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ITALO SVEVO (Aron Hector Schimtz) Trieste 1861 – Motta Di Livenza (TV) 1928

La Vita
Ettore Aron Schmitz nasce nel 1861 a Trieste (che all’epoca faceva parte dell’impero asburgico)
da una famiglia benestante di origine ebraica, quinto di otto figli: il padre Francesco Schmitz,
funzionario dell’impero, è di origine austriaca, la madre Allegra Moravia, è di origine italiana. Il nome
d’arte dello scrittore allude a questa duplice radice etnica e culturale: Italo per il legame con l’Italia e
Svevo (da Svevia, regione tedesca) per il legame con il mondo tedesco.
Fin da bambino studia l’italiano e il tedesco e nel 1873 a dodici anni va a studiare, con i fratelli,
in un collegio tedesco in Baviera, per apprendere materie utili per intraprendere l'attività commerciale
di famiglia. Lì rimane per cinque anni, dove studia anche la letteratura tedesca e russa. Tornato a Trieste
all’età di diciassette anni si iscrive presso l’Istituto Superiore di Commercio “Revoltella”, volendo il padre
avviarlo al commercio, ma continua comunque le sue letture dei classici tedeschi.
Il tracollo finanziario nel 1880 dell’azienda di famiglia lo porta a cercare lavoro, che trova presso
una filiale triestina della Banca Union di Vienna, dove lavora per ben diciotto anni. Nello stesso anno
inizia la collaborazione con L'Indipendente, giornale triestino di chiara impostazione irredentistica e di
vedute socialiste, e si dedica alla lettura dei grandi classici francesi (Balzac, Flaubert, Zola) e italiani
(Boccaccio, Machiavelli, Carducci): le ore libere le occupa studiando, la sua vocazione non è il commercio
e nemmeno il lavoro da impiegato, bensì la letteratura.
Nel 1892, con lo pseudonimo di Italo Svevo, pubblica a sue spese il suo primo romanzo Una vita,
che non ha successo. Nel 1896 sposa Lidia Veneziani, figlia di un grosso industriale produttore di vernici
e, dopo alcuni anni, entra a lavorare nella ditta del suocero. Viaggia molto in Francia e Inghilterra per
lavoro e amplia così il suo orizzonte culturale, diventando un imprenditore che coltiva la passione per il
violino e per la letteratura. Nel 1898 esce un secondo romanzo, Senilità, il quale, come il precedente,
non ha successo, per cui decide di abbandonare la letteratura, definendola addirittura "ridicola e
dannosa cosa".
Per i viaggi all'estero, Svevo sente la necessità di migliorare il suo inglese e per questo frequenta
un corso alla Berlitz School di Trieste nel 1905, dove insegnava lo scrittore irlandese James Joyce. I due
diventano amici e Joyce lo incoraggia a riprendere l’attività letteraria e a scrivere un nuovo romanzo. Nel
1908-1910, grazie al cognato che aveva sostenuto una terapia con Freud, viene a contatto con la
psicanalisi.
Poiché durante la guerra la fabbrica dei suoceri viene requisita, Svevo riprende l’attività
letteraria. Il romanzo La coscienza di Zeno esce nel 1923 e inizialmente non ha alcuna risonanza, ma
Svevo lo invia a Joyce, che lo diffonde in Francia e in Europa, mentre viene ignorato in Italia, fino a
quando Eugenio Montale ne afferma la grandezza, scrivendone una recensione positiva sulla rivista
“L’Esame”: scoppia così il "caso Svevo" e finalmente la critica italiana si accorge dell’originalità
dell’autore triestino. La sua attività letteraria prosegue con la stesura di molti racconti, pubblicati
postumi, e commedie (ben tredici), rappresentate con scarso successo. Il quarto romanzo, Il vecchione o
Le confessioni del vegliardo, rimane incompiuto a causa della morte dello scrittore, avvenuta nel
settembre 1928 nell'ospedale di Motta di Livenza (Treviso), in seguito ad un incidente stradale.

