracontrattuale. Gli aa. menzionati richiamano peraltro, più in generale, sul tema del
cumulo fra i due titoli di responsabilità, quanto affermato da Cass., 6.3.1995, n. 2577, in Giu-
st. civ. Mass., 1995, secondo la quale, “è ipotizzabile il concorso tra responsabilità contrattua-
le e responsabilità extracontrattuale non solo quando lo stesso fatto è imputabile a più autori,
a diversi titoli, ma anche quando in capo ad una stessa persona danneggiata sussiste una mol-
teplicità di situazioni protette, in relazione sia ad un precedente obbligo relativo, sia a divieti
generali ed assoluti. Tali sono, per loro natura, quelli che tutelano gli interessi considerati dai
delitti previsti dal codice penale, rispetto ai quali la tutela civilistica assegnata alle vittime co-
stituisce il riflesso patrimoniale della violazione di un divieto più ampio, che prescinde dall’e-
sistenza di obblighi di origine contrattuale ed attiene, invece, al diritto assoluto del soggetto
di non subire pregiudizio ai diritti personalissimi, o quello di proprietà, di cui è titolare. (Nel-
la specie, la S.C., enunciando il principio di diritto di cui alla massima, ha confermato la sen-
tenza del giudice di merito, il quale – rilevato che la tutela civile del diritto derivante da una
scrittura contrattuale era stata promossa con la costituzione nel procedimento penale e poi
proseguita nell’unica sede disponibile dopo l’estinzione di quel procedimento – aveva fatto
cenno al principio dell’unicità della giurisdizione per sostenere l’opportunità di far salve le ac-
quisizioni del giudice penale e, nel determinare le quantità di danno spettante all’attore, ave-
va fatto applicazione delle norme che provvedono al danno extracontrattuale)”. Così, in pre-
cedenza, anche Cass., 7.8.1982, n. 4337, in Resp. civ. prev., 1984, p. 78, anch’essa richiamata, al
riguardo, da Grassani, in nota a Trib. Vigevano, 9.1.2006, n. 426, ne La responsabilità risarci-
toria, cit., p. 23 ss.
(73) Per una fattispecie particolare si veda, al riguardo, Trib. Firenze, 15.12.1989, in Riv.
SAGGI 177

Quanto alla accezione di “pericolosità” dell’evento da organizzare, la


stessa, in prima approssimazione, viene individuata comunemente in una
potenzialità lesiva di grado superiore al normale, che si estrinseca nel pro-
dursi di un elevato numero di eventi lesivi e/o nella elevata gravità degli
eventi lesivi provocati (74). Di tal che, la stessa comporta l’applicazione del-
l’art. 2050 c.c., alla cui stregua “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgi-
mento di un’attività pericolosa, per sua natura (es. gara di automobilismo) o
per la natura dei mezzi adoperati (es. tiro con l’arco), è tenuto al risarcimento,
se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”.
Nello specifico, le caratteristiche di pericolosità dell’evento da organiz-
zare sono state ricondotte essenzialmente a due indici di riconoscibilità,
quali: a) la previsione legislativa di particolari misure di sicurezza relativa-
mente alla singola disciplina o competizione sportiva; b) la sottoposizione
della stessa alla potestà autorizzativa della pubblica amministrazione.
L’art. 2050 c.c. viene infatti comunemente ritenuto norma a “struttura
aperta”, dal momento che vengono considerate attività pericolose, non so-
lo quelle che sono qualificate come tali dalle leggi di pubblica sicurezza o da
altre normative speciali, ma anche quelle che, per la loro stessa natura o per
le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino una rilevante possibilità
del verificarsi di un danno, per la loro spiccata potenzialità offensiva (75).
Si rileva inoltre, al riguardo, che anche “le circostanze in cui l’attività è

dir. sport., 1991, p. 95, la quale, pronunciandosi in merito ad incidenti occorsi durante una par-
tita di calcio in costume, ha affermato che “la disciplina della responsabilità di cui all’art. 2050
c.c. non si applica al calcio in costume dato che non può ritenersi che tale attività sportiva sia
di per sé pericolosa. Pertanto, se alla partita si sovrappone una rissa, questa resta concettual-
mente e giuridicamente distinta dalla manifestazione ufficiale e non è quindi ipotizzabile la
responsabilità oggettiva per le conseguenze dannose dell’incidente del comitato di gestione
della manifestazione”. Più in generale, sempre con riguardo al calcio, si veda la Cass.,
19.1.2007, n. 1197, in Diritto dello sport, 2007, p. 663, che, nel decidere una fattispecie in cui un
minore, durante l’ora di educazione fisica a scuola, nel giocare a calcio era scivolato sul pallo-
ne e si era procurato la frattura di un avambraccio, ha affermato che “deve escludersi che al-
l’attività sportiva riferita al gioco del calcio possa essere riconosciuto il carattere di attività pe-
ricolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., trattandosi di disciplina che privilegia l’aspetto ludico, tan-
to che è praticata normalmente nelle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non pro-
grammatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico, tale da esclude-
re ogni riferibilità alla prescrizione dell’art. 2050 c.c.”. Sul tema, si vedano inoltre i cenni di
Ponzanelli, Responsabilità civile e attività sportiva, in Danno e resp., 2009, p. 603, che alla no-
ta n. 3 richiama talune decisioni che hanno ricondotto all’ambito di applicazione dell’art. 2050
c.c. l’attività dell’organizzatore di eventi sportivi.
(74) Bona, Castelnuovo, Monateri, La responsabilità civile nello sport, cit., p. 34 ss.
(75) Sul punto, fra gli altri, Franzoni, La responsabilità civile nell’esercizio di attività spor-
tive, in Resp. civ., 2009, p. 922 ss.
178 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

esercitata possono influire in maniera decisiva sulla pericolosità” (76). In linea


con tale principio, si è altresì affermato che “è considerato esercente attività
pericolosa anche chi organizza, dirige ed appresta i mezzi necessari per consen-
tire lo svolgimento dell’altrui attività pericolosa” (77).
Ed ancora, in merito all’eventuale responsabilità dell’organizzatore a
cagione della pericolosità dell’evento da organizzare, si è affermato che lo
stesso è responsabile soltanto della propria attività, mentre non risponde
per quella parte di attività organizzativa che abbia “commissionato ad altri
in base ad un rapporto che non determini un vincolo di subordinazione fra
committente ed esecutore” (78).
Come noto, la previsione della possibile imputazione oggettiva della re-
sponsabilità civile è conseguenza delle caratteristiche organizzative della
società moderna, in cui, specie nell’ambito delle attività imprenditoriali e
delle cd. attività “rischiose”, si preferisce utilizzare criteri di attribuzione

(76) Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che richiama in tal senso, alla nota
13, numerose decisioni riferite al ciclismo, al motociclismo, all’automobilismo ed all’equita-
zione, mentre dà atto dell’orientamento non univoco della giurisprudenza in merito all’atti-
vità sciistica, che non configurerebbe infatti di per sé attività pericolosa ove resti “semplice
modo di trasferimento”, mentre lo diventerebbe ove esercitata “per scopi agonistici”. L’a. af-
ferma lo stesso principio anche con riguardo al calcio, rilevando come lo stesso configuri atti-
vità pericolosa quando si tratti di incontro professionistico – e richiama in tal senso, alla nota
14, Trib. Torino, 8.11.2004, in Giur. it., 2005, p. 720, con nota di Visintini (che si commenterà
infra più ampiamente) – osservando che invece “di tutt’altro tenore sarebbe stata la decisione
se la partita si fosse svolta nel campo di calcio della parrocchia di un piccolo paese di monta-
gna”. Per la negazione del carattere pericoloso dell’attività di organizzazione di una corsa ci-
clistica, si v. Trib. Brescia, 5.3.1970, in Riv. dir. sport., 1970, p. 251, che, in relazione alla re-
sponsabilità gravante sugli organizzatori di una corsa ciclistica, distingue fra gare a circuito
chiuso e gare a circuito aperto, riferendo unicamente alle prime un obbligo di ispezione della
strada in capo agli organizzatori allo scopo di verificare se vi siano eventuali insidie che po-
trebbero essere causa di cadute dei partecipanti, mentre nelle seconde, poiché sul percorso
circolano anche altri veicoli con l’obbligo per i partecipanti di osservare le regole del codice
stradale, non vi sarebbe alcun dovere di preventiva ispezione, essendo obbligo della P.A.
mantenere in efficienza le strade aperte al traffico. In relazione ad una gara ciclistica organiz-
zata su circuito aperto, si v. anche Trib. Milano, 10.3.2003, in Giur. merito, 2003, p. 2184, che ha
affermato la responsabilità degli organizzatori (in concorso con quella dell’automobilista) per
le lesioni occorse ad un corridore finito contro una macchina parcheggiata nella zona del tra-
guardo, che non era stata precauzionalmente transennata, così consentendo al guidatore di
transitare sotto lo striscione di arrivo e di sostare sulla dirittura finale del percorso di gara nel-
l’imminenza dell’arrivo dei partecipanti.
(77) Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che cita sul punto, alle note 15 e 16,
numerose pronunce di merito.
(78) Nuovamente Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che alle note 17-20 ri-
chiama le numerose decisioni che hanno fatto applicazione di tale principio.
SAGGI 179

della responsabilità che non richiedano analisi complesse (come in partico-


lare quella sulla colpevolezza), e che rendano individuabile a priori il sog-
getto che deve essere tenuto al risarcimento.
Alla stregua di ciò, la giurisprudenza, che pure originariamente era del-
l’avviso che l’organizzazione di eventi sportivi non dovesse rientrare nel no-
vero delle attività pericolose, in quanto attività di natura neutra (79), ha tut-
tavia di volta in volta qualificato come pericolosa l’organizzazione di speci-
fici eventi sportivi, quali, a titolo esemplificativo:
– quelli relativi a sport che utilizzano mezzi a motore, come l’automobili-
smo ed il motociclismo (80);
– gli eventi relativi a sport che comportano ad ogni manifestazione lo spo-
stamento di decine di migliaia di spettatori e causano perciò notevoli
problemi di ordine pubblico, come il calcio professionistico (81);
– l’organizzazione di una competizione sciistica (82);
– l’organizzazione di un’autogimkana (83);
– l’organizzazione di una gara internazionale di canoa kajak (84);

(79) Si veda, al riguardo, la rassegna di Trib. Milano, 18.7.1963, in Riv. dir. sport., 1963, p.
378.
(80) App. Milano, 2.6.1981, in Riv. dir. sport., 1983, p. 411, relativa ad una gara automobili-
stica, ove si rinviene l’ulteriore precisazione secondo cui l’appalto a terzi del servizio antin-
cendio, la cui inefficienza abbia cagionato il danno, non esclude di per sé la responsabilità ver-
so i danneggiati dell’organizzatore della gara, istituzionalmente obbligato ad assicurare il ser-
vizio stesso, ove manchi la dimostrazione che, da parte sua, sono state adottate tutte le misu-
re idonee ad evitare il danno; Cass., 24.1.2000, n. 749, in Foro it., 2000, I, c. 2861, che ha affer-
mato il principio per cui “la organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al traf-
fico (anche se di regolarità) è un’attività alla quale è applicabile l’art. 2050 c.c.”.
(81) Fra le altre, Trib. Milano, 21.9.1998, n. 10037, cit. . Alla tematica è peraltro dedicato il
successivo paragrafo 4, cui si rinvia.
(82) Cass., 15 luglio 2005, n. 15040, in Giust. civ. Mass., 2005, che, pur affermando che, in
linea di principio, la pratica agonistica dello sci e, correlativamente, anche l’attività di orga-
nizzazione di una competizione sciistica presenta carattere pericoloso, ha tuttavia ritenuto
appagante sotto il profilo della motivazione la decisione del giudice d’appello, che aveva
escluso la ricorrenza del carattere della pericolosità nell’attività concretamente esercitata nel-
la specie, trattandosi di gara svoltasi su pista larga, con andamento rettilineo, con un normale
muretto di neve ai lati, nel corso della quale nessun altro atleta era caduto. Il carattere perico-
loso dell’attività di organizzazione di una gara sciistica è stato escluso anche da Cass., 28 feb-
braio 2000, n. 2220, cit., che ha tuttavia rimesso al giudice di rinvio il compito di valutare se
nella specie vi fosse stata una qualche condotta colposa, rilevante ex art. 2043 c.c., sia da parte
della F.I.S.I., che da parte dall’arbitro nell’aver organizzato e nell’aver fatto disputare una ga-
ra di discesa libera con atleti minorenni su una pista a tratti ghiacciata.
(83) Trib. Verona, 13.7.1990, cit., che viene richiamata, a tal proposito, da franzoni, La re-
sponsabilità civile, cit., p. 922 ss.
(84) Cass., 30.1.2009, n. 2493, in Giust. civ. Mass., 2009, che ha tuttavia confermato la deci-
180 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

– l’organizzazione di corsi di alpinismo per principianti (85).


L’onere della prova, in caso di attività organizzativa di eventi sportivi ri-
tenuta “pericolosa” sarà a carico dell’organizzatore ed avrà ad oggetto l’aver
adottato, non solo tutte le misure di sicurezza imposte dalla legislazione in
materia e dalla federazione di competenza del singolo sport, ma anche tut-
te le misure dettate dal progresso tecnologico che siano in concreto idonee
a neutralizzare la pericolosità dell’evento; e comunque, a prescindere dalla
pericolosità o meno dell’attività sportiva o dell’evento organizzato, l’orga-
nizzatore potrà verosimilmente essere chiamato a rispondere, ogniqualvol-
ta sia accertata una sia pure minima prevedibilità dell’evento dannoso. Di
tal che, sarà necessaria in capo all’organizzatore la perfetta conoscenza, non
soltanto delle normative generali e di settore, ma anche delle specifiche ca-
ratteristiche dell’attività organizzata, oltre che la predisposizione di adegua-
te coperture assicurative (86).
In sintesi, si può così affermare, in linea di principio, che:
– sussiste la responsabilità dell’organizzatore verso gli atleti e verso gli
spettatori, se un evento dannoso derivi da scelte improprie dei luoghi,
da inadeguatezza di impianti, strumenti od attrezzature, da inesperien-
za di atleti nota o conoscibile da parte dell’organizzatore;
– sussiste la responsabilità dell’organizzatore se un evento dannoso sia ri-
conducibile alla condotta di un suo preposto, esclusi gli ufficiali di gara
federali;
– non sussiste la responsabilità dell’organizzatore se un evento dannoso
consegua al mancato intervento delle forze dell’ordine, presenti in cam-
po, che abbiano omesso di intervenire;
– non sussiste la responsabilità dell’organizzatore ogniqualvolta un even-
to dannoso sia esclusiva conseguenza del comportamento imprudente
di un atleta o di uno spettatore, che spezzi il nesso causale fra l’attività
organizzativa e la lesione arrecata (87).

sione di merito che aveva nella specie escluso la responsabilità dell’organizzatore per aver ri-
tenuto da questi provato il caso fortuito; la pronunzia ha altresì confermato l’assunto circa la
pericolosità, di per sé, dello sport della canoa kajak.
(85) Trib. Milano, 21.11.2002, in Giur. milanese, 2003, p. 80.
(86) Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 123.
(87) Si veda tuttavia il caso del lancio del fumogeno nella partita Juventus-Roma, deciso
da Trib. Torino, 8.11.2004, cit., anche in Giur. merito, 2006, p. 90, con nota di Rocchio, nonché
in Danno e resp., 2006, p. 767, con nota di Maietta, decisione che ha affermato la responsabi-
lità dell’organizzatore – Juventus, per non avere fornito la prova liberatoria richiesta dall’art.
2050 c.c., “la cui « ratio » è proprio […] quella di contemperare gli interessi (economici) del
soggetto che esercita una determinata attività pericolosa con l’interesse preminente della tu-
tela dell’incolumità delle persone e delle cose tramite la voluta scelta di porre il rischio dei
danni derivanti da tale attività su coloro che ne traggono lucro”.
SAGGI 181

Ci si interroga, infine, in merito alla validità delle clausole di esonero


della responsabilità dell’organizzatore, dei suoi collaboratori o ausiliari, che
trovano previsione in alcuni regolamenti e che vengono fatte sottoscrivere
ad atleti, spettatori ed altri soggetti coinvolti nell’evento sportivo.
Tali clausole non sembrano avere efficacia per ipotesi ulteriori rispetto a
quella della responsabilità per colpa lieve, ai sensi dell’art. 1229 c.c. (88), e
pongono comunque il problema del loro possibile inquadramento nell’am-
bito di applicabilità dell’art. 1341, 2° comma, c.c., qualora siano contenute
sui biglietti di ingresso alle partite, nonché della loro eventuale vessatorietà
alla stregua delle previsioni del “Codice del consumo” (89), poiché infatti
dette pattuizioni contengono limitazioni di responsabilità a favore di un
soggetto, appunto l’organizzatore, per lo più qualificabile come “professio-
nista” (90).

4. – Quanto alle società di calcio, ed alla loro responsabilità per i danni


occorsi agli atleti oppure a soggetti estranei alla competizione, occorre sot-
tolineare che, come sopra si è accennato, la giurisprudenza, a partire dagli
anni Sessanta e fino agli anni Novanta, riteneva che l’organizzazione di
eventi sportivi non dovesse qualificarsi come attività pericolosa, in quanto
di natura neutra (91).
L’assunto veniva in particolare affermato con riferimento alla responsa-
bilità delle società di calcio per incontri professionistici, e più in generale
per gli sport a violenza eventuale, di per sé ritenuti non pericolosi.
Tuttavia, nel corso degli anni, la giurisprudenza si è evoluta nel senso di

(88) In tal senso, Bertini, La responsabilità sportiva, cit., p. 137, nonché, con specifico ri-
guardo alle clausole limitative della responsabilità dell’organizzatore in relazione ai danni
provocati agli atleti, Campione, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., p. 362 e Lepore,
Responsabilità civile e tutela della “persona-atleta”, cit., p. 264 ss., il quale esprime perplessità
sulle clausole di esonero anche alla luce del fatto che esse hanno ad oggetto la responsabilità
derivante dalla lesione di un diritto indisponibile e avente rilievo costituzionale, quale quello
alla salute di un individuo, ma conclude nel senso che queste siano valide ove riguardino le-
sioni di minima entità funzionali all’attività sportiva praticata.
(89) Di cui al d.lgs. 6.9.2005, n. 206, spec. artt. 33 e ss.
(90) Con particolare riferimento alle clausole di esonero della responsabilità predisposte
dalla F.I.S.I., si v. Trib. Roma, 15.9.2000, in I contratti, 2002, p. 254, con nota critica di Cara-
mico D’Auria, che, per contro, ha escluso che potessero trovare applicazione gli allora vi-
genti artt. 1469 bis e ss., c.c., fra la Federazione sportiva e i suoi iscritti, “essendosi in presenza
di un tipico rapporto associativo volto al perseguimento di uno scopo comune”; se ne è per-
tanto fatta discendere la conseguenza che “l’atleta tesserato non può considerarsi come consu-
matore così come la Federazione convenuta non può qualificarsi come professionista”.
(91) Si veda, al riguardo, la superiore nota 79 e la rassegna di decisioni operata dalla ivi ri-
chiamata Trib. Milano, 18.7.1963.
182 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ricomprendere l’organizzazione di una partita di calcio professionistico fra


le attività pericolose.
Ed infatti, inizialmente, il Tribunale di Milano non aveva accolto la do-
manda di risarcimento dei danni formulata nei confronti del Milan da parte
di un tifoso, che era stato colpito da un petardo nel corso della partita Milan-
Fiorentina (92). Nello stesso senso, diversi anni più tardi, lo stesso Tribuna-
le di Milano, trovandosi a giudicare sulla domanda risarcitoria avanzata da
un tifoso aggredito fuori dallo stadio da soggetti dell’opposta tifoseria, ri-
masti in parte non identificati, arrivò a sostenere che i comportamenti vio-
lenti dei tifosi, se pure astrattamente prevedibili, non avrebbero potuto es-
sere contrastati con efficacia nemmeno affidando un vigilante ad ogni spet-
tatore (93).
La prima corte ad affermare la responsabilità per esercizio di attività pe-
ricolosa della società che aveva organizzato l’evento calcistico, fu il Tribu-
nale di Ascoli Piceno, il quale, relativamente ai danni provocati in seguito
ad un incendio sviluppatosi per la presenza di una grande quantità di mate-
riale infiammabile abusivamente introdotto nello stadio, rilevò che all’or-
ganizzazione della competizione - spettacolo calcistico si accompagnano
ordinariamente pericoli per la pubblica incolumità (94).
Ed infine, anche il Tribunale di Milano arrivò a ricomprendere nell’al-
veo di cui all’art. 2050 c.c. l’organizzazione di un evento sportivo calcistico,
quando condannò la società organizzatrice a risarcire i danni subiti da un
tifoso colpito all’occhio da un oggetto lanciato dentro allo stadio (95).
La delineata evoluzione giurisprudenziale è stata giustificata sul rilievo
della sempre maggiore popolarità dello sport calcistico professionistico, che
infatti coinvolge oggigiorno decine di migliaia di spettatori “diretti”, e nella

(92) Trib. Milano, 19.10.1972, in Riv. dir. sport., 1973, p. 81.


(93) Trib. Milano, 21.3.1988, cit., e la successiva App. Milano, 30.3.1990, in Riv. dir. sport.,
1990, p. 495.
(94) Trib. Ascoli Piceno, 13.5.1989, in Riv. dir. sport., 1989, p. 496, con nota di Manfredi.
La decisione è stata confermata da App. Ancona, 18.6.1990, in Società, 1990, p. 1625, ove si af-
ferma che “Nel caso in cui si verifichi, in occasione di una partita di calcio, la morte di alcuni
spettatori per un incendio sviluppatosi all’interno dello stadio a seguito dell’accensione di fu-
mogeni e di materiale cartaceo, il presidente della società di calcio è penalmente e civilmente
responsabile di tali fatti se non dimostra di avere predisposto una rigorosa, specifica e pun-
tuale divisione di mansioni e di avere delegato la vigilanza ed il controllo sugli impianti spor-
tivi a persone idonee a svolgere detti compiti”. Sulla stessa linea della pronuncia del giudice
marchigiano si è espressamente posto, di recente, Trib. Bari, 11.10.2007, n. 2301, per esteso in
DeJure.
(95) Trib. Milano, 21.9.1998, n. 10037, cit. Sul punto, si veda altresì la rassegna di casi ope-
rata da Bertini, La responsabilità civile, cit., p. 39.
SAGGI 183

organizzazione dei quali eventi sportivi si possono in effetti riscontrare tut-


ti gli indici di pericolosità richiamati al precedente paragrafo, fra i quali, in
primo luogo, la riscontrata – dal punto di vista statistico – attitudine a dare
luogo a numerosi episodi lesivi ovvero ad episodi lesivi molto gravi.
Proprio in ragione di tali caratteristiche, inoltre, nella organizzazione
degli incontri di calcio professionistico si rinvengono altresì gli ulteriori in-
dici di pericolosità visti sopra, quali la sussistenza di una normativa molto
articolata, volta a prevenire sinistri ed infortuni, nonché la previsione del-
l’obbligo di ottenere specifiche autorizzazioni da parte dell’autorità ammi-
nistrativa.
Si è infatti, al riguardo, preso atto del fenomeno della violenza negli sta-
di, e si è quindi considerata pericolosa l’organizzazione di competizioni cal-
cistiche di livello professionistico, di tal che, è stata emanata la l. 13.12.1989,
n. 401 (“Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela
della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive”), poi modifica-
ta dal d.l. 22.12.1994, n. 717 (“Misure urgenti per prevenire fenomeni di violen-
za in occasione di competizioni agonistiche”), convertito con modificazioni
nella l. 24.2.1995, n. 45; il d.l. 20.8.2001, n. 336 (“Disposizioni urgenti per con-
trastare i fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive”), con-
vertito con modificazioni nella l. 19.10.2001, n. 377; il d.l. 24.2.2003, n. 28
(“Disposizioni urgenti per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di
competizioni sportive”), convertito con modificazioni nella l. 24.4.2003, n.
88; il d.l. 17.8.2005, n. 162 (“Ulteriori misure per contrastare i fenomeni di vio-
lenza in occasione di competizioni sportive”), convertito nella l. 17.10.2005, n.
210, e, infine, a seguito dell’uccisione dell’agente Raciti al termine della par-
tita Catania-Palermo, il d.l. 8.2.2007, n. 8, convertito nella l. 4.4.2007, n. 41
(“Misure urgenti per la prevenzione e la repressione di fenomeni di violenza
connessi a competizioni calcistiche, nonché norme a sostegno della diffusione
dello sport e della partecipazione gratuita dei minori alle manifestazioni spor-
tive”).
Più in particolare, l’attività di gestione di uno stadio è stata espressa-
mente definita attività pericolosa, ex art. 2050 c.c., dalla disciplina di cui al
d.m. 25.8.1989, contenente “Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio
degli impianti sportivi”, ed è stata in tal modo inquadrata dalla giurispruden-
za, a causa dei frequenti incidenti, spesso mortali, che avvengono durante
ogni stagione sportiva.
In tal senso, si è infatti affermato (96) che “L’organizzazione di una mani-
festazione sportiva di livello professionistico deve essere ricondotta al concetto
di attività pericolosa […] in quanto considerata tale da espresse norme di leg-

(96) Trib. Milano, 21.9.1998, n. 10037, cit.


184 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

ge (D.M. 25.8.1989 […]) il cui contenuto è tutto informato dalla consapevolez-


za sull’estrema pericolosità delle manifestazioni agonistiche, in quanto ogget-
tivamente pericolose”.
Anche in dottrina ci si è posti a favore di questa impostazione, ritenen-
do che l’art. 2050 c.c. si applichi al gestore dello stadio di calcio, sul presup-
posto che le intemperanze dei tifosi negli stadi rappresentano un rischio
creato – anche se involontariamente – dall’attività di organizzazione di in-
contri calcistici; rischio che in quelle sedi si connota per una potenzialità
dannosa elevatissima, attesa la concentrazione negli stadi di migliaia di per-
sone (97).
Si è quindi affermata la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale
dell’organizzatore della manifestazione calcistica.
A tal riguardo, la casistica rinvenuta in giurisprudenza si può raggruppa-
re nei seguenti profili di responsabilità: a) danni occorsi agli atleti; b) danni
provocati a spettatori e tifosi.
Con riferimento ai danni subiti dagli atleti, appare opportuno richiamare
un caso in cui si è affermata la responsabilità contrattuale della società di cal-
cio in forza dell’art. 2087 c.c. (98); disposizione che si riempie di contenuto, al-
la stregua del combinato normativo della l. n. 91 del 1981 e del d.m. 13.4.1995,
che dispongono in tema di controlli sulla salute psico-fisica degli atleti da par-
te delle società sportive.
La norma, in particolare, è stata applicata nel caso di un calciatore pro-
fessionista (99), il quale, nel corso della propria attività sportiva, aveva subi-
to due fratture al metatarso del piede destro, a seguito delle quali era stato
operato di osteosintesi con inserimento di una vite metallica, che poi non
era stata rimossa completamente per un errore. L’atleta era stato poi visita-
to da un medico dell’Istituto di Medicina dello Sport di Torino, che aveva
dichiarato l’idoneità del calciatore, il quale poi, nel corso di un allenamen-
to, aveva riportato una terza frattura dalla quale era derivata la totale inabi-
lità al gioco del calcio e una inabilità permanente del 12%.
La Suprema Corte ha affermato la responsabilità della società di calcio,
ex art. 2087 c.c., in quanto la stessa aveva omesso di comunicare al centro
medico sportivo la storia sanitaria dell’atleta ed aveva altresì omesso propri
controlli sul calciatore.

(97) Fra gli altri, Franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che alla nota 16 richia-
ma anche giurisprudenza di merito in tal senso; nonché Sferrazza, La responsabilità ogget-
tiva delle società di calcio, in Resp. civ. prev., 2008, p. 2154 ss., spec. par. 5.
(98) L’art. 2087 c.c. è infatti considerato norma portante del sistema, in materia di sicurez-
za sul lavoro.
(99) Cass., 8.1.2003, n. 85, in Resp. civ. prev., 2003, p. 765, con nota di Gherardi.
SAGGI 185

Si tratta di una pronuncia, che, a ben guardare, si è espressa in merito al-


l’applicabilità della richiamata disposizione codicistica alla società di calcio
onde fondare la responsabilità della stessa per il grave infortunio occorso al
proprio giocatore, semplicemente in forza della sua qualità di datrice di la-
voro e non già anche in qualità di organizzatrice di una particolare gara; pe-
raltro, ove si fosse trattato di un infortunio verificatosi nel corso di una par-
tita organizzata da detta società, parimenti questa avrebbe potuto essere
chiamata a rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. dal giocatore che, nella spe-
cie, non fosse stato adeguatamente tutelato nella propria integrità fisica.
Dalla natura contrattuale della responsabilità di cui al 2087 c.c. derivano
rilevanti conseguenze in merito alla ripartizione dell’onere della prova, che,
una volta dimostrato dall’atleta il verificarsi dell’infortunio nel corso dello
svolgimento del rapporto lavorativo, sarà a carico del datore di lavoro, il
quale, ove voglia esonerarsi, dovrà dimostrare che l’evento dannoso si è ve-
rificato per causa a lui non imputabile e nonostante abbia posto in essere
tutte le misure idonee ad evitare il danno (100).
Nel caso concreto esaminato, inoltre, è stata affermata la responsabilità
della società sportiva anche ex art. 2049 c.c., applicabile in relazione agli il-
leciti commessi dai preposti, quale – nella specie – il medico sportivo della
società stessa.
In una diversa fattispecie venuta alla ribalta delle cronache, un orienta-
mento dottrinale ha invece ritenuto applicabile l’art. 2050 c.c. (101), affer-
mando quindi la responsabilità extracontrattuale della società di calcio nei
confronti dell’atleta, per esercizio di attività pericolosa. Durante la partita di
calcio Messina-Lecce, il calciatore Domenico Giampà (giocatore del Messi-
na Calcio) andò a scontrarsi con un cartellone pubblicitario “rotativo” posi-
zionato a bordo campo, riportando lesioni personali alla coscia sinistra a
causa della recisione del muscolo mediale, e ben 147 punti di sutura.
Al riguardo, il regolamento della F.I.G.C. prevede una distanza di due
metri e mezzo di tali cartelloni dalle linee di demarcazione del campo. Si è
peraltro rilevato che il rispetto di dette prescrizioni non esime la società
sportiva dall’osservanza dei principi generali di cautela e di salvaguardia per
l’incolumità degli atleti, vale a dire che non basta aver rispettato le distanze
stabilite per poter affermare e dimostrare di aver adottato tutte le misure
idonee ad evitare il danno. Di qui, la responsabilità oggettiva ex art. 2050

(100) In tal senso, Gherardi, Responsabilità contrattuale delle società calcistiche a livello
professionistico per infortuni subiti dai calciatori, in nota a Cass., 8.1.2003, n. 85, cit., colloc. cit.,
p. 770.
(101) Maietta, La responsabilità civile delle società di calcio: osservazioni a margine del ca-
so “Giampà”, in Riv. dir. econ. sport, 2005, p. 41 ss.; Idem, Cartelli pubblicitari nello stadio e re-
sponsabilità delle società sportive: il caso Giampà, in Danno e resp., 2005, p. 337 ss.
186 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

c.c., ipotizzata a carico della società sportiva per omessa vigilanza sul cor-
retto posizionamento del supporto pubblicitario – che sembra fosse stato
spostato dopo il controllo degli ufficiali di gara – nonché “per omessa ado-
zione delle misure di sicurezza necessarie a rendere l’insidia del ferro sporgente
del cartello pubblicitario visibile e prevedibile” (102).
Si è ritenuto peraltro che, nel caso esaminato, si sarebbe in linea di prin-
cipio ben potuta prospettare anche una responsabilità ex art. 2051 c.c., per
danni da cose in custodia, atteso che i cartelloni pubblicitari collocati all’in-
terno allo stadio di calcio sono soggetti al continuo monitoraggio del sog-
getto-custode, sul quale ricadono gli obblighi di vigilanza sulla loro inte-
grità o comunque non alterazione o non rimozione da parte di terzi (103).
Per attività di “custodia” si intende infatti “qualsiasi relazione fra la cosa
ed il soggetto, tale per cui si possa ritenere che a quest’ultimo incomba un do-
vere di controllo su di essa” (104); per aversi vera e propria custodia, è quindi
necessario che la cosa custodita, che abbia causato la lesione, si trovi sotto
la diretta sorveglianza e dipendenza assoluta del custode, con esclusione di
qualsiasi altra persona (105).
Il custode delle cose risponde quindi del danno dalle stesse (dinamiche
o statiche) prodotto, a meno che provi il caso fortuito o il fatto del terzo, se
autonomo, imprevedibile ed inevitabile.
Pertanto, poiché nel “caso Giampà” si è ritenuto che non si fosse verifi-
cato un fatto del terzo, od un fattore esterno, tali da interrompere il nesso
causale fra il custode (società sportiva Messina), la cosa e l’evento lesivo, sa-
rebbe stato verosimilmente ipotizzabile, a carico della società di calcio Mes-

(102) Così, Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., p. 46 ss. Critico sul
punto Lepore, Responsabilità civile e tutela della “persona-atleta”, cit., p. 254 ss., ad avviso del
quale, nel caso di specie, sarebbe stato necessario approfondire meglio l’effettivo ruolo gioca-
to dalla società del Messina in merito alla gestione dello stadio e alla predisposizione della
cartellonistica pubblicitaria ivi presente, non essendo sempre detto che chi organizza l’incon-
tro si occupi anche di questo particolare aspetto, circostanza data invece per scontata dalla
dottrina citata; l’a. riferisce anche in merito alla pronuncia emanata dal Tribunale penale di
Messina, in data 28.9.2006, che ha sancito la condanna del legale rappresentante della società
che gestiva la cartellonistica e del tecnico allestitore, a tre mesi di reclusione e venti giorni di
arresto per entrambi e alla liquidazione delle spese sostenute dal giocatore: tale ultima sen-
tenza individua, a suo avviso, il vero responsabile delle lesioni occorse a Giampà, ovvero la
società pubblicitaria e non il Messina calcio. Identiche conclusioni, nel senso dell’applicabi-
lità dell’art. 2050 c.c., potrebbero a maggior ragione ipotizzarsi ove l’atleta leso in dipendenza
della mancata predisposizione di idonee cautele non fosse contrattualmente legato all’orga-
nizzatore.
(103) Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., pp. 48-49.
(104) Per tutti, Alpa, Bessone, Zeno Zencovich, I fatti illeciti, in Trattato di diritto priva-
to, diretto da Rescigno, 14, 2a ed., Torino, 1995, p. 354.
(105) Geri, Responsabilità civile da custodia, in Resp. civ. prev., 1974, p. 169.
SAGGI 187

sina, organizzatrice della gara, un ulteriore titolo di responsabilità, ex art.


2051 c.c. (106).
Si è inoltre rilevato che l’ipotizzata responsabilità, anche ai sensi del-
l’art. 2051 c.c., della società sportiva organizzatrice dell’incontro di calcio,
non precluderebbe alla stessa l’azione di regresso nei confronti del produt-
tore del cartellone, a titolo di responsabilità oggettiva per danno da prodot-
to difettoso, superabile, da parte del produttore stesso, mediante la prova di
aver adottato tutti gli accorgimenti tecnici ed operativi a disposizione del
mercato, per produrre e commercializzare correttamente il prodotto; né
precluderebbe il regresso della società sportiva medesima anche nei con-
fronti della terna arbitrale, sulla quale incombe infatti l’obbligo di verificare
la conformità del cartellone pubblicitario alle norme regolamentari concer-
nenti le attrezzature utilizzate, nonché la conformità del terreno di gioco e
di quanto ad esso pertinenziale (107).
In un’ulteriore fattispecie, in cui una violenta pallonata aveva colpito al
volto un calciatore, che aveva quindi proposto azione nei confronti della so-
cietà di calcio organizzatrice per il risarcimento dei danni subiti, la respon-
sabilità della convenuta è stata negata, in quanto la pallonata è stata consi-
derata rientrare nel rischio consentito dal giocatore, con conseguente ope-
ratività della scriminante sportiva, che infatti giustifica la produzione della
lesione ogniqualvolta la stessa non sia stata provocata con intenzione di le-
dere e sia stata funzionale allo spirito agonistico della specifica disciplina,
oltre che ispirata a razionalità sportiva (108). In ipotesi, si sarebbe potuto con-
figurare la responsabilità della società sportiva, ove l’infortunato avesse di-
mostrato che il danno era stato causato dalle concrete modalità di organiz-
zazione o gestione dell’impianto, dalla mancanza di misure di sicurezza o
dal ritardo nell’intervento dei sanitari.
Quanto al secondo profilo di responsabilità delle società di calcio, sopra
individuato sub b), vale a dire quello relativo ai danni provocati a spettatori
e tifosi, si rinvengono in giurisprudenza, sia decisioni che hanno affermato
la responsabilità della società di calcio a titolo contrattuale, sia pronunzie
che ne hanno invece riconosciuta la responsabilità aquiliana.
Con riguardo al primo orientamento, si è infatti affermato da talune cor-
ti di merito che “l’obbligo di garantire il godimento dello spettacolo assunto
dall’ente organizzatore della partita di calcio con la vendita del biglietto inclu-
de certamente il dovere di adottare tutte le misure idonee ad assicurare l’inco-

(106) Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., p. 49.


(107) Maietta, La responsabilità civile delle società di calcio, cit., p. 49 ss., e autorevole dot-
trina dal medesimo citata. Si veda inoltre, al riguardo, il d.m. 18.3.1996, recante Norme di si-
curezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi.
(108) Trib. Cassino, 18.4.2002, in Giur. romana, 2002, p. 383.
188 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

lumità degli spettatori, anche sulla fase dell’ingresso e dell’uscita dallo sta-
dio” (109). In applicazione di tale principio, le medesime decisioni hanno pe-
raltro in concreto escluso la responsabilità civile della società sportiva per le
lesioni subite da uno spettatore fuori dallo stadio in seguito alle percosse
dei tifosi avversari o procurate da lancio di oggetti contundenti, e a distanza
di tempo dalla conclusione dell’incontro; ciò, in quanto, in presenza di tali
circostanze, i comportamenti dei tifosi, se pure prevedibili, non sarebbero
comunque fronteggiabili.
In sede di appello, si è confermato che “l’obbligo contrattuale di garanti-
re lo spettacolo include anche quello di adottare tutte le misure idonee ad assi-
curare l’incolumità degli spettatori, misura accessoria rispetto a quella princi-
pale di fornire lo spettacolo”, per concludere tuttavia che va esclusa la re-
sponsabilità contrattuale dell’organizzatore della partita di calcio per i dan-
ni riportati da tifosi al termine della partita ed al di fuori dello stadio, atteso
che “esaurito lo spettacolo, gli spettatori che abbiano lasciato il luogo in cui es-
so si è svolto, non possono vantare alcuna pretesa in ordine ad un contratto
esaurito in ogni prestazione da entrambi i contraenti” (110).
Ed ancora, si è addirittura ritenuto (111) che l’obbligo contrattuale di ga-
rantire la sicurezza dello spettatore pagante si tradurrebbe nell’obbligo di
impedire l’introduzione ed il lancio di oggetti nello stadio; sussisterebbe
quindi un obbligo di vigilanza come momento “privatistico” della società di
calcio organizzatrice dell’evento, che sarebbe contrattualmente tenuta an-
che a porre in essere tutte le attività che occasionalmente e temporanea-
mente si configurano come strumentali al mantenimento dell’ordine pub-
blico.
Per contro, ad avviso di una decisione di merito più recente (112), la so-
cietà di calcio non sarebbe contrattualmente tenuta a garantire l’incolumità
degli spettatori, dovere che invece incomberebbe unicamente sulle forze
dell’ordine; sempre secondo la medesima decisione, inoltre, l’organizzato-
re di una partita di calcio non avrebbe neppure l’obbligo extracontrattuale
di salvaguardare l’incolumità degli spettatori dal lancio di oggetti ad opera

(109) Trib. Milano, 21.3.1988, cit.; nonché Trib. Milano, 18.1.1973, cit. Sul punto, si veda
anche Liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit., p. 142.
(110) App. Milano, 30.3.1990, cit. In merito alla richiamata decisione, si veda nuovamente
franzoni, La responsabilità civile, cit., p. 922 ss., che sottolinea come, agli effetti della sussi-
stenza della responsabilità contrattuale dell’organizzatore, sia necessario che “il pregiudizio
lamentato dall’utente sia in rapporto di causalità con l’evento, dunque che il fatto dell’orga-
nizzatore possa essere considerato conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, se-
condo l’art. 1223 c.c.”.
(111) Giud. pace Napoli, 31.12.2003, in Giur. it., 2004, I, 2, c. 2324, con nota di Lucarelli.
(112) Trib. Perugia, 15.7.2005, in Resp. civ. prev., 2006, p. 1297, con nota di Zuddas.
SAGGI 189

di terzi, dal momento che il fatto del terzo escluderebbe il nesso causale e
considerato che l’organizzazione di una partita di calcio professionistico
non costituirebbe attività pericolosa, di tal che, secondo il principio genera-
le di cui all’art. 2043 c.c., andrebbe provato dal danneggiato l’elemento sog-
gettivo del fatto illecito (113).
Con riguardo all’orientamento giurisprudenziale che ha riconosciuto la
responsabilità extracontrattuale della società di calcio per danni arrecati ai
terzi, quali spettatori e tifosi, lo stesso ha fatto leva, di volta in volta, sulla re-
sponsabilità generale di cui al precetto del neminem laedere, ex art. 2043 c.c.,
e sulle responsabilità speciali di cui agli artt. 2049 e 2050 c.c.
Ed infatti, nel caso degli incontri di calcio professionistici, l’esigenza di
oggettivizzare la responsabilità per eventi dannosi occorsi durante le partite
riposa, da un lato, nella difficoltà di individuare un responsabile del com-
portamento dannoso (114), e, dall’altro, nell’esigenza di apprestare al dan-
neggiato una più veloce ed efficace azione risarcitoria (favor victimae) (115).
Si osserva, inoltre, che la frequenza con la quale in certi contesti si veri-
ficano eventi dannosi, ovvero la gravità degli stessi, rende qualificabile co-
me pericolosa l’attività di chi organizza una competizione sportiva, cosic-
ché si deve necessariamente richiamare l’art. 2050 c.c. con riferimento agli
incontri di calcio professionistico, circa il quale si constata, infatti, che lo
stesso, pur consistendo nel gioco intorno al pallone, si sviluppa e si amplifi-
ca tuttavia ben oltre tale ambito, come dimostra il crescendo di violenze ne-
gli stadi, nonché negli spazi immediatamente adiacenti.
Infine, la tendenza ad “oggettivizzare” la responsabilità delle società
sportive, in caso di eventi professionistici, si giustifica preminentemente sul
rilievo che lo sport, ed in particolare taluni sport, come il calcio, sono sempre
più da riguardare come business, in ragione dei molteplici interessi econo-
mici che vi ruotano attorno (pubblicità, sponsorizzazioni, diritti radiotelevi-
sivi, eventi promozionali . . .), cosicché ben si comprende l’esigenza di appli-
care il principio “cuius commoda eius et incommoda”, con conseguente re-
sponsabilità oggettiva della società sportiva per i danni arrecati ai terzi, co-
me, ad esempio, nel caso del lancio di fumogeno (116), ed agli atleti, come nel
caso, sopra esaminato, delle lesioni subite dal calciatore Domenico Giampà
del Messina calcio (117).

