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«DON CARLOS» / «DON CARLO»:


INESAURIBILE WORK-IN-PROGRESS
di
Daniele Spini*

Nel 1496 Filippo il Bello, figlio ed erede dell’imperatore Massimiliano I


d’Asburgo, sposò Giovanna la Pazza, figlia a sua volta dei re Ferdinando
d’Aragona e Isabella di Castiglia, sovrani di una Spagna definitivamente li-
berata dai Mori e unificata. Da Filippo e Giovanna nacque a Gand nel 1500
il futuro Carlo V: che a soli sei anni la morte del padre lasciò erede del tro-
no di Spagna, con gli annessi, ricchissimi possessi europei e americani, e
dei dominii degli Asburgo. Nel 1519 Carlo fu formalmente proclamato im-
peratore: alle molte corone di un ragazzo di diciannove anni venne cosí a
far capo un regno sul quale «non tramontava mai il sole». Nel 1526 Carlo
sposò Isabella di Portogallo. Nel 1527 nacque loro un erede, Filippo, che a
suo tempo sposò una cugina, Maria Manuela di Portogallo. Da lei nel 1545
ebbe a sua volta un figlio, cui fu dato il nome del grande nonno: Carlo. Po-
tenziale erede del regno sterminato, Carlo crebbe un po’ come una pianta
storta, debole ed estraneo a un padre certo piú temuto che non amato.
Nel 1554, poco dopo la morte di Maria Manuela, Filippo sposò la regina
d’Inghilterra Maria Tudor, passata ai posteri come Bloody Mary, Maria la
Sanguinaria. Non fu certo un matrimonio d’amore: comunque gli sposi
passarono insieme ben poco tempo. Né questa unione fra due principi cat-
tolici ebbe le conseguenze politiche e religiose alle quali mirava: l’annuncio
del fidanzamento fu salutato in Inghilterra da una rivolta sanguinosa, e la
restaurazione del cattolicesimo tentata da Maria non ebbe molti effetti al di
là delle circa trecento persone bruciate sul rogo, anche perché la coppia
non riuscí mai a generare l’erede che avrebbe consolidato il ritorno dell’In-
ghilterra alla vecchia fede.
Nel 1556 Carlo V abbandonò la vita politica ufficiale: abdicò alla corona
imperiale nelle mani di suo fratello Ferdinando, cui andarono tutti i posse-
dimenti orientali, e a quella di Spagna in favore di Filippo. Ritiratosi nel
convento di San Girolamo a Yuste, in Estremadura, continuò a influire a
distanza sulla gestione del regno inviando frequenti consigli a Filippo II,
finché il 21 settembre 1558 morí. In pochi mesi don Carlos perse sia il
grande nonno sia l’imbarazzante matrigna: Maria la Sanguinaria morí in-
fatti a sua volta in novembre. Ma da tempo Filippo II si era totalmente di-