Le opere
Oltre a Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno, Svevo aveva intenzione di scrivere un quarto
romanzo avente di nuovo come protagonista Zeno e che sarebbe stato intitolato Il vecchione o Le
confessioni del vegliardo. Di quest’opera abbiamo solo dei frammenti dai quali si può ricavare che tema
centrale sarebbe stato il rapporto tra vita e letteratura per arrivare a concludere che la
“letteraturizzazione” dell’esistenza sarebbe l’estremo risarcimento al male di vivere.
Ci rimangono invece alcuni saggi (su Trieste, su Joyce), diverse opere di teatro che la critica ha
costantemente ignorato, nonché un certo numero di racconti, tra cui “L’assassinio di via Belpoggio”,
“Argo e il suo padrone”, “La morte”, “Corto viaggio sentimentale”, e moltissimi altri scritti (alcuni
perduti), alcuni pubblicati con lo pseudonimo di Ettore Samigli, che vanno dall’età giovanile sino agli
anni successivi alla pubblicazione de “La Coscienza di Zeno”. Anche per questi racconti manca una
tradizione critica.

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Svevo ci ha lasciato anche alcuni scritti autobiografici: il Diario per la fidanzata (scritto nel 1896
per la futura moglie Livia Veneziani), pagine di diario sparse, molte lettere e un Profilo autobiografico,
scritto nel 1928.

Il Profilo autobiografico è un'autobiografia in terza persona, praticamente completa: partendo


dalle origini della famiglia, giunge fino a pochi mesi prima della morte, avvenuta per le conseguenze di
un incidente automobilistico.
Si tratta di un testo molto significativo: l'autore, infatti, scrive quando ormai la critica sta
riconoscendo il valore della sua opera, per cui Svevo parla di sé rievocando con ironica soddisfazione sia
gli sforzi fatti per giungere al successo, sia le tante incomprensioni che in precedenza lo avevano
ostacolato. Oltre a questo atteggiamento ironico e autoironico, tipico di Svevo, sono molto interessanti
anche la pagine sull’amicizia con Joyce, quelle dell'incontro con il pensiero di Freud e le sparse
annotazioni di poetica.
È nel Profilo autobiografico che Svevo chiarisce la scelta dello Pseudonimo, legata anche al suo
ambiente di formazione, Trieste. Nella seconda metà dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale,
Trieste fu il più importante porto commerciale del Mediterraneo. Inoltre, grazie ad un editto varato
dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo, nella città convivevano tre etnie diverse: austriaca, italiana
(veneta) e slava, oltre ad una numerosa comunità ebraica. Dediti soprattutto all’attività commerciale, gli
ebrei appartenevano alla ricca borghesia cittadina e detenevano il potere economico. Trieste era una
città di confine, periferica rispetto ai centri culturali italiani, ma proprio la sua posizione “di frontiera” le
permise di ricevere gli influssi della cultura mitteleuropea, cioè una cultura cosmopolita del Centro
Europa che si affermò nell’ultimo periodo di vita dell’impero austro-ungarico. Nel Profilo
autobiografico Svevo sottolinea il fatto che Trieste rappresenta un crocevia di popoli, lingue e tradizioni,
un melting pot tra la cultura mitteleuropea e la letteratura italiana, intrisa di civiltà tedesca,
dell'irredentismo italiano, della vicina cultura contadina slava, di costumi legati ad altre etnie come
quella ebraica, di cui Ettore Schmitz fa parte: è la medesima qualità che si riflette nello pseudonimo da
lui scelto, Italo Svevo, che vuole appunto rappresentare la via della fratellanza fra l'identità tedesca e
quella italiana e questo in un'epoca e in una città in cui quei due mondi, l’italiano e il germanico, si
guardavano con astio, per gli sforzi irredentisti (contro cioè la dominazione asburgica) messi in atto da
larga parte della popolazione triestina di allora.
Un'altra importante dimensione presente nel Profilo riguarda gli insuccessi letterari che
ripetutamente salutano le opere di Svevo; la situazione sembra peggiorare dal primo al terzo romanzo.
L'autore peraltro non accusa, non recrimina, non protesta, anzi mantiene un'ammirevole serenità,
limitandosi a registrare l'accaduto e ammettendo, con sincerità, il proprio rammarico di fronte
all'insuccesso.
Le pagine dell'incontro con Joyce e Freud introducono alla dimensione propriamente europea
della letteratura sveviana; dal punto di vista dell'aggiornamento culturale a quell'epoca in Italia solo
Pirandello seguiva il suo stesso percorso: Pirandello, come Svevo, proveniva da un'area periferica (la
Sicilia) e, come Svevo, aveva studiato per un certo periodo all'estero (anch'egli in Germania, a Bonn).
Svevo, sulla base della conoscenza dell'opera di Freud, introduce in Italia una linea narrativa innovativa
(il cosiddetto romanzo analitico), fondata sulla scoperta dell'inconscio. Fin dai primi romanzi sono
analizzati i meccanismi psicologici con cui i personaggi cercano di mistificare il loro rapporto con la
realtà, ma é con “La coscienza di Zeno” che l'introspezione, l'auscultazione dell'io diventano
preminenti e caratterizzanti al punto da permeare tutta la struttura narrativa.
Nel Profilo emerge anche la concezione della letteratura come attività inutile e dannosa:
dannosa per le ripercussioni nella vita pratica (bastava un solo rigo per renderlo meno adatto al lavoro
pratico quotidiano) e per la serenità d'animo dello scrittore stesso, in quanto rappresentava un vizio che,
dopo Senilità, aveva allontanato per consentirsi una vita degna di essere vissuta e, dopo La coscienza di
Zeno, aveva ripreso.