(113) Nella specie ritenuto insussistente: nel caso di cui trattasi, infatti, uno spettatore,
mentre era in fila per accedere alle gradinate, era stato colpito all’occhio sinistro da un ogget-
to lanciato da alcuni tifosi all’interno dello stadio.
(114) Ad esempio, nel caso del lancio di oggetti in campo dagli spalti: al riguardo, si richia-
ma nuovamente Trib. Torino, 8.11.2004, cit., che ha deciso in merito al lancio di un petardo.
(115) Maietta, La responsabilità civile della società di calcio, cit., p. 45.
(116) Trib. Torino, 8.11.2004, cit.
(117) Si veda, al riguardo, Maietta, La responsabilità civile delle società di calcio, cit., p. 46.
190 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Venendo ora, più nello specifico, all’esame dell’incidente avvenuto allo


Stadio delle Alpi di Torino durante la partita di calcio Juventus-Roma, nel
corso del campionato 2000-2001 (118), deve rammentarsi che, in tale occa-
sione, un tifoso della Roma veniva gravemente ferito alla mano destra da
un fumogeno, lanciato dal settore riservato alla tifoseria avversaria, che egli
non aveva potuto evitare, a causa della ingessatura che gli immobilizzava la
gamba destra e che gli aveva impedito di allontanarsi celermente.
Il danneggiato conveniva la Juventus, in qualità di organizzatrice del-
l’incontro calcistico, non a titolo di responsabilità contrattuale, come pure
avrebbe potuto avendo pagato il biglietto, bensì a titolo di responsabilità ex-
tracontrattuale per esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c., con con-
seguente onere probatorio, a carico della Juventus, di “aver adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno”.
All’esito dell’istruttoria esperita nel corso del giudizio, era emersa, in
primo luogo, la responsabilità della Questura competente, e quindi dello
Stato, a causa delle riscontrate lacune nel sistema di perquisizioni, ed inol-
tre la responsabilità del Comune di Torino, in qualità di proprietario dello
Stadio delle Alpi, per aver concesso in locazione alla Juventus uno stadio, le
cui strutture si erano rivelate inadeguate nel 2001, in quanto sprovviste di ri-
pari orizzontali fissi o mobili che ostacolassero i lanci reciproci di oggetti fra
le tifoserie avversarie, con conseguente pericolosità dello stadio stesso.
L’istruttoria aveva quindi escluso la responsabilità della Juventus orga-
nizzatrice, tanto più che la stessa aveva più volte sollecitato interventi ade-
guatori del Comune di Torino, mirati a fronteggiare la pericolosità dell’e-
vento calcistico.
Tuttavia la Juventus è stata condannata ex art. 2050 c.c., sull’assunto che
la stessa, ben consapevole della pericolosità dell’incontro e dell’impianto –
tant’è vero che aveva più volte sollecitato al riguardo interventi da parte del
Comune – non aveva scelto di disputare la partita in un altro stadio.
E ciò, nonostante fosse possibile obiettare, al riguardo, che il comporta-
mento che si rimproverava essere stato omesso, cioè quello di far disputare
la partita in uno stadio differente, si presentava difficilmente esigibile nel
caso di specie, essendosi la Juventus impegnata ad inizio anno, nei con-
fronti della F.I.G.C., a disputare tutti gli incontri di calcio a Torino; inoltre,
non sembra che durante l’istruttoria si fosse adeguatamente vagliato se esi-
stesse un altro stadio che potesse costituire una valida alternativa.
Come ben si vede, la tendenza della giurisprudenza appare quella di ri-
condurre comunque alla società di calcio organizzatrice la responsabilità
per il lancio di oggetti, invocando le regole in tema di responsabilità per at-

(118) Che ha formato oggetto della più volte richiamata Trib. Torino, 8.11.2004.
SAGGI 191

tività pericolosa anche in casi nei quali sembrerebbe dover operare il princi-
pio generale per cui “ad impossibilia nemo tenetur” (119).
Analoga decisione è stata assunta in un altro caso di lancio di oggetti per
mancanza di coperture orizzontali (120); nella specie, l’anello inferiore riser-
vato ai tifosi della squadra ospite era più largo di quello superiore riservato
alla opposta tifoseria, dalla quale era quindi possibile un lancio di oggetti.
Anche in tale occasione, si è affermato che l’organizzazione di una par-
tita di calcio è attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., sia perché ritenu-
ta tale dalle numerose disposizioni volte ad impedire incidenti negli stadi o
fuori da essi, sia perché oggettivamente pericolosa, come dimostra la serie
di incidenti che sempre avvengono in occasione delle partite; è stato dato
altresì rilievo agli interessi economici coinvolti in questo tipo di eventi.
In questa prospettiva, si è ritenuto che il gestore dello stadio debba
adottare ogni misura idonea ad evitare il verificarsi di eventi dannosi che ve-
dano coinvolti gli spettatori, derivanti tanto da lanci di oggetti, quanto da
contatti fisici tra tifoserie avversarie, anche perché la normativa in materia
richiede che le strutture sportive siano predisposte per tenere separati i tifo-
si avversari e che le barriere tra settori siano realizzate con materiali resi-
stenti ed ignifughi (121).

(119) Così Grassani, La responsabilità risarcitoria dell’organizzatore dell’evento sportivo –


il caso Juventus. Sentenza del Tribunale di Torino 8 novembre 2004, in Riv. dir. econ. sport, 2005,
p. 134. Critico nei confronti della decisione che ha coinvolto unicamente la squadra organiz-
zatrice, conduttrice dello stadio, mandando esente da ogni responsabilità il Comune di Tori-
no che ne era proprietario, anche Lepore, La responsabilità nell’esercizio e nell’organizzazione
delle attività sportive, cit., p. 278, il quale, richiamando la Cass. Pen., 27.1.1975, n. 207, in Riv.
dir. sport., 1976, p. 30, rileva che una soluzione diversa dovrà essere invece ricercata qualora
l’impianto formi oggetto di concessione amministrativa, per cui la quasi totalità della gestio-
ne e dell’organizzazione dello stesso e degli eventi che in esso vengono realizzati, fanno cari-
co alla società concessionaria in via esclusiva, la quale ha anche l’obbligo di provvedere al-
l’ottenimento della relativa autorizzazione di pubblica sicurezza.
(120) Trattasi dell’incontro di calcio Milan-Sampdoria, sottoposto all’esame di App. Mila-
no 18.5.2001, in Foro pad., 2002, I, c. 205, con nota di Curti, nonché, previamente, di Trib. Mi-
lano, 21.9.1998, n. 10037, cit.
(121) È opportuno rilevare, al riguardo, che il Codice di giustizia della F.I.G.C. configura a
carico delle società calcistiche una responsabilità oggettiva in relazione all’operato dei propri
sostenitori sia sul proprio campo, ivi compreso il campo neutro, sia su quello delle società
ospitanti (art. 4, comma 3°), nonché un’ulteriore responsabilità in relazione all’ordine e alla
sicurezza prima, dopo e durante lo svolgimento della gara, sia all’interno del proprio impian-
to sportivo, che nelle aree esterne immediatamente adiacenti (art. 4, comma 4°). È inoltre pre-
visto che le società rispondano per l’introduzione o utilizzazione negli impianti sportivi di
materiale pirotecnico di qualsiasi genere, di strumenti ed oggetti comunque idonei ad offen-
dere, di disegni, scritte, simboli, emblemi o simili, recanti espressioni oscene, oltraggiose, mi-
192 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

L’onere della prova di avere adottato tutte le misure idonee incombe-

nacciose o incitanti alla violenza; esse sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra ma-
nifestazione comunque oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza (art. 12,
comma 3°): in caso di violazione, il giudice sportivo applicherà la sanzione dell’ammenda; nei
casi più gravi, da valutare in modo particolare anche con riguardo alla recidiva, potrà essere
disposto l’obbligo di disputare uno o più gare a porte chiuse o con uno o più settori privi di
spettatori, ovvero potrà essere prevista la squalifica del campo per una o più giornate (art. 12,
comma 6°). Le società sono responsabili anche per i fatti violenti commessi dai propri soste-
nitori in occasione della gara, sia all’interno del proprio impianto sportivo, che nelle aree
esterne immediatamente adiacenti, quando siano direttamente collegati ad altri comporta-
menti posti in essere all’interno dell’impianto sportivo, se dal fatto derivi un pericolo per l’in-
columità pubblica o un danno grave all’incolumità fisica di uno o più persone (art. 14, comma
1°); per questi fatti è prevista la sanzione dell’ammenda con eventuale diffida; laddove la so-
cietà sia già stata diffidata o in caso di fatti particolarmente gravi potrà essere disposto l’obbli-
go di disputare uno o più gare a porte chiuse o con uno o più settori privi di spettatori, ovvero
potrà essere prevista la squalifica del campo per una o più giornate (art. 14, comma 2°). Le di-
sposizioni da ultimo richiamate si rinvengono nell’attuale Codice di giustizia sportiva entrato
in vigore il 1.7.2007. In relazione alle norme, di contenuto analogo, contenute nel Codice di
giustizia sportiva in vigore precedentemente, si è pronunciato il TAR Catania Sicilia,
19.4.2007, n. 679, in Foro Amm. TAR, 2007, p. 1484, con nota di Paolantonio, che ha dichiara-
to l’illegittimità delle norme disciplinari prevedenti la responsabilità oggettiva delle società
calcistiche per i fatti di violenza imputabili ai propri tifosi, invocando il principio di persona-
lità della pena, di cui all’art. 27 Cost. (nel caso di specie alcuni abbonati del Catania si erano ri-
volti TAR lamentando un danno in conseguenza dei provvedimenti assunti dal giudice spor-
tivo in seguito ai già richiamati disordini, in occasione dei quali, durante la partita Catania-Pa-
lermo, era morto l’agente Raciti; in applicazione delle norme del Codice sulla responsabilità
oggettiva delle società calcistiche, il giudice sportivo aveva infatti deciso che tutte le successi-
ve partite casalinghe del Catania di lì alla fine del campionato avrebbero dovuto disputarsi a
porte chiuse). La pronuncia citata è commentata da Forti, Riflessioni in tema di diritto disci-
plinare sportivo e responsabilità oggettiva, in Riv. dir. econ. sport, 2007, p. 13 ss., il quale (p. 24)
informa anche in merito ai successivi articolati sviluppi giudiziari della vicenda di specie, che
si è conclusa con la conciliazione fra Catania e F.I.G.C. davanti alla Camera di Conciliazione
e Arbitrato per lo Sport del C.O.N.I., nell’ambito della quale la società si è dichiarata estranea
al ricorso presentato dal gruppo di abbonati ed ha accettato la sanzione, ottenendo come con-
tropartita l’apertura dello stadio al pubblico per le ultime due giornate del campionato. La
sentenza è commentata anche da Castronovo, Pluralità degli ordinamenti, autonomia sporti-
va e responsabilità civile, in Europa e dir. priv., 2008, pp. 549-550, il quale, analizzandone la mo-
tivazione, rileva criticamente come il principio di personalità della pena sia stato richiamato a
sproposito dal giudice amministrativo, vertendosi, nella specie, non di responsabilità oggetti-
va penale di una persona fisica, ma di responsabilità oggettiva disciplinare (sportiva) di una
persona giuridica. Sulle regole di responsabilità oggettiva delle società calcistiche previste dal
Codice di giustizia sportiva in collegamento a comportamenti violenti dei propri tifosi, si v.
anche Franchini, Profili di attualità nella disciplina della Federazione italiana giuoco calcio, in
Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° Convegno Nazionale S.I.S.Di.C., Na-
poli, 2009, pp. 643-644, il quale ricorda anche che (ai sensi dell’art. 14, comma 4°) il giudice
SAGGI 193

rebbe sulla società di calcio che gestisce lo stadio, ed in questo contesto,


dalla medesima pronuncia è stato ritenuto irrilevante che il danno abbia
avuto concausa nel fatto di un terzo; si è affermato infatti, al riguardo, che il
fatto del terzo rileva unicamente quando sia tale da elidere totalmente il
nesso causale tra l’attività gestoria e l’evento, circostanza che nella specie

sportivo, ai fini della non applicazione o dell’attenuazione delle sanzioni, può tenere in con-
siderazione la verificata sussistenza di una delle seguenti circostanze: adozione ed efficace at-
tuazione prima del fatto, di modelli di organizzazione e gestione della società idonei a preve-
nire comportamenti violenti, con impiego di risorse finanziarie ed umane idonee allo scopo;
ovvero concreta cooperazione della società con le forze dell’ordine e le altre autorità compe-
tenti per l’adozione di misure atte alla prevenzione e alla identificazione dei responsabili dei
fatti di violenza. Sul controverso istituto della responsabilità oggettiva sportiva e sul suo fon-
damento, si v. Tortora, Izzo, Ghia, Guarino, Danese, Nucci, Naccarato, Casolino, No-
varina, Diritto sportivo, cit., p. 103 ss.; Izzo, Le responsabilità nello sport, cit., p. 127 ss., ove ul-
teriori riferimenti. Sulle possibili conseguenze dell’affermazione della responsabilità oggetti-
va da parte del giudice sportivo sulla valutazione della responsabilità dell’organizzatore da
parte del giudice statale, si v. Santoro, Sport estremi e responsabilità, nei Quaderni di Respon-
sabilità civile e previdenza, Milano, 2008, pp. 174-175, la quale afferma che il giudice, chiama-
to a decidere in merito alla domanda di risarcimento del danno derivato da fatti ascrivibili al-
la responsabilità oggettiva della società, dovrà fondare la sua decisione non già sulla regola
dell’ordinamento sportivo, ma sulla regola di cui all’art. 2050 c.c., che, tuttavia, viene riempi-
ta di contenuto, sulla base della normativa sportiva: “in altri termini”, a parere dell’a. citata,
“le regole federali che addossano la responsabilità per il mantenimento dell’ordine pubblico
a carico delle società, specificando talvolta i singoli comportamenti costituenti infrazione […]
riempiono di contenuto la generale nozione di attività pericolosa riferita all’organizzatore
sportivo”; Liotta, Attività sportive e responsabilità dell’organizzatore, cit., pp. 86-87, il quale,
nel commentare l’inedita pronuncia di Trib. Crotone, 17 giugno 1993, n. 433, che ha condan-
nato la società al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità oggettiva proprio sulla base
della regola sportiva che configura la responsabilità oggettiva per i fatti di violenza ascrivibili
alla tifoseria, sottolinea la marcata funzionalità della responsabilità oggettiva sportiva a taluni
scopi, quali quelli della prevenzione dei fenomeni di violenza, perseguiti anche dall’ordina-
mento giuridico statale, rilevando che “è proprio questa funzione antiviolenza che sancisce
una sorta di dovere preventivo di induzione al controllo in capo all’organizzatore sportivo”,
ma precisando anche che la rilevanza dell’istituto della responsabilità sportiva oggettiva al-
l’interno del sistema generale della responsabilità civile “sembra, in ogni caso, condizionata
dallo stesso valore giuridico del caso fortuito”. Molto critico invece sulla decisione del tribu-
nale calabrese Castronovo, Pluralità degli ordinamenti, cit., pp. 554-555, il quale afferma che
“una decisione del genere è esemplare della incomprensione di ciò che autonomia dell’ordi-
namento sportivo sia, e pluralità degli ordinamenti giuridici significhi […] la regola dell’ordi-
namento collaterale sportivo […] non può diventare automaticamente, e quasi a mo’ di corol-
lario, responsabilità oggettiva degli stessi soggetti secondo l’ordinamento dello Stato […] Cia-
scun ordinamento può contenere regole di responsabilità, che si riferiscono agli ambiti suoi
propri: questo significa che non è possibile trarre effetti giuridici previsti in uno da regole con-
tenute in alcuno degli altri”.
194 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

non è stata in concreto ritenuta, essendo stata evidentemente addossata al-


la società di calcio organizzatrice la responsabilità per non aver fatto tutto il
possibile per prevenire anche lo stesso fatto del terzo.
Cosicché, alla luce delle decisioni sin qui richiamate sul profilo in con-
siderazione, vale a dire quello degli eventi lesivi occorsi a spettatori e tifosi,
può affermarsi, in linea generale, che l’onere della prova a carico dell’orga-
nizzatore consiste nel dimostrare in concreto che il fatto, per le modalità in
cui si è svolto, ha reso vana ogni possibile prevenzione.
Con specifico riguardo alla responsabilità della società di calcio organiz-
zatrice per i danni provocati da fatto dei tifosi, è poi emerso che, se pure in
passato è stata affermata dalla giurisprudenza la responsabilità della società
sportiva per fatti provocati dai tifosi nell’area antistante allo stadio e addirit-
tura per i danni cagionati dai tifosi stessi durante una partita in trasferta (122),
più di recente è stata invece negata la responsabilità dell’organizzatore per i
danni avvenuti ad opera dei tifosi al di fuori dello stadio, ed invece afferma-
ta per i fatti avvenuti all’interno dello stadio, ivi comprendendosi anche
l’entrata e l’uscita dallo stesso (123).
Come si può notare, l’esclusione della responsabilità dell’organizzatore
per fatti occorsi fuori dallo stadio – e a distanza di tempo dalla fine della par-
tita – è stata sancita in relazione a casi per i quali il titolo invocato dal dan-
neggiato per far dichiarare la responsabilità dell’organizzatore era quello
contrattuale (acquisto del biglietto nel contratto cd. di “spettacolo”); la qual
cosa, ben si comprende alla luce del rilievo che, ove il titolo della pretesa ri-
sarcitoria azionata venga fondato sulla responsabilità contrattuale, è certa-
mente più agevole per l’organizzatore far leva sull’esaurimento, a fine parti-
ta e fuori dallo stadio, delle prestazioni dallo stesso previste a proprio cari-
co; in ipotesi di invocata responsabilità extracontrattuale ex art. 2050 c.c.,
invece, meno semplice si presenta – alla luce del rigore probatorio con il
quale la giurisprudenza, come si è visto, è solita applicare l’art. 2050 c.c. al-
l’attività di organizzazione di eventi sportivi, ed in particolare di quelli calci-
stici – la prova, da parte della società di calcio organizzatrice, che l’evento
dannoso, pur verificatosi fuori dallo stadio e a fine partita, esulava del tutto
dalla propria sfera di controllo.

5. – Come si è avuto modo di evidenziare, l’attività di organizzazione di


un evento sportivo dà luogo a responsabilità nei confronti degli atleti ove li

(122) Così, rispettivamente, Trib. Torino, 14.2.1971, in Riv. dir. sport., 1972, p. 74, e App.
Roma, 17.7.1971, in Riv. dir. sport., 1972, p. 256, entrambe richiamate da Bona, Castelnuovo,
Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 64.
(123) In tal senso, le già richiamate Trib. Milano, 21.3.1988, Trib. Milano, 18.1.1973, ed
App. Milano, 30.3.1990.
SAGGI 195

esponga ad un rischio superiore a quello connaturato alla singola disciplina


o gara, e quindi da essi accettato, o comunque, anche all’interno di detta so-
glia di rischio, ove gli eventi lesivi possano ricondursi alla mancata predi-
sposizione di cautele imposte da prescrizioni tecniche, dai criteri di pruden-
za e diligenza operanti nel singolo ambito sportivo di riferimento, dai prin-
cipi generali di comune prudenza e diligenza, e comunque dalle caratteri-
stiche della specifica disciplina.
In tali casi, in favore degli atleti si potranno applicare, se dipendenti dal-
l’organizzatore, l’art. 2087 c.c. e comunque, più specificatamente, le previ-
sioni della l. n. 81 del 1991, operante anche con riguardo agli atleti inqua-
drabili come lavoratori autonomi.
Sempre in caso di eventi lesivi occorsi ad atleti, come si è visto (124), si è
ritenuta ipotizzabile, per il caso di organizzazione di evento calcistico pro-
fessionistico, l’applicabilità dell’art. 2050 c.c., in tema di responsabilità per
attività pericolosa e l’art. 2051 c.c., in tema di danni da cose in custodia.
Quanto invece ai danni rientranti nel rischio “consentito”, gli stessi re-
steranno in linea di principio a carico dell’atleta, a meno che questi non di-
mostri la loro riconducibilità alla mancata osservanza di doverose cautele
da parte dell’organizzatore.
Con riferimento agli eventi lesivi occorsi agli spettatori, poiché per essi
– come pacificamente riconosciuto (125) – non vige il principio dell’accetta-
zione del rischio, si applicheranno all’organizzatore l’art. 1218 c.c., e/o l’art.
2043 c.c. (ed inoltre, l’art. 2049 c.c., quanto alla responsabilità vicaria dello
stesso).
Sempre nei confronti degli spettatori, nei casi in cui l’attività dell’orga-
nizzatore si configuri come “pericolosa” – come, ad esempio, viene ora re-
putata quella delle società di calcio professionistiche – si potrà applicare, ol-
tre all’art. 1218 c.c., anche l’art. 2050 c.c.
Relativamente ad entrambi i titoli di responsabilità, contrattuale ed ex-
tracontrattuale, tuttavia, al di là del diverso soggetto su cui ricade l’onere
probatorio (il danneggiato, in caso di ritenuta applicabilità dell’art. 2043 c.c.,
oppure il danneggiante, in ipotesi di operatività dell’art. 1218 c.c. oppure
dell’art. 2050 c.c.), sembra comunque di poter affermare che, alla stregua

(124) Si vedano le superiori note 101 ss., sul “caso Giampà”.


(125) Per tutti, Galligani-Piscini, Riflessioni, cit., p. 119; Ponzanelli, Responsabilità ci-
vile e attività sportiva, cit., p. 603; in giurisprudenza, si v. Trib. Rovereto, 5.12.1989, cit., secon-
do cui “il principio dell’assunzione del rischio […] mal si concilia con le nuove concezioni so-
ciali: se è nell’interesse dell’organizzatore la presenza del pubblico agli incontri sportivi da lui
organizzati, sia per l’entrata pecuniaria che gli procura, sia per l’interesse pubblicitario che gli
deriva, è anche suo specifico obbligo quello di prendere tutte le misure di prudenza per tute-
lare detto pubblico dal pericolo di danno alla sua incolumità”.
196 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

dei rigidi criteri applicativi utilizzati in giurisprudenza nel configurare gli


obblighi di cautela posti a carico dell’organizzatore, agli effetti di ritenere
quest’ultimo esonerato da responsabilità si tenda a porre in definitiva pur
sempre l’accento sul caso fortuito, inteso quale evento del tutto imprevedi-
bile ed eccezionale, che esuli dal controllo dell’organizzatore - società spor-
tiva, e che abbia di per sé solo determinato il danno.
Si assiste così ad uno spostamento di attenzione, dalla condotta e quin-
di dalla diligenza e prudenza pretendibili dall’organizzatore, anche in linea
con quanto espressamente previsto dall’art. 2050 c.c., alla valorizzazione
massima del nesso causale, pretendendosi infatti che l’organizzatore sia te-
nuto a rispondere, ogniqualvolta non dimostri la specifica causa, straordi-
naria ed imprevedibile, che abbia da sé determinato l’evento lesivo (126). Il
tutto, in una prospettiva che muta l’astratto giudizio di prevedibilità ex ante,
che ragionevolmente potrebbe e quindi dovrebbe porsi a carico dell’orga-
nizzatore, nella pretesa ad una valutazione, da parte del medesimo, della
prevedibilità in concreto, ex post, dell’evento lesivo, come tale, oltre che del
tutto irragionevole, eccessivamente gravosa per l’organizzatore, di fatto te-
nuto all’“impossibile”.
Neppure appare convincente, quantomeno ove affermata in maniera
assoluta, la tesi, per la quale l’organizzatore risponderebbe ex art. 2050 c.c.,
vale a dire per esercizio di attività pericolosa, ogniqualvolta gli atleti risul-
tassero esposti “a conseguenze più gravi rispetto a quelle che potrebbero essere
prodotte dagli errori del gesto sportivo” (127), vale a dire ad un rischio superio-
re a quello dagli stessi accettato.
Sembra infatti a chi scrive, che, in linea con la pacifica accezione di “at-
tività pericolosa”, come più sopra ricordata, la pericolosità della attività del-
l’organizzatore possa essere ravvisata soltanto ogniqualvolta la stessa sia
connotata da una rischiosità peculiare ed intrinseca, quale per esempio
quella dell’organizzatore di incontro di calcio professionistico (128), e che
non possa essere automaticamente indotta dal semplice superamento del
rischio consentito, riconducibile a mancata predisposizione di cautele.
D’altro canto, in ipotesi di organizzazione di eventi sportivi relativi a di-

(126) Nello stesso senso, Stanca, Natura della responsabilità dell’organizzatore di gare
sportive, cit., p. 150 ss.
(127) Così, fra le varie, Cass., 13.2.2009, n. 3528, cit., emanata a proposito di una gara di
bob, e quindi di attività sportiva di per sé pericolosa.
(128) Ravvisata, in giurisprudenza e in dottrina, nella idoneità di detta attività e di detti
eventi a muovere moltitudini di spettatori, assiepandoli tutti in un medesimo impianto spor-
tivo. Assunto che potrebbe portare ad inferire che l’incontro professionistico giocato “a porte
chiuse” non connoti di pericolosità l’attività organizzativa.
SAGGI 197

scipline di per sé “pericolose”, sembrerebbe invero alla scrivente, non così


scontato, anche se di fatto per lo più riscontrabile, che la pericolosità della
singola attività sportiva considerata si riverberi necessariamente anche sul-
la stessa attività organizzativa dell’evento, colorandola di rischiosità ex art.
2050 c.c. (129).
Si è infine avuto modo di evincere, dai casi decisi in giurisprudenza, che
all’organizzatore – società di calcio viene in linea di principio addossato il ri-
schio di tutti gli incidenti che si verificano dentro lo stadio, ivi compren-
dendosi gli ingressi e le uscite, in quanto presuntivamente rientranti nel-
l’ambito del suo potere di controllo, mentre esulerebbero dalla sua sfera di
responsabilità gli eventi che si verificano fuori dallo stadio e a distanza di
tempo dalla partita (130); per questi ultimi, infatti, l’esclusione della respon-
sabilità dell’organizzatore è stata ottenuta con maggior successo facendo le-
va sul titolo contrattuale della sua eventuale responsabilità, che potrebbe
invero ragionevolmente considerarsi non più sussistente a fine partita, a se-
guito della compiuta esecuzione del contratto di spettacolo da entrambe le
parti.

(129) Ed infatti si vedano infatti, in tal senso, oltre la stessa Cass., 13.2.2009, n. 3528, cit.,
nonché le decisioni richiamate alle superiori note 76 ss., che hanno riconosciuto la pericolo-
sità dell’attività organizzativa di eventi sportivi aventi ad oggetto disciplinare di per sé ritenu-
te pericolose. Soluzione che potrebbe suscitare interrogativi con riferimento a sport, pure
“pericolosi”, quale ad esempio la scherma, nella cui organizzazione di eventi agonistici po-
trebbero non apparire di per sé ravvisabili, connotazioni di intrinseca pericolosità.
(130) Esprime peraltro rilievi critici in merito a tali assunti Liotta, Attività sportive e re-
sponsabilità dell’organizzatore, cit., p. 139.
GIOVANNI FACCI

Il merchandising del marchio sportivo

Sommario: 1. Il merchandising nell’ordinamento sportivo. – 2. Il contratto di merchandising e


l’evoluzione della normativa in tema di marchi registrati. – 3. Il marchio sportivo. – 4. Il
merchandising e la sponsorizzazione sportiva. – 5. (segue) Il diritto all’immagine del sin-
golo atleta ed il personality merchandising. – 6. La tutela del marchio sportivo e l’ambush
marketing.

1. – Le società sportive professionistiche, in primis quelle calcistiche,


stanno attribuendo sempre più importanza al merchandising e cioè allo
sfruttamento commerciale del marchio sportivo, attraverso la vendita di be-
ni e prodotti recanti il segno distintivo del club. Nel panorama sportivo na-
zionale, infatti, i ricavi provenienti dal contratto di merchandising rappre-
sentano una fonte economica dalle rilevanti potenzialità ma che finora è
stata poco sfruttata, se rapportata alle realtà sportive di altre nazioni (1). Per
questo motivo, le società (ma anche le Federazioni e le Leghe sportive), per
far fronte alle crescenti spese di gestione, prestano sempre più attenzione e
risorse al fine di aumentare i provenenti derivanti dal merchandising.
Anche il legislatore ha mostrato interesse al merchandising sportivo: nel
corso della presente legislatura è stata presentata una proposta di legge per
la tutela del marchio sportivo e per l’utilizzazione commerciale dello stesso (2).
Tale progetto nasce dalla constatazione di una carenza normativa idonea a
contrastare, in modo efficace, l’attività di contraffazione dei marchi e dei
prodotti sportivi, nonché il fenomeno del cd. ambush marketing (3). Nello
specifico, il progetto legislativo predispone una tutela forte per tutti i segni
distintivi delle società sportive, degli enti sportivi, delle federazioni sportive

(1) Al riguardo sono del tutto significativi i dati riportati nell’esauriente disamina effet-
tuata da Teotino, Uva, La ripartenza, Bologna, 2010, p. 271, da cui emerge come le entrate da
merchandising vedano la Serie A di calcio italiano all’ultimo posto da un raffronto con le altre
maggiori Leghe europee calcistiche.
(2) Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, presentata il 5 agosto 2008, in tema di
« Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni, e per
la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive ».
(3) Per ambush marketing si intende il tentativo effettuato da chi non è sponsor di un
evento di sfruttarne la popolarità, utilizzandone i simboli in forma indiretta o implicita, senza
investire in contratti di partnership.
SAGGI 199

e del Coni, utilizzati dalle aziende per le attività di sponsorizzazione o di


merchandising (art. 1) (4); inoltre, è previsto un espresso divieto di utilizza-
zione dei segni distintivi senza l’autorizzazione dei titolari, nonché di svol-
gimento delle attività di ambush marketing (art. 2). Sono altresì disposte
sanzioni amministrative pecuniarie specifiche, fatte salve le sanzioni già
previste dalla legislazione vigente, per i contraffattori od imitatori (art. 4).
Particolare attenzione è dedicata anche alla destinazione dei segni distinti-
vi della società sportiva, in ipotesi del tutto particolari, come in caso di per-
dita di affiliazione, di fallimento o di cessazione dell’attività sportiva.
Tale proposta di legge, anche se non sarà mai diritto vigente, bene espri-
me l’interesse per il fenomeno. In ogni caso, il tentativo delle società sporti-
ve – ed in particolare di quelle calcistiche – di sfruttare a livello commercia-
le i propri segni distintivi è risalente nel tempo. In particolare, già nel lonta-

(4) Art. 1. (Tutela dei segni distintivi delle società sportive, degli enti sportivi e delle federa-
zioni sportive): « 1. Costituiscono segni distintivi di proprietà delle società sportive, degli enti
sportivi, delle federazioni sportive e del Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) i mar-
chi, i loghi, le denominazioni, i simboli, i colori sociali e i trofei che contraddistinguono l’atti-
vità d’impresa di ciascuno dei predetti soggetti. Ai fini della presente legge, si intendono per
attività d’impresa: le attività agonistico – sportive; le attività commerciali, connesse o non
connesse a quelle agonistico-sportive; le attività di licenza d’uso dei predetti segni distintivi e
di « merchandising », definito ai sensi del comma 4° . I segni distintivi, compresi quelli che non
sono nuovi elencati nell’art. 12 del Codice della proprietà industriale, di cui al d.lgs. 10 feb-
braio 2005, n. 30, appartengono in via esclusiva, anche in deroga a quanto stabilito dal mede-
simo art. 12, a ciascuno dei soggetti di cui al primo periodo del presente comma anche qualo-
ra gli stessi segni non siano stati utilizzati dai citati soggetti fin dall’inizio della loro attività ma
resi noti in conseguenza dell’attività stessa. 2. I segni distintivi di cui al comma 1° non posso-
no costituire oggetto di registrazione come marchio da parte di soggetti diversi dalle società
sportive, degli enti sportivi, delle federazioni sportive e del CONI cui rispettivamente appar-
tengono, per qualsiasi classe di prodotti o di servizi, ad eccezione dei casi in cui siano oggetto
di espressa richiesta e di autorizzazione scritta. 3. Il divieto di cui al comma 2° si applica anche
ai segni distintivi che contengono, in qualsiasi lingua, parole o riferimenti diretti comunque a
richiamare i segni distintivi di cui al comma 1° e i relativi eventi o che, per le loro caratteristi-
che oggettive, possano indicare un collegamento con l’organizzazione o con lo svolgimento
delle manifestazioni sportive organizzate dalle società sportive, dagli enti sportivi, dalle fede-
razioni sportive o dal CONI. 4. Ai fini della presente legge, con il termine « merchandising » si
fa riferimento alle tecniche di sfruttamento economico dei segni distintivi di una società spor-
tiva, di un ente sportivo, di una federazione sportiva o del CONI, nel commercio di prodotti o
di servizi ai quali i predetti segni distintivi sono abbinati, accostati o collegati. Il contratto di
merchandising è l’accordo con il quale il titolare di un marchio o di un altro diritto esclusivo
concede la facoltà di uso del marchio stesso a un altro soggetto per apporlo su prodotti o per
abbinarlo a servizi di natura diversa da quelli per i quali lo stesso marchio o un altro diritto
esclusivo è stato realizzato e registrato in precedenza. 5. Le registrazioni effettuate in viola-
zione del presente articolo sono nulle a tutti gli effetti di legge ».
200 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

no 1979, la Lega Nazionale Calcio aveva invitato le società ad essa affiliate a


provvedere alla revisione del proprio marchio, emblema e logotipo, nonché
al deposito ed alla registrazione degli stessi, al fine di garantirsi un’eventua-
le esclusiva, per ogni settore merceologico, nonché per tutelarsi contro ogni
abuso legalmente perseguibile (5). Molte società si sono uniformate: del
tutto significativo il caso dell’A.S. Roma, che, dopo aver creato l’emblema
del “lupetto” ed averlo registrato come marchio in ben dodici classi mer-
ceologiche, stipulò numerosi contratti di cd. cessione di marchi sociali (6).
Sempre nell’ottica di tentare di dare impulso alla crescita del fenomeno del
merchandising, nell’ambito del calcio professionistico, si deve interpretare,
a partire dalla stagione sportiva 1995/1996, la decisione di assegnare alle so-
cietà di calcio, di cui alla Lega Professionisti Serie A e B, la numerazione fis-
sa nelle maglie dei giocatori, con il nome degli stessi (7), al fine di incremen-
tare la vendita delle repliche delle maglie da gioco.
Nel corso degli anni, comunque, le società sportive hanno affinato le
tecniche per lo sfruttamento economico dei propri segni distintivi, al fine di
dare impulso alla vendita di prodotti recanti il segno distintivo del club. In
particolare, al fine di potenziare tale fonte di profitto, alcune società sporti-
ve professionistiche hanno sviluppato forme più complesse e differenti ri-
spetto alle tradizionali forme di vendita di oggetti di largo consumo, tanto
che talvolta sono state create apposite società al fine di accrescere il mer-
chandising ed il marketing della società sportiva; a ciò si aggiunga che un in-
dubbio impulso alla diffusione del merchandising proviene dai siti Internet
ufficiali delle società calcistiche, attraverso i quali i tifosi possono acquista-
re on-line i prodotti ufficiali delle squadre (8).

