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Roberto d’Angiò nacque a Napoli nel 1278, da re Carlo II lo Zoppo e da Maria d’Ungheria.

Trascorse parte della giovinezza, dal 1288 al 1295, in Catalogna come ostaggio del re di
Sicilia Federico III d’Aragona, con cui Napoli era in guerra a seguito della rivoluzione del
Vespro del 1282.

Nessuno dei contendenti, Angioini di Napoli ed Aragonesi di Sicilia, aveva riconosciuto la


divisione del Regno, per cui all’epoca esistevano due “Re di Sicilia” (Rex Siciliae, ducatus
Apuliae et principatus Capuae). Entrambi rivendicavano per sé l’intero Regno di Sicilia nei
confini stabiliti a suo tempo da re Ruggero II d’Altavilla, ossia dagli Abruzzi alla Sicilia
insulare.

Rientrato in patria, Roberto nel 1297 venne designato dal padre quale erede al trono, ed
assunse il titolo di duca di Calabria. Nel 1299 riuscì a sconfiggere il re di Sicilia Federico III a
Capo d’Orlando; nel 1302 fu stipulato l’effimero trattato di pace di Caltabellotta, con cui gli
Angioini riconoscevano a Federico III il titolo di Rex Trinacriae, cioè della sola isola. Alla
morte di Federico, la Trinacria avrebbe dovuto tornare agli Angioini. Federico, però, non
rispettò la clausola ed infatti associò al trono il figlio Pietro II. Il conflitto sia diplomatico che
militare con Napoli continuò pertanto senza tregua.

Roberto (immagine tratta da Bastian Biancardi, Le vite dei re di Napoli, Venezia 1737)

Nel 1305 Filippo IV di Francia riuscì a far eleggere un papa francese, Bertrand de Got,
arcivescovo di Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V. Si giunse così al fatidico anno
1309. Morto Carlo II lo Zoppo, Roberto venne incoronato re. Intanto l’imperatore Enrico VII
(o Arrigo VII) decideva di scendere in Italia per ottenere l’investitura papale. L’evento
rinfocolò le insanabili ruggini tra guelfi e ghibellini. I Guelfi erano supportati da Roberto
d’Angiò, dal Papa, dal re di Francia Filippo IV il Bello, e dai banchieri toscani, che erano a
livello di grande potenza europea; i ghibellini erano supportati dall’imperatore e dal re
Federico III di Sicilia.

Roberto tentò di giungere ad un accordo con l’imperatore, che invece pretendeva da lui l’atto
di sottomissione. Arrigo quindi lo depose dai feudi provenzali e giunse anche a detronizzarlo,
ma l’atto fu dichiarato nullo dal papa (Roberto era re per investitura papale, e non imperiale:
il nonno Carlo I, ricordiamo, aveva accettato il Regno di Sicilia come feudo della Chiesa,
tributandole ogni anno l’omaggio della Chinea). Federico III fu a sua volta scomunicato dal
papa. A Roberto non rimase che schierarsi apertamente con i guelfi di Toscana e Lombardia
e di impedirgli con le armi di entrare in Roma per l’incoronazione. Clemente V si rifugiò nella
francese Avignone, trasferendovi la sede del Papato. Era un possedimento di Roberto
d'Angiò: Clemente V si riservava così una sia pur relativa autonomia dall’invadente re di
Francia. Roberto non si allontanò da Napoli ed attese lo scontro con l’imperatore.

Federico III a questo punto diede inizio alle ostilità sbarcando in Calabria ed occupando
diverse città, senza però concordare l’intervento con Arrigo, né dichiarare guerra a Roberto
(che considerava deposto). Fece quindi salpare la flotta alla volta di Napoli, dove però fu
sconfitto da quella di Roberto. Giunse allora la notizia della morte improvvisa
dell’imperatore. Federico si ritrovò così sconfitto e senza alleati.

Roberto visse dal 1319 al 1324 ad Avignone, per riaffermare la sua signoria sulle contee
provenzali, ottenendo l’appoggio del papa Giovanni XXII, e cullando il sogno di recuperare la
Sicilia. Anche Federico III non abbandonò mai il progetto di conquistare Napoli.
Semplicemente, nessuno dei due contendenti era però abbastanza forte da sopraffare
l’altro.

Roberto si dedicò quindi ad un’intensa attività volta a stabilizzare il regno, e realizzò anche
importanti opere, come l’ampliamento dei porti. Con lui il Regno, prostrato da lunghi decenni
di guerre contro l’altro Regno di Sicilia, aveva guadagnato in prestigio, ed il re stesso fu
detto “il Saggio” o il “Pacificatore dell’Italia”. Petrarca e Boccaccio lo ammirarono per la sua
dottrina, mentre Dante lo definì “re da sermone”, disprezzandolo per la politica
anti-imperiale.