L’ideologia
Svevo è un intellettuale non professionista, diviso tra la passione per la letteratura e una
“normale” vita borghese. Entrato in contatto con la cultura positivista e con le teorie di Darwin, si rende
conto ben presto del condizionamento che la società esercita sulle vite degli uomini e orienta così il suo
pensiero politico verso idee socialiste e marxiste. Tuttavia non credeva nella possibilità di una

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rivoluzione capace di stabilire la giustizia sociale. Nel suo unico lavoro di contenuto politico, il racconto
“La tribù”, egli mostra di avere coscienza dello sfruttamento della classe operaia necessariamente
connesso con lo sviluppo della società industrializzata, ma considera le dottrine egualitarie del tutto
utopistiche, anche se guarda loro con simpatia.
Da un punto di vista filosofico egli si avvicinò all’evoluzionismo darwiniano, ma pensava che le
leggi evoluzionistiche e di “selezione naturale” non fossero sufficienti a spiegare e a capire la
condizione umana: la pretesa di spiegare l’essenza dell’uomo all’interno di leggi naturali necessarie ed
immutabili (proprio del positivismo e naturalismo) si scontrava contro la concezione del
comportamento umano come effetto di un fondo psicologico complesso e contraddittorio (le teorie
psicoanalitiche di Freud). Egli giunse infatti alla convinzione che le motivazioni razionali del
comportamento umano non fossero che la copertura di spinte emotive profonde la cui dinamica non è
riducibile al determinismo psicologico dei positivisti.