2. – Il merchandising è definito generalmente come un contratto atipico,


ma socialmente tipizzato per essere utilizzato in conformità ad una prassi
contrattuale ben consolidata, con caratteri omogenei e costanti (9), median-

(5) Al riguardo, De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle


società calcistiche, in Riv. dir. sport., 1983, p. 137; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo,
Padova, 1988, p. 170; Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Mi-
lano, 1991, p. 56; Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, in Li-
neamenti di diritto sportivo, a cura di Cantamessa, Riccio, Sciacalepore, Milano, 2008, p. 509.
(6) De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-
stiche, cit., p. 137.
(7) Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, Milano, 2009, p. 168.
(8) Al riguardo, si veda p. 85 del Prospetto informativo di offerta in opzione ai soci e ammis-
sione a quotazione di azioni ordinarie Juventus Football Club s.p.a., del 24 maggio 2007, pub-
blicato, in http://www.consob.it.
(9) Sul merchandising quale contratto socialmente tipizzato, si veda Delli Priscoli, Il
merchandising tra franchising e sponsorizzazione, in Giur. comm., 2004, 1, p. 1103, nota 1.
SAGGI 201

te il quale il titolare di un marchio od altro segno distintivo (quale nome, fi-


gura o segno) che abbia acquisito notorietà tra il pubblico in un certo setto-
re, ne concede la facoltà di uso ad un altro imprenditore, affinché lo stesso
segno sia apposto su prodotti di natura notevolmente diversa rispetto ai be-
ni che hanno dato successo al marchio od al segno distintivo e per i quali, in
precedenza, è stato realizzato e registrato (10). Analoga definizione è conte-
nuta nel comma 4° dell’art. 1 della proposta di legge, in precedenza citata, in
tema di « Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, en-
ti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle
sponsorizzazioni sportive » (11).
Alla luce di siffatta definizione, appare condivisibile l’osservazione se-
condo cui il merchandising altera le tradizionali tecniche di marketing, alla
stregua delle quali un produttore generalmente affronta rilevanti costi ini-
ziali per produrre un bene di elevata qualità, poi investe notevoli risorse per
pubblicizzare e promuovere le vendite del prodotto, nella speranza che i
consumatori acquistino i beni in quantità tali da recuperare le spese e con-
seguire utili. Con il merchandising, infatti, detto schema viene trasformato:
il produttore, con un limitato investimento iniziale od addirittura senza al-
cun investimento di capitale, acquisisce la licenza su di un segno distintivo
noto, che sia idoneo a far distinguere immediatamente il suo prodotto da
quello dei concorrenti (12). Il merchandising, in ogni caso, deve essere tenu-
to distinto dal contratto di licenza di marchio (cd. licensing); quest’ultimo
indica il contratto di licenza d’uso del marchio, concesso dal titolare ad altro
soggetto affinché apponga il marchio stesso su prodotti o servizi identici o
simili a quelli per cui il segno è stato creato e su cui viene apposto dal titola-

(10) Frignani, I problemi giuridici del merchandising, in Riv. dir. ind., 1988, p. 34; Galga-
no, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchan-
dising, in questa rivista, 1987, p. 188; Ricolfi, Il contratto di merchandising, in Dir. ind., 1999,
p. 41; Id., Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Milano, 1991, p. 34; Au-
teri, I nomi e i segni distintivi notori delle manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del
nome e quella del marchio, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 103; Marasà, voce Merchandising, in
Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, p. 1; Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e spon-
sorizzazione, cit., p. 1103.
(11) Art. 1, comma 4°: « ai fini della presente legge, con il termine “merchandising” si fa ri-
ferimento alle tecniche di sfruttamento economico dei segni distintivi di una società sportiva,
di un ente sportivo, di una federazione sportiva o del CONI, nel commercio di prodotti o di
servizi ai quali i predetti segni distintivi sono abbinati, accostati o collegati. Il contratto di
merchandising è l’accordo con il quale il titolare di un marchio o di un altro diritto esclusivo
concede la facoltà di uso del marchio stesso a un altro soggetto per apporlo su prodotti o per
abbinarlo a servizi di natura diversa da quelli per i quali lo stesso marchio o un altro diritto
esclusivo è stato realizzato e registrato in precedenza ».
(12) Gatti, Il merchandising e la sua disciplina giuridica, in Riv. dir. comm., 1989, p. 122.
202 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

re. Lo scopo primario, pertanto, è quello di espandere la presenza del segno


sul mercato, nell’ambito del settore di attività del titolare del marchio, tra-
mite la commercializzazione di prodotti immessi sul mercato da aziende di
altri imprenditori (13). La peculiarità che contraddistingue il merchandising,
invece, è rappresentata dal fatto che il soggetto che ha portato all’afferma-
zione originaria (“primaria”) un marchio (ma potrebbe trattarsi anche di
opera dell’ingegno, nome civile e ritratto (14) concede ad un altro imprendi-
tore la facoltà di farne un uso ulteriore (“secondario”) in un campo total-
mente diverso da quello iniziale (15). In tal modo, il marchio diventa un be-
ne autonomo, immateriale, che viene utilizzato come un valore in sé, per la
sua efficacia suggestiva o pubblicitaria, che determina il conferimento di
pregi commerciali all’imprenditore ed ai suoi prodotti (16). Tenuto conto di
tale funzione del marchio nell’ambito del merchandising, si ponevano osta-
coli giuridici di rilievo alla legittimità stessa del contratto, nella legislazione
sui marchi anteriore alla riforma del 1992.
Nel previgente sistema, infatti, la tutela giuridica del marchio era ap-
prontata esclusivamente nei limiti della funzione di indicazione di prove-
nienza del prodotto, nel senso di garantire la corrispondenza tra il prodotto
contraddistinto nel mercato con un dato marchio e l’impresa titolare del
marchio stesso, così da tutelare il legittimo affidamento del consumatore
sull’effettiva provenienza del prodotto nonché sulle qualità riferibili all’im-
presa produttrice (17). Così facendo, era messa in discussione la validità dei

(13) Musumarra, La disciplina dei contratti di sponsorizzazione e di merchandising nello


sport, in Diritto dello sport, a cura di Coccia, De Silvestri, Forlenza, Fumagalli, Musumarra,
Selli, Firenze, 2008, p. 327; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 3.
(14) In caso di diritto d’autore, si fa riferimento al character merchandising, mentre nel ca-
so di nomi e ritratti si suole far riferimento al cd. personality merchandising; sul punto, Ricol-
fi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 1. Su un caso
di merchandising riguardante l’effige di un noto calciatore, si segnala Cass., 10 novembre
1979, n. 5790; al riguardo, le considerazioni di Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazio-
ne, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 132.
(15) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchan-
dising nella nuova legge marchi, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova,
1995, p. 74; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 1.
(16) Musumarra, La disciplina dei contratti di sponsorizzazione e di merchandising nello
sport, cit., p. 327.
(17) Sulla funzione di indicazione di provenienza, dove il concetto rinvia al collegamento
tra marchio ed impresa, si veda esaustivamente Zorzi, Il marchio come valore di scambio, Pa-
dova, 1995, p. 90; al riguardo anche Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi
d’impresa mediante merchandising, in questa rivista, 1989, p. 513; De Silvestri, Le operazio-
ni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche, cit., p. 142; Frignani, I pro-
blemi giuridici del merchandising, cit., p. 39.
SAGGI 203

contratti di merchandising dei marchi, sotto il profilo che il concedente nor-


malmente attribuisce a terzi il diritto di uso del marchio per prodotti non
solo da lui non posti in commercio ma anche non affini a quelli da lui fab-
bricati (18). In altri termini, prima della riforma, in base alla ratio sopra indi-
cata, si tendeva ad escludere che il concedente potesse vantare un’esclusiva
sui prodotti merceologicamente distanti da quelli da lui commercializzati e
ciò anche se provvedeva alla registrazione del marchio per le classi corri-
spondenti (19). In particolare, vi era un ostacolo legislativo alla validità della
registrazione ultramerceologica, rappresentato dall’art. 22 l. m. (r.d. 21 giu-
gno 1942, n. 929), secondo il quale poteva « ottenere il brevetto per marchio
d’impresa chi lo utilizza, o si propone di utilizzarlo, nella sua industria o nel
suo commercio ». Alla stregua di tale disposizione, il presupposto per la pro-
tezione, collegata al dato formale della registrazione, era l’utilizzo nell’im-
presa, così che il deposito di un marchio al solo fine di concedere una licen-
za poteva essere dichiarato nullo (20); di conseguenza, chi aveva ottenuto
una registrazione in relazione a settori produttivi lontani da quello in cui
operava non era certo di poter ottenere adeguata tutela (21). Contestual-
mente, il concedente, in assenza di un potere di vietare ai terzi l’uso del
marchio per prodotti estranei all’attività dell’azienda, non poteva neppure
attribuire, con certezza, ad un concessionario l’autorizzazione corrispon-
dente a titolo oneroso: il contratto avrebbe potuto essere dichiarato privo di
causa o di oggetto (22).
Alla stregua della funzione attribuita al marchio, di indicazione di
provenienza del prodotto, è da collocare anche l’interpretazione che
veniva data all’art. 15 l. m. (r.d. 21 giugno 1942, n. 929) (23) ed all’art. 2573

(18) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41.


(19) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41.
(20) Lo evidenzia Frignani, I problemi giuridici del merchandising, cit., p. 37; Frignani,
Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 137; Auteri, Lo
sfruttamento del valore suggestivo dei marchi d’impresa mediante merchandising, in questa rivi-
sta, 1989, p. 525.
(21) Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p.
137.
(22) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchan-
dising nella nuova legge marchi, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova,
1995, p. 68; parte della dottrina (Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forni-
ture, gruppi di società, licenze, merchandising, in questa rivista, 1987, p. 190; Id., Diritto civile e
commerciale, 3.1, Padova, 1990, p. 181), comunque, riteneva perfettamente ammissibile il
contratto di merchandising, tenuto conto dei controlli di qualità riservati al licenziante ed il di-
vieto per il licenziatario di apporre il marchio del primo su prodotti che non avessero supera-
to positivamente il controllo.
(23) Art. 15: « Il marchio non può essere trasferito se non in dipendenza del trasferimento
204 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

c.c. (24). Si riteneva, infatti, che l’uso del marchio potesse essere trasferito
solo a titolo esclusivo e soltanto con l’azienda o con un ramo di questa, al fi-
ne di impedire l’inganno del pubblico, circa la provenienza dei prodotti (25).
Alla luce di tale quadro giuridico, volto ad assicurare che il marchio ve-
nisse utilizzato solo per contraddistinguere i prodotti dell’impresa (26), sono
evidenti gli ostacoli frapposti al contratto di merchandising: in quest’ultimo,
il marchio non viene usato per assolvere la funzione appena indicata ma
soltanto come valore in sé per la sua efficacia suggestiva e pubblicitaria;
normalmente, inoltre, non si trasferisce alcun “ramo d’azienda” e spesso si
opera tramite licenze non esclusive (27).
Solo con l’evoluzione della normativa di cui alla riforma del 1992, con
cui si è reciso il rapporto tra titolarità dell’azienda e titolarità del marchio è
stata offerta una piena legittimazione al contratto di merchandising. In par-
ticolare, la funzione distintiva del marchio – inteso come indicatore di pro-
venienza, in origine ritenuta la funzione prevalente ed irrinunciabile del
marchio – viene ridimensionata con la riforma del 1992, non occupando più
la posizione centrale ed esclusiva, occupata in precedenza nell’ambito del
diritto dei marchi. Si è preso coscienza, infatti, che il marchio può assume-
re valore, e di conseguenza può essere tutelato, come bene a sé, nella sua
funzione suggestiva o pubblicitaria (28). In tal modo, a seguito della riforma
– con gli attuali artt. 23, 19 e 20 del Codice della Proprietà Industriale (ri-
spettivamente già artt. 15, 22 e 1, comma 1°, l. m., come modificati a seguito
della riforma del 1992) e con l’art. 2573 c.c. – sono state recepite le istanze

dell’azienda, o di un ramo particolare di questa, a condizione, inoltre, che il trasferimento del


marchio stesso avvenga per l’uso di esso a titolo esclusivo.
In ogni caso, dal trasferimento del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri
dei prodotti o merci che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico ».
(24) Il comma 1° dell’art. 2573 c.c., prima della modifica operata dall’art. 83 d.lgs. 4 dicem-
bre 1992, n. 480, disponeva che « Il diritto esclusivo all’uso del marchio registrato può essere tra-
sferito soltanto con l’azienda o con un ramo particolare di questa ».
(25) Sul punto, Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubbli-
cità, cit., p. 140; Frignani, I problemi giuridici del merchandising, cit., p. 39; Mosso, Legitti-
mazione alla registrazione del marchio e contratto di merchandising, in Riv. dir. sport., 1992, p.
105. Sui problemi circa l’ammissibilità dei contratti di merchandising, anteriormente alla ri-
forma del 1992, si segnala anche Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Uber-
tazzi, Padova, 2009, p. 100.
(26) Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi d’impresa mediante merchan-
dising, cit., p. 516.
(27) Lo sottolinea Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pub-
blicità, cit., p. 140.
(28) Sul punto si segnala Magni, Merchandising e sponsorizzazione, Padova, 2002, p. 36.
SAGGI 205

provenienti dal mercato e già fatte proprie da una parte della dottrina (29) e
della giurisprudenza (30), in tema di trasferimento o concessione in licenza
del marchio, anche per prodotti o servizi distanti da quelli originari per i
quali il marchio è stato registrato.
In altre parole, dopo la riforma del 1992, non vi è più alcun ostacolo le-
gislativo – diversamente da quanto avveniva in passato – al fatto che il tito-
lare di un marchio che goda di “rinomanza”, secondo il testo dell’art. 1,
comma 1°, lett. c), legge marchi (ora comma 1°, art. 20, Codice Proprietà In-
dustriale), possa invocare una protezione allargata, che si estende ben al di
là dei settori nei quali egli abbia portato il segno alla sua originaria afferma-
zione (31). Tale disposizione, infatti, prevede che il titolare del marchio che
gode di rinomanza « ha il diritto di vietare a terzi, salvo il proprio consenso, di
usare . . . c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servi-
zi anche non affini » (art. 20, comma 1°, lett. c), Codice Proprietà Industria-
le). In tal modo, il titolare del marchio che gode di rinomanza ha la possibi-
lità di consentire l’uso del proprio marchio per prodotti anche non affini ai
propri e cioè per prodotti frutto di un’attività imprenditoriale diversa rispet-
to a quella esercitata (32) oppure anche per prodotti per i quali egli non ha re-
gistrato il proprio marchio (33).
Né tantomeno vi sono più incertezze, di fronte al nuovo testo dell’art.
22 l. m. (attuale art. 19, Codice Proprietà Industriale), che chiunque possa
registrare un segno come marchio anche quando non abbia intenzione di
procedere in prima persona alla fabbricazione ed al commercio dei beni con
esso contrassegnati ma programmi invece di concedere la facoltà di sfrutta-
mento economico del segno ad un terzo a ciò autorizzato (34). In altre paro-
le, sono definitivamente superate le obiezioni circa la meritevolezza del-

(29) Al riguardo, Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi
di società, licenze, merchandising, cit., p. 190; Frignani, I problemi giuridici del merchandi-
sing, cit., p. 42; Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., p. 491.
Sul punto anche Auteri, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotto « origina-
li », Milano, 1973, p. 316.
(30) In proposito, si veda l’evoluzione giurisprudenziale verso la legittimazione della pra-
tica del merchandising, riportata in Auteri, Lo sfruttamento del valore suggestivo dei marchi
d’impresa mediante merchandising, cit., p. 520; Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi in-
tegrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 178; Frignani, Dassi,
Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 140.
(31) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41; Di Cataldo, I contratti di merchan-
dising nella nuova legge marchi, cit., p. 69; Marasà, voce Merchandising, cit., p. 4.
(32) Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 504.
(33) Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 70.
(34) Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., p. 41.
206 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

l’interesse allo sfruttamento del valore attrattivo del marchio da parte di chi
lo registri in funzione dell’utilizzo nell’impresa altrui (35). La disposizione di
cui all’art. 22 l. m. (attuale art. 19, Codice Proprietà Industriale), infatti, di-
spone che « può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utiliz-
zi, o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o commercio di prodotti o
nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il
controllo o che ne facciano uso con il suo consenso ».
In questo modo, la rilevanza della disposizione è rappresentata non so-
lo dal fatto che la novella del 1992 ha svincolato la titolarità del marchio dal-
la qualità di imprenditore, così che qualsiasi soggetto è legittimato a pre-
sentare la relativa domanda, ma anche dalla circostanza che il legislatore
espressamente ha ammesso che possa essere titolare di un marchio chi si ri-
proponga unicamente di cederne ad altri il diritto di farne uso, per le classi
cui si estende la tutela conferitagli dalla legge dietro pagamento di un corri-
spettivo (36). Tale previsione ben testimonia la volontà di allontanamento
da un sistema nel quale la sola funzione giuridicamente tutelata del mar-
chio era quella d’indicazione di provenienza, al fine di riconoscere allo stes-
so anche un valore suggestivo od evocativo in sé (37); non si potrebbe com-
prendere, d’altronde, la possibilità che la titolarità del marchio sia svincola-
ta dalla qualità di imprenditore.
A completamento dell’assunto circa la meritevolezza dell’interesse allo
sfruttamento del valore attrattivo del marchio, da parte di chi lo registra in
funzione dell’utilizzazione nell’impresa altrui, è il testo profondamente in-
novato degli artt. 15 l. marchi (attuale art. 23, Codice Proprietà Industriale)
e 2573 c.c. (38); tali previsioni, infatti, consentono espressamente – a diffe-
renza della normativa previgente – che la circolazione del segno distintivo
dei beni avvenga anche in assenza di un coevo trasferimento di un ramo

(35) Marasà, La circolazione del marchio, in Riv. dir. civ., 1996, II, p. 493; Id., voce Mer-
chandising, cit., p. 4.
(36) Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Ubertazzi, Padova, 2009, p. 97;
Cavani, Commento generale alla riforma, in La riforma della legge marchi, a cura di Ghidini,
Padova, 1995, p. 8; Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p.
68; Ricolfi, Il contratto di merchandising, cit., il quale rileva come la riforma del diritto dei
marchi abbia incrementato la sicurezza dei contratti di merchandising aventi per oggetto un
marchio ed abbia portato ad una parificazione del trattamento di questi accordi con quello de-
gli accordi concernenti opere dell’ingegno, nomi e immagine. Per il character ed il personality
merchandising, non si poteva, infatti, mettere in discussione la validità dell’operazione, atteso
che il nostro ordinamento sicuramente attribuisce una specifica protezione a ciascuna delle
entità corrispondenti (e v. artt. 7-9 e 19 c.c.; 12 l. autore).
(37) Mayr, in Codice della proprietà industriale, cit., p. 96; al riguardo anche Di Cataldo,
I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 70.
(38) Marasà, La circolazione del marchio, cit., p. 493.
SAGGI 207

aziendale. Siffatto principio vale sia per la cessione sia per la concessione in
licenza del marchio, ammettendosi che la concessione riguardi anche solo
una parte dei prodotti o servizi per il quale il marchio è protetto (art. 15,
comma 2°, l. marchi). In questo modo, viene confermato il riconoscimento
di un valore attrattivo al marchio, che ne fa un “bene” in sé, suscettibile di
essere goduto – direttamente od indirettamente (tramite licenze) – e di po-
ter circolare indipendentemente dal complesso aziendale in cui sarà inseri-
to (39). In seguito alla riforma, pertanto, il concedente può procedere alla
concessione del marchio “parziale”, per categorie di prodotti anche distanti
da quelli originari, e disinteressarsi del tutto delle scelte produttive del con-
cessionario in merchandising (40). Il limite a siffatte operazioni è rappresen-
tato dall’esigenza che dal trasferimento e dalla licenza del marchio non de-
rivi « inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’ap-
prezzamento del pubblico » (41). Tale disposizione trova il proprio completa-
mento nel comma 2°, lett. a), dell’art. 14, Codice Proprietà Industriale, se-
condo il quale il marchio decade « se sia divenuto idoneo ad indurre in ingan-
no il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodot-
ti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o
con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato ».
Il marchio, inoltre, può essere oggetto di licenza non solo parziale ma
anche non esclusiva, nel senso che il licenziatario può consentire a più sog-
getti di usare il marchio per gli stessi prodotti oppure può continuare a far-
ne uso lui stesso. In caso di licenza non esclusiva, comunque, si vuole evi-
tare il rischio che vengano immessi sul mercato, con lo stesso marchio, pro-
dotti o servizi apparentemente identici ma in realtà qualitativamente diver-
si, con conseguente rischio di inganno per il consumatore (42). Per questa
ragione, la norma prevede che la licenza non esclusiva sia lecita a condizio-
ne che il licenziatario si obblighi a porre in commercio prodotti “eguali” a
quelli corrispondenti messi in commercio con lo stesso marchio dal titolare
o da altri licenziatari.

(39) In questi termini, Marasà, La circolazione del marchio, cit., p. 479; Id., voce Merchan-
dising, cit., p. 4.
(40) Prima della riforma, infatti, la legittimità del contratto di merchandising era giustifica-
ta sulla base dei controlli di qualità riservati al licenziante e con il divieto per il licenziatario di
apporre il marchio del primo su prodotti che non avessero superato positivamente il control-
lo (Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture, gruppi di società, licenze,
merchandising, cit., p. 190; Id., Diritto civile e commerciale, cit., p. 181.)
(41) Sulla ratio di tale disposizione, Auteri, Cessione e licenza di marchio, in La riforma
della legge marchi, a cura di Ghidini, Padova, 1995, p. 97.
(42) Franzosi, in Il codice della proprietà industriale, a cura di Scuffi, Franzosi, Fittante,
Padova, 2005, p. 167; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, p. 66; Vanzetti, Di Ca-
taldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 258.
208 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

La svolta legislativa così sancita risulta assai favorevole al merchandising


e più in generale allo sfruttamento del valore suggestivo, attrattivo o pubbli-
citario che dir si voglia dei marchi. Lo stesso segno potrà dunque essere usa-
to da una pluralità di soggetti privi di alcun reciproco collegamento anche in
settori assai vicini – a conferma che l’assolvimento della funzione distintiva
e di indicazione di provenienza non è più il principio cardine per tutta l’in-
terpretazione della normativa in materia di diritto dei marchi (43) – tenuto
conto che la nuova disciplina ha inteso tutelare anche la “rinomanza dei
marchi” cioè la reputazione ed il valore in sé di cui gode il marchio e che può
essere sfruttato a fini commerciali (44). In questo modo, non si pongono più
dubbi sulla legittimità di un contratto che abbia per oggetto il marchio cele-
bre in sé considerato, quale puro e semplice valore di scambio, reso appeti-
bile sul mercato dalla sua comprovata qualità di collettore di clientela (45).

3. – Il merchandising delle società sportive presuppone la possibilità di


tutelare legalmente il segno distintivo del club. A questo proposito, si è già
ricordato come nel lontano 1979, la Lega Nazionale Calcio invitasse le so-
cietà alla revisione del proprio marchio, emblema e logotipo, nonché al de-
posito ed alla registrazione degli stessi, al fine di garantirsi un’eventuale
esclusiva, per ogni settore merceologico, nonché per tutelarsi contro ogni
abuso legalmente perseguibile (46). Sussistevano però dubbi – almeno fino
alle riforma della legge marchi del 1992 – che una società sportiva fosse tito-
lare di un diritto esclusivo sul proprio segno distintivo e potesse tutelarlo le-
galmente; in particolare, si ponevano ostacoli giuridici a considerare il se-
gno distintivo delle società sportive come un marchio in senso tecnico e di
conseguenza appariva problematica una tutela dello stesso in modo pie-
no (47). Come si è sottolineato nel paragrafo precedente, infatti, la disciplina
sui marchi in vigore prima del 1992 era improntata ad una tutela del segno
in funzione esclusivamente di indicazione di provenienza del prodotto con-
trassegnato, nel senso che detto segno deve designare i prodotti posti in es-
sere e commercializzati dalla stessa azienda. Tuttavia, le società sportive,

(43) Di Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 71; Ricol-
fi, Il contratto di merchandising, cit.
(44) Magni, Merchandising e sponsorizzazione, cit., p. 45; Vanzetti, La nuova legge mar-
chi, cit., p. 103.
(45) In questo senso già Galgano, Il marchio nei sistemi produttivi integrati: sub-forniture,
gruppi di società, licenze, merchandising, cit., p. 178.
(46) Al riguardo, Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit.,
p. 509; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-
stiche, cit., p. 137; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 170.
(47) Sul punto anche De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 170.
SAGGI 209

normalmente, non producono direttamente alcun bene materiale ed i sim-


boli delle stesse sono nati, pertanto, non per contraddistinguere prodotti da
loro provenienti ma per essere proficuamente commercializzati mediante
la cessione in uso a terzi (48). Vi era così incertezza sulla legittima titolarità di
marchi di impresa in capo alle società sportive in settori diversi da quello
della produzione di spettacoli sportivi, tenuto conto che, mancando tra l’al-
tro il fine di lucro (49), l’attività direttamente svolta da dette società era ne-
cessariamente limitata all’evento sportivo, senza alcuna possibilità di esten-
dere la propria attività ad altri settori (50). Di conseguenza, appariva alquan-
to difficile individuare una base giuridica per le pretese delle società sporti-
ve, alla luce di siffatta ricostruzione che presupponeva un’impresa in atto
nel settore specifico in cui il marchio veniva registrato (51); in tal modo, se
un marchio veniva registrato per una pluralità di classi, la registrazione, ge-
neralmente, non era considerata valida se non per le classi alle quali era at-
tinente l’impresa in essere (52). In altri termini, era fortemente dubbio, ad
esempio, che una squadra di calcio potesse essere titolare di un marchio re-
lativo a prodotti che nulla avevano a che fare con l’oggetto sociale della stes-
sa società sportiva (53).
A ciò si aggiunga che, come già esaminato in precedenza, vi erano non
poche incertezze sulla legittimità stessa dei contratti di merchandising. Per
questa ragione, vi era il rischio che la concreta realizzazione degli interessi
perseguiti dalle società sportive con la sottoscrizione di accordi di merchan-
dising del proprio marchio venisse del tutto vanificata (54).

(48) De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-


stiche, cit., p. 144.
(49) Al riguardo, l’art. 10 della l. 23 marzo 1981, n. 91, in tema di rapporti tra società e spor-
tivi professionisti nel prevedere che « possono stipulare contratti con atleti professionisti solo
società sportive costituite nella forma di s.p.a o di s.r.l. », disponeva al comma 2° che « L’atto
costitutivo deve prevedere che gli utili siano interamente reinvestiti nella società per il perse-
guimento esclusivo dell’attività sportiva ». A seguito della modifica di cui all’art. 4, comma 1°,
del d.l. 20 settembre 1996, n. 485, il comma 3° dell’art. 10 della l. 23 marzo 1981, n. 91, dispone
che « L’atto costitutivo deve provvedere che una quota parte degli utili, non inferiore al 10 per
cento, sia destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva ».
(50) Rossotto, Santoni De Sio, Sindico, I marchi nel pallone, in Dir. ind., 1999, p. 324.
(51) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra mer-
chandising e free-riders, in AIDA, 2003, p. 234; M.Bianca, I contratti di sponsorizzazione, cit., p.
178; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calcistiche,
cit., p. 137; Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p. 496.
(52) Vanzetti, Relazione di sintesi, in Aida, 1993, p. 142.
(53) Frignani, Dassi, Introvigne, Sponsorizzazione, Merchandising, Pubblicità, cit., p. 138.
(54) De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-
stiche, cit., p. 137.
210 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Per ovviare a tale problematica, si è sostenuto di tutelare il segno distin-


tivo delle società sportive attraverso la disciplina sul diritto d’autore, avva-
lendosi della difesa offerta al simbolo grafico, in virtù del carattere creativo
dell’emblema (55); ugualmente, sempre per offrire una idonea tutela, si so-
no invocate le norme del codice civile riguardanti il diritto al nome, applica-
bili non solo alle persone fisiche ma anche a quelle giuridiche (56). Siffatte
ricostruzioni erano avvalorate anche dalla circostanza che il titolare del di-
ritto d’autore oppure al nome non avrebbe incontrato, nelle operazioni di
merchandising, le difficoltà e gli ostacoli giuridici già segnalati, nel paragrafo
precedente, in merito ai contratti di licenza d’uso del marchio (57).
Con la riforma del 1992, con cui si è reciso il rapporto tra titolarità del-
l’azienda e titolarità del marchio (e quest’ultimo ha perso la sua funzione
esclusivamente di indicatore di provenienza del prodotto (58), è stato possi-
bile offrire non solo una piena legittimazione al contratto di merchandising
ma anche una tutela più forte al marchio delle società sportive. Si è già evi-
denziato, infatti, come a seguito dell’evoluzione della normativa, si sia svin-
colata la titolarità del marchio dalla qualità di imprenditore e si sia ammes-
so che chiunque possa procedere alla registrazione di un segno come mar-
chio, anche se non abbia intenzione di procedere alla fabbricazione ed al
commercio ma abbia intenzione di concedere la facoltà di sfruttamento a
terzi (art. 22 l. m., attuale art. 19, Codice Proprietà Industriale).
Nello specifico, la tutela attuale del marchio sportivo è individuata nel
comma 3° dell’art. 8 del Codice della Proprietà Industriale (59) (art. 21, com-
ma 3°, l. m., dopo la riforma del 1992), che consente la possibilità di regi-
strare o usare (60) come marchio, « se notori » « i nomi di persona, i segni usa-

(55) De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-


stiche, cit., p. 152; De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 171. Sulla tutela del-
l’emblema sulla base del diritto d’autore, si segnala anche Auteri, I nomi e i segni distintivi no-
tori delle manifestazioni e degli enti sportivi fra la protezione del nome e quella del marchio, in
Nuova giur. civ., 1995, I, p. 111. In senso critico, Ricolfi, I segni distintivi dello sport, in AIDA,
1993, p. 137.
(56) De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 173; M. Bianca, I contratti di
sponsorizzazione, cit., p. 179; Auteri, I nomi e i segni distintivi notori delle manifestazioni e de-
gli enti sportivi fra la protezione del nome e quella del marchio, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 104.
(57) De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società calci-
stiche, cit., p. 156.
(58) Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e sponsorizzazione, cit., p. 1103.
(59) Al riguardo, Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello
sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 247; su tale disposizione, tra gli altri, Borghese,
in Il codice della proprietà industriale, a cura di Scuffi, Franzosi, Fittante, Padova, 2005, p. 111;
Mayr, in Codice della proprietà industriale, estratto da Ubertazzi, Padova, 2009, p. 30.
(60) Si segnala la modifica introdotta dall’art. 6, comma 2°, del d. lgs. 13 agosto 2010, n. 131.
SAGGI 211

ti in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, le denominazio-


ni e sigle di manifestazioni e quelli di enti ed associazioni non aventi finalità
economiche, nonché gli emblemi caratteristici di questi ». In tal modo, si rico-
nosce una categoria di segni registrabili come marchi di cui si assicura l’e-
sclusiva all’autore della notorietà od al suo avente causa, in deroga al gene-
rale principio della libera registrabilità (61); infatti, soltanto chi è l’artefice
della notorietà ha diritto di registrarla come marchio o farla registrare come
marchio da terzi, al fine di sfruttarla commercialmente, in esclusiva, per
qualsiasi settore merceologico, soprattutto attraverso lo strumento del mer-
chandising (62). La tutela è alquanto estesa poiché la disposizione sembra in-
trodurre un vero e proprio divieto generale di registrazione in malafede, ap-
plicabile anche all’ipotesi in cui il registrante, giocando per così dire d’anti-
cipo, si appropri di un segno la cui notorietà extracommerciale sia soltanto
in corso di formazione (63).
È evidente, pertanto, la finalità di tutelare in pieno l’interesse dell’aven-
te diritto a trarre un vantaggio economico dalla notorietà del proprio nome
o segno ed evitare così ogni fenomeno di parassitismo (64); contestualmen-
te, la disposizione ben testimonia l’allontanamento da una costruzione del
marchio esclusivamente come segno distintivo e dalla conseguente tesi che
ne limitava la tutela soltanto al valore distintivo e non a quello suggestivo:

(61) Trib. Modena, 26 giugno 1994, in Nuova giur. civ., 1995, I, p. 99.
(62) Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, p. 209; Vanzet-
ti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, p. 103; Ammendola, Lo sfruttamento commerciale
della notorietà civile di nomi e segni, Milano, 2004, p. 33; Sironi, Considerazioni in tema di mar-
chi olimpici e di segni distintivi dello sport, in AIDA, 2007, p. 773; Galli, Estensione e limiti del-
l’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra merchandising e free-riders, cit., p. 247.
(63) Galli, Segni distintivi e industria culturale, in AIDA, 2003, p. 482, il quale fa espresso
riferimento al precedente di App. Venezia, 17 giugno 2002, in Giur. dir. ind., 2002, n. 4446, la
quale pur non applicando l’art. 22 l.m., come modificato nel 1992, in quanto non ancora in vi-
gore al momento dei fatti, ha comunque ritenuto che il principio espressamente codificato da
esso, dovesse ritenersi operante. Sulla tutela anticipata, predisposta dalla disposizione, ri-
spetto al momento di sfruttamento commerciale, si segnala anche Fazzini, Profili della tutela
della funzione suggestiva del marchio nella nuova legge (in margine a due sentenze sul marchio di
società calcistiche), in Riv. dir. ind., 1995, II, p. 160; Ricolfi, I segni distintivi dello sport, cit., p.
123.
(64) Ammendola, Lo sfruttamento commerciale della notorietà civile di nomi e segni, cit., p.
18. Al riguardo, Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport
tra merchandising e free-riders, cit., p. 248, sottolinea come la tutela dovrebbe estendersi an-
che alle ipotesi in cui il segno venga usato da un terzo in funzione non solo distintiva dei pro-
dotti o servizi per cui è usato, bensì anche per rendere questi prodotti o servizi più attraenti
agli occhi del pubblico e, nel caso di specie, di quella parte del pubblico che apprezza il segno
come simbolo non commerciale ma sportivo.
212 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

nel caso di specie, invece, vi è il riconoscimento del valore suggestivo di de-


terminati segni e della loro capacità di vendita, che così facendo potrà esse-
re sfruttata attraverso il merchandising, anche al di fuori degli ambiti in cui i
soggetti di cui all’art. 8, Codice Proprietà Industriale, svolgono l’attività che
ha dato origine alla notorietà (65).
Si consideri, infine, che la notorietà di cui all’art. 8 del Codice della Pro-
prietà Industriale viene a dirimere l’eventuale problematica connessa al fat-
to che non sempre il segno di una società sportiva potrebbe avere la capacità
distintiva di cui all’art. 13 dello stesso Codice, essendo la maggior parte dei
marchi sportivi dei toponimi, che descrivono la provenienza geografica del
club e pertanto meramente descrittivi (66). Un toponimo, infatti, può pre-
sentare carattere distintivo, là dove il segno, in ragione dell’uso che ne sia
fatto dall’impresa che ne è titolare, abbia acquistato una certa notorietà co-
sì da essere istintivamente associato nella mente dei consumatori a tale im-
presa (67). Senza contare, inoltre, che un marchio sportivo originariamente
privo di capacità distintiva in quanto toponimo è suscettibile di acquisire ca-
rattere distintivo poiché viene generalmente arricchito di dettagli figurativi,
che lo trasformano da semplice in complesso, così come tra l’altro auspica-
to dalla Lega calcio sin dal 1979 (68). A ciò si aggiunga che si tende anche a ri-
tenere ammissibile la registrazione come marchi d’impresa dei colori socia-
li delle squadre, in virtù dell’art. 7, Codice Proprietà Industriale, purché tali
colori possano evocare distintamente, nella percezione che ne ha il pubbli-
co dei consumatori, una data società sportiva (69).

(65) Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 103; Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di di-
ritto industriale, cit., p. 214.
(66) Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione,
in Riv. dir. econ. sport, 2006, p. 63.
(67) Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, cit., p. 169; Maugeri, Considerazioni in
tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 851.
(68) Cortesi, Marchio commerciale e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione,
cit., p. 63.
(69) Liotta, Santoro, Lezioni di diritto sportivo, cit., p. 170; Cortesi, Marchio commercia-
le e società di calcio: idiosincrasia e mal celata passione, cit., p. 65; Maugeri, Considerazioni in
tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 854; sui marchi di colore,
Sciacca, Note in tema di marchio di forma e di colore, in Giur. it., 2008, f. 11, p. 2492; Maugeri,
Considerazioni in tema di illecito confusorio delle società sportive, in AIDA, 2007, p. 842; Mor-
ri, La rappresentazione grafica del marchio nelle decisioni dell’UAMI e degli organi giurisdizio-
nali comunitari, in Riv. dir. ind., 2006, f. 6, 1, p. 252; Toni, Brevi note in tema di novità e capacità
distintiva del marchio di forma, in Giur. comm., 2005, II, p. 605; Biglia, Il marchio di forma nel-
la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ce, in Riv. dir. ind., 2004, II, p. 399; Fabrizio-Salva-
tore, Sul marchio di forma e sull’imitazione servile della forma del prodotto, in Foro it., 2000, I,
c. 3298.
SAGGI 213

4. – Sono ben evidenti le differenze e le diverse funzioni svolte dal con-


tratto di merchandising rispetto a quello di sponsorizzazione; basti soltanto
pensare, ad esempio, che nella sponsorizzazione è il marchio che si avvan-
taggia dall’essere associato a qualcosa (come un evento, il nome di un club
o di un atleta) in grado di trasmettere un messaggio positivo per i consuma-
tori, mentre nel merchandising è il prodotto su cui viene apposto il marchio
celebre a trarre beneficio dall’abbinamento (70).
Sussiste, tuttavia, una stretta attinenza, in ambito sportivo, tra il mer-
chandising e la cd. sponsorizzazione tecnica (71) allorché quest’ultima ri-
guardi l’abbigliamento utilizzato per lo svolgimento dell’attività agonistica
(come indumenti da gara e da allenamento), nell’ambito di uno sport di
squadra, soprattutto se a livello professionistico (72), come ad esempio, il
calcio o la pallacanestro. In questa ipotesi, infatti, la sponsorizzazione si ac-
compagna generalmente ad un accordo di merchandising, per lo sfrutta-
mento commerciale del marchio sportivo sull’abbigliamento tecnico, la cui
importanza è ben testimoniata ad esempio dai rilevanti dati che talvolta si
registrano nella vendita delle repliche delle maglie della prima squadra di
club professionistici (73) oppure più in generale dai ricavi che le società pro-
fessionistiche traggono dai contratti di sponsorizzazione tecnica (74).

(70) Delli Priscoli, Il merchandising tra franchising e sponsorizzazione, in Giur. comm.,


2004, 1, p. 1108, il quale tuttavia ritiene non incompatibile con la struttura della sponsorizza-
zione il fatto che sia lo sponsorizzato a pagare un corrispettivo allo sponsorizzante. Al riguar-
do, anche Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., p. 425, il qua-
le evidenzia come nella sponsorizzazione lo sponsee assuma obblighi positivi di facere ed in
particolare obblighi aventi ad oggetto forme di veicolazione del marchio e/o nome dello
sponsor, al fine di favorire la divulgazione del messaggio promozionale. Nel merchandising il
titolare del marchio oppure con riguardo al personality merchandising il personaggio celebre
non è obbligato a modificare in alcun modo il proprio comportamento dovendo solo accon-
sentire l’utilizzo del proprio marchio o di altro segno distintivo sui prodotti realizzati dalla
controparte contrattuale.
(71) Per sponsorizzazione tecnica si intende il contratto nel quale l’azienda sponsor si ob-
bliga a fornire allo sponsee una serie di beni o di servizi, strumentali all’attività da questo svol-
ta (Amato, voce Sponsorizzazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1993, p. 4; sui vari tipi di spon-
sorizzazione riscontrabili nella casistica, M. Bianca, I contratti di sponsorizzazione, Rimini,
1990, p. 65; De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il merchandising delle società
calcistiche, cit., p. 120; Franceschelli, I contratti di sponsorizzazione, in Giur. comm., 1987, I,
p. 295).
(72) Sul professionismo sportivo, si veda l’art. 2 della l. 23 marzo 1981, n. 91.
(73) Al riguardo, sono rilevanti i dati riportati in Teotino, Uva, La ripartenza, Bologna,
2010, p. 27, relativi al merchandising del Real Madrid nel primo mese dopo l’ingaggio dei gio-
catori Kakà e Cristiano Ronaldo; in particolare, sono state vendute maglie di tali giocatori, per
un ammontare di circa 48 milioni di euro.
(74) In proposito, sono significativi i dati della Juventus, di cui al Prospetto informativo di
214 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Nello specifico, la sponsorizzazione tecnica ed il merchandising danno


luogo ad un’ipotesi di collegamento negoziale, in cui sono ravvisabili di-
stinti contratti, ciascuno con una propria causa autonoma, destinati a rea-
lizzare una unitaria operazione economica (75). In particolare, attraverso sif-
fatta operazione, l’azienda sponsor non solo acquisisce la qualifica ed i con-
seguenti diritti di sponsor tecnico (tra cui il diritto di apporre il proprio mar-
chio sul supporto tecnico utilizzato dallo sponsee, al fine di acquisire visibi-
lità), ma anche il diritto di produrre, distribuire e commercializzare, in
esclusiva, prodotti di abbigliamento ed accessori, recanti i simboli distintivi
della società o dell’evento sponsorizzato (76). Contestualmente, la società
sportiva, oltre a ricevere un eventuale corrispettivo in denaro oltre alla for-
nitura di materiale tecnico, a fronte della concessione del diritto di sponsor
tecnico, può sfruttare economicamente – attraverso il merchandising e le
conseguenti royalty sulle vendite di prodotti – il valore attrattivo incorpora-
to nel proprio segno distintivo, monopolizzando il commercio dell’abbi-
gliamento ufficiale della squadra nonché degli accessori che riproducono
l’emblema del club (77).
Con riguardo ai diritti spettanti alla società sponsorizzata, si consideri
che la fornitura non è una liberalità d’uso, ma si pone in rapporto sinallag-
matico con le prestazioni dello sponsorizzato (78); inoltre, il valore della for-

offerta in opzione ai soci e ammissione a quotazione di azioni ordinarie Juventus Football Club
s.p.a., cit., p. 72; in particolare, si evince che il corrispettivo minimo complessivo previsto dal
contratto stipulato nel novembre 2001 con lo sponsor tecnico dell’abbigliamento, per i dodici
anni del rapporto è pari a euro 157,3 milioni. A tale somma, inoltre, debbono aggiungersi le
forniture annuali di materiale tecnico nonché le royalties annue sulle vendite.
(75) Sui contratti collegati, tra gli altri, Carusi, La disciplina della causa, in I contratti in ge-
nerale, a cura di Gabrielli, I, Torino, 2006, p. 640; Scognamiglio, Causa e motivi del contratto,
in Tratt. del contratto, diretto da Roppo, II, Regolamento, a cura di Vettori, Milano, 2006, p.
184; Ferrando, I contratti collegati: principi della tradizione e tendenze innovative, in questa ri-
vista, 2000, p. 127; Sangermano, La dicotomia contratti misti-contratti collegati: tra elasticità
del tipo ed atipicità del contratto, in Riv. dir. comm., 1996, II, p. 551; Castiglia, Negozi collegati
in funzione di scambio (su alcuni problemi del collegamento negoziale e della forma giuridica del-
le operazioni economiche di scambio), in Riv. dir. civ., 1979, p. 397; Orlando Cascio-Argirof-
fi, voce Contratti misti e contratti collegati, in Enc. giur. Treccani, IX, Roma, 1988.
(76) Su un caso in cui lo sponsor tecnico di una squadra di calcio, che aveva il diritto di
commercializzare in esclusiva i prodotti di abbigliamento contraddistinti dai segni distintivi
della squadra di calcio, ha ottenuto il risarcimento del danno da un’azienda che aveva pro-
dotto, fatto produrre e messo in vendita magliette di calcio recanti il nome ed il marchio regi-
strato della squadra, si segnala Cass., 2 luglio 2007, n. 14967.
(77) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra mer-
chandising e free-riders, in AIDA, 2003, p. 232.
(78) Così, Cass., 29 maggio 2006, n. 12801, in Resp. civ., 2007, p. 554, relativa alla fornitura
SAGGI 215

nitura, allo stesso modo dell’importo dell’eventuale corrispettivo in dena-


ro, a fronte dei diritti di sponsor tecnico riconosciuti, variano a seconda del
prestigio e dell’importanza della società sportiva parte del contratto. Più
nello specifico, il corrispettivo in denaro può essere determinato in una
somma predeterminata, a prescindere dal risultato sportivo conseguito, op-
pure può essere strettamente collegato ad esso. Anche nella prima ipotesi
(corrispettivo fisso), può essere previsto un corrispettivo integrativo, even-
tuale, in funzione del piazzamento del club nel Campionato nazionale op-
pure nella Coppa di Lega oppure in quelle europee. Generalmente è previ-
sto, in caso di retrocessione del club in una serie inferiore, una consistente
riduzione del corrispettivo in denaro, se non anche la facoltà per lo sponsor
tecnico di recedere dal contratto in essere.
A fronte, invece, della concessione della licenza di uso del marchio del-
la società sportiva in favore dello sponsor tecnico, quest’ultimo si impegna a
riconoscere e a corrispondere alla società sportiva una royalty, rappresenta-
ta da una percentuale sul fatturato realizzato dallo sponsor tecnico dalla
vendita dei prodotti tecnici con il marchio della società sportiva. Non si può
escludere, comunque, che anche una parte del compenso fisso od eventua-
le in denaro sia attribuita pure a titolo di corrispettivo per la concessione
della licenza del marchio del club e non solo per il conferimento dei diritti
di sponsor tecnico (79).
In ogni caso, accanto a queste prestazioni principali (conferimento del-
la qualifica e dei conseguenti diritti di sponsor tecnico, nonché licenza di
produrre e commercializzare determinati prodotti di abbigliamento a fron-
te sia di una fornitura di materiale sia dell’eventuale pagamento di un corri-
spettivo sia del riconoscimento di una royalty), le parti si impegnano ad ese-
guire prestazioni ulteriori anch’esse di una certa rilevanza.
Tali prestazioni, comunque, attengono prevalentemente al rapporto di
sponsorizzazione tecnica; così, ad esempio, la società sportiva si impegna a
far indossare i prodotti tecnici oggetto della fornitura e recanti il marchio
dello sponsor tecnico a tutti i giocatori delle varie squadre (dalla prima squa-

di biciclette da corsa ad una squadra ciclistica. Nello stesso senso anche Lodo Arbitrale, 15
febbraio 1991, in Riv. arbitrato, 1992, p. 131, con nota di M. Bianca, Sponsorizzazione tecnica e
inadempimento contrattuale. In senso diverso, a favore della liberalità d’uso, ex art. 770 c.c.,
nell’ambito della sponsorizzazione tecnica, si veda Inzitari, Sponsorizzazione, cit., p. 254; in
senso critico, Giacobbe, Atipicità del contratto e sponsorizzazione, cit., p. 414.
(79) Possono esservi comunque anche modalità differenti di corresponsione, come ad
esempio una percentuale di royalty in maniera crescente al raggiungimento di determinate
soglie di fatturato; oppure può essere concordata una royalty forfetaria fissa (flat fee), che pre-
scinde dai volumi di vendita. Sul punto, Colantuoni, Merchandising, in I contratti, 2006, p.
827.
216 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

dra al settore giovanile), a tutti i membri degli staff tecnici delle varie squa-
dre ed agli ausiliari di campo (come ad es. i raccattapalle), in occasione di
tutte le manifestazioni sportive, anche a carattere soltanto amichevole ed
anche in allenamento (80). Siffatto obbligo (di far indossare il materiale del-
lo sponsor tecnico) a carico della società si configura come una promessa
dell’obbligazione o del fatto del terzo, ex art. 1381 c.c. (81), con conseguente
responsabilità del promittente (sponsee) se il terzo (in primis i giocatori) non
adempie quanto promesso; in particolare, se i giocatori della società spon-
sorizzata non indossano l’abbigliamento fornito dallo sponsor, si ravvisa un
inadempimento contrattuale di non scarsa importanza, ex art. 1455 c.c., con
possibilità di risolvere il contratto e di richiedere il risarcimento degli even-
tuali danni (82). Il diritto dello sponsor tecnico di far indossare a tutti gli atle-
ti i prodotti oggetto della fornitura riguarda anche gli indumenti eventual-
mente indossati sotto la maglia da gioco durante la competizione. Tali in-
dumenti, infatti, devono recare, se i regolamenti federali non lo vietano, il
marchio dello sponsor tecnico (83), così che sussiste un inadempimento del-
la società se un atleta, ad esempio, durante l’esultanza per un gol si sfila la
maglia da gioco, mostrando una sottomaglia recante il logo di un’azienda
concorrente dello sponsor tecnico. Quali ulteriori prestazioni nell’ambito
del contratto di sponsorizzazione tecnica, il club si impegna, generalmente,
a rendere una serie di prestazioni promo-pubblicitarie in favore dello spon-
sor (come ad esempio, l’esposizione del marchio dello sponsor in occasione
delle partite ufficiali, per un certo numero di minuti a partita sui cartelloni
“rotor multiface” e/o su cartelli fissi; l’esposizione del marchio dello sponsor
sui biglietti e gli abbonamenti, sul backdrop ufficiale nell’area delle intervi-
ste, sulla cartella stampa, nella pagina sponsor del sito internet ufficiale; una
fornitura di biglietti; la possibilità di organizzare eventi con la partecipazio-
ne di alcuni giocatori della prima squadra, ecc.).
Si consideri, infine, che, sulla base della sempre più rilevante importan-
za acquisita dagli accordi di sponsorizzazione tecnica, i regolamenti delle
Federazioni sportive hanno previsto disposizioni specifiche al riguardo. Il
fine è anche quello di salvaguardare la corretta immagine del movimento e
dell’organizzazione sportiva di afferenza; in tal modo, siffatte disposizioni

(80) È fatto salvo generalmente il diritto per gli allenatori e lo staff medico e dirigenziale di
non utilizzare l’abbigliamento tecnico durante le competizioni.
(81) Vidiri, Il contratto di sponsorizzazione: natura e disciplina, cit., p. 19.
(82) Si segnala, Lodo Arbitrale, 15 febbraio 1991, cit.
(83) Al riguardo, l’art. 72, comma 4°, bis, delle Norme Organizzative Interne della F.I.G.C.
prevede che: « L’indumento eventualmente indossato sotto la maglia di giuoco potrà recare
esclusivamente il marchio dello sponsor tecnico di dimensioni non superiori alle misure regola-
mentari ».
SAGGI 217

finiscono per avere notevole incidenza sul normale evolversi delle relazio-
ni negoziali, rappresentando limiti non indifferenti all’autonomia negozia-
le delle parti (84). Così, ad esempio, con riguardo alla sponsorizzazione tec-
nica di squadre di calcio di serie A o B, il marchio dello sponsor tecnico (ol-
tre che quello del main sponsor e degli eventuali sponsor secondari), deve
essere apposto sulle maglie ed i pantaloncini indossati durante le partite uf-
ficiali, nel rispetto del Regolamento delle divise da gioco emanato dalla Lega
Nazionale Professionisti (85), nonché, sempre per quanto concerne la tenu-
ta da gioco dei calciatori, nel rispetto dell’art. 72 delle Norme Organizzative
Interne della F.I.G.C., con particolare riguardo al comma 4° (86).