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sinteressato di questa moglie lontana e tanto piú vecchia, e aveva posto gli
occhi, in vista di un probabile terzo matrimonio, sulla sorellastra ed erede
di lei, Elisabetta, della quale peraltro nei momenti piú promettenti del ma-
trimonio con Maria aveva cercato di ottenere la decapitazione. Elisabetta
non volle nemmeno sentir parlare di questo matrimonio: Filippo e la Spa-
gna rimasero anzi i nemici piú acerrimi dell’Inghilterra, contro la quale la
potenza militare spagnola andò disastrosamente a scontrarsi nel 1588, con
la catastrofe dell’Invencible Armada.
Intanto Filippo nel 1559 si era presa una terza moglie, Elisabetta di Valois, fi-
glia del re di Francia Enrico II, e quattordicenne proprio come don Carlos, al
quale anzi in un primo momento era stata destinata. Sarebbero morti entram-
bi nel 1568, ad appena ventitré anni. Filippo visse ancora abbastanza da sep-
pellire nel 1580 una quarta moglie, Anna d’Austria, dalla quale però era riu-
scito finalmente ad avere un erede capace di sopravvivergli: Filippo III.
Nel 1598, al termine di oltre quarant’anni di regno complessivamente disa-
strosi, Filippo morí di gotta. Da vivo e da morto oltre che nella storia ebbe
un suo posto anche nell’immaginazione collettiva, come cupo simbolo di
un potere tirannico e spietato: re potentissimo e solo, rinchiuso a gestire il
suo regno nel palazzo-monastero dell’Escorial, poco piú vivo della lugubre
cripta che ne attendeva le spoglie mortali. Completava il quadro la figura di
don Carlos: erede debole, malato nell’anima come nel fisico, di un padre
dall’autorità terrificante, antieroe velleitario e isterico, sopraffatto da una
macchina sadica e implacabile. Il tocco finale giungeva dalla vicenda matri-
moniale: il passaggio di Elisabetta di Valois da sposa del figlio a moglie del
padre, secondo il consueto impiego delle adolescenti come merce di scam-
bio, pedine passive di disegni economici, dinastici o politici, poteva facil-
mente esser letto anche come crudele sottrazione di un possibile amore a
un giovane che all’improvviso si vedeva costretto a dibattersi fra la tenta-
zione di una passione incestuosa e lo strazio di una rinuncia. Sullo sfondo,
la vicenda delle Fiandre, vittime di un’oppressione non meno religiosa che
politica, capace di spargere su di esse un oceano di sangue e fuoco (ci sa-
rebbero voluti secoli prima che sull’onda della moda revisionista qualcuno
si mettesse in mente di rivalutare perfino l’Inquisizione spagnola). Ce n’era
di che alimentare romanzi e drammi teatrali, indubbiamente. Ecco dunque
una cospicua genealogia, aperta già nel 1672 da una Histoire de Dom Car-
los scritta da César Vichard, Abbé de Saint-Réal, proseguita quasi subito,
nel 1676 (non per caso in Inghilterra, che da lí a dieci anni si sarebbe ‘li-
berata’ degli Stuart ricorrendo a un re fiammingo, Guglielmo IV d’Orange)

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con Don Carlos, Prince of Spain di Thomas Otway, fino a giungere, pas-
sando per il Filippo di Vittorio Alfieri (1770) nel 1787 al momento piú alto
di questa vicenda letteraria, Don Carlos, ‘poema drammatico’ in cinque at-
ti di Friedrich Schiller. Un pilastro della letteratura e del teatro del primo
Romanticismo, nel quale sembra essersi specchiata, seppure su un piano
meno augusto per noi oggi, la versione francese della storia fornita nel
1846 dal dramma Philippe II roi d’Espagne di Eugène Cormon (pseudoni-
mo di Pierre-Étienne Piestre). Tutto ciò parallelamente a molte variazioni
letterarie e teatrali sul tema di una Fiandra in rivolta contro una Spagna as-
soluta cattolica e cupa, Egmont di Goethe in testa.
Nel 1850 Alphonse Royer e Gustave Vaëz, già autori per Verdi del libretto
di quella Jérusalem che aveva rielaborato e ampliato i Lombardi alla prima
crociata fino a trasformarli in grand-opéra, cercarono di coinvolgerlo in una
nuova collaborazione, proponendogli vari soggetti, fra i quali il Don Carlos
di Schiller. Non se ne fece niente. Verdi tornò all’Opéra solo nel 1855, con
I vespri siciliani, per poi tenersi a lungo alla larga dalla grande boutique,
come la chiamava lui con il disprezzo misto ad attrazione che contraddi-
stinse sempre i suoi rapporti con la cultura musicale e teatrale di Parigi.
Nel 1863, durante un soggiorno in Spagna, andò a visitare l’Escorial. Il suo
commento è perfettamente in linea con la ricezione tradizionale della figu-
ra di Filippo II e del suo tempo: «severo, terribile come il feroce sovrano
che l’ha costruito». Nel luglio 1865 il direttore dell’Opéra, Émile Perrin,
tornò alla carica, sottoponendogli fra gli altri progetti ancora una volta un
Don Carlos, nello scenario del drammaturgo François-Joseph Méry e del li-
brettista Camille Du Locle. La risposta di Verdi, per noi che conosciamo il
Don Carlo musicato da lui, è folgorante: «magnifico dramma, ma a cui
manca forse un po’ di spettacolo. Del resto ottima l’idea di far apparire
Carlo V, come ottima la scena a Fontainebleau. A me piacerebbe, come in
Schiller, una piccola scena tra Filippo e l’Inquisitore: e questo cieco e vec-
chissimo; Escudier ve ne dirà poi a voce il perché. Amerei inoltre un Duo
tra Filippo e Posa». L’accordo fu presto fatto. In novembre Verdi andò a Pa-
rigi, dove si trattenne fino al marzo dell’anno successivo, lavorando inten-
samente con i suoi librettisti: da ultimo con il solo Du Locle, poiché Méry
in febbraio fu messo fuori combattimento dalla malattia che l’avrebbe poi
portato alla tomba. Il lavoro proseguí a Sant’Agata, concludendosi nell’esta-
te del 1866 a Cauterets, una località termale dei Pirenei. Poi, a Parigi, si
aprí il lungo calvario delle prove, degli assestamenti, dei tagli, fino alla pri-
ma rappresentazione dell’11 marzo 1867.

