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Nel 1287, anno in cui nacque Roberto d’Angiò, Roberto fu il terzo re angioino di Napoli.

Era nato a Santa


Maria Capua Vetere (precisamente Torre Sant’Erasmo), ma quasi tutta la sua infanzia la passò lontano dal
suo regno, dato che fu catturato da Ferdinando III d’Aragona e tenuto prigioniero in Catalogna. Poi, una
volta liberato, rimase per molto tempo in Provenza per riconquistare i territori persi in Francia.

Roberto amava la cultura e, secondo gli storici, fu anche un buon amministratore di Napoli. Fu
addirittura paragonato a Re Salomone. Data la vastità del suo regno e la difficoltà di comunicazione fra le
varie regioni, Roberto fu molto bravo nel lasciare a sua moglie Sancia ampie facoltà di governo su alcuni
territori del regno, così come si affidò spesso ad altri parenti per gestire gli affari del territorio. Fu
particolarmente attento al Piemonte e al centro-nord Italia, che all’epoca era una provincia angioina
governata da Napoli. Ricordiamo che furono proprio gli angioni a nominare Napoli capitale del Regno, dato
che individuarono nella città un punto perfetto di comunicazione con il resto d’Italia, mentre Palermo era
eccessivamente lontana dalle vicende europee.

Ci fu però un suo contemporaneo che proprio non lo amava. Stiamo parlando di Dante, che lo definì,
riassumendo il concetto con parole moderne, un uomo “tutte chiacchiere e distintivo“. Il Sommo Poeta era
contrario alle tendenze politiche degli angioini di Napoli. Anche la moglie, Sancia di Maiorca, lasciò la sua
traccia: fondò nel 1343 il primo orfanotrofio d’Europa, l’Annunziata. Poi passò la sua vita in convento. Allo
stesso modo, accadde un fatto unico nella storia di Napoli: l’erede di Roberto fu la prima donna sul trono di
Castel Nuovo: Giovanna I. In basso, nel cuore del Centro Storico, in ogni panorama della città spicca il tetto
verde della chiesa di Santa Chiara, che fu costruita sempre su ordine del re angioino. Proprio Santa Chiara
diventò poi la casa di tutti i regnanti napoletani: ancora oggi c’è la tomba di Roberto d’Angiò che riposa
vicino ai sepolcri di Ferdinando II di Borbone e di tutta la sua famiglia, unendo 400 anni di Storia cittadina
sotto un unico tetto che solo le bombe della II Guerra Mondiale furono capaci di distruggere.