(84) Briante, Savorani, Il fenomeno « sponsorizzazione » nella dottrina, nella giurispru-


denza e nella contrattualistica, cit., p. 645; Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e di-
ritti di immagine, cit., p. 521. Sul punto già, De Silvestri, Le operazioni di sponsorizzazione e il
merchandising delle società calcistiche, cit., p. 116.
(85) Al riguardo, si veda il Comunicato Ufficiale, n. 16 del 6 agosto 2008, « Regolamento
delle divise da gioco », con particolare riguardo agli artt. 6 e 7. In particolare, l’art. 6, Pubblicità
dello sponsor, prevede che: « 1. Si intende per sponsor il nome, il marchio, il logo, il prodotto
e/o il servizio di un’azienda. 2. È vietato recare pubblicità a categorie di prodotti per i quali
esista esplicito divieto di legge, nonché slogan di natura politica, confessionale o razziale, o di
cause che offendono il comune senso della decenza. 3. La pubblicità dello sponsor è consen-
tita solo sul davanti della maglia e la superficie totale occupata dalla stessa non deve superare
i 250 cm2. La pubblicità dello sponsor non è consentita sulle maniche, sul retro e sul colletto
della maglia da gioco. 4. Lo spazio di 250 cm2 può essere utilizzato da un numero massimo di
2 sponsor per gara. Lo spazio in questione può essere, nel rispetto del comma precedente, non
contiguo. 5. Le Società hanno la facoltà di utilizzare sponsor diversi per ogni gara. Le divise uf-
ficiali da gioco devono in ogni caso essere depositate e approvate dalla LNP secondo quanto
previsto dal successivo art. 10. 6. La pubblicità dello sponsor non è consentita sui pantalonci-
ni, sui calzettoni e all’interno dei numeri. Esclusivamente per le società partecipanti al Cam-
pionato di Serie B TIM, a titolo sperimentale per le stagioni sportive 2008/2009 e 2009/2010,
è consentita la pubblicità dello sponsor anche sui pantaloncini. La pubblicità dello sponsor è
consentita solo sul davanti dei pantaloncini e la superficie occupata dalla stessa non deve su-
perare i 40 cm2. Lo spazio di 40 cm2 deve essere utilizzato da un unico sponsor. 7. Il criterio per
la misurazione della pubblicità è il seguente: si misurano – vuoto per pieno – le singole unità
di cui si compone il marchio, intendendo per « unità »: nel caso di scritte, ogni singola parola;
nel caso di loghi, l’intera superficie dell’elaborazione grafica costituente il logo. Si considera
superficie di ogni singola unità (parola o logo) la forma geometrica piana regolare nella quale
l’unità può essere inscritta ». L’art. 7, Pubblicità del fornitore dell’abbigliamento sportivo,
prevede che: « 1. Sulle divise da gioco può essere apposto il marchio del fornitore dell’abbi-
gliamento sportivo. 2. Il fornitore dell’abbigliamento sportivo non è necessariamente il pro-
duttore dello stesso. 3. Il fornitore dell’abbigliamento sportivo può apporre sulle divise da
gioco il proprio marchio o nome nel rispetto delle seguenti norme:. . . ».
(86) L’Art. 72 (Tenuta di giuoco dei calciatori) delle Norme Organizzative Interne della
F.I.G.C. è consultabile, in http://www.figc.it/.
218 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Più in generale, i prodotti tecnici destinati alle competizioni ufficiali, ol-


tre al marchio della società sportiva ed a quello del main sponsor, possono
riprodurre il marchio dello sponsor tecnico, nel rispetto delle dimensioni
massime consentite dagli organismi sportivi, nazionali ed internazionali,
aventi competenza di volta in volta sulla manifestazione (87). Si pone, però,
il problema della vincolatività delle disposizioni emanate dagli organismi
sportivi – come le Federazioni, nazionali od internazionali – oppure degli
accordi assunti tra le società e la Lega di appartenenza, nei confronti di sog-
getti, quali gli sponsor, che sono estranei all’Ordinamento sportivo oppure
che non sono parti di siffatti accordi. Generalmente, la questione è supera-
ta tramite l’inserimento nel regolamento contrattuale di clausole di rinvio
ed accettazione con cui le parti, e quindi anche lo sponsor, richiamano ed
accettano le disposizioni Federali oppure gli accordi di Lega riguardanti il
contratto in questione.

5. – Con il contratto di sponsorizzazione tecnica, lo sponsor, general-


mente e salvo diverso accordo, acquisisce i diritti di riproduzione e diffusio-
ne dell’immagine del club (88), ma non acquisisce alcun diritto di sfrutta-
mento pubblicitario o promozionale dell’immagine dei singoli tesserati
della società. In altre parole, lo sponsor non può utilizzare l’immagine dei
singoli tesserati, per iniziative pubblicitarie e promozionali a meno che esse
non siano riconducibili alla squadra, nell’ambito dello svolgimento di gare,
allenamenti ed altre attività sociali (89); è fatta salva, ovviamente, l’ipotesi in

(87) Per l’abbigliamento non regolamentato (come ad es. quello riguardante l’allenamen-
to), invece, la collocazione e la dimensione dei rispettivi marchi sarà disposta in conformità
agli accordi assunti dalle parti.
(88) Su un caso di utilizzo non autorizzato dell’immagine della società e di un atleta, Pret.
Roma, 24 dicembre 1981, in Foro it., 1982, I, c. 565, secondo la quale « va inibita, con provve-
dimento cautelare d’urgenza, la diffusione – non autorizzata dagli aventi diritto – di un poster
bifacciale recante, su un lato, la fotografia di una squadra calcistica (A.S. Roma) e, sull’altro,
l’immagine, con firma e dedica, di un suo prestigioso giocatore (Paulo Roberto Falcao) ». Di
recente, si segnala il caso singolare esaminato da Cass., 11 agosto 2009, n. 18218, in Red. in
Mass. Giust. civ., 2009, p. 7-8, relativa ad un caso del tutto particolare, in cui la S.C. ha affer-
mato la tutela dell’immagine e della denominazione di un’imbarcazione che svolgeva com-
petizioni agonistiche; nel caso di specie un’azienda senza il consenso dell’avente diritto e sen-
za pagare il corrispettivo dovuto, aveva indebitamente riprodotto nel proprio calendario l’im-
magine e la denominazione dell’imbarcazione, usata anche come elemento di richiamo nel-
l’ambito di campagne pubblicitarie o di sponsorizzazione, inserendo nella vela il proprio mar-
chio.
(89) I doveri promo pubblicitari dei giocatori di calcio nei confronti della Società, sono in-
dividuati nell’art. 8 della Convenzione per la regolamentazione degli accordi concernenti attività
promozionali e pubblicitarie che interessino le società calcistiche professionistiche ed i calciatori
SAGGI 219

cui vi sia il consenso da parte dell’interessato oppure della società qualora a


questa sia stato ceduto il diritto di immagine da parte del singolo. Allo stes-
so modo, in virtù del contratto di merchandising con la società, l’azienda
non può utilizzare il nome o l’immagine del singolo sportivo, più o meno
celebre, al fine di produrre e porre in commercio beni destinati ad essere
contraddistinti dal nome o dall’immagine del singolo (cd. personality mer-
chandising) (90).
In questo modo, i singoli atleti hanno, eccetto l’ipotesi di diversi accor-
di in vigore con la società, piena ed autonoma libertà negoziale per la stipu-
la sia di contratti promo-pubblicitari (91), sia di merchandising per lo sfrutta-
mento commerciale del proprio nome od immagine (92); a quest’ultimo
proposito, si evidenzia come il già esaminato comma 3° dell’art. 8 del Codi-
ce della Proprietà Industriale tuteli, se notorio, anche il nome di persona, ri-
conoscendo all’avente diritto la possibilità di registrarlo e di usarlo come
marchio, anche attraverso lo strumento del merchandising. Più in generale,
viene in rilievo il diritto al nome ed all’immagine del singolo atleta che de-
ve intendersi come diritto della persona celebre allo sfruttamento commer-
ciale del proprio right of publicity (93).

ed i loro tesserati, del 23 luglio 1981, stipulata tra l’Associazione Italiana Calciatori e la Lega
Nazionale; successive modifiche ed integrazioni sono state apportate in data 27 luglio 1984.
(90) Sul cd. personality merchandising, tra gli altri, Ricolfi, I segni distintivi dello sport, in
AIDA, 1993, p. 116; Id., Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, cit., 434; Di
Cataldo, I contratti di merchandising nella nuova legge marchi, cit., p. 74.
(91) Di recente, al riguardo, Colantuoni, Novazio, Il contratto di cessione di immagine in
ambito sportivo, in Contratti, 2010, p. 204.
(92) Sulla differenza tra le operazioni di sponsorizzazione e di personality merchandising
del singolo atleta, si veda Ricolfi, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi,
cit., p. 426.
(93) Per questa ragione la notorietà della persona non è in grado da sola di giustificare, ex
art. 97 l. 22 aprile 1941, n. 633, il libero utilizzo dell’immagine, essendo necessario anche un fi-
ne informativo (Cass., 10 giugno 1997, n. 5175, in Foro it., 1997, c. 2920). Si è, infatti, ben evi-
denziato che: « la divulgazione del ritratto di persona notoria è lecita non per il fatto in sé che
la persona ritratta possa dirsi notoria ma se ed in quanto risponda ad esigenze di pubblica
informazione, sia pure in senso lato; quando cioè esclusiva ragione della diffusione sia quella
di far conoscere al pubblico le fattezze della persona in questione e di documentare visiva-
mente le notizie che di questa persona vengono date al pubblico. Quando, al contrario, la di-
vulgazione del ritratto avvenga per altro scopo che non sia quello legittimo di soddisfare l’esi-
genza pubblica di informazione, allora essa non è più una giustificazione, ma il fatto che in-
duce ad una divulgazione che porta vantaggi, spesso a contenuto patrimoniale, a colui che la
divulgazione esegue » (Cass., 2 maggio 1991, n. 4785, in Dir. informaz. informat., 1991, p. 837).
Su un caso di illecito utilizzo dell’immagine di un calciatore in assenza del consenso dell’in-
teressato, si segnala Trib. Tortona, 24 novembre 2003, in Danno e resp., 2004, p. 533, con nota
di Pardolesi, Il cigno rossonero: illecito sfruttamento e dilution dell’immagine.
220 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Con riguardo al diritto del singolo atleta di stipulare contratti promo-


pubblicitari, è senza dubbio significativo il contenuto della Convenzione
stipulata tra la Lega Nazionale Professionisti e l’Associazione Italiana Cal-
ciatori (A.I.C.) in data 23 luglio 1981 (94), relativa alla regolamentazione del-
le attività promozionali e pubblicitarie riguardanti le società calcistiche ed i
calciatori loro tesserati (95). A tal proposito, si ribadisce che i calciatori han-
no la facoltà di utilizzare in qualsiasi forma lecita e decorosa la propria im-
magine anche « a scopo di lucro, purché non associata a nomi, colori, maglie,
simboli o contrassegni della Società di appartenenza o di altre Società » e pur-
ché non in occasione di attività ufficiale (art. 1 Convenzione) e pertanto ri-
conducibile direttamente od indirettamente all’attività professionale svolta
a favore del club in cui milita. Allo stesso modo, il calciatore ha la facoltà di
concludere singolarmente contratti concernenti le scarpe da gioco da usare
durante le gare e gli allenamenti (art. 6).
Così facendo, può verificarsi la seguente situazione (peraltro alquanto
diffusa) in cui un atleta, pur tesserato per una società che abbia come spon-
sor tecnico per l’abbigliamento da gara e da allenamento una determinata
azienda, utilizzi legittimamente scarpe, durante le gare e gli allenamenti, re-
canti il logo di una azienda concorrente allo sponsor tecnico del club.
Ugualmente non sussiste alcun inadempimento – fatti salvi eventuali diver-
si accordi – se il tesserato indossi, nell’attività extrasportiva come il tempo
libero o nella pratica di sport non ricollegabile al club per cui è tesserato, ab-
bigliamento di un’azienda concorrente allo sponsor tecnico della società di
appartenenza. Anzi può accadere che l’atleta sia anche “testimonial” di
un’azienda concorrente, purché l’immagine non sia associata a quella della
società sportiva in cui l’atleta milita. A questo proposito, la Convenzione
(agli artt. 10 e 11) si premura espressamente di prevenire e risolvere situa-
zioni di contrasto o di incompatibilità tra i contratti di sponsorizzazione e/o
di pubblicità stipulati dalla società e quelli sottoscritti dall’atleta. Nello spe-
cifico, si tende a risolvere i possibili contrasti, affidandosi prevalentemente
alla reciproca buona fede ed al massimo spirito collaborativo, per comporre
sul nascere ogni possibile contrasto concorrenziale, anche se una maggior
tutela appare formalmente riservata ai contratti delle società in quanto in-
volgenti interessi collettivi (art. 11).
Si consideri, tuttavia, che quanto previsto dalla Convenzione è applica-
to con notevole elasticità, tenuto conto che essa è stata sottoscritta (1981) in
un’epoca in cui lo sfruttamento commerciale dell’immagine dei calciatori
professionisti nonché delle società era soltanto agli albori, senza che fosse-
ro immaginabili il rilievo economico e le punte di sviluppo attuali.

(94) Successive modifiche ed integrazioni sono state apportate in data 27 luglio 1984.
(95) Su tale convenzione anche De Giorgi, Sponsorizzazione e mecenatismo, cit., p. 166.
SAGGI 221

In ogni caso, lo sponsor tecnico della squadra se non può disporre del-
l’immagine del singolo giocatore può, per fini pubblicitari, legittimamente
utilizzare e riprodurre – in virtù degli accordi generalmente contenuti nel
contratto di sponsorizzazione – l’immagine dei giocatori della società spon-
sorizzata, nei limiti in cui l’immagine riguardi un “gruppo” di giocatori del-
la squadra e non pertanto il singolo atleta, nel contesto di gare, allenamenti
od altre attività ufficiali (96). A tal fine, ad esempio, con riguardo ai calciatori
della Nazionale, il vigente accordo tra F.I.G.C. e Associazione Italiana Cal-
ciatori, intende per « “immagine di un gruppo di calciatori della Nazionale”
qualsiasi immagine che sia evocativa delle Squadre o che – a prescindere da
ogni altro aspetto – raffiguri almeno quattro calciatori in azione di gioco o co-
munque nel contesto di una gara ». La Convenzione del 23 luglio 1981, relati-
va alle attività promozionali e pubblicitarie riguardanti le Società calcistiche
ed i calciatori loro tesserati, invece, definisce per fotografie di gruppo « le fo-
tografie di squadra raffiguranti almeno undici dei suoi componenti ». Si è già
evidenziato, tuttavia, che tale Convenzione appare ormai inadeguata, alla
luce del contesto attuale, relativo allo sfruttamento commerciale dell’im-
magine sia dei singoli atleti sia delle società. Appare più plausibile, pertan-
to, ritenere, al di là del mero dato numerico, che l’utilizzo della fotografia
durante un’azione di gioco e l’utilizzo dell’immagine di più atleti in posa
possa considerarsi legittimo, senza necessità del consenso dei singoli sog-
getti ritrattati, allorché l’immagine di “gruppo” utilizzata per fini pubblicita-
ri dallo sponsor della società non induca i terzi nell’erroneo convincimento
che siano uno o più atleti determinati e non la società, ad aver prestato il
consenso all’utilizzo dell’immagine per fini pubblicitari e promozionali (97).

6. – È fortemente avvertita l’esigenza di tutelare il marchio sportivo con-


tro eventuali contraffattori od imitatori. A tal fine, nei contratti di merchan-
dising sono spesso previste clausole specifiche; così ad esempio, dopo la
previsione generale che ciascun contraente è tenuto a fornire tempestiva
comunicazione all’altra parte di ogni violazione commessa da terzi, sono
generalmente regolamentate le modalità per intraprendere e coltivare le

(96) Al riguardo, si segnala Pret. Roma, 31 maggio 1983, in Giust. civ., 1984, I, p. 308, se-
condo la quale « Per effetto di convenzione intercorsa tra la lega nazionale calcio e l’associa-
zione italiana calciatori, compete alla società sportiva – senza necessità del consenso dei sin-
goli calciatori – il diritto di utilizzare (direttamente o mediante cessione al cd. sponsor) le fo-
tografie di gruppo della squadra stampate sul cd. poster ufficiale, purché si tratti di un’utiliz-
zazione pubblicitaria e/o promozionale dell’attività economica imprenditoriale svolta dalla
società nel campo dello spettacolo sportivo ».
(97) Sul punto Cantamessa, Merchandising, sponsorizzazioni e diritti di immagine, cit., p.
527.
222 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

azioni a difesa del marchio. In particolare, si vuole disciplinare se dette azio-


ni spettino autonomamente a ciascuna delle parti, oppure se debbano esse-
re esercitate congiuntamente oppure se soltanto il merchandisee possa prov-
vedere direttamente alla difesa del marchio licenziato (98). Dall’esigenza di
tutelare il marchio concesso in licenza prende le mosse anche il progetto di
legge, in tema di Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società
sportive, enti e federazioni, e per la disciplina della loro utilizzazione commer-
ciale e delle sponsorizzazioni sportive, a cui si è fatto riferimento in preceden-
za. In particolare, esso nasce dalla constatazione sia di una carenza norma-
tiva idonea a contrastare, “con regole e con criteri precisi” l’attività di contraf-
fazione dei marchi e dei prodotti sportivi nonché il fenomeno dell’ambush
marketing, sia delle gravissime perdite in termini di fatturato che sono ge-
nerate, nell’ordinamento sportivo, dal fenomeno della contraffazione dei
marchi sportivi.
Anche in ambito comunitario, è stata affermata l’esigenza di tutelare il
marchio delle società sportive; in particolare, con la sentenza della Corte di
Giustizia del 12 novembre 2002 NC/206/01, relativa al celebre club inglese
dell’Arsenal, la Corte comunitaria si è pronunciata sulla tutelabilità del
marchio Arsenal, appartenente all’omonimo club calcistico, nei confronti
di un venditore di prodotti non ufficiali (nel caso di specie, sciarpe) ripor-
tanti il marchio del club, in un chiosco che comunque esponeva un cartello
con l’avvertenza che gli articoli in vendita non erano ufficiali. In tale occa-
sione, la Corte comunitaria ha affermato la tutelabilità del marchio in que-
stione a nulla rilevando l’avvertenza sulla non provenienza dei prodotti dal
club; nella motivazione, infatti, si è evidenziato che se i prodotti, dopo esse-
re stati venduti nel luogo in cui appariva l’avvertenza, erano presentati a ter-
zi, costoro potevano essere indotti ad interpretare il segno come indicante
l’Arsenal quale impresa di provenienza dei prodotti.
Tale importante precedente, pertanto, incentra la protezione del mar-
chio sportivo esclusivamente attraverso il riferimento alla confondibilità
sull’origine e sulla provenienza del prodotto, senza tenere in considerazio-
ne, comunque, che il marchio sportivo comunica non solo un messaggio
sulla provenienza ma anche una componente suggestiva legata indubbia-
mente all’immagine mentale di cui il marchio è caricato; di conseguenza,
consentire a soggetti non collegati con il titolare del marchio di mettere in
commercio prodotti recanti segni che, pur in assenza di confusione, richia-
mano il messaggio connesso al marchio, sottrae un valore sia al titolare del
marchio sia a coloro che hanno acquistato i prodotti originali, pagando il re-

(98) Sul profilo della legittimazione all’azione, si veda anche Vanzetti, Di Cataldo, Ma-
nuale di diritto industriale, cit., p. 543.
SAGGI 223

lativo corrispettivo (99). Si consideri, in proposito, che la tutela dei marchi


che godono di rinomanza – ed i marchi delle società sportive sembra che
senz’altro debbano essere classificati tra i marchi rinomati, proprio perché
portatori di un messaggio ulteriore rispetto a quello distintivo (100) – si
estende, pur in mancanza di un pericolo di confusione, anche all’ipotesi in
cui l’uso non autorizzato di un segno uguale o simile ad essi « senza giusto
motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o
dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi » (art. 20, lett. c),
cod. propr. ind.) (101). La ratio della protezione dei marchi che godono di ri-
nomanza, infatti, è evidentemente quella di affiancare alla tradizionale fun-
zione di indicazione di origine del marchio anche una tutela contro ogni
forma di parassitismo (102). In tal modo, i segni distintivi dello sport che go-
dano di rinomanza dovrebbero vantare una indubbia tutela contro ogni ini-
ziativa commerciale diretta a sfruttare, in assenza di un legittimo consenso,
il valore di mercato di detti segni, allorché il comportamento del terzo uti-
lizzatore dia luogo ad un vantaggio di origine essenzialmente parassitario
oppure comporti un pregiudizio per il titolare del segno (103).
Nell’ambito della protezione del marchio sportivo e delle conseguenti
azioni a tutela dello stesso - di cui si segnalano in sede civilistica in primis
l’art. 124 c. propr. ind. ed in sede penale gli artt. 573 e 574 c.p. - merita di es-

(99) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra mer-
chandising e free-riders, cit., p. 242. Al riguardo, anche Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di di-
ritto industriale, cit., p. 156.
(100) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra
merchandising e free-riders, cit., p. 235. Sulla portata dell’espressione « marchio che gode di
rinomanza » utilizzata dalla legge, si rinvia a Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto indu-
striale, cit., p. 246; Vanzetti, La nuova legge marchi, cit., p. 25; Id., Il marchio rinomato, in La
riforma della legge marchi, cit., p. 79.
(101) Ha fatto riferimento anche alla violazione dei diritti di privativa di cui all’art. 20, lett.
c), c.p.i. (oltre che b), Trib. Bari, 13 aprile 2010, in Banca Dati Dejure, relativa alla registrazione
ed alla messa in commercio di prodotti recanti il marchio « 46 », già oggetto di registrazione in
Italia ed all’estero da parte di Valentino Rossi.
(102) Vanzetti, Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, cit., p. 156.
(103) Galli, Estensione e limiti dell’esclusiva sui nomi e sui segni distintivi dello sport tra
merchandising e free-riders, cit., 252. Sul riconoscere al marchio di una società sportiva una
tutela estesa, non solo al valore distintivo, ma anche al valore attrattivo e suggestivo, si segna-
la in giurisprudenza, Trib. Bologna, 1 febbraio 2001, est. Ferro, in AIDA, 2002, Repertorio IV.
3.3; nel caso di specie, si è ritenuto che l’uso del segno « Forza Bologna » interferisse ex art. 1,
comma 1°, lett. c), con il diritto sul marchio della società sportiva, la quale almeno in ambito
regionale gode di rinomanza; al riguardo anche Trib. Torino, 5 novembre 1999, est. Aragno,
in AIDA, 2000, Repertorio IV. 3.3; Trib. Torino, 13 aprile 2000, est. Vigone, in AIDA, 2000, Re-
pertorio IV. 3.3.
224 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

sere evidenziata la recente attenzione che viene prestata al fenomeno del


cd. ambush marketing. Esso consiste sostanzialmente nel tentativo da parte
di aziende che non sono sponsor o partner di un evento sportivo di utilizza-
re indirettamente la popolarità dell’evento e/o del marchio sportivo, senza
investire in contratti di sponsorizzazione o di merchandising, distogliendo
di conseguenza l’attenzione del pubblico dallo sponsor dell’evento o dai li-
cenziatari del marchio (104). Così, ad esempio, può accadere che in occasio-
ne di un evento sportivo particolarmente importante, alcune aziende, pur
non essendo sponsor della Federazione nazionale oppure di quella interna-
zionale, sfruttino l’evento, utilizzando i colori ed i simboli nazionali, per
lanciare sul mercato prodotti o per pubblicizzare loro servizi (105). Un re-
cente e clamoroso caso di cd. ambush marketing, a livello internazionale, le-
sivo del diritto dello sponsor dell’evento, si è registrato nel corso dei recenti
Mondiali di calcio in Sud Africa, quando una nota multinazionale di birra
ha fatto entrare nello stadio appariscenti hostess – per questo oggetto di fre-
quenti inquadrature televisive – che indossavano abiti recanti il logo della
stessa azienda; in tal modo, si è ravvisata una evidente lesione dei diritti del-
la multinazionale concorrente, che invece era sponsor ufficiale dell’evento e
pertanto unico brand per quel genere merceologico, autorizzato a fare pub-
blicità negli stadi dove erano in corso i Mondiali (106).
A questo proposito, è significativo come il legislatore italiano, in occa-
sione dei Giochi Olimpici invernali di “Torino 2006” sia intervenuto per ga-
rantire la tutela del marchio Olimpico, con la l. 17 agosto 2005, n. 167, san-
cendo al comma 2° dell’art. 2, il divieto di « pubblicizzare, detenere per farne
commercio, porre in vendita, o mettere altrimenti in circolazione prodotti o ser-
vizi utilizzando segni distintivi di qualsiasi genere atti ad indurre in inganno il
consumatore sull’esistenza di una licenza, autorizzazione o altra forma di as-
sociazione tra il prodotto o il servizio e il CIO o i Giochi olimpici » ed al com-
ma 3° sempre dell’art. 2, il divieto di « intraprendere attività di commercializ-

(104) Nella Proposta di legge d’iniziativa del deputato Lolli, presentata il 5 agosto 2008, in
tema di Disposizioni per la tutela dei segni distintivi delle società sportive, enti e federazioni,
e per la disciplina della loro utilizzazione commerciale e delle sponsorizzazioni sportive, si
legge la seguente definizione di ambush marketing: « Esso consiste sostanzialmente nel ten-
tativo da parte di aziende, che non sono sponsor o partner dell’evento, di distogliere l’atten-
zione del pubblico dallo sponsor medesimo attraverso forme di comunicazione simili o ana-
loghe, e di attirarla su di loro utilizzando la popolarità dell’evento e del marchio senza inve-
stire in contratti di sponsorizzazione e di “merchandising”».
(105) In questo senso l’osservazione contenuta nella Proposta di legge d’iniziativa del de-
putato Lolli, relativamente ai Mondiali di calcio del 2006.
(106) La notizia è stata riportata da tutti gli organi di informazione; si segnala in
http://www.ansa.it.
SAGGI 225

zazione parassita (“ambush marketing”), intese quali attività parallele a quel-


le esercitate da enti economici o non economici, autorizzate dai soggetti orga-
nizzatori dell’evento sportivo, al fine di ricavarne un profitto economico ».
In tal modo, si è voluto approntare una tutela più forte per i titolari del
marchio Olimpico e per i partner economici durante la manifestazione spor-
tiva di Torino 2006. Si consideri, comunque, che anche in assenza di un
provvedimento legislativo ad hoc, la tutela contro lo sfruttamento parassita-
rio di un evento sportivo e/o del relativo marchio o segno dovrebbe essere
garantita ugualmente, a seconda dei casi, non solo dalla disciplina attuale a
protezione del marchio o degli altri segni distintivi ma anche da quella in te-
ma di repressione della concorrenza sleale. È indubbio, infatti, che con il
marketing parassitario i soggetti licenziatari del marchio o degli altri segni
oppure gli sponsor dell’evento ricevano un duplice danno, poiché non solo
un terzo utilizza lo stesso simbolo o si fregia della qualifica di sponsor ad un
costo pressoché nullo, ma tale pratica riduce sensibilmente la qualità ed il
valore economico dei diritti acquisiti con la stipula del contratto di mer-
chandising o di sponsorizzazione (107). Per questa ragione, non vi dovrebbe-
ro essere perplessità circa la possibilità di invocare la tutela di cui all’art.
2598, n. 3, c.c., volto a sanzionare ogni forma di concorrenza parassitaria e
come tale « non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a
danneggiare l’altrui azienda ».

(107) Maccarone, Marchio sportivo ed ambush marketing, in I contratti, 2007, p. 166.


INNOVAZIONE LEGISLATIVA

GIANFRANCO DOSI

La mediazione e l’arbitrato irrituale nelle riforme del 2010

Sommario: 1. I tre pilastri della nuova giustizia competitiva. – 2. La mediazione come sistema
di risoluzione dei conflitti parallelo alla giurisdizione. – 3. La mediazione condizione di
procedibilità della domanda giudiziale. – 4. Le motivazioni per la mediazione. – 5. La ri-
soluzione arbitrale irrituale delle controversie

1. – Se si guarda alle riforme che il legislatore ha introdotto recente-


mente nel sistema di risoluzione delle controversie nel settore civile e
commerciale (art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69) (1) e d. lgs. 4 marzo 2010,
n. 28) (2) e in quello dei conflitti di lavoro (art. 31 della l. 4 novembre 2010, n.
183) (3) ci si accorge che, al di là del tentativo di rispondere a necessità ormai
strutturali di carattere deflattivo e della pretesa di voler ridisegnare per leg-
ge gli equilibri tra le parti sociali, che costituiscono spesso le motivazioni
principali di molte riforme nel nostro Paese, il sistema della giustizia si è an-
dato costruendo nel tempo e definendo nel 2010 intorno a tre pilastri che
sembrano connotarlo ormai in un modo che appare stabile e definitivo.
Per la soluzione delle controversie nell’area dei diritti disponibili il si-
stema giustizia si presenta oggi – in una coraggiosa e competitiva sinergia
tra apparati pubblici e organismi privati – come insieme di alternative inter-
scambiabili caratterizzate ciascuna da differenti fattori di appetibilità e di
fattibilità.
Il primo pilastro resta pur sempre quello della giurisdizione alla quale
permane, in virtù della riserva costituzionale di cui al fondamentale art. 24

(1) Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché


in materia di processo civile
(2) Attuazione dell’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finaliz-
zata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
(3) Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di con-
gedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi al-
l’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro
sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro (pubblicata nel
supplemento ordinario della G.U. del 9 novembre 2010).
SAGGI 227

della Costituzione, la responsabilità primaria di garantire coazione alle do-


mande di giustizia poste dalla conflittualità sociale, nel rispetto irrinuncia-
bile del diritto di chiunque di agire in giudizio per la tutela contenziosa dei
propri interessi e dei propri diritti, disponibili e non disponibili. Il nostro si-
stema processuale civile, pur soffrendo di rigidità tali che pensare di modi-
ficarlo con qualche ritocco è utopistico, continua ad apprestare faticosa-
mente tutele nei tradizionali settori della cognizione, dell’esecuzione e del-
le garanzie cautelari, nei quali si sono sovrapposte negli ultimi anni insieme
a riforme coraggiose, spesso retromarce veloci e molte promesse di sempli-
ficazione. Considerate le dimensioni dello sforzo riformatore necessario e
l’intasamento delle aule di giustizia, non si può escludere che, ove il trend in
tema di procedure alternative riuscisse ad incoraggiare riforme più radicali,
il contenuto della giurisdizione possa circoscriversi un giorno alla tutela dei
soli diritti indisponibili e al controllo sulle decisioni rese nell’ambito dei si-
stemi alternativi.
Il secondo pilastro è costituito oggi certamente dalla mediazione finaliz-
zata alla soluzione consensuale delle controversie, da anni praticata in am-
pi settori delle relazioni commerciali e industriali ed ora estesa dal d. lgs. 4
marzo 2010, n. 28 ad un ambito molto significativo quale quello della mag-
gior parte delle controversie civili e commerciali relative a diritti disponibi-
li. Si tratta di un pilastro rinvenibile nell’esperienza giuridica di molti altri
Paesi e che ha raggiunto nell’ambito della giustizia una propria dignità di si-
stema consensuale a prescindere ed oltre le esigenze di deflazione del carico
giurisdizionale. La potenzialità deflattiva di questo sistema di risoluzione
alternativa dei conflitti non è più, dunque, considerata la sua funzione pri-
maria che va, invece, rintracciata nel suo ruolo parallelo di sistema di giusti-
zia basato sul consenso e non sulla coazione. Il termine “conciliazione”,
che prima di oggi connotava da solo nel linguaggio comune sia la procedu-
ra tesa alla soluzione consensuale di una controversia sia l’atto in sé dell’ac-
cordo, è stato molto opportunamente sostituito da quello di “mediazione
finalizzata alla conciliazione della controversia” che riesce a dare meglio l’i-
dea della circostanza che per giungere a risolvere una controversia è neces-
sario un percorso di avvicinamento che, sia pure senza particolari formali-
smi, deve pur sempre avere un proprio setting senza il quale perderebbe la
propria plausibilità.
La “conciliazione” non è l’abbandono di una pretesa, quasi una riconci-
liazione, ma la soluzione consensuale di un conflitto. Così come avviene
per la sentenza, anche la conciliazione è il momento finale di un confronto
effettuato alla presenza di un terzo; qui il mediatore, lì il giudice. Si può per-
tanto costruire una perfetta simmetria tra il procedimento giurisdizionale e
il procedimento di mediazione. Entrambi mirano alla soluzione di un con-
flitto. Nel processo in tribunale si chiede al giudice imparziale una senten-
228 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

za; nel procedimento di mediazione si chiede al mediatore imparziale di es-


sere aiutati a trovare una soluzione. Il primo sistema è, però, contenzioso
mentre il secondo è consensuale o, come alcuni preferiscono chiamarlo,
collaborativo.
In altri casi il terzo non è un mediatore ma un collegio arbitrale. Si trat-
ta della procedura arbitrale, in cui le parti chiedono non di essere aiutati a
trovare una soluzione ma che gli arbitri la trovino per loro.
Ed è proprio l’arbitrato il terzo pilastro della giustizia, nelle forme non
solo e non tanto del tradizionale e solenne arbitrato rituale, ma soprattutto
di quello previsto nell’art. 808-ter c.p.c (arbitrato irrituale) – introdotto dal d.
lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – dove si legge che “le parti possono [. . .] stabilire
che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrat-
tuale”. A questo modello di diritto comune sono riconducibili le modalità di
arbitrato varate per i conflitti di lavoro dalla riforma di cui all’art. 31 della l.
4 novembre 2010, n. 183 che ha previsto con decorrenza dal 24 novembre
2010 la risoluzione arbitrale irrituale delle controversie davanti alle commis-
sioni di conciliazione (nuovo art. 412 c.p.c.) o con le eventuali modalità pre-
viste dai contratti collettivi (nuovo art. 412-ter, c.p.c.) ovvero davanti ad ap-
positi collegi di conciliazione e arbitrato irrituale per i quali è stata anche in-
trodotta una propria agile procedura (nuovo art. 412-quater, c.p.c.). Sono
queste le nuove forme di risoluzione arbitrale delle controversie nel campo
dei conflitti di lavoro ai quali il legislatore è giunto recentemente, nel con-
testo e a conclusione di un più vasto intervento legislativo di riforma, non
sempre lineare, realizzatosi in questo settore negli ultimi anni.
Se è vero che l’arbitrato rituale condivide con quello irrituale il fonda-
mento privatistico e la natura negoziale ontologicamente alternativa alla
giurisdizione statale (4), se ne differenzia – secondo l’orientamento ormai
comunemente condiviso – perché il primo viene finalizzato per volere del-
le parti al conseguimento di un risultato che ha la stessa efficacia della sen-
tenza (5), impugnabile secondo il sistema previsto negli artt. dall’827 all’831
del codice di procedura civile, mentre il lodo irrituale non ha il valore della