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Passando da Schiller al libretto ovviamente il soggetto aveva perso per stra-


da numerosi connotati (e anche alcuni personaggi d’importanza non secon-
daria, sacrificati alla sintesi inevitabilmente imposta a qualsiasi testo desti-
nato alla drammaturgia musicale, perfino in un grand-opéra). Non senza
abilità i librettisti riuscirono a distribuire nei cinque atti la maggior parte
degli spunti offerti dal dramma. Le perdite piú gravi le subí forse il rappor-
to tra Filippo e don Carlo: nell’opera padre e figlio stanno insieme sola-
mente per pochi minuti, nella scena dell’autodafé (ripresa dal dramma di
Cormon recuperando il dialogo che sta nell’Atto II della tragedia di Schil-
ler) e in quella del carcere, e vivono una dialettica psicologica fin troppo
semplificata. In compenso il libretto – anche per desiderio di Verdi, come
s’è visto – introduce una forte proiezione spettacolare, del tutto assente in
Schiller, che come si conviene in un testo in prosa anche quando (di rado,
comunque) colloca l’azione all’aperto, o fa intervenire gruppi relativamente
numerosi, mantiene sempre i dialoghi in spazi psicologici ristretti, in una
sorta di clima da ‘studio’, in cui ciò che conta è essenzialmente la parola.
Ne risultò un’opera di impaginazione amplissima (cosa che a Verdi un po’
piaceva e un po’ no: come del resto un po’ tutto ciò che riguardava il grand-
opéra), con ampia occasione per scene di massa, con gran dispiego di bassi
e di baritoni (ben quattro!), soprattutto con dinamiche emotive non limita-
te alla relazione amorosa, e anzi capaci di tradurre in psicologia contorta
persino il volersi bene fra tenore e soprano. Un aspetto, quest’ultimo, ben
presente già in Schiller, e raccolto senza troppe perdite dal libretto di Méry
e Du Locle: tanto che offrire a Verdi possibilità ben piú ampie di quanto
non avesse potuto trovare nel semplice contrasto amore-dovere dell’altro
suo vero e proprio grand-opéra, I Vespri siciliani. Quindi una bella occasio-
ne per dispiegare quel potere di torsione del melos e dell’armonia, nonché
quel controllo del ritmo e del timbro orchestrale, che avevano reso grandi e
sperimentali tutte le sue opere successive alla trilogia popolare (posto e non
concesso che già in queste, e specialmente nel Rigoletto, non si debba rav-
visare qualcosa di significativo anche in tal senso), e fra queste, senza co-
munque dimenticare i Vespri, specialmente Un ballo in maschera (1858-
1859), La forza del destino (1861-1862) e la revisione (1863-1865, giusto
per Parigi) del Macbeth. Rispettavano le regole del grand-opéra la struttura
amplissima, in cinque atti, l’intreccio fra passioni private e vicenda storica,
il lungo divertissement danzato (Ballo della Regina) che occupa quasi per
intero la prima scena dell’Atto III, e l’autodafé immediatamente successivo.
Testimoniavano l’identità piú tradizionalmente italiana e melodrammatica