Svevo e l’espressione della crisi della condizione umana


Svevo visse sempre in ambiente borghese, frequentando il ceto più ricco a cui appartenevano sia
la sua famiglia che quella della moglie. I suoi personaggi quindi riflettono la mentalità, i vizi e
soprattutto le nevrosi della borghesia di allora. Il loro mondo è in crisi e, sebbene troviamo figure simili
a quelle dei romanzi naturalisti ottocenteschi (impiegati, banchieri, commercianti ritratti con grande
realismo in tutti gli aspetti della loro vita), tuttavia interesse dell’autore non è la volontà di ritrarre il
mondo degli affari, quanto gli uomini incapaci di vivere e di prendere decisioni, sempre più incarnati
nella figura dell’inetto, colui che è continuamente insoddisfatto di sé e della propria vita.
Svevo denuncia la crisi dell'uomo contemporaneo, la sua condizione di alienazione, in cui non
riesce ad instaurare un rapporto positivo con la realtà. Le ragioni di tale condizione sono storiche, non
sono innate, connaturate all'essere umano: la moderna società borghese capitalistica, fondata sulla
legge del "produttivismo", ha condotto l'uomo in questo stato di alienazione e lo porterà alla
catastrofe finale.
Per Svevo non c'è possibilità di un intervento, sul piano storico e sociale, che salvi l'umanità. Solo
il singolo individuo ha un'alternativa: avere consapevolezza della propria malattia, della condizione
umana e sorriderne, con l'amarezza dell'acquisizione della coscienza e della mancanza delle illusioni. Le
vie della salvezza diventano la tolleranza, l'autocoscienza, l'ironia.
Svevo espresse anche la crisi del concetto di realtà: le nuove tendenze affermatesi sul finire
dell’Ottocento minavano dalle fondamenta la fiducia nella ragione e nella scienza sostenuta dal
Positivismo, sconfessando la possibilità di giungere alla conoscenza della realtà mediante un
procedimento logico, mentre la scoperta dell’inconscio da parte di Sigmund Freud apriva un campo
d’indagine fino ad allora sconosciuto. Tutto ciò ebbe inevitabilmente delle ripercussioni in ambito
letterario e nei primi decenni del Novecento molti scrittori rifiutarono la tradizione letteraria
ottocentesca: Thomas Mann, Franz Kafka, Marcel Proust, Robert Musil, James Joyce, Virginia Woolf,
Luigi Pirandello e Italo Svevo aprirono nuove strade in ambito narrativo con il cosiddetto romanzo
analitico.
Della vita dell'uomo a Svevo interessano gli impulsi più segreti e oscuri e nei suoi romanzi appare
evidente che la solitudine e l'alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una "malattia mortale"
che corrode l'intera società borghese. Con la sua narrativa lo scrittore triestino si inserisce
perfettamente nel filone di studi sulla scoperta dell'inconscio: Svevo s'interessò molto di psicanalisi
freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla I guerra mondiale, ma il suo interesse è
caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina.

La poetica e la tecnica narrativa


Per Svevo lo scrivere è una debolezza, quasi un vizio di cui si vergogna, da cui non riesce a
liberarsi, ma che considera indispensabile, poiché la scrittura esprime la condizione dell’uomo del ‘900,
un uomo inetto, abulico, emarginato dalla società. L’inettitudine è il tema centrale della sua
narrazione, contrapposto all’attitudine, cioè la malattia contrapposta alla salute.
Teatro delle vicende raccontate da Svevo è Trieste, città poliedrica, aperta agli aspetti più
realistici della cultura italiana, sensibile agli apporti culturali delle correnti slave e tedesche. Grazie a
questo influsso nacque il "romanzo analitico" di Svevo: il romanzo cioè che alla rappresentazione
oggettiva dei fatti (Verismo) sostituisce quella di una complicata e profonda angoscia esistenziale. I suoi

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interessi, infatti, si orientano verso una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della
solitudine e dell'aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla
vita.
Nelle prime due opere la struttura narrativa è ancora legata al Verismo, mentre risulta
fortemente innovativa nell’ultima. In "Una vita", infatti, è presente un narratore esterno che focalizza
sul protagonista, il quale molto spesso è condizionato dalla società e dall’ambiente. In "Senilità", pur
conservando caratteristiche del romanzo naturalista, la novità strutturale è più scoperta; infatti,
l’attenzione dedicata all’ambiente è molto limitata e l’autore è maggiormente rivolto all’analisi
psicologica del protagonista. Tuttavia esiste ancora un narratore esterno che tenta di cogliere le
sensazioni e i tentativi del protagonista di ingannare se stesso.
Soltanto nel 1923, con "La coscienza di Zeno", Svevo abbandonerà definitivamente i caratteri
veristi e raggiungerà la notorietà nonostante i temi trattati che sono gli stessi delle due precedenti
opere, ma intanto è cambiata la sensibilità del pubblico che è sempre più cosciente della crisi del
positivismo e della condizione di inettitudine degli uomini.
L'analisi psicologica ne “La coscienza di Zeno” porta
− alla dissoluzione degli schemi narrativi tradizionali. Questi schemi sembrano persistere nei primi
due romanzi: descrizioni di ambienti, di categorie sociali, di personaggi nelle minime caratteristiche;
in realtà la loro sopravvivenza è del tutto secondaria all'interesse per l'analisi psicologica.
− all’annullamento della categoria del tempo. Esiste una perenne contaminazione di passato e
presente. Il ricordo viene modificato di continuo dalle esperienze successive e dalle impressioni del
presente. Sempre nuove sono le prospettive e le valutazioni. Il passare continuamente dall'una
all'altra prospettiva temporale determina la presenza di un duplice livello temporale della
narrazione.
− alla dissolvenza del personaggio, che non ha più caratteristiche precise ed oggettive, ma è
presentato in un continuo fluire, nel suo farsi. La caratterizzazione perde i suoi tratti tipici, ancora
presenti in "Una vita" e "Senilità", nel romanzo “La coscienza di Zeno”.
− alla disintegrazione del narratore demiurgo della vicenda: il piano della rappresentazione è quello
soggettivo del protagonista, che si esprime con la tecnica del monologo interiore: espressione
tumultuosa di quanto si agita nella coscienza, trascrivendolo senza alcun ordinamento sintattico.
− all’adozione di una lingua nuova; una lingua apparentemente grigia, sciatta, molto vicina al parlato
impiegatizio e industriale, specchio della povera esistenza dei personaggi dei romanzi.