(4) Così la giurisprudenza a partire da Cass. Sez. un., 3 agosto 2000, n. 527 (tutta la giuri-
sprudenza è tratta della banca dati Pluris Cedam, Utet giuridica).
(5) Art. 824 bis c.p.c. “Salvo quanto disposto dall’art. 825, il lodo ha dalla data della sua ul-
tima sottoscrizione, gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”. L’efficacia
di sentenza per decreto del pretore era assicurata anche dall’art. 825 della versione originaria
c.p.c. del 1940. Le mutevoli opinioni della dottrina e della giurisprudenza, alle quali il legisla-
tore sembrò aderire cancellando nel 1994 con la l. n. 25 il riferimento a tale efficacia di sen-
tenza, portarono a dubitare nel tempo sulla efficacia da attribuire al lodo. Il legislatore del
2006 con il d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 confermò l’interpretazione originaria con il nuovo te-
sto dell’art. 824-bis c.p.c. qui sopra riprodotto.
SAGGI 229

decisione giurisdizionale ma quello di un accertamento direttamente ricon-


ducibile alla volontà delle parti (6) ed è assoggettato alle consuete azioni di
annullamento dell’invalidità negoziale (davanti al giudice competente se-
condo i normali criteri) come indicato nell’art. 808-ter, richiamato, per le
controversie di lavoro, dall’art. 412-quater che, nel nuovo testo della riforma
del 2010, attribuisce la competenza in appello in unico grado al tribunale in
funzione di giudice del lavoro (7).
In queste forme di arbitrato irrituale il lodo ha la natura e l’efficacia,
quindi, di un contratto, annullabile dal giudice per le ipotesi tipizzate dal le-
gislatore nell’art. 808-ter c.p.c. ma in modo sostanzialmente analogo a quan-
to avviene per qualsiasi altro contratto.
L’estensione alle controversie di lavoro dell’istituto della risoluzione ar-
bitrale irrituale che era stata introdotta nel 2006 con l’art. 808-ter c.p.c. per
qualunque tipo di controversia su diritti disponibili – con la stessa forza de-
rogatoria prevista nel quarto comma nell’art, 2113 c.c. (8) – potrebbe dare
ora una maggiore visibilità e appetibilità generale all’istituto di diritto co-
mune moltiplicando le occasioni e le opportunità della soluzione arbitrale
delle controversie nel campo civile dei diritti disponibili.
Il sistema arbitrale ne risulta nella sua generalità potenziato e ampliato,
se si considera, peraltro, la persistente vigenza dell’arbitrato nel settore so-
cietario a suo tempo introdotto dal d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, oltre natu-
ralmente alle innumerevoli altre fattispecie di arbitrato presenti nell’ordi-
namento.
Parallelamente alla costruzione di un sistema nuovo di risoluzione arbi-
trale irrituale nell’ambito dei conflitti di lavoro, nel settore privato e pubbli-

(6) La giurisprudenza è conforme. Cfr. Cass. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. sez.
I, 30 maggio 2005, n. 12684; Cass. sez. I, 10 ottobre 2006, n. 24059; Cass. sez. I, 20 luglio 2006,
n. 16718.
(7) Il secondo comma dell’art. 808-ter c.p.c. prevede cinque motivi di impugnazione per
“invalidità” ma si tratta di annullabilità o anche nullità (si pensi ad una convenzione arbitrale
in materia sottratta all’arbitrato) su cui è chiamato a decidere secondo le regole ordinarie il
giudice competente di primo grado secondo le disposizioni del libro I nel rispetto del con-
sueto doppio grado di giurisdizione. Nelle controversie di lavoro l’art. 412-quater c.p.c. attri-
buisce invece la competenza in unico grado al giudice del lavoro. Come si vede si tratta di un
regime di impugnazione che, al di là della competenza funzionale, è eterogeneo e meritereb-
be un intervento legislativo di omogeneizzazione.
(8) Il quarto comma dell’art. 2113 c.c. prevede che al verbale di conciliazione si applica la
deroga al principio di invalidità delle rinunce e delle transazioni a diritti indisponibili. Secon-
do il nuovo testo dell’art. 412 c.p.c. “il lodo emanato a conclusione del nuovo procedimento
di conciliazione arbitrale sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti
di cui all’art. 1372 e all’art. 2113, comma 4° c.c.”
230 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

co (9), lo stesso decreto legislativo torna nei conflitti di lavoro al sistema del-
la facoltatività del tentativo di conciliazione previsto nell’art. 410 del c.p.c.,
ma la modifica non ha, in questo contesto, una valenza ripristinatoria della
filosofia della conciliazione precedente alla riforma che nel 1998 aveva in-
trodotto il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle cause di lavoro (10).
Il ritorno alla facoltatività, al contrario, ha paradossalmente una funzione
deflattiva derivante dalla eliminazione di uno strumento di intasamento del
sistema conciliativo che nella prassi si è rivelato assolutamente inadeguato
per il carico di lavoro delle commissioni, non compensato da un tasso ac-
cettabile di conciliazione delle controversie (le conciliazioni davanti alle
commissioni provinciali del lavoro costituiscono, come si dirà meglio più
oltre, solo il 13% del numero di procedure conciliative aperte ogni anno).
Il legislatore non scommette più, nei conflitti di lavoro, quindi, sul si-
stema dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione (11), ma attribuisce
valore centrale alla risoluzione arbitrale irrituale davanti alle commissioni
provinciali di conciliazione (nuovo art. 412 c.p.c.), nelle sedi sindacali (nuo-
vo art. 412-ter, c.p.c.) ovvero davanti ai nuovi collegi di conciliazione e arbi-
trato irrituale (nuovo art. 412-quater, c.p.c.) introducendo anche la possibi-
lità di un’ampia pattuizione tra le parti di clausole compromissorie (12).
In questa sede ci si può limitare ad osservare che con la messa a punto
delle nuove forme di risoluzione arbitrale che saranno tra breve approfon-
dite, il motore trainante del nuovo sistema nei conflitti di lavoro non è più
la (lenta, demotivata e spesso inutile) negoziazione tra le parti ai fini di una
conciliazione, ma la decisione di carattere negoziale (si auspica veloce ed
efficiente) assunta dalle commissioni e dai collegi arbitrali ai quali le parti

(9) Cfr. art. 412-ter, c.p.c., come riformato nel 2010: “Le disposizioni degli artt. 410, 412,
412-ter e 412-quater c.p.c. si applicano anche alle controversie di cui all’art. 63, comma 1°, del
d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (T.U. del pubblico impiego) il quale prevede – confermandone la
devoluzione al giudice ordinario – tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle di-
pendenze delle pubbliche amministrazioni nonché le controversie relative a comportamenti
antisindacali della pubblica amministrazione”.
(10) L’obbligatorietà del tentativo di conciliazione si deve alla riforma introdotta con il d.
lgs. 19 febbraio 1998, n. 80 nel settore privato (artt. 410, 410-bis e 412-bis c.p.c.) e all’art. 69 del
d. lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (razionalizzazione della organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e revisione della disciplina del pubblico impiego) ora negli artt. 65 e 66 del d. lgs. 30
marzo 2001, n. 165 (T.U. del pubblico impiego).
(11) Anche se il nuovo testo dell’art. 410, c.p.c., riformato nel 2010 prescrive che la com-
missione di conciliazione, in caso di esito negativo del tentativo, deve formulare una propo-
sta delle cui risultanze il giudice dovrà tener conto in sede di giudizio.
(12) Come si dirà in seguito, la pattuizione delle clausole compromissorie nei contratti di
lavoro ha costituito uno dei temi più significativi del confronto politico che ha accompagnato
l’iter di approvazione della legge 183/2010).
SAGGI 231

possono deferire la soluzione della controversia. Meno mediazione, quin-


di, e più decisione arbitrale. Un sistema anch’esso parallelo a quello giudi-
ziario, costruito in fondo sul principio privatistico del mandato a transigere
per rendere giustizia in modo rapido ed efficace. La convenzione di arbitra-
to irrituale attribuisce ai terzi il potere di giungere ad una composizione del-
la controversia avente valore negoziale che le parti si impegnano anticipata-
mente ad accettare come diretta espressione della loro volontà (13).
In questo senso si può affermare quindi che anche le nuove procedure
arbitrali, pur essendo caratterizzate da una delega della decisione a terzi,
trovano la loro piena collocazione all’interno delle ADR (Alternative Dispu-
te Resolution) alle quali l’esperienza giuridica di tutto il mondo ha affidato le
speranze di una nuova giustizia basata soprattutto sul consenso verso for-
me di composizione alternativa a quella contenziosa tradizionale.

Primo pilastro Giurisdizione Decisione contenziosa


Secondo pilastro Mediazione Decisione consensuale
Terzo pilastro Risoluzione arbitrale Decisione delegata

2. – Il d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28 (14) che ha dato attuazione alla delega le-
gislativa contenuta nell’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, all’art. 1 defini-
sce la mediazione come “l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo
imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un ac-
cordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formula-
zione di una proposta per la risoluzione della stessa” e la conciliazione come
“la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento della media-
zione”.
In questa definizione è estranea in sé ogni idea di collegamento della
mediazione alle aule di giustizia.
Questo è il primo e più significativo dato che emerge dall’osservazione

(13) Nell’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di esse-
re reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con l’osservanza del regime
formale del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato irrituale esse intendono affidare al-
l’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in rela-
zione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante
una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle
parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione
della loro volontà. Così Cass. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. sez. I, 30 maggio 2005, n.
12684; Cass. sez. I, 10 ottobre 2006, n. 24059; Cass. sez. I, 20 luglio 2006, n. 16718.
(14) Il decreto è stato pubblicato sulla G.U. n. 53 del 5 marzo 2010 ed è entrato in vigore il
20 marzo 2010 (salvo le disposizioni relative al meccanismo della mediazione come condizio-
ne di procedibilità della domanda giudiziale la cui data di entrata in vigore è il 20 marzo 2011).
232 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

dei testi normativi sulla mediazione pubblicati dopo la l. n. 69 del 2009 che,
all’art. 60, dava al Governo una delega ampia ad adottare “uno o più decreti
legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e com-
merciale”.
Le procedure di mediazione sono quindi state introdotte nell’ordina-
mento italiano in primo luogo per dare a chiunque la possibilità di risolvere
un conflitto senza accedere alle tradizionali procedure giudiziarie di risolu-
zione dei conflitti.
Il principio è ribadito espressamente nell’art. 2 del d. lgs. n. 28 del 2010
dove si legge che “chiunque può accedere alla mediazione per la conciliazione
di una controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili, secondo
le disposizioni del presente decreto”.
L’imprinting giurisdizionale della formazione universitaria e professio-
nale mette il giurista di fronte all’imbarazzo di doversi occupare di proce-
dure nate per costituire una alternativa alla giurisdizione.
L’impatto della mediazione nella nostra cultura giuridica potrebbe far
correre, quindi, il rischio di attribuire alla mediazione delle controversie ci-
vili e commerciali il significato di un noioso ed inevitabile adempimento
preliminare al processo, lasciandone in ombra il senso generale che è quel-
lo di promuovere una riforma della giustizia a partire dalla decisione di non
ricorrere all’autorità giurisdizionale quando la soluzione di un conflitto può
essere il risultato di procedure più plausibili, più rapide e meno costose.
In questa prospettiva le disposizioni del d. lgs. n. 28 del 2010 non aiuta-
no, però, a leggere la mediazione come strumento alternativo al processo.
La tecnica di redazione del decreto soffre molto della preoccupazione di do-
ver risolvere i problemi di condizionamento sulla mediazione del processo.
Quasi tutte le norme affrontano il tema del raccordo tra le procedure di me-
diazione e il processo civile, come se inevitabilmente la mediazione debba
precedere l’accesso al processo o accompagnarsi alla frequentazione delle
aule di giustizia. Tutto il capo II del decreto è costruito su questa ambiva-
lenza e meglio sarebbe stato se il legislatore delegato avesse adottato una
tecnica di redazione più lineare, disciplinando il procedimento di media-
zione in una prima parte e riservando, poi, ad una seconda parte il tema del
raccordo tra la mediazione e l’eventuale procedimento giudiziario. Sembra
invece che eventuale debba essere, secondo il decreto, il ricorso alla media-
zione anziché al processo (15).

(15) L’art. 4, per esempio, dove si parla di accesso alla mediazione contiene, insieme alle
formalità di accesso, anche le disposizioni relative agli obblighi di informativa che l’avvocato
incaricato di una causa deve dare al suo assistito; l’art. 5 nel capo rubricato “procedimento di
mediazione” regolamenta anche il rapporto tra la mediazione e il processo civile; uguale com-
mistione è negli artt. 6 e 7 e così molte altre disposizioni che avrebbero potuto trovare invece
SAGGI 233

Il decreto n. 28 del 2010 soffre del problema generale del giurista di non
riuscire sempre a cogliere la novità dei nuovi istituti e di voler sempre in-
quadrarli nell’ambito dell’assetto tradizionale della giustizia. È prevalsa
quindi soprattutto la preoccupazione non tanto di incoraggiare il ricorso al-
la mediazione quanto di garantire un’equilibrata relazione tra la mediazio-
ne e il procedimento giudiziario (16).
Di fronte ad un conflitto o a qualsiasi tipo di controversia il pensiero
nella nostra tradizione giuridica corre subito alla causa in tribunale. Se ri-
maniamo vittime di un incidente o se il vicino sconfina nella nostra pro-
prietà prendiamo subito contatto con un avvocato per “fare causa” e ottene-
re giustizia.
Ebbene, il d. lgs. n. 218 del 2001 dice oggi che si può, certamente, pren-
dere contatto con un avvocato ma che si può ugualmente ottenere giustizia
attraverso la procedura di mediazione finalizzata alla composizione della
concordata della controversia.
Comporre una controversia non vuol dire ottenere meno giustizia. Ten-
tare di ottenere giustizia con un accordo anziché con una causa, vuol dire al
contrario accelerare la soluzione. Se la controparte non intende dichiararsi
disponibile a nessuna soluzione sarà il mediatore a proporla, ricorrendo al-
le norme giuridiche ma anche all’equità e, se neanche allora si raggiunge un
accordo, la soluzione estrema sarà il ricorso al processo.
È questa la filosofia e al tempo stesso la nuova cultura che la riforma in-
tende suggerire.
Il procedimento ha una struttura semplificata.
Si tratta di una procedura riservata e informale (art. 3 del d. lgs. n. 28 del
2010), quindi – salvo il pagamento delle indennità e delle altre poche spese
della mediazione (art. 17) – non esiste alcun appesantimento dettato da nor-
me processuali formali. La domanda di mediazione è presentata mediante
deposito di una istanza presso uno degli organismi di mediazione esistenti
(art. 4). Il procedimento deve avere una durata non superiore ai quattro me-
si (art. 6). Il mediatore incaricato mette velocemente la controparte a cono-
scenza della domanda di mediazione a ne attende le deduzioni difensive
adoperandosi successivamente per trovare una soluzione in uno o più in-
contri con le parti e, se vi sono, con i loro avvocati (art. 8). Se le parti non rie-

per i rispettivi ambiti di riferimento (il processo di mediazione, il processo civile e i rapporti
tra i due contesti) una tecnica di redazione autonoma e più ordinata.
(16) Sono questi peraltro i due temi di fondo sui quali si sofferma la direttiva europea del
21 maggio 2008 n. 52 che all’art. 2 prevede che “la presente direttiva ha l’obiettivo di facilitare
l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e di promuovere la composizione amiche-
vole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata rela-
zione tra mediazione e procedimento giudiziario”.
234 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

scono a trovare una soluzione, il mediatore, su loro richiesta, farà una pro-
posta scritta che la parti possono accettare o rifiutare (art. 11). Nell’ipotesi di
accordo o di accettazione della proposta il testo della conciliazione ha valo-
re legale tra le parti (art. 11) ed efficacia piena per l’esecuzione (art. 12).
L’unica condizione per poter esperire procedure finalizzate alla soluzio-
ne stragiudiziale di controversie è che si tratti di controversie concernenti
diritti disponibili (art. 60, comma 3°, lettera a) della l. 18 giugno 2009, n. 69 e
art. 2, comma 1°, del d. lgs. n.28 del 2010).
Esistono esperienze di procedure conciliative stragiudiziali già da tem-
po funzionanti nei conflitti di lavoro (art.410 s.s., c.p.c.), nelle controversie
in materia bancaria e creditizia (art. 128-bis del d. lgs. 1 settembre 1993, n.
38), nel settore dell’intermediazione finanziaria (d. lgs. 8 ottobre 2007, n.
179), nelle relazioni commerciali (l. 18 giugno 1998, n. 192 contenente la di-
sciplina delle subforniture nelle attività produttive), in materia di concor-
renza e regolazione dei servizi di pubblica utilità (l. 14 novembre 1995, n.
481), nel settore del diritto di autore (d. lgs. 9 aprile 2003, n. 68), in materia
di controversie tra consumatori e professionisti (d. lgs. n. 206 del 2005) ed
altre.
La novità della riforma del 2010 è quella di avere generalizzato la regola
e reso possibile a chiunque l’accesso a procedure finalizzate alla concilia-
zione di controversie praticamente in ogni settore della vita civile e com-
merciale secondo il modello procedimentale che è stato sopra sintetizzato,
affidato nella sua gestione ad appositi organismi di mediazione istituiti da
enti pubblici o da privati.

3. – L’altro modo con cui la riforma ha concepito la mediazione è quello


di considerarla condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle
ipotesi di controversie civili e commerciali tassativamente indicate nell’art.
5 del d. lgs. n. 28 del 2010. In questo significato la mediazione costituisce un
adempimento preliminare alla causa o effettuato in corso di causa.
Il legislatore ha voluto, in sostanza, prevedere l’obbligatorietà del tenta-
tivo di conciliazione prima di instaurare un contenzioso in sede giudiziaria,
sulla scia di quanto nel 1998 è stato fatto nelle controversie di lavoro, impo-
nendo all’attore di promuovere la mediazione finalizzata all’eventuale con-
ciliazione, prima di avviare il procedimento giudiziario (con la notifica del-
la citazione a giudizio o con il deposito del ricorso, a seconda dei casi) (17).
La riforma con cui è stato abolito il tentativo obbligatorio di conciliazio-
ne nelle cause di lavoro, (art. 31, comma 1°, della l. 4 novembre 2010, n. 183)
non contraddice il senso fortemente innovativo, e insieme esortativo, im-
presso alla mediazione dal d. lgs. n. 28 del 2010.

(17) Questo meccanismo entra in vigore il 20 marzo 2011 salvo presumibile rinvio.
SAGGI 235

Nel rito del lavoro l’art. 412-bis c.p.c. – ora abrogato – prevedeva come
condizione di proponibilità del ricorso di lavoro, il promovimento del ten-
tativo di conciliazione davanti alle commissioni di conciliazione, precisan-
do che “l’espletamento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di
procedibilità della domanda” e l’art. 410-bis come inserito dall’art. 37 del d.
lgs. 31 marzo 1998, n. 80, prescriveva che “il tentativo di conciliazione [. . .]
deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta.
Trascorso inutilmente tale termine, il tentativo di conciliazione si considera co-
munque espletato ai fini dell’art. 412-bis”.
Rispetto a questo sistema (vigente nel rito del lavoro dal 1998 al 24 no-
vembre 2010, cioè fino all’entrata in vigore della nuova normativa di cui al-
la legge 4 novembre 2010, n. 183), la riforma sulla mediazione del 2010 ha sì
previsto un termine per espletare la mediazione (quattro mesi di durata
massima dall’istanza rivolta all’organismo di mediazione, secondo l’art. 6
del d. lgs. n. 28 del 2010) ma non prevede un termine trascorso il quale il
tentativo di conciliazione si considera espletato e la domanda ugualmente
proposta. Il legislatore ha modulato, invece, il procedimento giudiziario e
gli adempimenti del giudice in modo tale da prevedere e consentire che la
mediazione, ove le parti, vi acconsentano, possa essere espletata nello spa-
zio temporale di quattro mesi senza intralci al processo e senza prevedere
nemmeno ipotesi di sospensione della causa, con la conseguenza che non si
porranno problemi legati all’eventuale mancata riassunzione(18). Alla pri-
ma udienza il giudice, ove la mediazione non sia stata preventivamente ef-
fettuata, assegnerà alle parti un termine di quindici giorni per iniziare la me-
diazione, rinviando ad una udienza da tenersi non prima di quattro mesi in
modo che le parti abbiano tempo di concludere il procedimento di media-
zione.
Questa diversità di disciplina impedisce che nel processo in cui si con-
troverte di questioni civili o commerciali si pongano problemi di riassun-
zione, come avviene invece nel rito del lavoro allorché nessuna delle parti –
vigente il sistema del tentativo obbligatorio – provveda al promovimento
del tentativo di conciliazione ordinato dal giudice (abrogato art. 412-bis,
commi 3°, 4° e 5°, c.p.c.). Quindi la procedura indicata nel d. lgs. n. 28 del
2010 è più spedita e non presenta il rischio dell’estinzione del processo che

(18) Problemi di questo genere si ponevano con il testo dell’abrogato art. 412-bis c.p.c. “. . .
Il giudice che rileva che non è stato promosso il tentativo di conciliaizone [. . .] sospende il giudizio
e fissa alle parti il termine perentorio di sessanta giorni per promuovere il tentativo di conciliazio-
ne [. . .] trascorso il termine [. . .] il processo può essere riassunto nel termine perentorio di cen-
toottanta giorni [. . .] Ove il processo non sia stato tempestivamente riassunto, il giudice dichiara
d’ufficio l’estinzione del processo . . .”
236 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

nel rito del lavoro segue (anzi seguiva) alla mancata riassunzione della cau-
sa nei termini.
Naturalmente il convenuto resta libero di non aderire all’invito di effet-
tuare la mediazione; così come non vi è alcun obbligo di arrivare ad un ver-
bale di conciliazione.
Va anche sottolineato un altro meccanismo introdotto dalla riforma del-
la mediazione del 2010 che consente anche dopo l’avvio del processo in se-
de giudiziaria l’eventuale attivazione delle procedure stragiudiziali di me-
diazione. Nel d. lgs. n. 28 del 2010 si prevede, infatti, che il giudice possa
sempre, anche in appello, invitare le parti ad attivare le procedure di media-
zione presso uno degli organismi a ciò deputati; se le parti aderiscono all’in-
vito, il giudice fisserà una nuova udienza assegnando alle parti un termine
di quindici giorni per prendere contatto con l’organismo di mediazione.
Nel rito del lavoro, esaurita senza esito la fase conciliativa, non restava
che sperare nel tentativo di conciliazione da parte del giudice alla prima
udienza (art. 420 c.p.c.) (19). Ora, però, la l. 4 novembre 2010, n. 183 introdu-
ce a sua volta un meccanismo inedito nel nostro ordinamento processuale,
dissonante con le regole della conciliazione, consistente nell’attribuzione
al giudice del lavoro non solo dell’onere di tentare all’udienza di discussio-
ne la conciliazione delle parti ma anche quello di formulare “alle parti una
proposta transattiva” e di valutare successivamente ai fini del giudizio il ri-
fiuto ingiustificato di adesione a questa proposta (nuovo art. 420, comma 1°,
c.p.c.).

4. – Il contenzioso civile in Italia, escluso il settore del lavoro, ha rag-


giunto il volume di quasi un milione di cause pendenti in primo grado alla
fine del 2007 (ultimo dato ISTAT disponibile). Un dato sconcertante anche
se reso meno amaro dalla constatazione che alla fine del 2000 le cause da-
vanti ai tribunali erano quasi un milione e mezzo. Sopravvengono ormai al
ritmo di quasi 400.000 all’anno e, quando si riescono a smaltirne altrettante,
restano sempre quelle ancora in corso. La media è di 658 cause in corso ogni
centomila abitanti. Un contenzioso molto alto che i giudici non riescono a
trattare se non con i tempi lunghissimi della giustizia. Anni e anni prima di
avere una decisione definitiva. E la decisione non soddisfa nessuno.
Da molti anni, in conseguenza di un contenzioso civile intollerabile e
ingestibile per la stragrande maggioranza dei Paesi moderni, si sono svilup-
pate ovunque forme alternative di composizione o di risoluzione delle con-

(19) Art. 420 c.p.c. (Udienza di discussione della causa). “Nell’udienza fissata per la discus-
sione della causa, il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della
causa . . .”
SAGGI 237

troversie e c’è, d’altra parte, accordo nel considerare che si tratta di metodi
molto antichi. L’interesse che questi metodi hanno suscitato è in sostanza
strettamente legato ai vantaggi della giustizia privata e alla crisi di efficacia
di quella tradizionale.
È bene avvertire che i documenti ufficiali prodotti in ambito europeo
con l’acronimo ADR (Alternative Dispute Resolution) si riferiscono a proce-
dure non giurisdizionali di risoluzione di una controversia condotte da per-
sone neutrali escludendo, però, l’arbitrato trattandosi di una procedura che
sarebbe assimilabile più ai procedimenti giurisdizionali che a quelli alterna-
tivi, in quanto il lodo arbitrale mira a sostituirsi alla sentenza, e in quanto
nell’arbitrato non c’è una negoziazione tra le parti ma una delega a terzi (20).
Questa esclusione dell’arbitrato dalle ADR è, però, del tutto irragionevole,
se applicata al nostro ordinamento interno, perché non considera le trasfor-
mazioni dell’arbitrato negli ultimi anni e, soprattutto, perché non conside-
ra l’introduzione e la larga diffusione delle procedure arbitrali irrituali de-
stinate a sostituire in futuro quelle eccessivamente formali dell’arbitrato
tradizionale. D’altro lato l’arbitrato è un giudizio privato del tutto simme-
trico e alternativo a quello di natura statale a prescindere dalla differente na-
tura del lodo nei due tipi di arbitrato.
In linea generale lo sviluppo delle procedure che vanno sotto il nome di
ADR è dovuto al fatto che queste procedure sono in grado di fornire una ri-
sposta alle difficoltà di accesso alla giustizia e del suo funzionamento che
molti Paesi devono affrontare, anche se spesso i risultati in termini di effet-
tiva deflazione non sono stati incoraggianti (21). In quasi tutti i Paesi del
mondo le procedure giudiziarie sono sempre più numerose, in connessione

(20) “Libro verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia
civile e commerciale”, Bruxelles, 19 aprile 2002, documento COM (2002) n. 196 dove si affer-
ma anche che non sono considerate ADR gli arbitrati; così come non lo è nemmeno la perizia
che non è un metodo di risoluzione di una controversia, né i sistemi di trattamento dei recla-
mi messi a disposizione dei consumatori dagli operatori perché si tratta di procedure condot-
te da una parte in conflitto e non da terzi, né i sistemi di negoziazione automatizzata che so-
no solo strumenti tecnici destinati a facilitare la negoziazione tra le parti in conflitto.
(21) Caponi, La conciliazione stragiudiziale come metodo di ADR, in Foro it. 2003, V, c. 167
ss.; Chiarloni, La crisi della giustizia civile e i rimedi possibili nella prospettazione comparata,
in Questioni giustizia, 1999, p. 1013 ss.; Cuomo Ulloa, La conciliazione. Modelli di composi-
zione dei conflitti, Padova, 2008; De Palo-Guidi, Risoluzione alternativa delle controversie, Mi-
lano, 1999; Ghirga, Strumenti alternativi di risoluzione della lite,: fuga dal processo o dal dirit-
to?, in Riv. dir. proc. 2009, p. 357 ss. ; Silvestri, Osservazioni in tema di strumenti alternativi per
la risoluzione delle controversie, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 321 ss.; Taruffo, Adegua-
menti delle tecniche di composizione dei conflitti di interesse, in Riv. trim, dir. proc. civ. 1999, p.
331 ss.
238 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

con l’espandersi della tutela dei diritti, durano sempre di più e impongono
di sopportare costi sempre più alti.
La previsione di procedure alternative alle tradizionali modalità di ac-
cesso giudiziario per la soluzione dei conflitti e delle controversie non trae,
però, motivazione solo da valutazioni di necessità deflattiva o di fuoriuscita
da un sistema giudiziario legale che finisce per incrementare e produrre
conflittualità (litigation crisis).
Se è vero, infatti, che nei casi tassativi in cui le procedure di mediazione
sono condizione di procedibilità della domanda giudiziale la motivazione
per la mediazione è stata compiuta dal legislatore cosicché agli utenti non
rimane che aderire – quanto meno per l’attore che ha l’obbligo di promuo-
vere il procedimento di mediazione – e operare affinché si produca una so-
luzione soddisfacente, allorché invece la mediazione non ha questo vinco-
lo ed è lasciata soltanto alla libera iniziativa degli utenti della giustizia, può
essere opportuno segnalare le motivazioni che possono rendere la media-
zione una risorsa fruibile con soddisfazione per chi vi accede.
Nel complesso vengono indicate molteplici motivazioni.
In primo luogo quella relativa ai tempi rapidi delle procedure di conci-
liazione (22).
Tra le motivazioni più convincenti, poi, c’è quella per cui la mediazione
porta più sicuramente ad una soluzione soddisfacente di quanto non av-
venga con il processo. Il vecchio adagio che è meglio sempre una soluzione
concordata che una crassa sentenza vale sempre. Secondo i dati italiani for-
niti dall’Unioncamere, nell’86% dei casi sottoposti ai mediatori professioni-
sti la controversia trova un componimento soddisfacente.
La mediazione costituisce, poi, una strada meno costosa della giustizia
ordinaria. Il pagamento delle indennità ai mediatori per un lavoro che dura
al massimo poche settimane non raggiungerà mai i costi di una causa che
può durare molti anni. Se ci pone nell’ottica di procedure non sostitutive ma
propedeutiche o che comunque non escludono il ricorso a quelle giurisdi-
zionali, certamente la valutazione dei costi può essere diversa. Occorre però
guardare alla procedura in sé come sostitutiva di quella giurisdizionale.
Anche il fatto che il criterio decisionale nella mediazione finalizzata al-
la conciliazione possa essere, e per lo più sia, quello dell’equità e della ra-
gionevolezza, aiuta a superare l’insoddisfazione che può derivare da una

(22) Il d. lgs. 28/2010 prevede come tempo massimo quello di quattro mesi dalla data del-
la domanda ma secondo alcuni dati forniti da un organismo di mediazione una buona conci-
liazione potrebbe essere raggiunta anche solo in una giornata. Sui rapporti tra le forme alter-
native e la durata del processo Comoglio, La durata ragionevole del processo e le forme alter-
native di tutela, in Riv. dir. proc., 2007, p. 615 ss.
SAGGI 239

decisione basata sulle rigidità e sui formalismi del diritto sostanziale e pro-
cessuale.
Naturalmente, perché queste motivazioni portino ad un risultato, è ne-
cessario investire adeguatamente nella formazione degli operatori che do-
vranno occuparsene, come molto opportunamente è stato ricordato (23).
Si afferma, poi, che la mediazione aiuta a conservare le relazioni inter-
personali in maniera più efficace di quanto non avvenga nel corso di un pro-
cesso e per questo rende più stabile nel tempo la soluzione concordata. A
proposito di questa motivazione c’è da dire però che, se si adotta una pro-
spettiva pragmatica e laica, non bisogna confondere gli obiettivi con le con-
seguenze.
Il fatto che la mediazione favorisca la conservazione di relazioni inter-
personali è una conseguenza e non l’obiettivo della mediazione. Attribuire
alla mediazione funzioni di tipo pedagogico rischia di confondere i piani
dell’intervento. Nella mediazione finalizzata al componimento stragiudi-
ziale di controversie civili e commerciali, è sufficiente e necessario che il
mediatore sappia consentire, per quanto possibile, un componimento sod-
disfacente della controversia, lasciando le parti però sempre libere di acce-
dere, ove non siano soddisfatte della soluzione, alle procedure ordinarie
della giustizia formale per la tutela dei propri diritti. La mediazione civile e
commerciale in questo è profondamente diversa dalla mediazione familia-
re tra i cui obiettivi vi è certamente quello di migliorare le competenze co-
municative nelle relazioni interpersonali familiari.
La mediazione, pertanto, non ha nessuna controindicazione in quanto,
oltre ad essere gestita con la necessaria riservatezza, non fa perdere alle par-
ti alcun diritto in ordine all’eventuale esperimento dell’azione giudiziaria.
In giurisprudenza la funzione deflattiva della conciliazione stragiudizia-
le è stata esaltata espressamente con riguardo al contenzioso tributario (24)
dove la conciliazione è sia giudiziale, in tal caso concludendosi in udienza
con la redazione di un verbale di conciliazione, sia stragiudiziale (procedu-
ra semplificata cosiddetta aderita) che si conclude con il raggiungimento di
un accordo tra contribuente e amministrazione finanziaria (art. 48 del d. lgs.
n. 546 del 1992).

5. – Per entrare nello spirito delle nuove forme di risoluzione arbitrale

(23) Civinini, La crisi di effettività della giustizia civile in Europa, in Questione giustizia,
1999, II, p. 325
(24) Attribuiscono espressamente alla conciliazione funzione di deflazione del conten-
zioso Cass. sez. V, 22 agosto 2008, n. 4626; Cass. sez. V, 18 aprile 2007, n. 9223; Cass. sez. V, 18
aprile 2007, n. 9222.
240 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

introdotte nel rito del lavoro dall’art. 31 della l. 4 novembre 2010, n. 183, è
opportuno premettere qualche breve osservazione sulla disciplina dell’arbi-
trato, come modificata nel 2006 ad opera del d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (25).
Secondo il primo comma dell’art. 806 c.p.c. (controversie arbitrabili)
riformato nel 2006 “le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra
di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso
divieto di legge” mentre il secondo comma precisa che: “Le controversie di cui
all’art. 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei
contratti o accordi collettivi di lavoro”.
Si tratta della norma di apertura che chiarisce il fondamento dell’arbi-
trato come procedura di natura negoziale affidata legittimamente ad un giu-
dice privato scelto dalle parti nell’ambito di un procedimento alternativo ri-
spetto a quella giurisdizionale (26).
L’importanza della norma sta soprattutto nella circostanza di avere am-
messo l’arbitrato nelle controversie di lavoro non soltanto quando il ricorso
alle procedure arbitrali è previsto nei contratti di lavoro ma anche “se previ-
sto dalla legge” e nell’avere, quindi, dato il via alla diffusione per legge del-
l’arbitrato irrituale nei conflitti di lavoro.
La riforma del rito del lavoro del 1973, in linea con l’impostazione sin-
dacale che caratterizzava quel momento storico, aveva ammesso l’arbitrato
nelle controversie di lavoro solo se ciò era previsto dai contratti collettivi di
lavoro. Analogamente avvenne con le riforme del 1998 allorché fu inserito

(25) D. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 “Modifiche al c.p.c. in materia di processo di cassazione


in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’art. 1, comma 2°, della l. 14 maggio 2005,
n. 80”. All’art. 3 punto b la l. delega aveva affidato al governo il compito di: “riformare in sen-
so razionalizzatore la disciplina dell’arbitrato”.
(26) In questo senso Cass. sez. un., 3 agosto 2000, n. 527 che ebbe per la prima volta ad af-
fermare – seguita poi da decisioni sempre conformi – che l’arbitrato non costituisce una dele-
ga all’esercizio di un potere decisorio sostitutivo di quello del giudice ordinario, come se l’ef-
ficacia di sentenza del lodo (prevista espressamente nel testo originario nell’art. 825 c.p.c. e
ora nell’art. 824-bis c.p.c.) attribuisse una copertura giurisdizionale all’arbitrato rituale, ma
esercizio di un potere di risoluzione privatistica alternativa di una controversia. In dottrina
sull’arbitrato Benedettelli, Consolo, Radicati di Brozolo, Comm. breve al diritto dell’ar-
bitrato nazionale ed internazionale, Padova, 2010; Bernardini, De Nova, Nobili, Punzi, La
riforma dell’arbitrato, Milano, 1994; Bernardini, Diritto dell’arbitrato, Bari, 1998; Cecchel-
la, L’arbitrato, Torino, 2005; Idem, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano, 1990; Men-
chini (a cura di), Riforma del diritto arbitrale, in Le nuove leggi civili commentate, 2007, p. 1175
ss. ; Punzi, Arbitrato, Arbitrato rituale e irrituale, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1995, p. 3 ss.,
Idem, Disegno sistematico dell’arbitrato, vol. I, Padova, 2000; Rubino Sammartano, Il diritto
dell’arbitrato (interno), V° ed., Padova, 2006, Idem, Arbitrato, ADR, conciliazione, Bologna,
2009; Verde (a cura di), Diritto dell’arbitrato, III° ed., Torino, 2005; Idem, Lineamenti di dirit-
to dell’arbitrato, Torino, 2006.
SAGGI 241

nel codice di procedura civile l’art. 412-ter (27) il quale prevedeva che, in al-
ternativa al giudizio dinanzi al giudice ordinario, ove il tentativo di concilia-
zione non fosse riuscito o comunque fosse decorso il termine stabilito per il
suo espletamento, le parti avrebbero potuto concordare di deferire la riso-
luzione della controversia ad arbitri, sempre che questa possibilità fosse
prevista nei contratti e accordi collettivi (28). Una sorta di alternativa arbitra-
le sussidiaria rispetto alla conciliazione a patto che fosse stata ammessa nel-
la contrattazione collettiva. L’alternativa era percorribile anche in materia
di pubblico impiego dove (in virtù di quanto previsto dal contratto colletti-
vo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato ai
sensi degli artt. 59-bis, 69 e 69-bis del d. lgs. n. 29 del 1993 in materia di pub-
blico impiego) le parti possono sempre concordare, in alternativa al ricorso
all’autorità giudiziaria ordinaria, di deferire la controversia ad un arbitro
unico scelto di comune accordo. In definitiva l’arbitrato nelle controversie
di lavoro costituiva un’alternativa subordinata alla previsione nella contrat-
tazione collettiva. Ora, secondo il nuovo testo dell’art. 806 c.p.c. è sufficien-
te che sia la legge a prevederlo per rendere praticabile l’arbitrato.
Continuando nell’esame delle disposizioni generali sull’arbitrato rifor-
mate nel 2006, il testo dell’art. 807 (compromesso) prevede che “il compro-
messo deve, a pena di nullità, essere fatto per iscritto e determinare l’oggetto
della controversia. La forma scritta s’intende rispettata anche quando la vo-
lontà delle parti è espressa per telegrafo, telescrivente, telefacsimile o messag-
gio telematico nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente
la trasmissione e la ricezione dei documenti teletrasmessi”. Scompare dal
nuovo testo il vecchio terzo comma il quale stabiliva che al compromesso si
applicano le disposizioni che regolano la validità dei contratti eccedenti
l’ordinaria amministrazione, con la conseguenza che il compromesso, cioè
la convenzione di diritto privato di deferimento agli arbitri di una decisione
su una lite insorta, che dovrebbe riferirsi a rapporti non contrattuali, è oggi
considerato un atto di ordinaria amministrazione con conseguente modifi-
ca implicita del terzo comma dell’art. 320 c.c., che si occupa della rappre-
sentanza dei genitori sui figli minori, nella parte in cui considera la decisio-
ne di arbitrabilità di una controversia un atto eccedente l’ordinaria ammini-
strazione richiedente l’autorizzazione del giudice tutelare.
L’art. 808 (clausola compromissoria) prescrive che: “Le parti, nel contrat-
to che stipulano o in un atto separato, possono stabilire che le controversie na-
scenti dal contratto medesimo siano decise da arbitri, purché si tratti di contro-

(27) La norma è stata inserita dall’art. 39 del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80.
(28) Anche l’art. 808 c.p.c. (nel testo anteriore alla riforma del 2006) prevedeva che il ri-
corso all’arbitrato era ammissibile solo se previsto nei contratti e accordi collettivi di lavoro.
242 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

versie che possono formare oggetto di convenzione d’arbitrato. La clausola


compromissoria deve risultare da atto avente la forma richiesta per il compro-
messo dall’art. 807. La validità della clausola compromissoria deve essere va-
lutata in modo autonomo rispetto al contratto al quale si riferisce; tuttavia, il
potere di stipulare il contratto comprende il potere di convenire la clausola
compromissoria”.
Scompare – in virtù di quanto inserito nel nuovo testo dell’art. 806 che
considera arbitrabili le controversie di lavoro non solo se lo prevedono i
contratti collettivi ma anche se è la legge a prevederlo – il comma che pre-
vedeva che le controversie di cui all’art. 409 possono essere decise da arbitri
solo se ciò sia previsto nei contratti e accordi collettivi di lavoro.
La riforma del 2006 aggiungeva anche due norme di significativo rilievo.
In primo luogo l’art. 808-bis (convenzione di arbitrato in materia non con-
trattuale) secondo cui “Le parti possono stabilire, con apposita convenzione,
che siano decise da arbitri le controversie future relative a uno o più rapporti
non contrattuali determinati. La convenzione deve risultare da atto avente la
forma richiesta per il compromesso dall’art. 807”.
Prima della riforma le controversie “future” non potevano essere ogget-
to di una convenzione di arbitrato in materia non contrattuale perché l’art.
806 c.p.c. limitava la possibilità del compromesso alle controversie “già in-
sorte” mentre la clausola compromissoria concerne per definizione solo l’a-
rea delle controversie di natura contrattuale. Con questa norma il legislato-
re ha introdotto nell’ordinamento la possibilità di accordi di deferimento ad
arbitri, attraverso apposite convenzioni di arbitrato, di controversie future
relative a rapporti giuridici di natura non contrattuale.
Si fa l’esempio di rapporti di condominio, di rapporti tra soggetti chia-
mati ad una successione ereditaria, di rapporti nascenti da atti non contrat-
tuali produttivi di obbligazioni (29), tutti rapporti che devono essere neces-
sariamente richiamati espressamente nella convenzione di arbitrato per
non incorrere nella nullità dell’indeterminatezza dell’oggetto (artt. 1418 e
1346 c.c.).
La forma della “convenzione” è quella scritta prevista nell’art. 807 per il
“compromesso” e non è chiaro a questo punto il motivo per il quale il legi-
slatore ha usato questa differente terminologia. Il compromesso indicato
nell’art. 807 e la convenzione indicata nell’art. 808-bis sembrano esatta-
mente la stessa cosa, riferendosi entrambe a controversie non contrattuali
(essendo quelle contrattuali riferibili alla clausola compromissoria). In ogni