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di Verdi l’estroversione eroica della parte di Rodrigo, la doviziosa fluidità


dell’espressione canora, e soprattutto la teatralità immediata di molte situa-
zioni, comprese quelle in cui l’indagine sulle dinamiche psicologiche appa-
riva piú raffinata e sottile, proseguendo e sviluppando in misura inedita le
intuizioni dei sedici anni che separano Don Carlos da Rigoletto, appoggia-
te qui a una padronanza ed efficacia del suono orchestrale che sembrano
andare molto innanzi anche rispetto a partiture già incredibilmente ricche
in tal senso come quelle del Ballo in maschera e della Forza del destino.
«Non fu un successo!!!», scrisse lapidariamente Verdi il giorno successivo
alla prima. La sera stessa partí per l’Italia.
Da tempo si era provveduto a preparare anche una versione italiana del
Don Carlos. Se ne era occupato un giornalista italo-francese, Achille de
Lauzières, nato a Napoli nel 1800. Identica a quella rappresentata a Pa-
rigi, salvo che per la lingua, vedeva la caduta definitiva della ‘s’ finale
nel nome del protagonista, e di conseguenza nel titolo dell’opera, che da
allora in poi si sarebbe chiamata Don Carlo (ma Verdi nelle sue lettere
continuò sempre a scrivere «D. Carlos») e avrebbe fino a nuovo ordine
parlato italiano ovunque, meno che in Francia, dove comunque non riu-
scí a resistere piú di un paio d’anni nel cartellone dell’Opéra. Da princi-
pio Verdi, assorbito da altri interessi (i ritocchi alla Forza del destino in
vista della prima italiana del febbraio 1869 alla Scala, il «Libera me» per
la Messa collettiva da lui ideata in memoria di Rossini, e soprattutto il
lungo lavoro ad Aida), non sembra essersi preoccupato molto della sorte
del Don Carlo. La prima esecuzione in italiano ebbe luogo al Covent
Garden di Londra il 4 giugno, sotto la direzione di Michele Costa, con
tagli pesantissimi, fatti a quanto pare all’insaputa di Verdi, ma curiosa-
mente anticipatori di alcuni fra gli interventi piú importanti della suc-
cessiva revisione: via tutto l’Atto I, quello ambientato a Fontainebleau, e
in cui è esposto, quasi a mo’ di antefatto, l’amore infelice di Carlo ed
Elisabetta, via il balletto dell’Atto III, nel quale era peraltro recuperata
la romanza di Don Carlo «Io la vidi», che altrimenti sarebbe sparita in-
sieme con il primo. Il 27 ottobre 1867 ecco Don Carlo approdare in Ita-
lia, diretto da Angelo Mariani al Comunale di Bologna, sempre senza la
presenza di Verdi. Altre riprese in Italia (quella di Roma nel 1868 dovet-
te vedersela ancora con la censura, come ai vecchi tempi: il Grande In-
quisitore diventava un Gran Cancelliere, Carlo V non appariva piú come
«un Monaco» ma come un semplice «Solitario». Un paio d’anni dopo le
cannonate di Porta Pia avrebbero posto fine, oltre che al potere tempo-