Roberto, restituita al suo regno la stabilità politica, favorì l’arte e la cultura, e lasciò
monumenti che avrebbero vinto la sfida con il tempo, come il complesso del Monastero di
Santa Chiara in Napoli, che ancora oggi è uno dei posti più belli, suggestivi, ricchi di storia,
della città nonostante il bombardamento americano della II guerra mondiale. Il Re,
decidendo di realizzare Santa Chiara, “volle creare a Napoli un'architettura che fosse un
tempio di pace, luogo di riunione e di preghiera, sede sacra delle tombe di famiglia,
messaggio di grandezza per tutti i contemporanei e per i posteri.”[1]. In quel periodo, dal
1309 al 1343, Napoli vide crescere il prestigio, benessere economico, vivacità e creatività
culturale. Alla Corte di Napoli vissero Petrarca e Boccaccio, lavorarono Simone Martini, Tino
da Camaino e, quando era al massimo della sua fama, ricco e conteso, Giotto.

La leggenda vuole che la costruzione di Santa Chiara fosse il gentile omaggio del Re alla
moglie Sancha di Maiorca, molto religiosa. Fu lo stesso Roberto a lasciar circolare la
leggenda perché, come ogni Re in ogni tempo, voleva mostrarsi ai sudditi religioso ed
affettuoso consorte. Roberto seguiva e controllava di persona i lavori nei cantieri di opere
pubbliche del Regno, dove si spendeva denaro pubblico. Spesso veniva accompagnato dal
figlio Carlo, duca di Calabria, primogenito ed erede al trono, che però nutriva idee diverse da
quelle del padre sugli stili architettonici. Carlo era infatti sensibile alle nuove correnti che,
abbandonata la scarna e essenziale architettura francescana, e si rifacevano ai modelli
tradizionali del gotico classico e dei Certosini. Carlo nel 1325 fu il promotore della
costruzione della Certosa di San Martino in Napoli, così come Tommaso Sanseverino nel
1306 della Certosa di San Lorenzo a Padula, nel 1338 si iniziò la Certosa di San Giovanni
Battista a Guglionesi nel Molise, nel 1365 Giacomo Arcucci fece innalzare la Certosa di San
Giacomo a Capri, nel 1394 si iniziò la Certosa di San Nicola a Chiaromonte).

Si narra al riguardo che un giorno Carlo, mentre visitava col padre Roberto il cantiere di
Santa Chiara, si lamentasse per la povertà della Chiesa, ancora in costruzione senza gli
apparati dipinti e le sculture, con un tetto a capriate e le cappelle poco sporgenti all'interno,
esclamando che la chiesa gli sembrava una stalla. Re Roberto, offeso dalla critica del figlio,
avrebbe risposto aspramente: «voglia il Cielo che tu non debba essere il primo a mangiare
in questa stalla». Fu una tremenda premonizione: il figlio Carlo premorì al padre. Re Roberto
chiamò il migliore degli scultori, Tino da Camaino, per la realizzazione della tomba del figlio,
che l’illustre maestro compì tra il 1332 e il 1333.

Tomba di Carlo di Calabria, Tino da Camaino 1333, Napoli - Santa Chiara

Roberto morì a Napoli il 19 gennaio 1343 e gli successe la nipote Giovanna I.

Il bilancio storico del regno di Roberto può considerarsi positivo per quanto precede.
Occorre però mettere in rilievo la sua scarsa comprensione per la problematica collegata
alla Sicilia, intesa come la parte insulare del Regno, da lui sempre rivendicata e mai
ottenuta. Roberto non riuscì mai ad individuare una soluzione che non fosse la conquista, o
riconquista che a dir si voglia. Va anche detto che non fu certo il primo re di Napoli, né tanto
meno l’ultimo, a sbagliare in tal senso.

Frutto di tale politica conflittuale fu da un lato la progressiva ingerenza della Spagna sulla
Sicilia e poi, inevitabilmente su Napoli, sia il depauperamento dei due Regni che pensarono
più a combattersi che a svilupparsi, magari confederandosi per il controllo del Mediterraneo.
Forse i tempi non erano maturi.

La morte di Roberto d'Angiò (immagine tratta da Chroniques de France, Vienna, Museo


Nazionale Austriaco)

Altro aspetto critico del regno di Roberto d’Angiò fu quello relativo ai rapporti con la Chiesa.
Quest’ultima continuò ad esercitare una forte ed indiscussa supremazia, con possedimenti
sempre più ampi nel territorio del Regno. Gli effetti di questo eccesso di stato confessionale
continueranno a lungo a gravare su Napoli, dove la classe evoluta non crebbe con uno
spiccato senso dello stato, anzi si manifestò sempre come elite distaccata dal popolo,
fervidamente pro o contro la Chiesa, piùvoltata alle disquisizioni teoretiche che alle proficue
azioni. La nobiltà, da parte sua, poté continuare a ritenere il Re un vassallo della Chiesa, ed
ad ordire quindi trame e congiure al fine unico di mantenere, o aumentare i propri privilegi,
che garantivano rendite parassitarie.

Tutti questi veri o presunti difetti non investono solo la figura di Roberto, che in ogni caso fu il
migliore del suo casato, ma trovano cassa di risonanza nei comportamenti della società
meridionale nei secoli successivi, che mostrò limiti di sviluppo proprio a causa delle
condizioni economiche, sociali e civili inasprite dai problemi lasciati irrisolti, tra i quali: la
natura dello Stato, i rapporti con il potere temporale del Papato, l’incomprensione tra Napoli
e Sicilia.

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