(29) Benedettelli, Consolo, Radicati di Brozolo, Comm. breve al diritto dell’arbitrato


nazionale internazionale, Padova, 2010, p. 56.
SAGGI 243

caso certamente l’arti. 808-bis si riferisce a liti future e l’art. 807 a liti già in-
sorte, ma non può essere questo un fondamento plausibile di una diversa
terminologia.
La seconda e più consistente novità introdotta dal d. lgs. 2 febbraio
2006, n. 40 è, come si è prima anticipato, l’art. 808-ter (arbitrato irrituale) in
cui si legge che: “Le parti possono, con disposizione espressa per iscritto, sta-
bilire che, in deroga a quanto disposto dall’art. 824-bis (30), la controversia sia
definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. Altrimenti si ap-
plicano le disposizioni del presente titolo” poi la norma prosegue indicando i
cinque casi in cui il “lodo contrattuale” incorre in invalidità (31).
È questo uno dei punti centrali della riforma dell’arbitrato del 2006 che,
indubbiamente, dà legittimazione piena e anche autonomia dogmatica al-
l’arbitrato irrituale (32).
L’idea che il legislatore abbia potuto operare una trasformazione così ra-
dicale con una norma che indubbiamente ha anche una aspirazione siste-
matica, può dar fastidio ma non può essere sottovalutata. L’arbitrato rituale
e quello irrituale acquistano con la riforma del 2006 ciascuno una propria
autonomia. E a partire da questa riforma non si potrà più sostenere, quindi,
che l’arbitrato costituisce un fenomeno giuridico unitario, pur essendo evi-
dente nelle due forme di arbitrato la comune natura alternativa rispetto al
sistema giurisdizionale di risoluzione delle controversie. Si potrà sostenere

(30) L’art. 824-bis dispone che il lodo ha gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità
giudiziaria.
(31) Il lodo contrattuale è annullabile dal giudice competente secondo le disposizioni del
libro I:
1) se la convenzione dell’arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclu-
sioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento
arbitrale;
2) se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzio-
ne arbitrale;
3) se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma del-
l’art. 812;
4) se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di va-
lidità del lodo;
5) se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio. Al
lodo contrattuale non si applica l’art. 825.
(32) In materia di arbitrato irrituale, oltre ai lavori generali sull’arbitrato, Arrigoni, Arbi-
trato irrituale tra negozio e processo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 323 ss.; Bernini, Princi-
pio del contraddittorio e arbitrato irrituale, in Riv. arb., 2006, p. 701 ss.; Morellini, Rilevanza
della volontà delle parti per distinguere l’arbitrato rituale da quello irrituale, in Società, 2006, p.
235 ss. ; Verde, Arbitrato irrituale, in Aa. Vv., La riforma della disciplina dell’arbitrato, a cura
di E. Fazzalari, Milano, 2006, p. 7 ss.; Curti, L’arbitrato irrituale, Torino, 2005.
244 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

che quello irrituale non è un vero e proprio arbitrato (33) ma non può sfug-
gire la chiarezza (e forse la presunzione) del legislatore il quale parla di “lo-
do contrattuale” in consapevole simmetria con il “lodo con effetti di senten-
za” a cui si riferisce l’art.824-bis c.p.c.
Come si vede, entra con prepotenza nel sistema giuridico, a pieno tito-
lo, la figura dell’arbitrato irrituale finalizzato ad un lodo non avente effica-
cia di sentenza ma, appunto, di contratto. Gli arbitri, perciò, sono delegati a
definire un assetto contrattuale tra le parti.
La riforma sembra quindi confermare la natura per così dire sostanziale
dell’arbitrato irrituale affermando che ciò che caratterizza l’arbitrato irritua-
le è il conferimento all’arbitro del compito di definire in via contrattuale – e
non attraverso un lodo arbitrale e cioè un atto di natura processuale – una
controversia insorta o che possa insorgere tra le parti in ordine a determina-
ti rapporti giuridici, mediante una composizione riconducibile alla volontà
delle parti e da valere come contratto concluso dalle stesse. Una sorta di
conciliazione arbitrale.
Nonostante la sua natura sostanziale e contrattuale il lodo arbitrale irri-
tuale trova la sua disciplina nell’ambito del codice di procedura civile con
ciò eliminando, in origine, ogni questione in ordine ai limiti di validità del-
la rinuncia temporanea alla giurisdizione ordinaria, che la scelta di avvaler-
si di tale strumento comporta.
Si tratta comunque di uno strumento dotato di grande flessibilità e faci-
le praticabilità. Il legislatore del 2006 aveva pensato solo ad alcune regole
minime, riconducibili essenzialmente alla necessità che la volontà delle
parti in favore dell’arbitrato irrituale si esprima in modo chiaro e univoco
(comma 1°) e alla possibilità che il lodo venga annullato in presenza di alcu-
ne gravi violazioni (comma 2°), ma aveva lasciato per il resto le parti libere
di esprimere al massimo la propria autonomia contrattuale. Come si vedrà
alcune regole procedimentali sono state introdotte dal legislatore nell’arbi-
trato irrituale nei conflitti di lavoro con il nuovo testo dell’art.412-ter c.p.c.
varato dalla legge 183/2010.
La giurisprudenza dal canto suo ha sempre mantenuto pragmaticamen-
te nelle sentenze, anche in quelle più recenti, la convinzione – confermata
dal legislatore del 2006 e, come si dirà, da quello del 2010 – che l’arbitrato ir-
rituale è un vero e proprio arbitrato che comporta un accertamento diretta-
mente riconducibile alla volontà delle parti, assoggettato alle normali im-
pugnative negoziali. Si legge in tutte le principali decisioni della giurispru-
denza che “posto che sia l’arbitrato rituale che quello irrituale hanno natu-

(33) Punzi, Arbitrato, Arbitrato rituale e irrituale, in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1995, p. 3
ss.
SAGGI 245

ra privata, la differenza tra l’uno e l’altro tipo di arbitrato non può imper-
niarsi sul rilievo che con il primo le parti abbiano demandato agli arbitri una
funzione sostitutiva di quella del giudice, ma va ravvisata nel fatto che, nel-
l’arbitrato rituale, le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di
essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all’art. 825 c.p.c., con
l’osservanza delle regole del procedimento arbitrale, mentre nell’arbitrato
irrituale esse intendono affidare all’arbitro (o agli arbitri) la soluzione di
controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati
rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una
composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla
volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione
degli arbitri come espressione della loro volontà” (34).
Per comprendere come sia potuto accadere che l’arbitrato irrituale (con
il suo lodo contrattuale) abbia assunto oggi – insieme alla mediazione – una
centralità assolutamente inedita nel sistema dei mezzi di composizione al-
ternativi delle controversie, è sufficiente considerare che la riforma appro-
vata non ha fatto altro che disciplinare nei conflitti di lavoro l’arbitrato sul
modello generale dell’art. 808-ter c.p.c.
Con la differenza che, mentre nel diritto comune l’articolo 808-ter non
aveva previsto e non prevede ancora una disciplina procedimentale propria,
la riforma approvata introduce, invece, una nuova procedura strutturata ma
semplificata per gli arbitrati che si svolgeranno davanti a nuovi “collegi di
conciliazione e arbitrato irrituale” composti da un rappresentante per cia-
scuna parte e da un presidente scelto di comune accordo dagli arbitri di par-
te tra professori universitari di materie giuridiche e avvocati ammessi al pa-
trocinio davanti alla Corte di Cassazione.
A questo punto, non è escluso – ed anzi sarebbe auspicabile – che il le-
gislatore possa in futuro anche estendere la nuova procedura prevista nel-
l’arbitrato nelle controversie di lavoro anche all’arbitrato irrituale di diritto
comune previsto nell’art. 808-ter.
Vediamo ora più da vicino il nuovo arbitrato irrituale nei conflitti di la-
voro (artt. 412, 412-ter, 412-quater introdotti dalla riforma approvata) (35) di
cui va segnalata in primo luogo la grande differenza con l’“arbitrato irritua-
le previsto dai contratti collettivi”, cui faceva riferimento il previgente art.
412-ter c.p.c. All’epoca, infatti, in cui le norme sul tentativo di conciliazione
obbligatorio e sull’arbitrato nel processo del lavoro venivano introdotte,

(34) Cass. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21585; Cass. sez. I, 30 maggio 2005, n. 12684; Cass.
sez. I, 10 ottobre 2006, n. 24059; Cass. sez. I, 20 luglio 2006, n. 16718.
(35) La riforma approvato dalla Camera il 19 ottobre 2010 – legge 4 novembre 2010 pub-
blicata nel supplemento ordinario della G.U. del 9 novembre 2010 – ha abrogato gli artt. 410-
bis e 412-bis c.p.c. (art. 31 comma 16° della legge 183/2010).
246 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

cioè nel 1998, l’arbitrato ancora non aveva subìto quella rivoluzione coper-
nicana determinata su questo istituto dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n. 40.
È proprio in seguito alla riforma del 2006 che il nuovo modello di arbi-
trato irrituale disegnato per il diritto comune nell’art. 808-ter c.p.c. si è reso
particolarmente appetibile anche per le controversie di lavoro portando alla
proposta politica, ora diventata legge, di spostare dalla conciliazione all’ar-
bitrato il baricentro delle soluzioni alternative e riportando – come si è già
accennato – il tentativo di conciliazione come nella primitiva riforma del
1973 alla sua facoltatività (salvo per le controversie di cui all’art. 80 del d. lgs
276/2003, relative alla certificazione dei contratti: art. 31, comma 2°, l. 4 no-
vembre 2010, n. 183).
Nell’attuale XVI legislatura si è discusso di riforma della conciliazione e
dell’arbitrato, all’interno di un progetto più ampio di riforma del diritto del
lavoro (progetto di legge C / n. 1441-quater) il cui esame ha avuto inizio alla
Camera dei deputati, in prima lettura, il 17 settembre 2008 e si è concluso
con l’approvazione del testo il 28 ottobre 2008. Il provvedimento che inizial-
mente era composto di 9 articoli, è stato approvato dalla Assemblea della
Camera dei deputati in un testo di 28 articoli. Il Senato ha avviato l’esame
del provvedimento (S / n. 1167), in seconda lettura, il 5 novembre 2008 e l’ha
approvato il 26 novembre 2009, in un testo composto di 52 articoli. La Ca-
mera ha avviato la terza lettura parlamentare (C / n. 1441-quater-B) il 9 di-
cembre 2009. A seguito delle ulteriori modifiche apportate, il testo, approva-
to dalla Camera il 28 gennaio 2010, è stato nuovamente trasmesso al Senato.
Il Senato ha svolto la quarta lettura parlamentare (S / n. 1167-B) dal 2 feb-
braio al 3 marzo del 2010, approvando il testo senza ulteriori modifiche.
La legge venne rinviata alle Camere dal Presidente della Repubblica il
31 marzo 2010 – con un messaggio sui cui contenuti si ritornerà in seguito –
ed è stata approvata con modificazioni dalla Camera dei deputati il succes-
sivo 29 aprile 2010 e dal Senato il 29 settembre 2010. Poiché il Senato aveva
apportato alcune modifiche è tornata alla Camera dove è stata approvata in
via definitiva il 19 ottobre 2010 diventando legge 4 novembre 2010, n. 183.
La norma che si occupa di conciliazione e arbitrato nel processo del la-
voro – una di quelle su cui si erano appuntate le osservazioni del Presidente
della Repubblica – è l’art. 31.
I primi quattro commi si occupano della conciliazione mentre dal quin-
to comma in poi la disposizione affronta il tema dell’arbitrato.
Il comma 5° disciplina l’arbitrato presso la commissione di conciliazio-
ne, inserendo l’istituto in un nuovo art. 412 c.p.c. (36) e dando con ciò in-

(36) Si riporta il testo di questo comma come modificato dalla Camera dei Deputati dopo
il rinvio da parte del Presidente della Repubblica (art. 31, comma 5°, della legge 183/2010).
SAGGI 247

gresso nei conflitti di lavoro ad una nuova figura di “risoluzione arbitrale del-
la controversia” sul modello dell’art. 808-ter c.p.c., attraverso la devoluzione
alle commissioni di conciliazione di un ruolo non più di negoziatore ma di
arbitro. Per questo il nuovo istituto potrebbe essere anche chiamato “conci-
liazione arbitrale”. Si legge nella norma che: “In qualunque fase del tentativo
di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono
indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo,
quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per
la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il manda-
to a risolvere in via arbitrale la controversia”.
Esattamente, quindi, quello che prevede l’art. 808-ter c.p.c., inserito dal
d. lgs. n. 40 del 2006, il quale espressamente afferma che “le parti possono
[. . .] stabilire che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determina-
zione contrattuale” che a differenza del lodo rituale non va obbligatoria-
mente depositato in tribunale.

5. L’art. 412 c.p.c. è sostituito dal seguente:


« Art. 412. – (Risoluzione arbitrale della controversia). – In qualunque fase del tentativo di
conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la solu-
zione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito
che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla com-
missione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.
Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono
indicare:
1) il termine per l’emanazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta gior-
ni dal conferimento del mandato, spirato il quale l’incarico deve intendersi revocato;
2) le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di de-
cidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento “e dei principi rego-
latori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari” (parte aggiunta dopo il messag-
gio presidenziale).
Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, pro-
duce tra le parti gli effetti di cui all’art. 1372 e all’art. 2113, comma 4°, c.c. e ha efficacia di tito-
lo esecutivo ai sensi dell’art. 474 del presente codice a seguito del provvedimento del giudice
su istanza della parte interessata ai sensi dell’art. 825.
Il lodo è impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter, anche in deroga all’art. 829, commi 4° e 5°,
se ciò è stato previsto nel mandato per la risoluzione arbitrale della controversia ».
Sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale, ai sensi dell’art.
808-ter, decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circo-
scrizione è la sede dell’arbitrato. Il ricorso è depositato entro il termine di trenta giorni dalla
notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per
iscritto di accettare la decisione arbitrale, ovvero se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il
lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitra-
to. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo arbitra-
le, lo dichiara esecutivo.
248 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Quindi le parti delegano un terzo a ridefinire il loro rapporto negoziale


individuando la soluzione della controversia. Si tratta di una procedura de-
legata a terzi che porta ad una risoluzione pienamente valida tra le parti.
La norma ribadisce la natura negoziale del lodo affermando che “il lodo
emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato,
produce tra le parti gli effetti di cui all’art. 1372 e all’art. 2113, comma 4°, c.c. (37)
e ha efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 del presente codice a se-
guito del provvedimento del giudice su istanza della parte interessata ai sen-
si dell’art. 825.
Il successivo comma 6° dell’art. 31 sostituisce integralmente l’art. 412-
ter c.p.c. (che attualmente disciplina l’arbitrato irrituale previsto dai contrat-
ti collettivi). La nuova versione prevede che la conciliazione e l’arbitrato in
materia di controversie di lavoro possano essere svolti anche presso le sedi
e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associa-
zioni sindacali maggiormente rappresentative.
Il comma 8° sostituisce integralmente l’art. 412-quater c.p.c. (attualmen-
te relativo all’impugnazione ed esecutività del lodo arbitrale), prevedendo
la composizione del collegio di conciliazione e arbitrato e la procedura che
vi si segue.
Il comma 9° dell’art. 31 estende la disciplina del tentativo facoltativo di
conciliazione (art. 410), della risoluzione arbitrale delle controversie (art.
412), della conciliazione e dell’arbitrato sindacale (art. 412-ter) nonché del-
la conciliazione e arbitrato irrituale innanzi al collegio di conciliazione e ar-
bitrato (art. 412-quater) alle controversie nel lavoro pubblico.
Il comma 10° – che è stato uno dei punti principali del dibattito politico
che ha accompagnato l’iter della legge – concerne la possibilità di pattuizio-
ne di clausole compromissorie nei contratti individuali di lavoro (di cui al-
l’art. 409). Attraverso tali clausole, le parti si impegnano a deferire le con-
troversie secondo le modalità dell’arbitrato di cui all’art. 412 (presso la
commissione di conciliazione) o di cui all’art. 412-quater (presso il collegio
di conciliazione e arbitrato irrituale). In seguito alle osservazioni contenute
nel messaggio del Presidente della Repubblica del 31 marzo 2010 il testo ap-
provato prevede che la clausola compromissoria non possa essere inserita
all’atto della firma del contratto ma solo al termine del periodo di prova o
comunque non prima di trenta giorni dalla stipulazione del contratto di la-
voro (38).

(37) Il quarto comma dell’art. 2113 c.c. prevede la deroga al principio di invalidità delle ri-
nunce e delle transazioni a diritti indisponibili. Quindi il lodo arbitrale irrituale ha lo stesso
valore del verbale di conciliazione al quale anche per espressa previsione dell’ultimo comma
dell’art. 2113 c.c. si applica la deroga indicata.
(38) Art. 30, comma 10°, della riforma approvata invia definitiva il 19 ottobre 2010: “In re-
SAGGI 249

lazione alle materie di cui all’art. 409 c.p.c., le parti contrattuali possono pattuire clausole
compromissorie di cui all’art. 808 c.p.c. che rinviano alle modalità di espletamento dell’arbi-
trato di cui agli artt.412 e 412-quater c.p.c., solo ove ciò sia previsto da accordi interconfedera-
li o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavora-
tori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La clausola compromissoria,
a pena di nullità, deve essere certificata in base alle disposizioni di cui al titolo VIII del d. lgs.
10 settembre 2003, n. 276, dagli organi di certificazione di cui all’art.76 del medesimo decreto
legislativo, e successive modificazioni. Le commissioni di certificazione accertano, all’atto
della sottoscrizione della clausola compromissoria, la effettiva volontà delle parti di devolve-
re ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro. La clausola compromis-
soria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove
previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del con-
tratto di lavoro, in tutti gli altri casi. La clausola compromissoria non può riguardare contro-
versie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. Davanti alle commissioni di certifica-
zione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante del-
l’organizzazione sindacale o professionale a cui abbiano conferito mandato.
Enciclopedia

ELEONORA MARIA PIERAZZI

L’alea nei contratti

Sommario: 1. Il contratto aleatorio, l’alea giuridica e l’alea normale. – 2. Manifestazioni e cri-


teri di accertamento dell’alea normale. – 3. L’alea nei contratti di borsa.

1. – È ben noto che con l’espressione contratto aleatorio (1), contrappo-


sta a contratto commutativo, si indica una fattispecie contrattuale nella qua-
le una parte assume una obbligazione essendo consapevole, sin dal mo-
mento della stipulazione del contratto, della possibilità di non ricevere al-
cunché a titolo di controprestazione, ovvero di ricevere una prestazione di
valore sensibilmente inferiore a quella eseguita (2).

(1) La definizione tradizionale di contratto aleatorio quale contratto nel quale « ciò che
l’uno dà o si obbliga di dare all’altro, è il prezzo di un rischio che gli ha addossato » risale a
Pothier, Trattato del contratto di assicurazione, in Opere, II, Livorno, 1936, I, p. 97, mentre la
prima definizione normativa è contenuta nel Code Napoleon (artt. 1104 e 1964) e, successiva-
mente, nel codice civile italiano del 1865 (art. 1102). Sull’origine storica del contratto aleato-
rio si veda Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 44, se-
condo cui la creazione della fattispecie risale al Medioevo, nel momento in cui si fece più
pressante l’esigenza di favorire le contrattazioni che, in quanto sempre più spesso legate al-
l’imprevedibile andamento dei mercati, si caratterizzavano per l’incertezza del rischio e della
convenienza dell’affare. In senso difforme Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova,
1987, p. 24.
(2) Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 533. In argomento Riccio, L’ec-
cessiva onerosità sopravvenuta, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 2010; Ba-
lestra, Il contratto aleatorio e l’alea normale, in Le monografie di Contratto e impresa, Padova,
2000; Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987; Ridolfi, voce «Alea, Aleatori
(contratti) », in Nuovo Dig. it., II, p. 263 ss.; Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, Milano,
1960, p. 127 ss.; Id., voce «Alea », in Dig. disc. priv., sez. civ., I, p. 255 ss.; Id., Considerazioni sui
contratti aleatori, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 167 ss.; Pino, Contratto aleatorio, contratto commu-
tativo ed alea, in Riv. trim. proc. civ., 1960, p. 1221 ss. In giurisprudenza, tra le altre, Cass., 30
agosto 2004, n. 17399, in Giur. it., 2005, p. 1394; Cass., 7 giugno 1991, n. 6452, in Rep. Foro it.,
1991, voce «Contratto in genere» n. 401; Cass., 31 maggio 1986, n. 3694 in Rep. Foro it., 1986, vo-
252 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Il contratto aleatorio, proprio in ragione della sua peculiare natura, non


consente alla parte che subisce gli effetti negativi dell’alea di invocare le
norme sulla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta né le norme
sulla rescissione del contratto (3). A tale riguardo, infatti, si è puntualmente
osservato che l’eventuale sproporzione tra le prestazioni non è rilevante ai
sensi dell’art. 1467, comma 2°, c.c. o dell’art. 1448, comma 2°, c.c. giacché
« essa rientra nel rischio connesso al contratto stipulato » (4). Le sorti del
contratto, pertanto, risultano vincolate al verificarsi di un evento rispetto al
quale le parti sono prive di ogni potere di intervento (5) e dinanzi al quale
non possono invocare gli ordinari strumenti che l’ordinamento usualmen-
te appresta a tutela dell’eventuale pregiudizio dei loro interessi.
La dottrina si è ampiamente soffermata sull’inquadramento del contrat-
to aleatorio e, al riguardo, si sono delineate due principali impostazioni.
Secondo una prima ricostruzione, nota come concezione funzionale, il
contratto aleatorio si contraddistingue per l’incertezza circa il risultato econo-
mico del contratto al momento della stipulazione, essendo impossibile valuta-
re a priori il rapporto tra l’entità del vantaggio e l’entità del rischio cui si sotto-
pongono le parti contraenti (6). Si tratta di una impostazione tradizionale (7),

ce «Contratto in genere», n. 335; Trib. Milano, 27 febbraio 1992, in Giur. it., 1992, I, 2, p. 602 con
nota di Cagnasso.
(3) Scalfi, voce «Alea » in Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, p. 260 e Nicolò, voce
«Alea », in Enc. dir., I, Milano, 1958, p.1030 rilevano che la ratio dell’inapplicabilità dei citati ri-
medi risiede nel fatto che per tale tipologia contrattuale il rischio dell’alterazione dell’econo-
mia dell’affare e dei termini del rapporto è connotato intrinseco dello schema causale. Deve
tuttavia notarsi che secondo una impostazione dottrinale accreditata anche per i contratti
aleatori dovrebbero ammettersi, in presenza di determinate condizioni, i rimedi di cui agli
artt. 1467 e 1468 c.c.; in questo senso, tra gli altri, Sacco, in Trattato di dir. civile, diretto da Sac-
co, Il contratto, II, Torino, 2004, p. 703; Auletta, Risoluzione dei contratti per eccessiva onero-
sità, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, p.170; Buffa, Di alcuni principi interpretativi in materia di
risoluzione per onerosità eccessiva, in Riv. dir. comm., 1948, II, p. 55.
(4) Bianca, Diritto civile, III, Milano, 1984, p. 649 ss. ove si legge che la parte non può do-
lersi della sproporzione tra dare e avere se la stessa è il risultato sfavorevole dell’alea assunta.
(5) Come osserva Balestra, Il contratto aleatorio e l’alea normale, in Le monografie di
Contratto e impresa, Padova, 2000, p. 122.
(6) Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto civile italiano, Napoli, s.d., p. 209;
Osti, voce «Contratto », in Noviss. Dig. it., Torino, 1959, p. 496 ss.; Messineo, Il contratto in ge-
nere, in Trattato di dir. civile, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1968, p. 774 ss.; Boselli, Ri-
schio, alea ed alea normale del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, p. 770 ss.; Barassi, Teo-
ria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1954, p. 289 ss.; Mosco, Onerosità e gratuità degli at-
ti giuridici, Napoli, 1942, p. 83 ss.; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Na-
poli, 1976, p. 244 ss.
(7) Tale impostazione si è infatti formata sulla traccia della codificazione napoleonica
(art. 1102 del codice civile del 1865).
ENCICLOPEDIA 253

cui la stessa giurisprudenza dimostra di aderire (8), che in passato è stata tal-
volta accusata di fornire una definizione troppo generica della fattispecie. Si è
infatti obiettato che l’incertezza circa il vantaggio economico non sarebbe pre-
rogativa dei contratti aleatori, ravvisandosi anche nelle ipotesi di estensione
convenzionale dell’alea normale, nonché nei contratti con prestazioni certe e
determinate ad esecuzione differita (9).
Altra parte della dottrina, insoddisfatta della ricostruzione nei termini
citati, ha elaborato la cd. concezione strutturale secondo la quale il contrat-
to aleatorio si connota per il fatto che l’evento incerto non incide sui criteri
economici che condizionano il valore delle prestazioni bensì sulla esistenza
o sulla determinazione delle medesime (10), ovvero sull’an o sul quantum (11).
Oltre a tali due fondamentali impostazioni si deve dare atto di una ulteriore
opinione che, ponendosi come sintesi delle prime due, ritiene che ai fini del-

(8) Ex multis, Cass., 26 gennaio 1993, n. 948, in Contratti, 1993, p. 532; Cass., 7 giugno
1991, n. 6452, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere », n. 401; Cass., 31 maggio 1986, n.
3694, in Rep. Foro it., voce «Contratto in genere », n. 335, Cass., 9 aprile 1980, n. 2286, in Giust.
civ., 1980, I, p. 1503; Cass., 8 agosto 1979, n. 4626, in Rep. Giur. it., 1979, voce «Obbligazioni e
contratti », n. 265; Cass., 22 ottobre 1977, n. 4547, in Mass. Giust. Civ., 1977. Recentemente in
questo senso, Trib. Ivrea, 1° settembre 2005, in Contratti, 2006, p. 260, commentata da Ba-
raldi, in questa rivista, 2007, p. 603 ss., ove si conclude per la natura aleatoria del warrant in
ragione dell’incerto risultato economico a cui tende l’investitore.
(9) Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 15; Scal-
fi, Corrispettività ed alea nei contratti, Milano – Varese, 1960, p. 143.
(10) Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 60; Scalfi, voce «Alea » in
Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, p. 256; id., Corrispettività ed alea nei contratti, Milano
– Varese, 1960, p. 143; Maiorca, Il contratto. Profili della disciplina generale, Torino, 1981, p.
77; Maresca, Alea contrattuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 46; Ascarelli,
Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa e tit. di credito, 1958, I, p. 440; Dalmartello,
Adempimento e inadempimento nel contratto di riporto, Padova, 1958, p. 329, nota 173 bis; Ni-
colò, voce «Alea», in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1024; Id., in Scritti giuridici, II, Milano, 1980,
p. 1421; Rotondi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1942, p. 341 ove si legge che « quello che
rende aleatorio il contratto non è l’alea circa il valore economico delle prestazioni o le condizioni
economiche incerte e mutevoli, ma l’alea sull’esistenza o sulla entità delle prestazioni ».
(11) Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il codice civile. Commentario, diretto
da Schlesinger, artt. 1467 – 1469, Milano, 1995, p. 167 segnala che sotto il profilo dell’an rileva
il caso di estrazione di un numero o di un biglietto della lotteria o dell’esito di una gara nella
scommessa, mentre sotto il profilo del quantum sottolinea – che nell’assicurazione sulla vita
e nella rendita vitalizia – la prestazione dell’assicuratore o la quantità della rendita dipendono
dalla durata della vita. Si veda anche Cass., sez. un., 26 gennaio 1993, in Giust. civ., 1993, I, p.
3023 ss. con nota di Costanza; Cass., 7 giugno 1991, n. 6452, in Rep. Foro it., 1991, voce «Con-
tratto in genere » n. 401; Cass., 31 maggio 1986, n. 3694, in Rep. Foro it., 1986, voce «Contratto
in genere », n. 335; Cass., 9 aprile 1980, n. 2286, in Giust. civ., 1980, I, p. 1503; Cass., 11 marzo
1966, n. 699, in Temi nap., 1966, I, p. 162.
254 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

l’aleatorietà sia necessario sia il requisito della indeterminatezza delle pre-


stazioni sia l’assenza di correlatività tra le prestazioni indeterminate (12).
In ogni caso, al di là delle varie ricostruzioni teoriche che si sono deli-
neate nel tempo, occorre ricordare che secondo la definizione classica è
aleatorio il contratto in cui l’alea si pone come momento originario ed es-
senziale « che colora e qualifica lo schema causale del contratto » (13).
L’alea del contratto aleatorio, propriamente detta alea giuridica, deve
essere tenuta distinta dalla cd. alea normale del contratto, di cui si fa cenno
per la prima volta nel nostro ordinamento con il codice civile del 1942, che,
a ben vedere, esprime un concetto profondamente diverso (14).
Sulla scorta delle elaborazioni dottrinali e della giurisprudenza in mate-
ria può affermarsi che l’alea dei contratti aleatori si pone come elemento ca-
ratterizzante di una determinata categoria contrattuale (15) che, senza di es-
sa, perderebbe il suo tratto distintivo (16); diversamente, la cd. alea normale
costituisce un elemento comune a qualsiasi relazione negoziale, atteggian-
dosi come fattore esterno suscettibile di incidere sull’assetto degli interessi
predisposto dai contraenti (17) mediante un’alterazione del valore economi-

(12) Così Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 243;
Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 303.
(13) Nicolò, voce «Alea », in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1029; Scalfi, Corrispettività e
alea nei contratti, Milano, 1960, p. 138. Deve tuttavia segnalarsi Pino, Alea e rischio nel con-
tratto di assicurazione, in Assic., 1960, I, p. 260, Id., Il difetto di alea nella costituzione di rendita
vitalizia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 360 secondo il quale «la nozione di alea è teorica-
mente e praticamente inidonea alla determinazione dei contratti aleatori, sia per quanto concer-
ne la natura giuridica, sia per quanto concerne la struttura ».
(14) Vedi però Sacco, in Trattato di dir. civile, diretto da Sacco, Il contratto, II, Torino,
2004, p. 478 secondo cui il confine tra i due concetti è labile.
(15) Cass., 7 giugno 1991, n. 6452, in Rep. Foro it., 1991, voce «Contratto in genere », n. 401;
Trib. 27 febbraio 1992, in Giur. it., 1992, I, 2, p. 601 con nota di Cagnasso; Cass., 8 agosto 1979,
n. 4626, in Rep. Giur. it., 1979, voce «Obbligazioni e contratti », n. 265; Nicolò, voce «Alea », in
Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 1030.
(16) Cass., 9 marzo 1985, n. 1913, in Rep. Foro it., 1985, voce «Contratto in genere », n. 287,
definisce l’alea «quell’elemento intrinseco che definisce ed individua i cosiddetti contratti aleato-
ri ».
(17) In argomento si veda la chiara distinzione contenuta in Cass. 5 gennaio 1983, n. 1, in
Giur. it., 1983, I, 1, p. 718 laddove si legge che contratto aleatorio ed alea normale sono due no-
zioni qualitativamente diverse «giacché nei contratti aleatori l’alea si pone come momento ori-
ginario ed essenziale, che colora e qualifica lo schema causale del contratto, laddove l’alea nor-
male, che si può dire esista sempre nel momento in cui si perfeziona un contratto, non potendosi
mai escludere che vicende economiche sopravvenute possano alterare quella situazione di equili-
brio che le parti avevano ritenuto concordemente di porre in essere, rimane un momento del tutto
estrinseco al meccanismo o al contenuto del contratto ». In senso conforme, Cass., 9 marzo
ENCICLOPEDIA 255

co di una prestazione già determinata, senza che ciò comporti modificazio-


ne della funzione del contratto (18).
In altri termini, pertanto, l’alea normale del contratto potrebbe farsi
coincidere con il rischio naturalmente insito in ogni contrattazione (19), os-
sia con la possibilità che – per eventi indipendenti dalla volontà dei con-
traenti – risulti compromesso l’interesse di una o di entrambe le parti (20).
Come è stato puntualmente notato, quindi, il concetto di alea normale
esprime il margine entro il quale possono verificarsi oscillazioni nel valore
delle prestazioni a causa di fattori esterni al contratto, senza che ciò implichi
alcuna reazione da parte dell’ordinamento (21). Infatti, finché le alterazioni
nel valore delle prestazioni rimangono contenute nell’ambito dell’alea nor-
male esse non rilevano ai fini della risoluzione e della rescissione. Le con-
seguenze dell’alea normale del contratto, quindi, sono poste esclusivamen-
te a carico delle parti contraenti sulle quali grava l’onere di prevedere – e
quindi di valutare, se del caso, anche in sede precontrattuale – l’esistenza di
un certo margine di rischio, da ritenersi connaturale alle prestazioni ogget-
to del contratto in concreto.

2. – Il concetto di alea normale – di cui il codice civile non fornisce una


definizione (22) – è stato variamente identificato con le oscillazioni dei prez-
zi di mercato (23), con la normale variazione della situazione economica

1985, n. 1913 in Rep. Foro it., 1985, voce «Contratto in genere », n. 287; Coll. Arb., 9 marzo 1988,
in Arch. giur. oo. pp., 1988, p. 1745.
(18) Gambino, Normalità dell’alea e fatti di conoscenza, Milano, 2001, p. 61.
(19) Così Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 532; vedi anche Nicolò,
voce «Alea », in Enc. dir., I, Milano, 1958, p.1024 per il quale «le disquisizioni meramente ter-
minologiche sull’uso delle parole rischio e alea si risolvono in sottigliezze di scarso rilievo ».
(20) In questo senso già la Relazione del Guardasigilli al Progetto Preliminare al codice ci-
vile (n. 245), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1941 laddove l’alea normale veniva defi-
nita «quel rischio che il contratto comporta a causa della sua peculiarità: rischio al quale ciascu-
na parte implicitamente si sottopone concludendo quel contratto ».
(21) Boselli, voce «Alea », in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, p. 476 secondo il quale «per
ciascun negozio v’ha una zona, per così dire di immunità e quasi di tolleranza, per entro la quale
gli effetti del rischio estraneo possono dirsi compatibili con la causa, in quanto non pervengono
ancora ad alterarla, epperò non v’ha ragione che intervenga alcuna reazione da parte dell’ordina-
mento ».
(22) Al riguardo è pertinente la considerazione di Irti, Introduzione allo studio del diritto
privato, Padova, 1990, p. 72 secondo cui «se [. . .] la norma è espressa con parole della lingua co-
mune, la disciplina procede di massima per clausole generali, che lasciano al giudice largo spazio
nella determinazione della fattispecie e degli effetti ».
(23) Galgano, Trattato di diritto civile, II, Padova, 2010, p. 532; in simili termini anche
Bianca, Diritto civile. Il contratto, vol. I, Milano, 1987, p. 465 che esemplifica il concetto come
256 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

contrattuale (24), nonché con il divario di valore tra le prestazioni che un da-
to contratto comporta in regime di normalità (25). Con efficace formula di
sintesi l’alea è stata definita quale « rischio, in termini di normali (e perciò pre-
vedibili) oscillazioni di costi e valori delle prestazioni (originate dalle ordinarie
fluttuazioni di mercato), alle quali i contraenti si sottopongono stipulando un
dato contratto » (26).
Ciò posto – e considerate le modalità mediante le quali l’alea normale si
manifesta – è evidente che essa si presenterà in ipotesi di contratti ad esecu-
zione differita, laddove è maggiormente probabile che, tra la stipulazione
del contratto e l’adempimento, si presentino fattori esterni in grado di de-
terminare una alterazione dell’assetto economico (27). Al di là delle espres-

rischio delle variazioni di costi e valori che rimane entro il limite della normalità, nonché Pi-
no, La eccessiva onerosità della prestazione, Padova, 1952, p. 65; Id., Contratto aleatorio, con-
tratto commutativo ed alea, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1960, p. 1221. In giurisprudenza Cass., 6
febbraio 1979, n. 794, in Rep. Foro it., 1979, voce «Contratto in generale », n. 365; Cass., 6 feb-
braio 1979, n. 793, in Mass. Foro it., 1979, c.173; Cass., 18 ottobre 1978, n. 4675, in Mass. Foro
it., 1978, c. 919; App. Milano, 23 aprile 1974, in Giur. it., 1972, I, 2, p. 403.
(24) De Martini, L’eccessiva onerosità nell’esecuzione dei contratti, Milano, 1950, p. 26;
Dalmartello, Adempimento e inadempimento nel contratto di riporto, Padova, 1958, p. 328;
Scalfi, Corrispettività ed alea nei contratti, Milano – Varese, 1960, p. 134; Gatti, L’adeguatez-
za fra le prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, I, p. 454.
(25) Boselli, La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità, Torino, 1952, p. 180; in
termini analoghi anche Ferrari, Il problema dell’alea contrattuale, Napoli, 2001, p. 39.
(26) Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il codice civile. Commentario, diretto
da Schlesinger, artt. 1467 – 1469, Milano, 1995, p. 155; così anche in giurisprudenza, Cass., 11
giugno 1991, n. 6616, in Rep. Foro it., 1991, voce «Contratto in genere » [1740], n. 400; Cass., 25
marzo 1987, n. 2904, in Rep. Foro it., 1987, voce «Contratto in genere » [1740], n. 460; Cass., 9
marzo 1985, n. 1913, in Mass. Foro it., 1985; Cass., 5 gennaio 1983, n. 1, in Giur. it., 1983, I, 1, p.
718 con nota di Padova.
(27) Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, in Il codice civile. Commentario, diretto
da Schlesinger, artt. 1467 – 1469, Milano, 1995, p. 155; Giampieri, Rischio contrattuale in com-
mon law, in Contratto e impresa, 1996, n. 2, p. 591 il quale dà atto che «nei rapporti ad esecu-
zione continuata o differita [. . .] l’intervallo intercorrente tra la stipula ed il momento previsto per
l’adempimento può aumentare proporzionalmente l’intervento di fattori esterni, anche imputabi-
li alle parti, in grado di frustrarne i progetti comuni ovvero quelli di uno di essi ». Nello stesso sen-
so Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992, p. 4
secondo cui «i rischi di un mutamento delle circostanze tali da creare una divaricazione tra il re-
golamento contrattuale per definizione statico ed immutabile e la realtà in continua evoluzione
saranno naturalmente tanto maggiori quanto più lungo è l’intervallo di tempo che intercorre tra il
momento della conclusione e quello della esecuzione »; negli stessi termini anche Scalfi, voce
«Alea » in Dig. disc. priv. (sez. civ.), I, Torino, 1987, p. 258 il quale segnala che «l’alea si presen-
ta come una manifestazione “normale” in tutti i contratti ad esecuzione non immediata, essendo
possibili oscillazioni di valore delle prestazioni corrispettive cagionate da normali fluttuazioni di
mercato o da circostanze relative ad uno dei comportamenti dovuti idonee a creare uno squilibrio
di valore tra le prestazioni ».
ENCICLOPEDIA 257

sioni elaborate in dottrina per descrivere e rendere maggiormente percepi-


bile il concetto in esame, uno dei principali problemi che si pongono consi-
ste nel verificare sulla base di quali criteri l’interprete possa valutare se un
determinato evento integri gli estremi dell’alea normale e, in quanto tale,
sia produttivo di effetti che la parte dovrà sopportare senza poter invocare a
proprio vantaggio le norme sulla risoluzione o sulla rescissione del contrat-
to (28).
La giurisprudenza ha ritenuto che, ai fini dell’indagine, si debba avere
riguardo al criterio della prevedibilità (29), da valutarsi in considerazione del
tipo contrattuale posto in essere dalle parti. Alla stregua del citato parame-
tro, pertanto, potranno essere ricondotte nell’ambito dell’alea normale « le
quantità delle oscillazioni di valore [. . .] connaturate al negozio medesimo »
(30). Deve tuttavia segnalarsi che secondo una accreditata impostazione dot-
trinale la normalità di un evento dovrebbe essere valutata non già in base al
tipo contrattuale prescelto dalle parti bensì alla stregua del contratto che, in
concreto, è posto in essere. Si nota, infatti, che « non è possibile riferire [. . .]
l’alea normale al “tipo” di contratto, perché solo rispetto al contratto in concre-
to [. . .] determinati eventi possono dirsi straordinari o imprevedibili » (31). A
fronte dei citati orientamenti pare condivisibile l’opinione di chi valoriz-
zando la rilevanza di entrambi i criteri – e non ritenendoli l’uno esclusivo
dell’altro – afferma che ai fini dell’accertamento della normalità di un even-
to occorre esaminare sia « il sottotipo scelto dalle parti » sia « il contenuto con-
creto del contratto » (32).

(28) Come rileva Boselli, voce «Alea », in Noviss. Dig it., vol. I, Torino, 1957, p. 476.
(29) Cass., 9 marzo 1985, n. 1913, in Mass. Foro it., 1985; Cass., 14 dicembre 1982, n. 6867,
in Riv. dir. comm., 1984, II, p. 47; App. Catania, 18 settembre 1985, in Foro pad., 1986, I, p. 68.
(30) Così Di Giandomenico, Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 300, il quale tuttavia
precisa che dovranno essere considerate le eventuali pattuizioni delle parti dirette ad intro-
durre «elementi di difformità rispetto alla regola legale, sia estendendo i limiti della “normalità”,
e quindi di irrilevanza dall’alea [. . .], sia spostando convenzionalmente rischi diversamente di-
stribuiti dal piano legale »; Gambino, Eccessiva onerosità della prestazione e superamento del-
l’alea normale del contratto, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 447; Nicolò, voce «Alea », in Enc. dir., I,
Milano, 1958, p.1026.
(31) Così Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa e tit. di credito, 1958, I,
p. 448; Scalfi, Corrispettività ed alea nei contratti, Milano-Varese, 1960, p. 138; Boselli, voce
«Alea », in Noviss. Dig. it., Torino, 1957, p. 476; Ferrari, Il problema dell’alea contrattuale, Na-
poli, 2001, p. 39.
(32) Cagnasso, Appalto e sopravvenienza contrattuale. Contributo a una revisione della dot-
trina dell’eccessiva onerosità, Milano, 1979, p. 182; Gambino, Eccessiva onerosità della presta-
zione e superamento dell’alea normale del contratto, in Riv. dir. civ., 1960, I, p. 447 e, recente-
mente, anche Terranova, L’eccessiva onerosità nei contratti, artt. 1467 – 1469. Il codice civile.
Commentario, Milano, 1995, pp. 157 e 158 il quale sottolinea che «il giudizio sul superamento
258 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Parte della dottrina ha ritenuto di poter ricondurre nell’ambito dell’alea


normale anche il cd. fatto notorio, intendendosi per tale il complesso di co-
noscenze che appartengono alla generalità dei consociati in un determinato
ambiente ed in un dato momento storico (33). Tuttavia, tale tentativo non
convince in ragione del fatto che se è vero che i contraenti devono essere
consapevoli del rischio, affinché questo possa rilevare quale alea normale, è
altrettanto vero che non può pretendersi che la conoscenza dell’evento si
estenda anche alla conoscenza del risultato che da esso può derivare (34). Se
così fosse, infatti, il risultato perderebbe ogni connotato di incertezza per
divenire, all’opposto, certo.