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rale dei papi, alla lunga e indecorosa storia delle censure imposte ai li-
bretti d’opera dai governi dell’Italia pre-unitaria). Si consolidò rapida-
mente una prassi esecutiva tendente a normalizzare Don Carlo riportan-
dolo ai termini tradizionali del melodramma nostrano, attraverso il ta-
glio del balletto e poi dell’intero Atto I. L’opera non sembrò tuttavia in-
contrare grande successo: lo parve confermare la prima rappresentazio-
ne a Napoli nel 1871, un mezzo fiasco di cui Verdi attribuí la colpa all’i-
nadeguatezza del San Carlo di fronte a una partitura cosí impegnativa.
Anche per questo Verdi seguí personalmente le riprese del dicembre
1872, per le quali realizzò una nuova versione del duetto tra Filippo e
Posa all’Atto II, confermando come i tagli apportati fra la generale e la
prima parigina lo avessero lasciato profondamente insoddisfatto, facen-
do ritoccare il testo relativo ad Antonio Ghislanzoni, il librettista di Ai-
da. Salvo questo cambiamento e un paio di tagli nel duetto Elisabetta -
Don Carlo all’Atto V, si trattava però sempre del Don Carlos di Parigi, in
cinque atti con ballabili: un grand-opéra tradotto in italiano.
Per Verdi si aprí quindi un periodo di apparente inazione. Il Quartetto,
scritto nel 1873 sempre a Napoli, è il segnale, mezzo scherzoso e mezzo
no, di una riflessione se non di una crisi addirittura. Il 22 maggio 1874
la prima esecuzione del Requiem in memoria di Manzoni, in cui sono
confluiti non solo il «Libera me» per Rossini ma anche un motivo del
duetto Filippo-Rodrigo nella versione napoletana, procura a Verdi sessan-
tunenne un successo aggiuntivo nella veste, tutta moderna ed europea,
del direttore d’orchestra. Poi è solo sotto questo aspetto, con le molte ri-
prese della Messa dirette in Italia e all’estero, che il mondo sembra desti-
nato a conoscerlo, per anni e anni.
Nel 1875 nella sua corrispondenza fa di nuovo capolino il Don Carlo: si
parla di darlo a Vienna, e per tutti è chiaro che cosí com’è la partitura è
troppo lunga e ingombrante, ma anche che non è tanto facile accorciarla
come tanti hanno provato a fare: «Trovo assai difficile farvi dei tagli, a me-
no di fare quanto si usa da molti maestri concertatori, che io chiamerei
scorticatori! Come capirete, io non devo e non voglio fare come costoro.
Per ridurre quest’opera a proporzioni piú ristrette, bisognerebbe aver tem-
po di studiarvi un po’ sopra e fare quanto feci per la Forza del Destino».
Che cosa togliesse a un Verdi ufficialmente inattivo il tempo di «studiare
un po’» sopra il Don Carlo è davvero difficile dire. Del resto quel che av-
venne poi di quest’opera sembra dimostrare che davvero non era solo que-
stione di tempo, e che anzi il tempo probabilmente non c’entrava affatto.

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Il silenzio si interrompe nel 1880-1881 con la revisione, a trentaquattro an-