La figura dell’inetto
Mentre negli ultimi anni dell’800 in Italia dominava la figura dell’esteta superuomo
dannunziano, con Svevo all’esteta si contrappone la figura dell’inetto, ruolo centrale nella sua narrativa.
È una nuova figura di eroe per la letteratura italiana, che ha certamente dei precursori in personaggi
della narrativa russa, per esempio in Dostoevskij, ma in Svevo diviene figura centrale.
Che cosa è l’inettitudine? Tutti i personaggi di Svevo sono incapaci di affrontare la realtà. Dalla
vita sono eternamente sconfitti. Sono malati nella volontà, abulici; sono dei vinti senza grandezza,
perché l'inetto esclude la lotta. Per questo nel rapporto con la realtà fingono, mancano di autenticità, si
autoingannano, si creano degli alibi, delle giustificazioni. La loro è una malattia della coscienza che li
porta a rifugiarsi nella fantasticheria o nella menzogna, ma la vita li stritola sempre.
L’inetto sveviano si sente inadatto a vivere poiché non riesce ad aderire alla vita, non ha valori
in cui credere, non ha scopi, non ha un ruolo nella società in cui riconoscersi, quindi non riesce a dare
un senso alla propria vita. Nello stesso tempo è caratterizzato soprattutto dal velleitarismo, dalla
sproporzione tra le sue ambizioni e le sue capacità, dalla sua tendenza a vivere più con la fantasia che
nella realtà. È perciò pieno di inibizioni, di frustrazioni, avverte la sua inferiorità e subisce gli eventi,
non li domina.
Egli dunque è un eroe in senso negativo, è colui che soggiace passivamente ai condizionamenti
ambientali e alle pulsioni dell’inconscio che lo privano di ogni possibilità di scelta. Egli è un abulico, un
essere privo di forte volontà, più incline alla contemplazione che non all’azione. L’inetto è malato di
quella malattia che è il disagio del ‘900: l’incapacità di provare sentimenti, che provoca nell’uomo un
intenso alone di tristezza e di infelicità.
L’inetto, quindi, è sempre un eroe sconfitto che potrebbe apparire al pubblico molto simile ai
personaggi vinti rappresentati da Verga, ma esiste una notevole differenza: mentre la sconfitta dei

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vinti era da imputare esclusivamente all’ambiente, il fallimento dell’inetto è da ricondurre alla frattura
venutasi a creare tra l’io e la realtà e all’interno dell’uomo con la scoperta dell’inconscio.
Tutti i personaggi protagonisti dei romanzi di Svevo sono quindi degli inetti, ma c’è tuttavia
una sostanziale differenza tra Alfonso ed Emilio, protagonisti rispettivamente di "Una vita" e "Senilità" e
Zeno, protagonista de "La coscienza di Zeno": i primi due sono tragici, sono rappresentati in una
dimensione cupa e triste e il loro destino è la morte o comunque la rinuncia a vivere; Zeno invece riesce
a non essere tragico in quanto, vista la sua età matura, assume la consapevolezza della sua "malattia" e
usa l’ironia per sdrammatizzare se stesso e la sua condizione. Zeno è colui che, convinto di sbagliare,
effettua la scelta più giusta, riuscendo perciò a raggiungere involontariamente la felicità. Il matrimonio
tra Zeno e Augusta, per esempio, nasce per caso, partendo da uno scambio di persona del protagonista,
ma questa scelta si rivelerà azzeccata per entrambi. Nella realtà, dunque, un ruolo fondamentale è
rappresentato dal caso, e l’inetto è appunto colui che deve sottostare a questa componente che nel
‘900 aumenta sempre di più la sua importanza.
Nella narrativa sveviana sono quindi sempre presenti delle contrapposizioni che spiegano meglio la
condizione dell’uomo moderno, quali Attitudine/Inettitudine, Gioventù/Senilità, Salute/Malattia.