3. – Con l’espressione contratti di borsa si indicano tutte le numerose


fattispecie contrattuali che hanno per oggetto prodotti finanziari. Si tratta di
una categoria in continua evoluzione in ragione del dinamismo delle con-
trattazioni che incentiva progressivamente sia la creazione di nuovi prodot-
ti sia l’introduzione di figure giuridiche rispondenti ai sempre più svariati
interessi degli investitori.
I contratti di borsa sono modellati sullo schema del contratto di com-
pravendita e si articolano, essenzialmente, nel contratto di borsa a termine
e nel contratto di borsa a contanti (35). La prima fattispecie consente alle par-
ti di speculare sulla differenza eventualmente esistente tra la quotazione di
mercato alla data di sottoscrizione del contratto e la quotazione di mercato
alla data di esecuzione, con vantaggio per il venditore in caso di ribasso op-
pure per il compratore in caso di rialzo. Il termine per l’esecuzione è prede-

dell’alea normale del contratto risulterebbe pertanto incompleto se si articolasse esclusivamente


sull’astratta fattispecie normativa prescelta dai contraenti, prescindendo dalle previsioni del re-
golamento di interessi in concreto delineato [. . .] » e che «il giudizio di prevedibilità dell’eccessi-
va onerosità alla stregua dell’alea contrattuale deve dunque modellarsi con riferimento all’ipote-
tico contraente medio alle prese, non già, o non solo, con un’astratta fattispecie negoziale bensì
con il contenuto specifico dell’accordo »; Gabrielli, Contratti di borsa, contratti aleatori e alea
convenzionale implicita, in Banca, borsa e tit. di credito, 1986, I, p. 574; Maresca, Alea contrat-
tuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 46; Maiorca, Il contratto. Profili della disci-
plina generale, Torino, 1981, p. 297; Tartaglia, Eccessiva onerosità ed appalto, Milano, 1983,
p. 65.
(33) Così Montesano-Arieta, Diritto processuale civile. Il processo di cognizione ordinaria,
II, Torino, 1999, p. 144.
(34) Gambino, Alea e fatti di conoscenza, Milano, 2001, p. 117 ss.
(35) Recentemente Riccio, L’eccessiva onerosità, in Commentario del codice civile Scialoja
– Branca, Bologna – Roma, 2010, p. 572 ss.; Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Ban-
ca, borsa e tit. di credito, 1958, II, p. 438 ss.; Bianchi d’Espinosa, voce «Borsa valori (contrat-
ti) », in Enc. dir., p. 592 ss.; Galgano, Titoli di credito, sub artt. 1992 – 2027, in Commentario del
codice civile Scialoja – Branca, Roma, 2010, p. 85 ss.
ENCICLOPEDIA 259

terminato e fissato nell’interesse di entrambi i contraenti che non possono


adempiere o chiedere l’adempimento prima della scadenza di esso. Da tale
ipotesi si distingue il contratto a contanti per il fatto che il termine è fissato
solo nell’interesse del venditore che, pertanto, ove lo ritenga opportuno
può eseguire il contratto in anticipo rispetto alla scadenza (36).
Il tratto caratterizzante dei citati contratti risiede nel fatto che le presta-
zioni cui le parti si obbligano sono fortemente ancorate alle oscillazioni dei
mercati e, proprio in ragione di tale stretta connessione, possono subire
modificazioni di valore anche notevolissime. Tuttavia, pur trattandosi di
contratti soggetti a fluttuazioni che, in ipotesi, possono spingersi sino all’in-
finito, la giurisprudenza è incline ad escludere l’applicazione delle norme
sulla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Al fine di giustificare l’inapplicabilità della citata disciplina è stata affer-
mata la natura aleatoria dei contratti di borsa (37) che, in quanto fortemente
connotati dall’intento speculativo delle parti, sarebbero assimilabili al gioco
ed alla scommessa (38). La tesi dell’aleatorietà dei contratti di borsa è stata
condivisa anche dalla giurisprudenza, in verità alquanto risalente e minori-
taria, che con riferimento alla vendita a termine di titoli di credito, compre-
sa quella a premio, ha ammesso la natura aleatoria del contratto rilevando
che l’eventuale aumento del rischio « è quello che nei contratti “certi” è l’au-
mento di valore o di costo della prestazione (o la diminuzione della contropre-
stazione): esso si risolve cioè in una maggiore onerosità » (39).
Deve tuttavia rilevarsi che accanto alla citata impostazione, che conti-
nua a godere di un certo credito (40), si è consolidata l’opinione – diffusa in

(36) Galgano, Titoli di credito, sub artt. 1992 – 2027, in Commentario del codice civile Scia-
loja – Branca, Roma, 2010, p. 85 ss.
(37) Deve segnalarsi che rimangono estranei al dibattito circa l’inquadramento giuridico i
contratti differenziali che sono, di per sé, contratti aleatori, come notano Di Giandomenico,
Il contratto e l’alea, Padova, 1987, p. 303; Scalfi, Corrispettività e alea nei contratti, Milano,
1960, p. 136, nota 51; Ascarelli, Aleatorietà e contratti di borsa, in Banca, borsa e tit. di credi-
to, 1958, I, p. 450.
(38) In senso critico, sul punto, Gabrielli, Contratti di borsa, contratti aleatori e alea con-
venzionale implicita, in Banca, borsa e tit. di credito, 1986, I, p. 575.
(39) Pretura Milano, 22 giugno 1957, in Banca, borsa e tit. di credito, 1958, II, p. 150 ss. con
nota di Bianchi d’Espinosa; il caso esaminato dalla Pretura milanese aveva ad oggetto l’im-
provvisa sospensione delle operazioni ad opera di agenti di cambio della borsa di Milano. Si
veda anche Pretura Roma, 13 gennaio 1982 (ord.), in Giust. civ., 1982, I, p. 14, con nota di
Scarpa; Coltro Campi, Considerazioni sui contratti a premio e sull’aleatorietà dei contratti di
borsa, in Riv. dir. comm., 1958, I, p. 380.
(40) Recentemente si segnala Trib. Ivrea, 1° settembre 2005, in Contratti, 2006, p. 260 ss.
commentata da Baraldi, in questa rivista, 2007, p. 607 ss. la quale ha ritenuto «che l’operazio-
ne economica sottesa all’acquisto di warrants abbia funzione speculativa, scontando essa una in-
260 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

giurisprudenza (41), ed ampiamente condivisa in dottrina (42) – secondo cui


i contratti di borsa dovrebbero essere annoverati tra i contratti commutativi
ad alea normale (ancorché) illimitata.
L’espressione alea normale illimitata, infatti, sarebbe indicativa (e pre-
rogativa) di fattispecie contrattuali nelle quali qualsiasi tipo di variazione di
valore delle prestazioni può essere ritenuta normale e prevedibile dalle par-
ti, senza che ciò possa determinare la sopravvenuta eccessiva onerosità del-
la prestazione. In particolare nei contratti di borsa, in ragione della peculia-
rità dell’ambiente in cui vengono stipulati e della stretta connessione tra il
valore delle prestazioni e l’andamento dei mercati finanziari, si presume
che le parti debbano prendere in considerazione l’eventualità che le presta-
zioni dedotte in contratto possano subire delle variazioni che, per quanto
possano essere elevate, non saranno mai tali da superare il parametro della
normalità.
La giurisprudenza si è soffermata sull’illimitatezza dell’alea normale
esaminando fattispecie relative a contratti di borsa a premio con facoltà
semplice ‘dont’ (43). La Corte di Cassazione ha ritenuto di propendere per la
ricostruzione dei citati contratti quali contratti commutativi ad alea norma-
le illimitata osservando che alla diversa configurazione in termini di con-
tratto aleatorio si opponeva il fatto che risultavano « ben individuate nello
stesso la natura e la quantità delle prestazioni, la loro scadenza e la loro con-
creta esigibilità, e non essendovi quindi incertezza sull’an e sul quantum dei

dubbia natura aleatoria del contratto di opzione connesso » ed ha definito il warrant «strumento
finanziario [. . .] caratterizzato da un’alea intrinseca, essendo del tutto incerto il risultato econo-
mico a cui tende l‘investitore a causa della normale fluttuazione dei valori borsistici ».
(41) App. Genova, 9 maggio 1984, in Foro it., 1985, I, c. 266; App. Torino, 17 aprile 1984, in
Foro it., 1985, I, c. 632; Pretura Barletta, 6 agosto 1981 (ord.), in Banca, borsa e tit. di credito,
1984, II, p. 412 ss.; Trib. Bolzano, 23 febbraio 1983, in Banca, borsa e tit. di credito, II, p. 484 ss.
(42) Gambino, L’assicurazione nella teoria dei contratti aleatori, Milano, 1964, p. 84; Bian-
chi d’Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, in Trattato di diritto civile e commerciale, fonda-
to da Cicu e Messineo, Milano, 1969, p. 389; Ruoppolo, Le borse e i contratti di borsa, Torino,
1970, p. 184; Serra, I contratti di borsa a premio, Milano, 1971, p. 79. In senso contrario, re-
centemente, Balestra, Il contratto aleatorio e l’alea normale, in Le monografie di Contratto e
impresa, Padova, 2000.
(43) Secondo Cass., 4 agosto 1988, n. 4825 in Giur. it., 1988, I, 1, p. 1700 ss. si tratta di con-
tratto «con il quale il compratore acquista la facoltà di decidere se ritirare il quantitativo pattuito
di titoli al prezzo base maggiorato del premio, o pagare il premio ». In dottrina Serra, I contratti
di borsa a premio, Milano, 1971, p. 241 e Coltro Campi, Considerazioni sui contratti a premio
e sulla aleatorietà dei contratti di borsa, in Riv. dir. comm., 1958, I, p. 380 qualificano la fattispe-
cie in termini di opzione; Bianchi d’Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, Milano, 1969, p.
459 ravvisa un contratto con obbligazione alternativa; Messineo, Operazioni di borsa e di ban-
ca, Milano, 1966, p. 98 propende per la tesi del recesso.
ENCICLOPEDIA 261

suoi effetti giuridici, dipendenti non da un rischio esterno, ma dal diritto pote-
stativo di scelta attribuito ad una parte » e che, pertanto, « qualsiasi limite
quantitativo della supposta eccessiva onerosità è irrilevante, se essa dipende
da eventi che devono essere presi in considerazione come prevedibili da tutti i
soggetti che intendono operare in borsa » (44). La giurisprudenza, quindi, an-
che sulla scorta della concezione strutturale del contratto aleatorio, ha deli-
neato chiaramente la linea di confine esistente tra contratti ad alea normale
illimitata e contratti aleatori che, a ben vedere, risultano accomunati sola-
mente dalla impossibilità di applicare la disciplina della risoluzione per ec-
cessiva onerosità sopravvenuta. In particolare, la distinzione tra le due fatti-
specie risiede nel fatto che mentre i contratti ad alea normale illimitata so-
no contratti commutativi in cui l’evento futuro ed incerto influisce solo ed
esclusivamente sul valore economico delle prestazioni – che sono certe e
determinate sin dall’inizio e rimangono tali anche dopo l’eventuale oscilla-
zione di valore – nei contratti aleatori l’alea incide sull’esistenza o sulla de-
terminazione di una delle prestazioni (45).
Orbene, posto che nei contratti di borsa l’evento incerto, ossia il rischio
di oscillazioni del corso dei titoli, non vale a rendere incerte le prestazioni,
né sotto il profilo dell’esistenza né tantomeno sotto il profilo della indivi-
duazione, non ricorrono gli estremi tipici – incertezza sull’an o sul quantum
– per poter configurare la figura del contratto aleatorio (46).

(44) Cass., 4 agosto 1988, n. 4825, in Giur. it., 1988, I, 1, p. 1700 ss. con nota di Alpa. Alla
stregua dei principi individuati sono stati ritenuti ricompresi nel concetto di alea normale an-
che i provvedimenti emessi dalle autorità preposte alla borsa che avevano modificato il corso
dei titoli e le basi delle negoziazioni. Nello stesso senso Cass., 27 novembre 1990, n. 11412, in
Foro it., 1991, I, c. 2149; Cass., 23 febbraio 1993, n. 2338, in Foro it., 1993, I, c. 2192, ove si leg-
ge che anche l’operatore occasionale deve presupporre la variabilità delle regole del mercato,
ivi comprese quelle dovute a modificazioni normative. Anche secondo Trib. Firenze, 30 gen-
naio 1986, in Giur. comm., 1988, II, p. 818 con nota di Giuliani «il rischio massimo assunto dal
compratore del premio è stato fin dall’origine predeterminato nell’ammontare del premio stesso,
per cui la situazione del mercato azionario mai avrebbe potuto determinare uno squilibrio delle
prestazioni contrattuali non previsto in sede di stipulazione, o tale, comunque, da superare l’alea
normale del contratto »; App. Genova, 9 maggio 1984, in Foro it., 1985, I, c. 226; App. Torino, 17
aprile 1984, in Giur. it, 1985, I, 2, p. 626 con nota di Irrera; Pretura Barletta, 6 agosto 1981
(ord.), in Banca, borsa, tit. di credito, 1984, II, p. 412; Trib. Bolzano, 23 febbraio 1983, in Ban-
ca, borsa, tit. di credito, II, p. 484.
(45) Così Maresca, Alea contrattuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 49; in
termini analoghi anche Gabrielli, Tipo negoziale, prevedibilità dell’evento e qualità della par-
te nella distribuzione del rischio, in Giur. it., 1986, I, 1, p. 1715.
(46) Maresca, Alea contrattuale e contratto di assicurazione, Napoli, 1979, p. 87; Bianchi
d’Espinosa, I contratti di borsa. Il riporto, in Trattato di dir. civile, diretto da Cicu e Messineo,
Milano, 1969, p. 383.
262 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

L’eventuale alterazione del valore economico della prestazione, infatti,


non equivale ad eventuale incertezza sul quantum, in ragione del fatto che
valore economico e quantum sono concetti che attengono ad aspetti diversi
della prestazione. Come è stato correttamente segnalato in dottrina, il pri-
mo esprime una valutazione in termini meramente economici mentre il se-
condo inerisce alla « fisicità » della prestazione, da individuarsi avendo ri-
guardo alla specificità dell’oggetto ovvero facendo ricorso ai criteri del nu-
mero, del peso e della misura (47). In ragione di tali rilievi pare quindi condi-
visibile la configurazione dei contratti di borsa quali contratti commutativi
ad alea normale illimitata, ove le fluttuazioni delle quotazioni di mercato
rientrano nell’ambito dell’alea economica (id est il rischio) del contratto
prescelto dalle parti e che, come tale, viene posta a carico esclusivo dei con-
traenti.
A tale ricostruzione potrebbe opporsi che l’illimitatezza sia, di per sé,
concetto incompatibile con quello di normalità e che, in altri termini, per
aversi alea normale sarebbe necessario individuare un limite, oltrepassato il
quale l’alea non potrebbe essere qualificata come normale.
In proposito, tuttavia, vale ricordare che ai fini dell’accertamento della
normalità dell’alea assurgono ad elementi di valutazione sia il tipo contrat-
tuale prescelto dalle parti, sia il contratto posto in essere in concreto. Ciò
considerato, potrà ben verificarsi il caso – ed è, appunto, quello dei contrat-
ti di borsa – in cui in ragione dei citati criteri sia possibile individuare fatti-
specie in cui l’alea, sebbene non circoscritta entro limiti predeterminati,
può essere considerata normale. Alla luce di ciò, pertanto, pare che non vi
siano ragionevoli argomenti per respingere il concetto di alea normale illi-
mitata assumendo che la normalità implicherebbe necessariamente l’esi-
stenza un suo ontologico limite; l’indagine condotta ai fini dell’accerta-
mento della normalità dell’alea può infatti evidenziare fattispecie in cui l’a-
lea si profila illimitata proprio in quanto connaturale alla specifica operazio-
ne economico contrattuale voluta dalle parti.

(47) Così Dalmartello, Adempimento e inadempimento nel contratto di riporto, Padova,


1958, p. 328, nota 173 bis il quale osserva che «Agli effetti della individuazione [. . .] della pre-
stazione contrattuale, il criterio del valore economico è del tutto irrilevante. Le prestazioni si indi-
viduano o per i connotati specifici del loro oggetto (la tal cosa, il tal fondo); o in base ai criteri fi-
sici del numero, peso e misura [. . .]: e non già per il loro valore » e che «La prestazione di un de-
terminato oggetto o di una data quantità di cose rimane, sotto l’aspetto giuridico, sempre la stes-
sa, sia che quell’oggetto o quella quantità valga 10, sia che valga 100; non diventa un’altra, perché
quell’oggetto o quella quantità vale oggi 100, mentre ieri valeva solo 10 ».
GIOVANNI VILLA

Il tort of negligence nel sistema inglese dei fatti illeciti

Sommario : 1. Caratteri fondamentali della materia in esame. – 2. La nascita dell’esigenza di


un principio generale di responsabilità per colpa e il duplice significato di “negligence”. –
3. La formulazione del neighbour principle e la natura giuridica del tort of negligence. – 4.
Gli odierni parametri per l’identificazione del duty of care. – 5. Gli elementi costitutivi del
tort of negligence e la componente del danno nel diritto dei torts. – 6. La violazione del
duty of care e il danno ad essa conseguente: i concetti di causation e remoteness. – 7. Il
danno psichico. – 8. Il danno economico. – 9. La vis expansiva del tort of negligence.

1. – Nel diritto privato inglese il termine tort significa “fatto illecito”, e il


sistema dei torts svolge, complessivamente considerato, la stessa funzione
che il legislatore italiano ha affidato agli artt. 2043-2059 del c.c., sarebbe a di-
re quella di sottoporre a sanzione i responsabili di fatti illeciti (1).
Nella presente materia, la differenza saliente tra i due ordinamenti è da-
ta dal fatto che mentre in quello italiano vige un principio di atipicità, per
cui si considera fatto illecito qualunque fatto doloso o colposo che cagiona
ad altri un danno ingiusto (art. 2043, c.c.), la common law risente di un’im-
postazione originaria improntata ad un regime di tipicità, e presenta tuttora
una serie di circa settanta torts ciascuno posto a tutela di un determinato in-
teresse. Il tort of defamation, ad esempio, protegge la reputazione, il trespass
to land sanziona chi s’introduce indebitamente in un immobile altrui, men-
tre la private nuisance tutela i beni immobili contro le immissioni e i dan-
neggiamenti.
Per la specificità della loro funzione, i torts appartenenti alla suddetta se-
rie vengono definiti “named torts” o “nominate torts” ossia “illeciti nomi-
nati”, espressione che ci richiama alla mente quella di “contratti nominati”
del diritto privato italiano, a suggellare l’idea che il diritto inglese, nella sua
impostazione iniziale, aveva previsto figure d’illecito rigorosamente defini-
te (2).

(1) La categoria dei torts s’inserisce, a sua volta, nella più ampio genere dei civil wrongs,
che non ha esatto equivalente nell’ordinamento italiano, e che include figure quali il breach of
contract, ossia l’inadempimento contrattuale.
(2) Ricordiamo, per inciso, che nel diritto privato italiano, si dicono contratti tipici o “no-
minati” quei contratti previsti e disciplinati dalla legge, come, ad esempio, la vendita, la per-
muta, la locazione. Ad essi fanno riscontro i contratti atipici o “innominati” ossia quei con-
264 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Nonostante la rigida impostazione ora descritta, il diritto dei torts ha


subìto, nel corso del tempo, notevoli mutamenti a causa della progressiva
affermazione del tort of negligence. Questo tort, diversamente dai citati no-
minate torts, non è posto a tutela di un interesse specifico, ma costituisce,
piuttosto, l’espressione di un principio generale di responsabilità per colpa.
In virtù di questo illecito, dunque, la responsabilità extracontrattuale non
cade più solo su coloro che abbiano leso diritti attinenti ad uno specifico be-
ne o categoria di beni, ma può essere ascritta a tutti coloro che, avendo il do-
vere di agire con diligenza verso qualcuno, gli abbiano cagionato un danno.
Questo “dovere di agire con diligenza” ha preso, storicamente, il nome di
duty of care, e l’allargamento dei casi in cui i giudici inglesi ne hanno riscon-
trato la sussistenza ha costituito il fattore che ha determinato l’evoluzione
del tort of negligence.
Nella presente trattazione, dopo aver esaminato la storia e l’attuale con-
figurazione del citato duty (§§ 2, 3, 4), completeremo l’indagine sugli ele-
menti costitutivi del tort of negligence (§§ 5, 6). Esamineremo, quindi, alcune
delle applicazioni più innovative della disciplina di questo illecito (§§ 7, 8),
per poi constatare come essa sia oggi applicabile addirittura in settori un
tempo regolamentati da altri torts (§ 9).

2. – Nel paragrafo precedente abbiamo asserito che il tort of negligence


costituisce l’espressione di un principio generale di responsabilità per col-
pa. È ora giunto il momento di chiarire il contenuto di quest’affermazione
e, per fare ciò, indicheremo innanzitutto quali significati possa assumere il
termine negligence nel diritto privato inglese. Passeremo, quindi, ad esami-
nare la temperie storica in cui si sentì, in maniera particolarmente marcata,
la necessità dell’introduzione del principio in parola.
Iniziamo con l’osservare che il termine negligence può assumere due di-
versi significati:
A) In una prima accezione esso indica l’elemento psicologico della “col-
pa” intesa come mancanza di diligenza. Allo stato soggettivo della
colpa si contrappone quello del dolo, in inglese chiamato intention.
B) Nella seconda accezione esso indica il tort of negligence, di cui abbia-
mo finora parlato.
Per evitare fraintendimenti, chiariamo che ogni volta che, nel prosieguo
della trattazione, useremo il termine negligence senza aggiungervi alcuna
indicazione, faremo implicito riferimento al significato di cui alla lettera B,
ossia al tort of negligence. Quando viceversa vorremo utilizzare questo ter-
mine nel significato sub A, lo faremo seguire da apposito richiamo.

tratti non espressamente contemplati dal codice civile o da altre leggi, ma ideati e praticati nel
mondo degli affari. Cfr. Galgano, Diritto Privato, 13a ed., Padova, 2006, p. 225.
ENCICLOPEDIA 265

In Inghilterra, agli inizi del secolo XIX, la materia dell’illecito civile era
dominata dai nominate torts (v. § 1), molti dei quali erano azionabili sulla ba-
se della semplice responsabilità oggettiva, detta strict liability. In particola-
re, questo tipo di responsabilità era prevista dall’illecito di trespass to the
person, posto a tutela di chiunque avesse subìto un danno fisico alla propria
persona (3).
La Rivoluzione Industriale apportò nuove esigenze organizzative alla
grande industria e alla classe media emergente, e un assetto della materia
dei torts quale quello descritto si rivelò ben presto inadatto a soddisfare i bi-
sogni delle suddette classi. Le innovazioni introdotte dall’ingegneria mec-
canica nei settori produttivi e l’estendersi della rete ferroviaria moltiplicaro-
no le possibilità del verificarsi di sinistri, e i proprietari di macchinari si tro-
varono esposti ad un tipo di responsabilità, quella oggettiva appunto, da es-
si concepita come troppo rigorosa. Conseguenza ne fu che, a livello giuridi-
co, si sentì il bisogno di apportare profondi cambiamenti in materia di fatti
illeciti, donde l’affermarsi del principio “no liability without fault” (4). Il ter-
mine fault viene ancor oggi utilizzato per indicare una responsabilità aven-
te la sua fonte, indifferentemente, nel dolo o nella colpa (5). È dunque evi-
dente come, con tale principio, si sia voluto esprimere un simbolico atto di
ripudio nei confronti della responsabilità oggettiva genericamente intesa.
Al riguardo, è opportuno specificare fin d’ora che la strict liability non ven-
ne, per effetto del principio citato, bandita dal sistema dei torts. Tuttavia, la
sua operatività venne fortemente limitata sia per l’evoluzione del tort of ne-
gligence sia per il fatto che, sul finire dell’Ottocento, il citato illecito di tre-
spass to the person divenne azionabile solo per fatti commessi con dolo o
colpa (6).
Tornado al tema principale del presente paragrafo, quello del bisogno,
da parte della media ed alta borghesia, di un principio generale di responsa-
bilità per colpa, non si può evitare di analizzare che cosa si debba intendere
per “responsabilità colposa” agli effetti del tort of negligence.
Nel significato di cui alla lettera A (v. supra), il termine negligence espri-
me, se rigorosamente interpretato, un principio di responsabilità colposa di

(3) Questa definizione è da intendersi come provvisoria. Parleremo più dettagliatamente


di questo tort nel paragrafo 9, ove vedremo come esso abbia perso molta della sua iniziale im-
portanza proprio a causa dell’evoluzione del tort of negligence.
(4) Cfr. Fleming, The Law of Torts, 2nd ed., Sydney-Melbourne-Brisbane, The Law Book
Co. of Australasia Pty Ltd., 1961, p. 114.
(5) Cfr. Davies, “Tort”, in BIRKS-editor, English Private Law, Oxford, Oxford University
Press, 2000, vol. II, p. 409.
(6) Anche quest’affermazione verrà adeguatamente specificata nel par. 9.
266 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

tipo soggettivo. La “colpa” cui esso fa riferimento altro non è, infatti, che l’e-
lemento psicologico di colui che ha commesso un illecito. In questo senso
negligence significa, letteralmente, “negligenza” ossia mancanza di diligen-
za nel tenere un dato comportamento attivo od omissivo. Così intesa, la ne-
gligence non è un tort a sé stante bensì, alla pari del dolo, un modo di com-
mettere alcuni nominate torts (7).
Al tipo di colpevolezza ora descritto si contrappone il principio di re-
sponsabilità del tort of negligence, il quale identifica la colpevolezza con pa-
rametri oggettivi. Secondo questo principio, compito dell’autorità giudizia-
ria non è quello d’indagare se un danno sia stato cagionato dallo scarso gra-
do di diligenza o attenzione che il responsabile ha avuto nel tenere un dato
comportamento. Compito dei giudici è, viceversa, quello di capire se il dan-
no stesso sarebbe stato evitato qualora il responsabile si fosse attenuto allo
standard comportamentale giudicato come idoneo nel caso concreto. In al-
tre parole ci si dovrà domandare come si sarebbe comportato, nei panni del
responsabile medesimo, il “reasonable man”, ossia la persona di media ra-
gionevolezza (8).
La differenza tra i due tipi di responsabilità colposa che abbiamo ora de-
scritto appare più evidente nell’ambito degli errori professionali. Solo in
questo tipo di errori, infatti, può emergere un parametro che, per sua stessa
natura, è caratteristico della sola responsabilità colposa di tipo oggettivo:
quello dell’imperizia. È infatti evidente che, mentre il livello di diligenza
che un professionista impiega nel suo lavoro costituisce un elemento es-
senzialmente psicologico facente capo al professionista medesimo, la sua
preparazione tecnica e la sua esperienza possono essere valutate solo te-
nendo conto del livello di preparazione medio degli appartenenti alla sua
categoria (9).
Ricapitolando quanto sinora osservato, possiamo affermare che mentre
la “colpa” intesa come fattore psicologico (negligence sub A), potenzialmen-

(7) Cfr. Fleming, op. cit., p. 114. Tra i torts punibili sulla base di questo tipo di responsa-
bilità vi è il trespass to land (cfr. Elliott and Quinn, Tort Law, 3rd ed., Harlow, Longman, 2001,
pp. 268-269).
(8) Cfr. Pollock, Pollock’s Law of Tort, 15th ed. by P.A. Landon, London, Stevens & Sons
Limited, 1951, pp. 336-337.
(9) Si consideri l’esempio di un ingegnere il quale, nel realizzare un progetto, impieghi
tutta la sua personale attenzione. Orbene, l’opera realizzata potrebbe, nondimeno, essere
mancante delle qualità essenziali (di sicurezza, conformità a norme, ecc.) che essa dovrebbe
avere. In un caso simile, sarebbe evidente che la suddetta mancanza di qualità non potrebbe
essere ascritta ad uno stato soggettivo del professionista, bensì alla sua insufficiente prepara-
zione ed esperienza, ossia al suo scarso grado di perizia, valutabile solo tenendo conto del li-
vello di perizia medio di tutti gli appartenenti alla categoria degli ingegneri.
ENCICLOPEDIA 267

te presente in qualsiasi tort, è concepita come un elemento meramente sog-


gettivo dell’illecito, la “colpa” posta a fondamento del tort of negligence (ne-
gligence sub B) costituisce un parametro essenzialmente oggettivo.
La differenza tra i due citati tipi di colpa, nonché tra i due relativi signifi-
cati di negligence, è stata enfatizzata in dottrina al fine di evidenziare la pe-
culiarità del principio di colpevolezza che sta alla base del tort of negligen-
ce (10). Chiariamo, pertanto, che ogniqualvolta parleremo di “colpa” relati-
vamente a questo tort intenderemo riferirci alla responsabilità colposa di ti-
po oggettivo.
In epoca antecedente la Rivoluzione Industriale si era parlato di “stan-
dard comportamentale” o, più precisamente, di “standard di perizia e abi-
lità”, solo con riferimento all’opera prestata dagli esercenti determinati me-
stieri o professioni (11). Tra costoro possiamo ricordare l’artificiere, l’alber-
gatore, il vettore, il chirurgo e il farmacista (12). Solo da alcune, specifiche,
categorie di persone era quindi possibile pretendere quello standard com-
portamentale e di professionalità che, con l’avvento del tort of negligence,
avrebbe preso definitivamente il nome di duty of care.
Nel corso dell’Ottocento e degli inizi del Novecento, vi fu la tendenza
giurisprudenziale ad ampliare la casistica in cui doveva ritenersi sussistente
un duty of care in capo all’autore di un danno, e si cercò di elaborare un prin-
cipio di portata generale che enucleasse, in un’unica formula, tutti i casi in
cui doveva riscontrarsi il dovere in questione. Ogni tentativo in tal senso
non ebbe però esito positivo, perlomeno fino al 1932, anno della formula-
zione del neighbour principle (13).

3. – Nell’ambito del tort of negligence, il concetto di duty of care è defini-


bile come il dovere che una persona ha di usare diligenza, prudenza e, ove

(10) Cfr. Fleming, op. cit., pp. 114-115. Dobbiamo comunque rilevare che, oggidì, la dif-
ferenza in parola assume un’importanza rilevante solo sul piano teorico. Ciò in quanto, nella
pratica, si può osservare come la concezione di “colpa” intesa come “non-conformità a uno
standard comportamentale” tenda ad espandersi anche al di fuori del tort of negligence (cfr.
Davies, op. cit., p. 409).
(11) Cfr. Fleming, op. cit., p. 113.
(12) Si vedano gli elenchi riportati in Fleming, op. cit., p. 113, e in Winfield, Winfield on
Tort: a textbook on the law of torts, 6th ed. by T.E. Lewis, London, Sweet & Maxwell Limited,
1954, p. 476.
(13) L’enunciazione di una regola generale sul duty of care non molto dissimile dal neigh-
bour principle si ebbe nell’ambito della causa Heaven v Pender [1883]. In quella occasione, tut-
tavia, la parte del collegio giudicante che l’aveva proposta rimase minoritaria. La causa è cita-
ta in Pollock, op. cit., pp. 326-327, e in Denning, The Discipline of Law, London, But-
terworths, 1979, pp. 230-231.
268 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

richiesta, perizia, nel suo agire quotidiano, all’ovvio fine di non arrecare
danno ad altri.
L’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale del concetto in esame è sta-
ta principalmente connotata dal dibattito sul seguente interrogativo: chi so-
no “gli altri” nei cui confronti si deve osservare il duty of care? In altre paro-
le, chi sono coloro verso i quali si deve agire con diligenza? Costituiscono
essi una categoria illimitata di individui o sono, viceversa, definibili secon-
do particolari parametri?
Il criterio generale per constatare chi siano “gli altri” fu indicato dalla
House of Lords nel caso Donoghue v Stevenson [1932]. Tale criterio è molto
importante, poiché sulla sua base si sono evoluti i parametri della foreseea-
bility e della proximity, tutt’oggi utilizzati per l’identificazione del duty of ca-
re (v. § 4).
Nella controversia citata, la parte lesa era una signora la quale, avendo
ricevuto in dono da un’amica una bottiglia di birra, ne versò metà del con-
tenuto in un bicchiere. Dopo aver bevuto tale quantità, versò anche la re-
stante parte e si accorse che in essa vi erano i resti decomposti di una luma-
ca. All’autorità giudiziaria la signora dichiarò che il fatto di aver bevuto la
birra e la vista dei suddetti resti le avevano causato uno shock e una forte ga-
stroenterite. Per questi motivi ella aveva citato in giudizio il produttore del-
la bevanda, il quale, a detta dell’attrice, era da ritenersi responsabile in ne-
gligence. La scelta di un’azione di tipo extracontrattuale derivava dalle se-
guenti considerazioni: 1) tra la parte lesa e il dettagliante che aveva venduto
la birra non vi era alcun rapporto contrattuale; ricordiamo, infatti, che co-
stui aveva venduto la bevanda non all’attrice bensì ad un’amica di lei; 2) pa-
rimenti, non poteva considerarsi esistente alcun contratto tra la vittima e il
produttore della birra.
Orbene, nel presente caso, compito dell’autorità giudiziaria era quello
di constatare se il produttore avesse un duty of care nei confronti della parte
lesa. La House of Lords riscontrò la sussistenza di tale dovere e, nella sua
pronuncia, formulò un principio generale, noto come neighbour principle,
divenuto poi applicabile in ogni azione fondata sul tort of negligence.
Ricordiamo che nell’inglese comune il sostantivo neighbour può avere,
oltre al significato di “vicino” (come, ad esempio, nell’espressione “vicino di
casa”), anche quello di “prossimo”, inteso come “coloro che ci circondano”,
“i nostri simili”, “la collettività”. Nell’espressione neighbour principle, il so-
stantivo in esame indica “il prossimo”, tuttavia la House of Lords, nella per-
sona di Lord Atkin, stabilì che in materia di negligence il significato di “nei-
ghbour” deve necessariamente essere più ristretto di quello comune. Se-
condo il giudice citato, ove un soggetto si domandi, prima di tenere un dato
comportamento (attivo od omissivo), chi sia secondo la legge il suo prossi-
mo, la risposta deve essere la seguente: tutte le persone dei cui diritti l’agen-
ENCICLOPEDIA 269

te possa prevedere una lesione determinata dal suo comportamento (14).


Analizzando il principio espresso dalla formula ora riportata, dobbiamo
innanzitutto ribadire che, parlando di prevedibilità, non si è voluto fare ri-
ferimento alle capacità valutative di colui che volta per volta viene accusato
dell’illecito in parola. Le capacità cui, di norma, i giudici dovranno fare rife-
rimento saranno, viceversa, quelle del “reasonable man”, ossia quelle “del-
l’uomo di media ragionevolezza” (v. § 2).
L’ampiezza della formula utilizzata dalla House of Lords per definire il
duty of care ha reso applicabile la disciplina del tort of negligence ai più dispa-
rati ambiti e situazioni. Ciò, come abbiamo preannunciato nel par. 1, ha
comportato la conseguenza che fatti un tempo regolamentati interamente
da altri torts sono oggi tutelabili con l’ausilio della disciplina in parola (15).
Una domanda che è legittimo porsi, soprattutto alla luce dell’attuale im-
portanza dell’illecito in esame, è quella relativa alla sua natura giuridica. In
altre parole, ci si può chiedere se il tort of negligence sia oggi considerabile,
anch’esso, un nominate tort.
A quest’interrogativo, in dottrina non è finora stata data una risposta
univoca. Mentre alcuni autori hanno dato risposta decisamente affermativa
(16), altri hanno dichiarato di considerare la negligence non un nominate tort
ma una semplice “basis of liability” ossia una “base di responsabilità” (17).
Sembrano avere posizioni meno estremistiche, in entrambe le direzio-
ni, la dottrina che considera la negligence un “indipendent tort” (18), e quella
che, per riferirsi all’azionabilità giudiziale di quest’illecito, parla di “innomi-
nate action for negligence” (19).
Di sicuro vi è che il tort of negligence ha oggi assunto un posto di primo
piano nell’ambito del sistema inglese dei fatti illeciti, come del resto è intui-
bile dalla constatazione che i trattati e i manuali di tort law dedicano ad esso
uno spazio di gran lunga superiore a quello riservato a qualsiasi altro tort.
Ciò constatato, e considerate le particolarità dell’illecito in esame, possia-
mo affermare che esso, indipendentemente dalla natura giuridica che gli si
voglia attribuire, risulta essere nettamente differente, per origine e funzio-
ne, da qualsiasi altro tort. Tale differenza, peraltro, appare ancor più eviden-

(14) Il testo originale di Lord Atkin è riportato da Davies, op. cit., p. 417.
(15) Di questa delicata problematica ci occuperemo nel par. 9, al termine della nostra trat-
tazione, poiché riteniamo in primo luogo importante illustrare la struttura del tort of negligen-
ce e la sua progressiva affermazione nell’ambito della common law.
(16) Cfr. Winfield, op. cit., p. 247.
(17) Fleming, op. cit., p. 115. Parlando di “basis of liability” l’a. si riferisce alla responsabi-
lità colposa di tipo oggettivo, di cui abbiamo parlato al paragrafo precedente.
(18) Pollock, op. cit., p. 326.
(19) Davies, op. cit., p. 480.
270 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

te se si tiene conto dell’intrinseca idoneità del tort of negligence a tutelare di-


ritti già tutelati da altri torts e, di conseguenza, delle sue potenzialità di fu-
ture applicazioni.

4. – Dal 1932, anno in cui venne pronunciata la sentenza sul neighbour


principle, ad oggi, la configurazione del duty of care è stata sottoposta ad ap-
profondimenti giurisprudenziali e dottrinali. Per poter riscontrare, caso per
caso, la sussistenza del suddetto duty, i giudici sono ora soliti prendere in
esame quattro parametri, di cui ci accingiamo a trattare separatamente:
A) foreseeability;
B) proximity;
C) fairness, justice and reasonableness;
D) policy (20).