ni dalla prima, del Simon Boccanegra, per il quale Arrigo Boito ha rima-
neggiato pesantemente il vecchio libretto di Francesco Maria Piave: ormai
Verdi ha aperto il cantiere di Otello, e la nuova partitura dichiara eviden-
tissimamente le conseguenze del lungo processo di ripensamento dei suoi
stessi percorsi creativi, sul piano drammaturgico non meno che su quello
strettamente musicale, vissuto da lui per oltre un quarto di secolo, e cul-
minato, c’è da crederlo, proprio nella stasi creativa degli ultimi sei anni.
Subito dopo, nel 1882, ecco che si riparla del Don Carlo. Don Carlos, an-
zi, giacché è a Parigi che se ne discute, pronubi l’archivista dell’Opéra,
nonché traduttore di libretti verdiani, Charles Nuitter, ed Emanuele Mu-
zio, ex allievo devotissimo e direttore d’orchestra: ma «ci vorrebbe un poe-
ta sotto la mano, e questi dovrebbe essere naturalmente l’autore di prima.
Ciò è impossibile», spiega seccamente Verdi, agli occhi del quale Camille
Du Locle è in completa disgrazia per essersi appropriato dei soldi che gli
aveva affidati perché li investisse. Anche senza un librettista sotto la ma-
no, però, Verdi al Don Carlo sembra aver finalmente trovato il tempo di
pensare, e ne ha già in mente una versione che accoglie definitivamente il
taglio dell’Atto I, facendone, secondo l’auspicio di Muzio, «un’opera che
gira il mondo». Nulla di fatto per Parigi, forse se ne potrebbe parlare per
Vienna, che si rifà viva in questo periodo: «pel D. Carlos vorrei prima ac-
corciarlo rifacendo naturalmente qua e là alcuni squarci et., et.». Per far-
lo, è giocoforza ripartire dalla versione francese, e lavorare su quella. Per
fortuna, nel frattempo Verdi ha stipulato almeno una tregua con Du Lo-
cle. Non accetta di riprendere i rapporti con lui, ma si serve di Nuitter co-
me intermediario, scrivendo a lui perché riferisca a Du Locle, e ricevendo
soltanto da lui le risposte del librettista. Questa bizzarra collaborazione si
protrae per molti mesi: durante i quali Verdi, servendosi ora del vecchio
libretto ora delle varianti via via chieste da Du Locle, rimaneggia a fondo
gran parte della musica del 1867 (saltando quindi a piè pari i ritocchi del
1872 per Napoli), fino a dar vita a un Don Carlos francese in quattro atti,
con ballabili ad libitum. Soppresse l’atto di Fontainebleau, salvandone la
romanza «Io la vidi», che però a differenza di quanto aveva fatto Costa in-
serí nell’ex Atto II, mantenendole una funzione di aria di sortita da lui
giudicata necessaria in apertura del dramma anche come definizione del
personaggio. Ma soprattutto interviene sulla musica (compresa la romanza
di cui sopra), non tanto con l’intenzione – comunque presente e operante
– di darle, come scrisse, «piú concisione, piú nerbo», quanto per adeguar-

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la ai nuovi orientamenti nel frattempo intervenuti nel suo linguaggio, un


po’ sotto tutti gli aspetti, dall’armonia all’invenzione melodica, dalla fun-
zione affidata all’orchestra al modo di plasmare il canto sulla parola. De-
cisamente Verdi aveva avuto bisogno di tempo per qualcosa d’altro e di
piú che non una semplice revisione della partitura che fosse in grado di
sottoporla a tagli imponenti senza guastarla. Si direbbe anzi che i suoi in-
terventi (tolta la romanza spostata da un atto all’altro, e poco piú) piú che
dal problema dei tagli siano stati innescati dall’esigenza di dare alla sua
musica una vita migliore e migliori valenze drammatiche.
Al termine di questo lavoro, Ricordi riceveva quella che è d’obbligo con-
siderare come la versione definitiva del Don Carlo: l’ultima, comunque,
alla quale Verdi abbia lavorato direttamente. Tramontata l’ipotesi vienne-
se, nonché quella di dare l’opera rifatta a Parigi, si profilò l’esecuzione
alla Scala. In italiano, ovviamente: ad adeguare la traduzione di Achille
de Lauzières, morto a Parigi nel 1875, provvide Angelo Zanardini (1820-
1893), il cui ricordo si affida anche ai libretti scritti per Ponchielli e Ca-
talani ma soprattutto alle versioni ritmiche delle opere di Wagner edite
in Italia da Ricordi. La musica era la stessa della revisione per Vienna,
salvo il taglio ormai ufficiale e definitivo dei ballabili. Il Don Carlo anda-
to in scena il 10 gennaio del 1884 e pubblicato da Ricordi rispecchiava
senz’altro il punto d’arrivo di un processo maturato durante oltre un
quarto di secolo, seppure con cadenza irregolare. Infatti con la versione
di Milano l’ormai remoto Don Carlos diventa davvero, e non solo per la
grafia del titolo, Don Carlo: un’opera italiana, almeno in parte. Italiano è
il libretto, passato attraverso revisioni molteplici. Certo per quanto ri-
guarda lo stile – e la qualità – dei versi, ormai figli di troppi padri, ma
soprattutto per la ritmica decisamente non-italiana (con conseguenze fa-
cilmente intuibili, inevitabili, e rilevantissime, sullo stile stesso del canto
come della declamazione e sulla loro prosodia musicale) non è difficile
rendersi conto in molti luoghi che si tratta di una traduzione. E il segno
del grand-opéra resta in molti aspetti del testo. Intanto l’impaginazione
tipica del romanzo storico, il numero dei personaggi, la presenza di sce-
ne di massa anche imponenti. Il taglio dell’opera non è certo piú quello
di un melodramma, quali potevano essere stati a modo loro ancora Un
ballo in maschera e La forza del destino. Piuttosto Don Carlo rifatto si
schiera accanto a un grand-opéra vero e proprio, ancorché non scritto
per Parigi, qual è l’Aida, a ibridi fascinosissimi quali il secondo Macbeth
e il Boccanegra pure rifatto (ma in frontespizio ‘melodramma’ ancora