Le Principali Opere
Una vita
Scritto nel 1893, è il primo romanzo di Svevo con cui l’autore comincia a maturare una sua visione della
vita e dell’uomo. "Una vita" è un romanzo tardoverista che mette ben in evidenza la figura dell'inetto. Il
protagonista è Alfonso Nitti, impiegato in banca, che vede le sue ambizioni sociali e letterarie frustrate
dalla meschinità dell’ambiente di lavoro e dal ruolo subalterno a cui è condannato dalla nascita. Una
breve relazione con Annetta, la figlia del principale, pare aprirgli prospettive diverse, ma nel momento in
cui gli si presenta la possibilità di sposarsi, preferisce rinunciare per non andare in contro a troppe
responsabilità. Tuttavia, non contento della sua scelta, alla fine del romanzo si suicida, andando in
contro a quello che è il naturale destino dell’inetto. Alfonso mette inoltre ben in evidenza l’incapacità
dell’uomo di conciliare i gesti esterni con i sentimenti interni, quindi c’è estraneità a qualsiasi gesto
esteriore che abbia importanza per gli altri.

Senilità
Scritto nel 1897, la novità strutturale è più scoperta. Il protagonista è Emilio Brentani, un impiegato poco
meno che quarantenne, anche lui sognatore con passate velleità letterarie, conosce una bella e procace
popolana, Angiolina Zarri, che diventa la sua amante, coinvolgendolo anche sul piano sentimentale.
Angiolina, creatura incolta e primitiva, bugiarda e istintiva, non si lascia condizionare da Emilio che ne
vorrebbe elevare la condizione socio-culturale. Intanto la sorella del protagonista, Amalia, si innamora di
Stefano Balli, amico di Emilio a cui era stato chiesto un consiglio riguardo Angiolina; Amalia, non
contraccambiata rinuncia alle sue velleità e, dopo una malattia, muore. Anche Emilio, alla fine del
romanzo, dopo la sua delusione amorosa, capisce di aver fallito nel campo più impegnativo della vita e,
quindi, decide di continuare la sua vita in una condizione di Senilità, cioè di vecchiaia e di rinuncia
all’amore e ai sentimenti; ciò testimonia la sua inettitudine e la sua malattia morale tipica dell’uomo
del’900.

La coscienza di Zeno
È del 1923 e con questo romanzo Svevo raggiunge la notorietà. L’autore immagina che Zeno racconti la
sua vita al dottor S per cercare di guarire dalla sua nevrosi e questo per dispetto, pubblichi le sue
memorie nel momento in cui il protagonista decide di interrompere la terapia.
La struttura è fatta di 8 parti: la prima è la prefazione e in essa Svevo immagina che il dottor S esprima le
sue opinioni di disprezzo a riguardo del protagonista. La seconda parte è il preambolo in cui Zeno parla
della sua malattia e dei motivi che lo hanno portato a frequentare il dottore S. Sia Zeno che il medico
non sono affidabili, contribuiscono a peggiorarsi a vicenda e quindi il romanzo è affascinante perché è
ambiguo e riesce a rappresentare la realtà nella sua complessità, evitando di far prevalere un punto di
vista sull’altro.
Seguono altri 5 capitoli che trattano della vita di Zeno: in "Il fumo" sono raccontati i pietosi tentativi di
smettere di fumare, anche se in realtà non era questa l’intenzione del protagonista. In "La morte del
padre" Zeno approfitta della condizione di infermità del genitore per accusarlo di essere il principale