A) Foreseeability significa “prevedibilità”. Tramite il presente parame-


tro, la giurisprudenza valuta se colui che ha commesso il danno avrebbe do-
vuto prevedere, al momento della sua azione od omissione, la persona o la
categoria di persone che potevano subire il danno stesso. Come si può no-
tare da quanto ora affermato, oggetto del presente parametro non è la pre-
vedibilità del tipo di danno cagionabile, bensì l’identità, astrattamente con-
siderata, della vittima (21).
Per altro aspetto, ribadiamo ulteriormente che i giudici dovranno valu-
tare il parametro in esame con criterio oggettivo, ossia avendo riguardo alle
capacità di prevedere il danno facenti capo al più volte citato “reasonable
man” (v. §§ 2 e 3).
Per chiarire il concetto di foreseeability ci serviremo ora di qualche caso
giurisprudenziale. La causa Haley v London Electric Board [1965], ad esem-
pio, fu originata dal comportamento di alcuni operai che eseguivano scavi
stradali. Costoro lasciarono un martello su di un marciapiede al fine di av-
vertire i passanti degli scavi medesimi, tuttavia una persona non vedente in-
ciampò sul martello e riportò alcune lesioni. L’autorità giudiziaria ritenne

(20) Si noti che parte della dottrina considera il parametro della policy sullo stesso piano
degli altri che abbiamo elencato, o, perlomeno, ne tratta unitamente ad essi (v. Cooke, Law of
Tort, 7th ed., Harlow, Longman, 2005, pp. 38 ss.). Altri autori, invece, pongono in primo piano
solo i parametri da noi elencati ai punti A, B e C, e trattano separatamente della policy (v. Da-
vies, op. cit., pp. 419-423).
(21) Alcuni autori sono espliciti nell’intitolare il paragrafo da essi dedicato all’argomento
in esame “The foreseeable claimant”, ossia “Il prevedibile attore” (v. Lunney and Oliphant,
Tort Law: Text and materials, 3rd ed., Oxford, Oxford University Press, 2008, p. 129). Cogliamo
l’occasione per anticipare che la prevedibilità del tipo di danno cagionabile costituisce il para-
metro per determinare la cosiddetta remoteness of damage, di cui parleremo nel par. 6.
ENCICLOPEDIA 271

che la collocazione del martello sul marciapiede, pur costituendo un valido


avviso per le persone vedenti, presentava un pericolo per i non vedenti, i
quali erano da ritenersi una categoria sufficientemente ampia da dover es-
sere tenuta in considerazione in circostanze come quelle in esame. Gli ope-
rai avrebbero, perciò, dovuto prevedere che tra i passanti potevano esservi
dei non vedenti (22).
Altro caso di scuola è dato dalla controversia Bourhill v Young [1943], ori-
ginata dalla circostanza che l’attrice, scendendo da un tram, udì il rumore di
un incidente stradale. Ella non vide l’incidente vero e proprio ma, in un mo-
mento successivo, passò vicino al luogo ove esso era accaduto e, nel vedere
una chiazza di sangue sulla strada, subì uno shock nervoso. L’autorità giu-
diziaria ritenne che colui che aveva cagionato l’incidente ben potesse pre-
vedere che qualcuno avrebbe potuto subire un danno psichico a causa del-
l’incidente stesso. Nel caso concreto, tuttavia, al momento dell’accadimen-
to, l’attrice si trovava sufficientemente lontana dal luogo del sinistro da far
sì che ella non fosse contemplabile come potenziale vittima (23).
Riguardo a quest’ultimo caso, notiamo come l’impossibilità di prevede-
re il danno all’attrice sia stata apprezzata tenendo conto del fatto che ella era
troppo distante dal luogo dell’incidente al momento in cui esso si è verifica-
to. In altre parole, al fine di valutare la foreseeability, i giudici si sono serviti
del parametro della “vicinanza” tra accadimento dannoso e vittima, para-
metro di cui ci accingiamo ora a trattare.
B) Proximity significa “vicinanza”, ed è un termine atto ad esprimere sia
il concetto di “vicinanza in senso geografico” sia quello di “legame o rap-
porto tra due soggetti”. Come abbiamo notato poc’anzi, può capitare che
l’argomento della foreseeability s’intrecci strettamente con quello della
proximity. Ciò accade, segnatamente, nei casi in cui la “vicinanza” in parola
sia da intendersi in senso meramente geografico. L’esempio più lampante
di questo tipo di proximity è dato dal caso in cui un autoveicolo urti un pas-
sante cagionandogli una lesione. In simili circostanze, il requisito della “vi-
cinanza in senso geografico” tra danneggiante e danneggiato è, per così di-
re, in re ipsa.
Più difficile sarà valutare la vicinanza geografica quando la parte lesa ab-
bia subìto un danno non sul piano fisico ma solo su quello emozionale, ad
esempio per aver assistito ad un grave incidente o alle conseguenze di esso.
È evidente che, ancora una volta, ci stiamo riferendo a casi simili alla con-
troversia Bourhill v Young, l’ultima da noi riportata in tema di foreseeability

(22) Il caso descritto è citato da Davies (op. cit., p. 420) e riportato per esteso da Cooke (op.
cit., p. 133).
(23) Il caso è riportato da Cooke (op. cit., p. 39).
272 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

(v. supra). Ribadiamo che in quel caso i giudici rilevarono l’assenza del duty
of care del convenuto nei confronti dell’attrice in quanto costei si trovava,
all’atto dell’incidente, troppo lontana dal luogo ove esso avvenne. Potrem-
mo ipotizzare che la decisione dei giudici sarebbe stata diversa ove l’attrice
avesse avuto uno stretto legame di parentela con la vittima principale del-
l’incidente (ossia con colui che aveva riportato danni fisici), e magari fosse
giunta nel luogo dell’incidente stesso prima del momento in cui realmente
vi giunse. La giurisprudenza inglese è, infatti, propensa ad accordare il ri-
sarcimento per danni psichici a chi constata le immediate conseguenze di
un incidente qualora costui abbia un particolare legame affettivo con la vit-
tima (24). Ebbene, come anticipato, risulta evidente che in quest’ultima se-
rie di casi il parametro della proximity è valutato tenendo conto non solo di
dati geografici ma anche del legame affettivo tra vittima principale e sogget-
to che subisce uno shock nel constatarne le condizioni.
Un caso in cui il parametro della proximity assume connotati intera-
mente extra-geografici emerge, invece, dalla casistica relativa ai danni da
false informazioni: ove un soggetto cagioni un danno ad un’altra persona
per averle fornito informazioni poi rivelatesi false, il primo potrà essere
chiamato a rispondere del tort of negligence solo qualora tra i due soggetti
fosse preesistente una “special relationship”. Nel par. 8, in tema di danno
economico, spiegheremo che cosa debba intendersi per questa “relazione
speciale”. Per ora ci basti sapere che è proprio in questa relazione che, in
dottrina, viene identificato l’elemento della proximity (25).
C) In virtù del terzo parametro elencato, un soggetto può essere tenuto
al duty of care nei confronti di un altro solo ove l’imposizione di un simile
dovere appaia corretta (fair), giusta (just) e ragionevole (reasonable). Ad
esempio, al nascituro è riconosciuto, durante la gestazione, il diritto a che
non gli venga cagionato alcun tipo di danno. Viceversa, a colui che sia nato
con gravi patologie o malformazioni non è data alcuna azione giudiziale per
il fatto che la madre non abbia praticato l’aborto. In altre parole, non gli può
essere riconosciuto, relativamente al periodo della gestazione medesima,
un diritto a morire, cui farebbe riscontro un ipotetico duty of care, della ma-
dre o dei medici, avente ad oggetto la cessazione della gravidanza. Secondo
l’attuale sensibilità della giurisprudenza inglese, un simile dovere sarebbe,
infatti, privo dei citati requisiti di correttezza, giustizia e ragionevolezza (26).
D) Nel presente contesto, il termine policy significa “politica”, nel senso
di “prassi”, “linea di condotta”, e si riferisce alle considerazioni di politica

(24) La tematica del danno psichico verrà esaminata nel par. 7.


(25) Cfr. Cooke, op. cit., p. 40.
(26) Cfr. Davies, op. cit., p. 422.
ENCICLOPEDIA 273

del diritto con le quali la giurisprudenza inglese cerca di far sì che il respon-
sabile del tort of negligence non sia sottoposto ad una responsabilità indeter-
minata. Ciò può accadere quando, in seguito ad una sola azione (od omis-
sione), l’agente si veda accusato di un gran numero di illeciti e da una gran-
de quantità di persone. Si noti, dunque, che mentre il parametro della fore-
seeability (v. punto A) è relativo alla persona del danneggiato, il presente pa-
rametro è relativo al numero di danni cagionati dal responsabile. Si pensi,
ad esempio, al caso in cui una persona ometta negligentemente di far ese-
guire regolari controlli sulla sua automobile. Qualora l’auto abbia un guasto
all’interno di un tunnel e causi un grande ingorgo stradale, può accadere
che molti altri automobilisti, costretti a fermarsi, arrivino tardi al lavoro e
che tale ritardo cagioni loro altri danni, come la perdita della retribuzione o
la mancata conclusione di importanti affari. Quest’ultimo tipo d’inconve-
niente potrebbe, a sua volta, provocare il fallimento della ditta per cui essi
lavorano o altre pregiudizievoli conseguenze (27). Qualora ognuna delle
persone bloccate nell’ingorgo fosse ammessa ad agire, relativamente ad
ogni perdita riportata, contro il proprietario dell’auto in panne, costui po-
trebbe trovarsi esposto ad una responsabilità indeterminata. Ciò causereb-
be, tra l’altro, un esorbitante numero di cause giudiziarie con conseguente
paralisi della giustizia. Intervengono allora le citate ragioni di politica del di-
ritto per porre un limite alle azioni esperibili contro il colpevole.
Riassumendo quanto esposto nel presente paragrafo, oggigiorno un
soggetto potrà essere ritenuto responsabile del tort of negligence solo quan-
do l’autorità giudiziaria rinvenga in capo a lui la sussistenza di un duty of ca-
re nei confronti del danneggiato. Tale duty sarà rinvenibile solo qualora sia-
no assolte tutte le seguenti condizioni:
a) il responsabile avrebbe dovuto prevedere il danno, tenendo conto
della capacità di giudizio dell’uomo medio;
b) deve essere sussistente un rapporto di proximity in una qualsiasi del-
le accezioni sopra illustrate (v. punto B);
c) l’imposizione di un duty of care in capo all’autore del danno deve es-
sere giudicata corretta, giusta e ragionevole;
d) non vi devono essere ragioni di politica del diritto ad impedire l’attri-
buzione di responsabilità.

5. – Il fatto che un soggetto abbia violato il duty of care cui era tenuto nei
confronti di un’altra persona non basta a renderlo responsabile nei con-
fronti di essa. Bisogna infatti che costei abbia, in concreto, subìto un danno
a causa della violazione. Tenendo conto di ciò, siamo ora in grado di elen-
care tutti gli elementi costitutivi del tort of negligence:

(27) Quest’es. ricalca quello formulato in Cooke, op. cit., p. 42.


274 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

1) la legge deve riconoscere l’esistenza, in capo a colui che ha cagionato


il danno, di un duty of care nei confronti della vittima;
2) il responsabile deve aver posto in essere un comportamento, attivo
od omissivo, qualificabile come breach of duty, ossia una violazione
del suddetto dovere;
3) il suddetto comportamento deve avere, di fatto, cagionato un danno
(damage) alla vittima.
Relativamente al punto n. 3, precisiamo che nel diritto inglese il danno
non è sempre una componente essenziale delle figure d’illecito extracon-
trattuale. Esistono infatti alcuni nominate torts per la cui azionabilità giudi-
ziale non importa che l’attore fornisca prova del danno subìto. Questi illeci-
ti, tra cui rientrano le varie tipologie di trespass (28), sono chiamati “actiona-
ble per se”, ovvero azionabili “di per sé”, indipendentemente dalla prova del
danno. A fronte di un tort avente questa qualifica, all’autorità giudiziaria è
permesso, quando il danno sia effettivamente inesistente o di minima en-
tità, emettere una pronuncia che accordi all’attore i cosiddetti nominal da-
mages, ossia un risarcimento irrisorio, avente valore puramente simbolico.
Il tipo di risarcimento che, viceversa, viene accordato dal giudice nella
normalità dei casi è quello avente carattere compensativo (compensatory
damages), e si può anzi affermare che la principale funzione del risarcimen-
to nel diritto dei torts sia proprio quella di compensare l’attore per la perdi-
ta subita a causa dell’illecito. Questo è dunque il tipo di risarcimento al qua-
le faremo implicito riferimento nei prossimi paragrafi, parlando del tort of
negligence (29).

6. – Contrariamente a quanto prevede la disciplina di numerosi nomina-


te torts, nel tort of negligence spetta alla parte lesa provare la responsabilità
del danneggiante (30). Soltanto in due circostanze tale prova non viene ri-

(28) I già citati illeciti di trespass to land e trespass to the person appartengono al più ampio
genere del trespass, che include anche la figura del trespass to goods, posta a tutela dei beni
mobili.
(29) Per completezza d’informazione, ricordiamo che nel diritto dei torts, diversamente
da quanto accade in ambito contrattuale, sono ammissibili anche i punitive damages (detti an-
che exemplary damages o vindicative damages). Questo tipo di risarcimento è improntato ad
un parametro punitivo per l’offensore ed è accordabile dall’autorità giudiziaria solo in casi di
particolare gravità stabiliti dalla legge scritta (statue law) o in alcuni gravi illeciti commessi in-
tenzionalmente.
(30) È opportuno specificare che vari nominate torts sono azionabili sulla base della sem-
plice responsabilità oggettiva (strict liability) dell’a. del danno. Al di fuori di questi casi, la giu-
risprudenza inglese è stata impegnata anche nel decidere se, in determinate ipotesi, non fos-
se il convenuto a doversi liberare da una presunzione di colpa. A tal proposito, si veda quanto
riportato al par. 9 in tema di trespass to the person (cfr. Cooke, op. cit., pp. 359-360).
ENCICLOPEDIA 275

chiesta. La prima esenzione è data dalla Section 11 del Civil Evidence Act
1968, secondo cui la condanna subita da una persona in un procedimento
penale relativo a determinati fatti costituisce prova della sua responsabilità
in un procedimento civile avente ad oggetto i medesimi fatti. La seconda
esenzione è riassumibile nel motto latino res ipsa loquitur. Questo motto
enuclea il principio secondo il quale quando il danno è, per le modalità del
suo accadimento, tale per cui non può verificarsi se non nel caso in cui il suo
autore abbia omesso la dovuta diligenza, prudenza o perizia, la parte lesa
deve ritenersi sollevata dall’onere di provare la responsabilità dell’autore
medesimo (31).
Prescindendo dalle eccezioni ora ricordate, chi promuove un’azione
fondata sul tort of negligence dovrà provare quanto segue: a) che il convenu-
to si è reso responsabile di una violazione del duty of care nei confronti del-
la vittima; b) che la vittima ha subìto un danno; c) che il danno è stato de-
terminato dalla suddetta violazione.
Nel presente contesto, la causazione del danno è chiamata causation, e
per darne prova è necessario che l’attore dimostri che il danno non si sareb-
be verificato se non vi fosse stata violazione del duty of care da parte del pre-
sunto responsabile. Più sinteticamente, si può dire che la violazione deve
essere conditio sine qua non dell’evento dannoso. Un esempio d’indagine
sulla causation è dato dalla controversia Barnett v Chelsea and Kensington
Hospital Management Committee [1969], vertente sul caso di una persona ri-
coverata in ospedale in seguito ad un forte malore. I medici dell’ospedale si
erano rifiutati di visitare l’ammalato e gli avevano detto di rivolgersi al suo
medico curante. Cinque ore dopo essere stato dimesso dall’ospedale il pa-
ziente morì. La magistratura rilevò che i medici ospedalieri avevano violato
il duty of care nei confronti dell’ammalato, tuttavia essi non furono ritenuti
responsabili della sua morte. Fu infatti appurato che la vittima aveva ingeri-
to una forte dose di arsenico e che quindi la morte sarebbe sopraggiunta an-
che in caso d’immediato intervento in ambiente ospedaliero.
Nei casi in cui la violazione in parola costituisce la vera e propria causa
del danno, il responsabile può, nondimeno, evitare la condanna relativa a
quelle conseguenze del danno stesso che il giudice ritenga essere state “non
prevedibili al momento dell’azione (od omissione) del responsabile mede-
simo”.
Ci stiamo riferendo al parametro della remoteness, termine che generi-
camente significa “lontananza” o, nel presente contesto, “estraneità”, “im-
probabilità”.

(31) Relativamente al principio res ipsa loquitur, si vedano le sentenze riportate in Cooke,
op. cit., pp. 137-140.
276 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Notiamo, innanzitutto, la differenza tra il requisito della prevedibilità


del danno cui si fa riferimento nel presente contesto, e quello della fore-
seeability, intesa come requisito integrante del duty of care, di cui abbiamo
parlato al punto A del par. 4. In tema di duty of care, ad un soggetto si chiede
di prevedere quali persone, o categorie di persone, possano subire pregiudi-
zio dalla sua azione od omissione. In tema di remoteness, invece, il poten-
ziale responsabile deve prevedere quale tipo di danno (kind of damage) pos-
sa verosimilmente scaturire dal suo comportamento (32). La giurisprudenza
inglese ha infatti stabilito il principio per cui, chi ha cagionato un determi-
nato tipo di danno, potrà essere ritenuto responsabile di esso solo qualora il
danno medesimo, in virtù delle sue caratteristiche specifiche, abbia potuto
essere valutato come “prevedibile” al momento in cui il suo autore ha tenu-
to il comportamento che lo ha cagionato. Un esempio dell’applicazione di
tale principio ci è offerto dalla causa The Wagon Mound (No. 1) [1961], origi-
nata dal fatto che il convenuto, proprietario di una nave, aveva negligente-
mente permesso che il personale di bordo scaricasse petrolio nel porto di
Sydney. Tale petrolio, galleggiando, arrivò a lambire la banchina dell’attore,
sulla quale alcuni operai stavano eseguendo lavori di saldatura. Costoro
continuarono il loro lavoro nonostante la presenza del petrolio, in quanto
era stato loro detto (in maniera poi giudicata “non negligente”) che vi era si-
curezza nell’uso della fiamma ossidrica anche in presenza di petrolio in ac-
qua. Alcune scintille, tuttavia, incendiarono dei frammenti di cotone che
galleggiavano unitamente al petrolio; dopodiché il petrolio stesso prese
fuoco determinando l’incendio dell’intera banchina. Orbene, la giurispru-
denza non ritenne responsabile il convenuto del tort of negligence relativa-
mente all’incendio, in quanto accertò che l’eventualità che il petrolio pren-
desse fuoco in acqua non era prevedibile in quelle particolari circostanze.
Soltanto un danno da inquinamento, affermarono i giudici, poteva ritener-
si prevedibile a seguito del comportamento negligente del convenuto (33).
Più arduo è tracciare una differenza tra la disciplina della remoteness e le
limitazioni alla responsabilità dell’agente dovute a ragioni di policy, di cui
abbiamo trattato nel par. 4 al punto D. Parte della dottrina sembra voler af-
fermare che il concetto di remoteness derivi proprio da esigenze di politica
del diritto, allorché rileva come la limitazione di responsabilità di cui è por-
tatore il concetto in esame sia voluta dall’ordinamento per motivi di “legal

(32) Non sono, tuttavia, mancati casi in cui è stato difficile capire se la prevedibilità di un
dato accadimento fosse da valutarsi nell’ambito del duty of care o in quello della remoteness
(cfr. Harpwood, Modern Tort Law, 6th ed., London, Cavendish, 2005-repr. 2006, p. 176).
(33) Si veda il resoconto dei fatti della causa esposto in Hodgson and Lewthwaite, Tort
Law, Oxford, Oxford University Press, 2004, pp. 108-109, e in Elliott and Quinn, op. cit., p.
100.
ENCICLOPEDIA 277

policy” (34). Da parte nostra, ci limitiamo a notare che in molti esempi ri-
guardanti il concetto di policy i testi di tort law configurano la presenza di
una serie di fatti illeciti, tutti derivanti da un’unica azione od omissione, e
aventi ciascuno una sua propria vittima. Viceversa, negli esempi relativi al
concetto di remoteness vengono normalmente presentate situazioni in cui
vi è un solo soggetto danneggiante ed un solo soggetto danneggiato, con la
particolarità che il danno inizialmente subìto da quest’ultimo si aggrava con
modalità da ritenersi, o meno, “prevedibili”, a seconda dei casi (35).

7. – Uno degli ambiti in cui sono più evidenti le innovazioni apportate


dal tort of negligence nel diritto inglese è quello del danno psichico.
Nella normalità delle ipotesi, i giudici d’oltremanica sono propensi a ri-
sarcire le sofferenze mentali di un individuo quando queste siano conse-
guenza di un danno fisico da lui subìto. Quando, viceversa, tali sofferenze
derivino da un danno fisico riportato non dall’attore ma da altra persona, i
giudici sono soliti adottare un parametro assai più rigoroso: il risarcimento
è ammissibile solo ove le sofferenze derivino da una vera e propria psychia-
tric illness (malattia psichica) la quale, a sua volta, sia insorta in seguito ad
un nervous shock (shock nervoso). Com’è intuibile, quest’ultimo requisito
limita notevolmente i casi di risarcibilità del danno in parola. Molte volte,
infatti, si verifica la circostanza in cui una persona, assistendo alla malattia e
al declino di un proprio congiunto, soffre di una psychiatric illness non risar-
cibile in quanto insorta gradualmente, e non a causa di un preciso evento
che abbia determinato un nervous shock (36). L’evento atto a determinare lo
shock può consistere, ad esempio, nel fatto di assistere in prima persona al-
l’incidente di cui è vittima una persona cara, o nel fatto di vederla immedia-
tamente dopo il sinistro.
In materia d’infortunistica, i giuristi inglesi hanno tracciato un netta di-
stinzione tra vittime primarie (primary victims) e vittime secondarie (secon-
dary victims).
Vittime primarie sono le persone che, al momento del verificarsi di un
incidente (ad esempio, stradale), si sono trovate nella cosiddetta “area of
physical danger”, ossia nell’area, di solito corrispondente alle immediate vi-
cinanze dell’incidente medesimo, in cui vi era pericolo di un danno fisico

(34) Lunney and Oliphant, op. cit., p. 268.


(35) Assai esemplificative di quanto ora affermato in tema di remoteness sono le cause Tre-
main v Pike [1969] e Smith v Leech Brian & Co [1962], citate da Cooke (op. cit., pp. 163, 166),
nonché la causa Bradford v Robinson Rentals Ltd [1967], citata da Hodgson and Lewthwaite
(op. cit., p. 109).
(36) Cfr. Davies, op. cit., p. 444.
278 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

anche per esse. Queste persone possono ottenere un risarcimento per ner-
vous shock sia che abbiano subìto un danno fisico sia che non lo abbiano
subìto, dovendo solo dimostrare di essersi trovate nell’area in cui vi era il ri-
schio che un tale danno potesse verificarsi. Vittime primarie sono inoltre
coloro che, pur non trovandosi nella suddetta area di pericolo, supponeva-
no ragionevolmente di trovarvisi (37).
Vittime secondarie sono le persone che hanno subìto un nervous shock
non perché si trovavano nell’area di pericolo ma perché aventi le seguenti
caratteristiche:
a) uno stretto legame affettivo, normalmente determinato da parentela,
con colui che dall’incidente ha riportato un danno fisico (38);
b) erano vicine al luogo dell’incidente in termini di tempo e di spazio;
c) hanno assistito all’incidente o ne hanno constatato le immediate con-
seguenze in prima persona.
Si noti come, in base all’ultimo requisito elencato, non sia sufficiente
che le persone in parola abbiano avuto notizia dell’incidente da altri senza
essersi recate sul luogo dell’accaduto o senza aver visto la vittima dopo l’in-
cidente stesso. I citati requisiti sono stati formulati dalla giurisprudenza nel-
la causa McLoughlin v O’Brian [1983], vinta dall’attrice, la quale aveva subì-
to una fortissima depressione in seguito ad un incidente stradale che aveva
cagionato il ferimento del marito e di due figli nonché la morte del terzo fi-
glio. La signora venne a sapere dell’incidente un’ora dopo l’accadimento e,
condotta all’ospedale, vide i feriti e constatò il decesso (39).
È rilevante notare come tutti i criteri dettati dalla giurisprudenza per l’i-
dentificazione delle vittime, primarie o secondarie, altro non siano che cri-
teri per identificare il requisito della proximity, essenziale per rilevare la pre-
senza del duty of care in capo a colui che ha cagionato il danno (v. § 4, punto
B).
Al di fuori dei casi di nervous shock la common law non ammette possi-
bilità di risarcire le sofferenze psichiche derivanti da casi simili a quello ora
descritto. A colmare questa lacuna giurisprudenziale è però intervenuta la
legge scritta (statute law). Ci stiamo riferendo al Fatal Accidents Act 1976,
tuttora vigente, il quale contempla il cosiddetto bereavement claim, ossia il
diritto al risarcimento per gli stretti congiunti di una persona deceduta in un

(37) Ibidem.
(38) Relativamente a questo parametro, la categoria delle secondary victims non costitui-
sce certamente un numero chiuso, poiché lo “stretto legame affettivo” è da intendersi come
un fattore da provarsi volta per volta (cfr. Davies, op. cit., p. 446).
(39) Una dettagliata descrizione dei fatti della causa è riportata in Cooke, op. cit., pp. 61-
62.
ENCICLOPEDIA 279

incidente, relativamente al fatto stesso del lutto (40). Si noti che questa leg-
ge non richiede la diagnosi specifica di nervous shock, bensì ritiene che una
semplice sofferenza emotiva (emotional distress) conferisca il diritto al risar-
cimento ai congiunti medesimi. Oltre che per questo motivo, il citato atto
legislativo parrebbe prevedere più ampie possibilità di risarcimento, rispet-
to a quelle offerte dalla common law, per il fatto che esso non richiede la va-
lutazione giudiziale del parametro della proximity (41). In realtà, bisogna
considerare che questo maggior raggio di applicazione è temperato sia dal
fatto che la legge prevede il risarcimento relativamente ai soli casi di morte
e non a quelli di lesioni, sia dalla constatazione che le persone che ne han-
no diritto sono soltanto quei pochissimi congiunti identificati dalla legge
stessa (Sec. 1A.2).

8. – Altro settore significativamente innovato dal tort of negligence è


quello del danno economico. Nel diritto inglese, in linea di principio, la eco-
nomic loss, ossia la perdita economica, è risarcibile quando sia la conse-
guenza di un danno fisico. La sua risarcibilità è, viceversa, assai più limitata
allorché essa non derivi da tale tipo di danno, nel qual caso si dovrà parlare
di pure economic loss (“perdita puramente economica”).
Alcuni nominate torts permettono la risarcibilità della pure economic loss
ove il fatto o l’atto che l’ha cagionata sia stato doloso ma non l’ammettono
ove esso derivi da semplice colpa (42).
Con l’azione di negligence, l’attore può ottenere il risarcimento relativa-
mente a perdite economiche derivanti da danni alla sua persona o alle sue
proprietà. Ad esempio, per un incidente colposo da altri cagionato che co-
stringa l’attore ad un periodo di assenza dal lavoro, costui potrà essere risar-
cito, oltre che delle sofferenze patite e delle spese mediche, anche degli
eventuali mancati guadagni nei giorni di convalescenza.
Per quanto concerne i casi di pure economic loss, si può senz’altro nota-
re come la regola, nell’ambito della disciplina del tort of negligence, sia quel-
la della non risarcibilità. A tal proposito, bisogna ricordare che la giurispru-
denza inglese, a differenza di quella italiana, non ammette il risarcimento
nei casi di “lesione del credito”, ossia nei casi in cui un soggetto subisca una

(40) Più precisamente, ricordiamo che il bereavement claim è stato introdotto tramite una
modifica apportata alla legge citata dalla Administration of Justice Act 1982.
(41) Ciò significa che, per avere il risarcimento in virtù della legge citata, i congiunti della
vittima non avranno necessità di provare di essersi trovati nelle vicinanze del luogo dell’inci-
dente o di aver assistito alle immediate conseguenze di esso.
(42) Tra questi torts possiamo ricordare il deceit, consistente in un raggiro cagionato da
una falsa dichiarazione.
280 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

perdita economica a causa di un danno fisico riportato da una persona a lui


legata contrattualmente (43). Gli unici crediti la cui lesione viene tutelata dal
diritto inglese sono quelli dei familiari delle persone rimaste uccise in un in-
cidente. Questa eccezione non è però stata introdotta dalla giurisprudenza
bensì dalla legge scritta. Ci stiamo riferendo al Fatal Accidents Act 1846, in
base al quale poterono ottenere il risarcimento per danno economico il co-
niuge, i figli e i genitori della persona deceduta in un incidente. Tale legge fu
più volte emendata, fino ad essere per intero sostituita dal Fatal Accidents
Act 1976, già citato al paragrafo precedente, che ha nettamente ampliato le
categorie di persone aventi diritto al risarcimento per danno puramente
economico. Costoro sono chiamati dalla legge dependants, ossia “persone a
carico”, e nel loro numero vengono inclusi, oltre agli stretti congiunti del
defunto, anche soggetti quali “coloro che vivevano nella stessa casa della
persona deceduta, immediatamente prima del verificarsi del decesso” (Sec.
1.3) (44).
Sempre in tema di negligence e di pure economic loss, un’altra eccezione
alla non risarcibilità del danno, introdotta questa volta dalla giurispruden-
za, è quella relativa a casi di negligenza o imperizia professionale. Suppo-
niamo, ad esempio, che A si rivolga al suo avvocato B affinché costui rediga
il testamento di A a favore di C. Qualora il testamento venga redatto negli-
gentemente, e C sia, pertanto, impossibilitato a succedere, egli potrà otte-
nere da B il risarcimento relativamente alla perdita economica subita (45).
Altro caso in cui la giurisprudenza ha ammesso la risarcibilità della pure
economic loss è quello relativo alla comunicazione di false informazioni, cir-
costanza emersa nella famosa causa Hedley Byrne & Co Ltd v Heller & Part-
ners Ltd [1964]. Riportiamo, sinteticamente, i fatti che hanno originato la

(43) In Italia, il primo caso di risarcimento per lesione del credito fu quello originato dal-
l’uccisione colposa, da parte di un automobilista, del calciatore Luigi Meroni, nel 1967. Nella
causa giudiziaria che ne seguì la Cass. accordò al Torino Calcio Spa, società cui apparteneva
Meroni, il risarcimento per il danno economico subìto a causa della perdita delle prestazioni
sportive del calciatore. Per quanto riguarda il diritto inglese, si ritiene che una simile svolta
giurisprudenziale sia, tuttora, alquanto improbabile (cfr. Lunney and Oliphant, op. cit., p.
379).
(44) La pretesa risarcitoria dei dependants relativa alla loro perdita economica è detta de-
pendancy claim, mentre altre somme cui essi hanno diritto sono quelle impiegate per l’allesti-
mento del funerale (Sec. 3.5). Oltre a queste pretese, il Fatal Accidents Act 1976 contempla an-
che un bereavement claim, ossia il diritto al risarcimento fondato non sulla perdita economica
ma sul fatto stesso del lutto, di cui abbiamo parlato alla fine del paragrafo precedente. Tale di-
ritto non spetta però alla generalità dei dependants ma solo a quei pochi congiunti del defun-
to identificati dalla legge stessa (Sec. 1A.2).
(45) L’es. ora formulato è tratto dal caso Ross v Caunters [1980].
ENCICLOPEDIA 281

controversia: la società attrice, volendo referenze su uno dei suoi clienti, le


ottenne dalla banca di lui (facendosele pervenire tramite la banca dell’attri-
ce stessa). Nel rilasciare le referenze, la banca del cliente affermò che esse
venivano comunicate “without responsibility”, ovvero “senza responsabi-
lità”. Facendo affidamento su tali informazioni, poi rivelatesi false, la so-
cietà attrice perse una rilevante somma di danaro ed agì in negligence contro
la banca del cliente. La House of Lords ritenne che, nella fattispecie, la so-
cietà non poteva recuperare la somma perduta, stante che le informazioni
erano state date “senza responsabilità”. Tuttavia, venne contestualmente
sancito il principio della risarcibilità della pure economic loss nei casi in cui la
comunicazione di simili informazioni non fosse accompagnata dalla sud-
detta formula di esenzione da responsabilità. Per lungo tempo si è ritenuto
che questo principio potesse trovare applicazione solo nei casi di negligent
misstatements, ossia di dichiarazioni false rilasciate colposamente. Recenti
sentenze della House of Lords ne hanno però esteso l’applicabilità ai casi in
cui le informazioni false siano state date, non con dichiarazioni, ma tramite
più generiche “azioni od omissioni”. Per l’operatività del principio, inoltre,
è essenziale che le informazioni siano state date nell’ambito di una special
relationship esistente tra il soggetto che le ha fornite e colui che le ha rice-
vute. Per un certo periodo di tempo, la giurisprudenza ha omesso di defini-
re l’esatto contenuto di questa “relazione speciale”, ragion per cui tale for-
mula ha originato vari dibattiti interpretativi. Recenti orientamenti giuri-
sprudenziali hanno rilevato la presenza della citata relationship nei casi in
cui il rapporto tra i due soggetti sia qualificabile come “equivalente ad un
contratto” (equivalent to contract), e determini l’assunzione di responsabi-
lità da parte di uno di essi ed il ragionevole affidamento dell’altro (46). È
quindi da escludersi che la responsabilità in esame possa sorgere a seguito
di una normale conversazione tra amici o conoscenti, mentre invece un col-
loquio tra un funzionario di banca ed un cliente potrà certamente essere
considerato come “equivalente ad un contratto”. In quest’ultimo tipo di
colloquio, si noti, è rinvenibile un altro elemento su cui gli interpreti si so-
no a lungo soffermati per l’identificazione del rapporto in oggetto: quello
delle particolari competenze di un soggetto (il funzionario di banca), che
hanno indotto l’altra parte a farvi affidamento.

9. – Il raggio di applicazione del tort of negligence ha avuto, nel corso del


tempo, un notevole ampliamento, che è stato proporzionale alla perdita

(46) In dottrina si è rilevato che la “relazione speciale equivalente ad un contratto” costi-


tuisce, nei casi in esame, il parametro della proximity (v. § 5, lettera B), componente essenzia-
le nella valutazione del duty of care (Cooke, op. cit., p. 40).
282 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

d’importanza di vari nominate torts (47). Uno di questi è indubbiamente il


trespass to the person, illecito che si compone di tre categorie: il battery, l’as-
sault e il false imprisonment. L’ultima delle figure elencate consiste in una
sorta di sequestro di persona che si può verificare, ad esempio, quando un
soggetto sia costretto da altri a rimanere in un dato luogo contro la propria
volontà. L’assault, invece, consiste in una “minaccia”, posta in essere ver-
balmente o per fatti concludenti (48).
Più articolato è il concetto di battery. Questa figura si verifica quando un
soggetto usa una qualsiasi forma di violenza fisica su di un’altra persona, op-
pure, più semplicemente, produce un contatto fisico con essa senza averne
il consenso. Una così ampia definizione, ovviamente, ha comportato un no-
tevole lavoro da parte della giurisprudenza per stabilire quali tipi di contatto
fisico possano, all’atto pratico, integrare gli estremi di quest’illecito (49).
Delle tre categorie citate quella di maggior importanza è sicuramente il
battery. Spesso, infatti, quando si fa generico riferimento al trespass to the
person, si ha a mente, in via principale, proprio questa figura.
Denominatore comune a tutte le categorie menzionate è quello di esse-
re actionable “per se”, ossia azionabili in giudizio indipendentemente dalla
prova del danno (v. § 5) (50).
Un tempo, un’altra caratterista comune alle citate figure era quella di es-
sere sanzionabili sulla base della semplice responsabilità oggettiva. Tale ca-
ratteristica è oggi venuta meno in virtù della serie di sentenze, relative a ca-
si di battery, che ci accingiamo ad illustrare.
Notiamo come i testi da noi consultati, nel citare le sentenze in parola,
facciano generico riferimento al “trespass to the person” e non, in via speci-
fica, al battery (51). Ciò simboleggia, a nostro avviso, quanto poc’anzi affer-
mato sul battery medesimo, che da species viene spesso identificato col ge-
nus che lo contiene. Orbene, per non discostarci dalla scelta operata dagli
autori citati, anche noi abbiamo deciso di fare riferimento al “trespass to the
person”, enfatizzando tuttavia che le tre sentenze che stiamo per citare han-
no in comune le seguenti caratteristiche:

(47) In argomento si veda il saggio di Weir, “The Staggering March of Negligence”, in Cane
and Stapleton-editors, The Law of Obligations: Essays in Celebration of John Fleming, Oxford,
Clarendon Press, 1998, pp. 97-138.
(48) In un’accezione più ampia ma meno tecnica, “assault” può anche indicare la violenza
fisica.
(49) Per una casistica si veda Harpwood, op. cit., p. 296; Cooke, op. cit., p. 361; Elliott
and Quinn, op. cit., p. 250.
(50) Tale caratteristica, del resto, è comune a tutti i tipi di trespass, sarebbe a dire non solo al
trespass to the person ma anche ai già citati trespass to land e trespass to goods (v. § 5, in nota).
(51) Cfr. Cooke, op. cit., pp. 359-360; Weir, op. cit., p. 108; Winfield, op. cit., pp. 246-248.
ENCICLOPEDIA 283

a) furono pronunciate, come poc’anzi anticipato, relativamente a casi di


battery;
b) le vicende che le originarono non furono determinate da semplice
contatto fisico tra offensore e vittima ma da vere e proprie lesioni fisi-
che da quest’ultima riportate.
La prima, storica, sentenza fu quella che decise il caso Stanley v Powell
[1891]. Con essa si stabilì il principio per cui il “trespass to the person” pote-
va essere punito solo per dolo o per colpa, e non più sulla base della sola re-
sponsabilità oggettiva (52). Tale cambiamento, tuttavia, evidenziò una note-
vole lacuna poiché, nello stabilire che il trespass to the person poteva essere
punito solo per dolo o per colpa, i giudici non risolsero il problema dell’o-
nere della prova. Conseguenza ne fu che, negli anni successivi, la giurispru-
denza si trovò divisa in due correnti: quella che riteneva che spettasse all’at-
tore provare la colpa del convenuto, e quella che, viceversa, riteneva che
fosse il convenuto a doversi liberare da una presunzione di colpa. La que-
stione fu definitivamente risolta nell’ambito del caso Fowler v Lenning
[1959], ove si stabilì che spettava all’attore provare il dolo o la colpa del con-
venuto (53).
A seguito delle sentenze citate, il trespass to the person perse molta della
sua iniziale importanza. Si può infatti notare come il maggior vantaggio che
esso offriva alla parte lesa, rispetto al tort of negligence, consistesse proprio
nel fatto che l’attore era sollevato dall’onere di provare la colpa del conve-
nuto (54).
Come se tutto ciò non bastasse, l’illecito in esame subì un altro duro
colpo dalla sentenza sul caso Letang v Cooper [1965], con la quale venne for-
mulato il seguente il principio: qualora l’atto che ha cagionato il danno sia
stato intenzionale, l’azione giudiziale dev’essere quella di trespass, qualora
invece sia stato colposo, l’azione dev’essere quella di negligence (55).
In dottrina si rileva come, a causa di tutti i cambiamenti menzionati, il
trespass to the person abbia oggidì cessato di essere l’illecito cui si fa mag-
giormente ricorso nei casi di lesioni personali, e come il relativo primato
spetti ora al tort of negligence (56). La dottrina citata, parlando di lesioni per-
sonali, ci ricorda che le sentenze appena riportate sono tutte relative, in via
specifica, a casi di battery.

(52) Abbiamo già visto, nel par. 2, che sul finire vi fu un marcato atteggiamento di rifiuto
nei confronti della responsabilità oggettiva.
(53) I due casi giurisprudenziali che abbiamo citato sono riportati in Cooke, op. cit., p 360.
(54) Ibidem; cfr. Davies, op. cit., p. 480.
(55) La sentenza è citata in Elliott and Quinn, op. cit., p. 250, e in Harpwood, op. cit., p.
291.
(56) Cfr. Cooke, op. cit., p. 360.
284 CONTRATTO E IMPRESA 1/2011

Volendo constatare quale sia, oggigiorno, la disciplina delle altre due fi-
gure di trespass to the person, ci accorgiamo che mentre l’assault è, anch’es-
so, sanzionabile solamente per dolo, il false imprisonment è ancora un illeci-
to a responsabilità oggettiva (57).
Come preannunciato, il trespass to the person non è stato l’unico tort ad
aver perso importanza a causa della vis expansiva del tort of negligence. Vitti-
ma illustre è stata anche la private nuisance, illecito il cui elemento materia-
le può essere costituito sia dai danni fisici cagionati ad un bene immobile
(terreno o edificio) sia dalle immissioni, sonore od olfattive, che limitano il
godimento di un tale tipo di bene.
L’esempio di due fondi attigui è quello che meglio si presta ad illustrare
le particolarità della materia in esame. Supponiamo, pertanto, che i signori
A e B siano i titolari di due fondi confinanti. In passato, la giurisprudenza in-
glese è stata del parere che, qualora A danneggiasse il fondo di B o permet-
tesse che vi giungessero immissioni dal proprio fondo, la responsabilità di A
fosse di tipo oggettivo (strict liability). Col tempo, tuttavia, si è chiarito che
la responsabilità di A è oggettiva solo qualora il danno da lui cagionato sia
stato conseguente ad un’azione (action) di A medesimo, consistente, ad
esempio, nell’aver costruito una determinata opera sul proprio fondo o nel-
l’avervi svolto determinate attività. Ove, viceversa, il danno al fondo di B sia
derivato da un’omissione (omission) di A, quest’ultimo potrà essere giudi-
cato responsabile solo ove venga rilevata una sua colpa. Ciò può accadere
ove A non intervenga per far cessare una situazione, potenzialmente dan-
nosa per B, venutasi a creare sul proprio fondo a causa di forze naturali o per
l’intervento di terzi. Si pensi, ad esempio, alle radici degli alberi del fondo di
A che, crescendo, potrebbero cagionare danni al fondo attiguo, oppure alle
opere che terze persone potrebbero aver fatto sul fondo di A senza il suo
consenso. In casi come questi viene a crearsi lo schema per cui la private
nuisance, tradizionalmente sanzionabile per responsabilità oggettiva, viene
sanzionata sulla base dell’elemento della colpa, la quale, a sua volta, tende
ad essere rilevata dal giudice con i parametri utilizzati nell’ambito del tort of
negligence. In particolare, l’autorità giudiziaria dovrà individuare, in capo al
responsabile, l’esistenza di un duty of care finalizzato ad evitare il danno.

(57) Cfr. Elliott and Quinn, op. cit., pp. 252 e 255. Riguardo all’assault, aggiungiamo che,
estrinsecandosi esso in una “minaccia”, ci sembrerebbe difficile configurare una sua sanzio-
nabilità sulla base della semplice colpa. Discorso a parte va poi fatto per capire se i principi
enunciati nelle controversie citate siano applicabili anche alle altre tipologie di trespass. In
dottrina ci si chiede, ad esempio, se la regola formulata nella causa Letang v Cooper possa es-
sere applicata anche nell’illecito di trespass to goods e, dopo aver proposto una risposta affer-
mativa, si specifica che una simile estensione non è ancora stata ufficialmente enunciata dal-
la giurisprudenza (cfr. Harpwood, op. cit., p. 363).
ENCICLOPEDIA 285

In altre parole, nei casi ipotizzati, le regole utilizzate nel tort of negligen-
ce per identificare la colpevolezza non danno luogo ad un’autonoma causa
d’azione bensì sono strumentali rispetto all’azione di private nuisance (58).
Conseguenza di quanto ora descritto è che, nell’ambito di una revisione
critica della figura della private nuisance, parte della giurisprudenza si è mo-
strata favorevole a ridurre l’ambito di applicazione di questo tort, suggeren-
do che esso divenga azionabile soltanto nei casi di immissioni e che vice-
versa, relativamente ai danni fisici, si utilizzi unicamente l’azione fondata
sul tort of negligence (59).

(58) Si vedano le sentenze citate in Weir, op. cit., pp. 102-103.


(59) Cfr. Weir, op. cit., pp. 103-104.
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