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nella versione 1881!). Nata francese, francese l’opera era sembrata voler
restare anche dopo interventi cosí massicci: ma trasformandosi sensibil-
mente da grand-opéra del Secondo Impero in opera moderna, e una volta
resa italiana in qualcosa di simile a quel ‘dramma lirico’ verso il quale
Boito stava portando Verdi con il progetto dell’Otello, che pure sembra
ripetere, in senso opposto l’itinerario Parigi-Milano percorso da Don Car-
lo attraverso i molti rifacimenti italiani.
Se questa versione, oltre che quella definitiva e piú autentica, sia anche
da considerarsi la migliore, è cosa ovviamente sottoposta al libero giudi-
zio di ognuno. Forse già all’epoca non tutti furono d’accordo, special-
mente per il taglio dell’atto di Fontainebleau, che sacrifica una musica
bellissima della quale gli atti superstiti mantengono echi eloquenti per
chi l’abbia appena udita, privi di significato per chi abbia seguito l’azio-
ne solo dal principio dell’ex Atto II, ora salito al rango di primo. Tant’è
vero che il 29 dicembre 1886 a Modena andò in scena (e fu poi edito an-
ch’esso da Ricordi) un Don Carlo italiano in cinque atti senza ballabili: i
quattro atti della versione di Milano (in tanta parte stilisticamente datati
1884), salva l’espunzione, o se vogliamo l’estrazione della romanza «Io la
vidi» preceduti dall’Atto I cosí com’era nel 1867, compresa la stesura ori-
ginaria della romanza stessa, che fra i pezzi di Verdi sembra quello desti-
nato all’esistenza piú peregrina e travagliata. Cosí, al pari di quanto suc-
cede per il Boris di Musorgskij, l’altro eccezionale, inesauribile work in
progress del teatro musicale ottocentesco, capita ormai spesso di assiste-
re non soltanto a esecuzioni – piú o meno integrali: ma questo è un pro-
blema connesso anzitutto alla consueta routine teatrale – della versione
di Milano o di quella di Modena, o magari anche della stesura rappresen-
tata a Parigi nel 1867, ma anche ad allestimenti che recuperano pezzi di
altre versioni, ivi comprese addirittura parti espunte durante le prove al-
l’Opéra. Quasi a ricordarci i molti ripensamenti, a volte perfino contrad-
dittori, di Verdi stesso. L’esecuzione che adesso Semyon Bychkov e il Tea-
tro Regio ci propongono aggiunge all’edizione di Milano due pezzi dell’o-
riginale parigino: una scena con coro di Elisabetta ed Eboli (in origine
subito prima del grande episodio danzato), posta in apertura dell’attuale
Atto II, e un episodio che subito dopo la morte di Rodrigo, nell’Atto III,
impegna Filippo, Carlo e un coro d’uomini prima che scoppi la sommos-
sa. Pochi minuti di musica in piú, un’occasione in piú per gettare un’oc-
chiata nell’officina di un Verdi inquieto ed esposto al dubbio come forse
mai in tutta la sua carriera.