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responsabile della sua condizione nevrotica, dovuta, secondo lui, agli eccessivi atteggiamenti autoritari.
"La storia del suo matrimonio" racconta gli amori di Zeno nei riguardi delle figlie del Signor Malfenti:
inizialmente propone il matrimonio prima ad Ada, e successivamente ad Alberta, ma entrambe rifiutano
e Zeno è costretto a ripiegare su Augusta, la quale invece accetta. In "La moglie e l’amante" viene
introdotta la figura di Carla che diventa l’amante di Zeno, ma che rinuncia a lui per non rovinare quello
che crede un matrimonio felice e perfetto. "La storia di un’associazione commerciale" è un capitolo che
vede Zeno contrapposto a Guido, il marito di Ada: dopo il fallimento di un investimento di quest’ultimo,
Zeno cerca di rimediare effettuando una buona operazione finanziaria che fa recuperare il denaro
perduto alla famiglia Malfenti. L’ultima parte è il diario di Zeno in cui egli racconta la sua guarigione:
Zeno nega di essere mai stato malato e anzi, generalizza la malattia a tutto il mondo sostenendo che chi
si sentiva sano era malato e viceversa: la salute è la condizione di chi possiede certezza, princìpi, quindi,
constatata la vanità di questi, Zeno conclude che sarebbe stato meglio "guarire dalla salute". La sua
quindi, non era una malattia, ma solo uno stato che gli ha permesso una visione più lucida della realtà.
Quindi il finale è apocalittico, infatti l’unico modo per guarire il mondo può essere soltanto una violenta
esplosione che trasformi la terra in nebulosa.
Zeno è vecchio, al contrario di Alfonso ed Emilio, protagonisti dei romanzi precedenti, e quindi riesce a
essere consapevole della sua inettitudine, ciò gli permette di essere un personaggio comico: l’ironia
serve per rendere evidente l’assurdità della vita ed è quindi il corrispondente dell’umorismo di
Pirandello.

La donna e l’amore
Una delle caratteristiche principali della figura dell’inetto in cui l’uomo in questo periodo si
immedesima, è l’incapacità di provare sentimenti verso gli altri. I personaggi rappresentati da Svevo
quindi, non riusciranno mai ad avere una relazione duratura, anche perché vogliono evitare quelle ovvie
responsabilità derivanti da un matrimonio.
Per esempio, l’amore di Alfonso per Annetta in "Una vita" è semplicemente un’occasione per elevarsi da
quella condizione di inferiorità a cui il protagonista deve sottostare fin dalla nascita.
L’amore di Emilio e Angiolina in "Senilità" è invece un amore trasgressivo, un sinonimo di gioventù,
quindi un tentativo per rimanere giovani. Tuttavia questo amore occasionale procura a Emilio una
grande delusione dovuta a continui inganni, tradimenti e bugie. La sua reazione è quella di ritirarsi in
una condizione di Senilità, di vecchiaia, quindi di rinuncia all’amore stesso.
Un’eccezione è però quella di Zeno, in "La coscienza di Zeno", per cui amore significa matrimonio. Infatti
lui riesce a sposarsi, anche se non con la donna che ama. Questa donna è Augusta ed è colei che si fa
molto influenzare dalle convenzioni del periodo, che sente in maniera molto netta la separazione tra il
fidanzamento, in cui non sono consentite le troppe effusioni che invece Zeno propone, e il matrimonio,
che è invece il sigillo dell’amore. Inoltre Augusta è, agli occhi di Zeno, l’immagine della salute che si
contrappone alla sua condizione di malattia. Tuttavia nel corso del romanzo, questa contrapposizione
viene meno, infatti Zeno capisce che la sua condizione è una condizione generalizzata, quindi non è lui
che bisogna curare, ma bensì sono la moglie, e tutte le persone come lei, che devono guarire dalla
salute.
Una curiosità è costituita dal fatto che i personaggi femminili di Svevo hanno tutti nomi che iniziano per
"A". Particolarmente evidente risulta il contrasto salute-malattia, rappresentato rispettivamente da
Augusta e Zeno e sottolineato dalle iniziali dei nomi.

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