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Daniele Spini

LE DIVERSE STESURE DEL «DON CARLOS» / «DON CARLO»


(tra parentesi quadre sono indicate le versioni rimaste ineseguite)

[Don Carlos - Versione originale ‘provvisoria’ in cinque atti senza ballabili


Libretto in francese di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Provata a Parigi nel corso del 1866].

[Don Carlos - Versione originale in cinque atti con ballabili


Libretto in francese di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Eseguita alla prova generale del 24 febbraio 1867
Soppressa una breve ripresa del coro nell’Atto III e inseriti subito dopo i ballabili].

Don Carlos - Versione originale ‘ufficiale’ in cinque atti con ballabili


Libretto in francese di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Eseguita alla prima rappresentazione, l’11 marzo 1867
Pesanti tagli rispetto alla precedente.

Don Carlo - Versione italiana in cinque atti con ballabili


Eseguita a Londra il 4 giugno 1867, con pesanti tagli, fra cui quelli dell’Atto I e dei ballabili
Eseguita integralmente a Bologna il 27 ottobre 1867
Identica alla precedente salvo la lingua.

Don Carlo - Versione italiana in cinque atti con ballabili


Libretto di Achille de Lauzières con ritocchi di Antonio Ghislanzoni
Eseguita a Napoli nel dicembre 1872
Ritocchi al duetto Filippo-Rodrigo nell’Atto II e al duetto Elisabetta-Carlo nell’Atto III.

[Don Carlos - Versione francese in quattro atti con ballabili ad libitum


Libretto rimaneggiato di Camille Du Locle
Preparata nel 1882-83 per un’esecuzione a Vienna mai realizzata
Soppresso l’Atto I; profondi rimaneggiamenti in tutti gli atti successivi; la romanza di Carlos
nell’Atto I è rielaborata e spostata all’ex Atto II (ora I); non si tiene conto delle modifiche
fatte per Napoli].

Don Carlo - Versione italiana in quattro atti senza ballabili


Libretto di Achille de Lauzières rimaneggiato da Angelo Zanardini
Eseguita a Milano il 10 gennaio 1884
Identica alla precedente salvo la lingua; definitivo il taglio dei ballabili.

Don Carlo - Versione italiana in cinque atti senza ballabili


Libretto di Achille de Lauzières e Angelo Zanardini
Atto I identico alla versione di Bologna 1867; gli altri identici alla versione di Milano 1884,
salvo il taglio della romanza di Carlo, riportata all’Atto I nella versione originale.

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«DON CARLOS» / «DON CARLO»: INESAURIBILE WORK-IN-PROGRESS

* Dal 1973 ha collaborato come critico Firenze. Attualmente è titolare di catte-


musicale con «La Nazione» di Firenze. dra al Conservatorio di Benevento. Ha
Dal 1985 è stato critico musicale titolare curato per qualche tempo le edizioni del
di «Il Mattino» di Napoli. Dal 1993 è vi- Maggio Musicale Fiorentino. È autore di
cepresidente del centro Tempo Reale di numerosi saggi e di articoli per le riviste
Firenze, fondato da Luciano Berio. Dal musicali piú importanti, e collabora per
1999 è direttore artistico dell’Orchestra note illustrative e conferenze con le mag-
Sinfonica Nazionale della Rai. Ha inse- giori istituzioni musicali italiane. Ha tra-
gnato Storia della musica alla Scuola di dotto e realizzato le versioni ritmiche ita-
Musica di Fiesole e al Conservatorio di liane di molti libretti in lingue straniere.

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