Roberto d’Angiò, detto il Saggio


Alfonso Grasso
Roberto d’Angiò nacque a Napoli nel 1278, da re Carlo II lo Zoppo e da Maria d’Ungheria. Trascorse parte
della giovinezza, dal 1288 al 1295, in Catalogna come ostaggio del re di Sicilia Federico III d’Aragona, con
cui Napoli era in guerra a seguito della rivoluzione del Vespro del 1282.
Nessuno dei contendenti, Angioini di Napoli ed Aragonesi di Sicilia, aveva riconosciuto la divisione del
Regno, per cui all’epoca esistevano due “Re di Sicilia” (Rex Siciliae, ducatus Apuliae et principatus
Capuae). Entrambi rivendicavano per sé l’intero Regno di Sicilia nei confini stabiliti a suo tempo da
re Ruggero II d’Altavilla, ossia dagli Abruzzi alla Sicilia insulare.
Rientrato in patria, Roberto nel 1297 venne designato dal padre quale erede al trono, ed assunse il titolo
di duca di Calabria. Nel 1299 riuscì a sconfiggere il re di Sicilia Federico III a Capo d’Orlando; nel 1302 fu
stipulato l’effimero trattato di pace di Caltabellotta, con cui gli Angioini riconoscevano a Federico III il
titolo di Rex Trinacriae, cioè della sola isola. Alla morte di Federico, la Trinacria avrebbe dovuto tornare
agli Angioini. Federico, però, non rispettò la clausola ed infatti associò al trono il figlio Pietro II. Il
conflitto sia diplomatico che militare con Napoli continuò pertanto senza tregua.
Nel 1305 Filippo IV di Francia riuscì a far eleggere un papa francese, Bertrand de Got, arcivescovo di
Bordeaux, che assunse il nome di Clemente V. Si giunse così al fatidico anno 1309. Morto Carlo II lo Zoppo,
Roberto venne incoronato re. Intanto l’imperatore Enrico VII (o Arrigo VII) decideva di scendere in Italia
per ottenere l’investitura papale. L’evento rinfocolò le insanabili ruggini tra guelfi e ghibellini. I Guelfi
erano supportati da Roberto d’Angiò, dal Papa, dal re di Francia Filippo IV il Bello, e dai banchieri toscani,
che erano a livello di grande potenza europea; i ghibellini erano supportati dall’imperatore e dal re
Federico III di Sicilia.
Roberto tentò di giungere ad un accordo con l’imperatore, che invece pretendeva da lui l’atto di
sottomissione. Arrigo quindi lo depose dai feudi provenzali e giunse anche a detronizzarlo, ma l’atto fu
dichiarato nullo dal papa (Roberto era re per investitura papale, e non imperiale: il nonno Carlo I,
ricordiamo, aveva accettato il Regno di Sicilia come feudo della Chiesa, tributandole ogni anno l’omaggio
della Chinea). Federico III fu a sua volta scomunicato dal papa. A Roberto non rimase che schierarsi
apertamente con i guelfi di Toscana e Lombardia e di impedirgli con le armi di entrare in Roma per
l’incoronazione. Clemente V si rifugiò nella francese Avignone, trasferendovi la sede del Papato. Era un
possedimento di Roberto d'Angiò: Clemente V si riservava così una sia pur relativa autonomia
dall’invadente re di Francia. Roberto non si allontanò da Napoli ed attese lo scontro con l’imperatore.
Federico III a questo punto diede inizio alle ostilità sbarcando in Calabria ed occupando diverse città ,
senza però concordare l’intervento con Arrigo, né dichiarare guerra a Roberto (che considerava deposto).
Fece quindi salpare la flotta alla volta di Napoli, dove però fu sconfitto da quella di Roberto. Giunse
allora  la notizia della morte improvvisa dell’imperatore. Federico si ritrovò così sconfitto e senza alleati.
Roberto visse dal 1319 al 1324 ad Avignone, per riaffermare la sua signoria sulle contee provenzali,
ottenendo l’appoggio del papa Giovanni XXII, e cullando il sogno di recuperare la Sicilia. Anche Federico III
non abbandonò mai il progetto di conquistare Napoli. Semplicemente, nessuno dei due contendenti era
però abbastanza forte da sopraffare l’altro.
Roberto si dedicò quindi ad un’intensa attività volta a stabilizzare il regno , e realizzò anche importanti
opere, come l’ampliamento dei porti. Con lui il Regno, prostrato da lunghi decenni di guerre contro l’altro
Regno di Sicilia, aveva guadagnato in prestigio, ed il re stesso fu detto “il Saggio” o il “Pacificatore
dell’Italia”. Petrarca e Boccaccio lo ammirarono per la sua dottrina, mentre Dante lo definì “ re da
sermone”, disprezzandolo per la politica anti-imperiale.
Roberto, restituita al suo regno la stabilità politica, favorì l’arte e la cultura, e lasciò monumenti che
avrebbero vinto la sfida con il tempo, come il complesso del Monastero di Santa Chiara in Napoli, che
ancora oggi è uno dei posti più belli, suggestivi, ricchi di storia, della città nonostante il bombardamento
americano della II guerra mondiale. Il Re, decidendo di realizzare Santa Chiara, “ volle creare a Napoli
un'architettura che fosse un tempio di pace, luogo di riunione e di preghiera, sede sacra delle tombe di
famiglia, messaggio di grandezza per tutti i contemporanei e per i posteri.”[1]. In quel periodo, dal 1309
al 1343, Napoli vide crescere il prestigio, benessere economico, vivacità e creatività culturale. Alla Corte
di Napoli vissero Petrarca e Boccaccio, lavorarono Simone Martini, Tino da Camaino e, quando era al
massimo della sua fama, ricco e conteso, Giotto.
La leggenda vuole che la costruzione di Santa Chiara fosse il gentile omaggio del Re alla moglie Sancha di
Maiorca, molto religiosa. Fu lo stesso Roberto a lasciar circolare la leggenda perché, come ogni Re in ogni
tempo, voleva mostrarsi ai sudditi religioso ed affettuoso consorte. Roberto seguiva e controllava di
persona i lavori nei cantieri di opere pubbliche del Regno, dove si spendeva denaro pubblico. Spesso
veniva accompagnato dal figlio Carlo, duca di Calabria, primogenito ed erede al trono, che però nutriva
idee diverse da quelle del padre sugli stili architettonici. Carlo era infatti sensibile alle nuove correnti
che, abbandonata la scarna e essenziale architettura francescana, e si rifacevano ai modelli tradizionali
del gotico classico e dei Certosini. Carlo nel 1325 fu il promotore della costruzione della Certosa di San
Martino in Napoli, così come Tommaso Sanseverino nel 1306 della Certosa di San Lorenzo a Padula, nel
1338 si iniziò la Certosa di San Giovanni Battista a Guglionesi nel Molise, nel 1365 Giacomo Arcucci fece
innalzare la Certosa di San Giacomo a Capri, nel 1394 si iniziò la Certosa di San Nicola a Chiaromonte).
Si narra al riguardo che un giorno Carlo, mentre visitava col padre Roberto il cantiere di Santa Chiara, si
lamentasse per la povertà della Chiesa, ancora in costruzione senza gli apparati dipinti e le sculture, con
un tetto a capriate e le cappelle poco sporgenti all'interno, esclamando che la chiesa gli sembrava una
stalla. Re Roberto, offeso dalla critica del figlio, avrebbe risposto aspramente: «voglia il Cielo che tu non
debba essere il primo a mangiare in questa stalla». Fu una tremenda premonizione: il figlio Carlo premorì
al padre. Re Roberto chiamò il migliore degli scultori, Tino da Camaino, per la realizzazione della tomba
del figlio, che l’illustre maestro compì tra il 1332 e il 1333.
Roberto morì a Napoli il 19 gennaio 1343 e gli successe la nipote Giovanna I.
Il bilancio storico del regno di Roberto può considerarsi positivo per quanto precede. Occorre però
mettere in rilievo la sua scarsa comprensione per la problematica collegata alla Sicilia, intesa come la
parte insulare del Regno, da lui sempre rivendicata e mai ottenuta. Roberto non riuscì mai ad individuare
una soluzione che non fosse la conquista, o riconquista che a dir si voglia. Va anche detto che non fu certo
il primo re di Napoli, né tanto meno l’ultimo, a sbagliare in tal senso.
Frutto di tale politica conflittuale fu da un lato la progressiva ingerenza della Spagna sulla Sicilia e poi,
inevitabilmente su Napoli, sia il depauperamento dei due Regni che pensarono più a combattersi che a
svilupparsi, magari confederandosi per il controllo del Mediterraneo. Forse i tempi non erano maturi.
Altro aspetto critico del regno di Roberto d’Angiò fu quello relativo ai rapporti con la Chiesa. Quest’ultima
continuò ad esercitare una forte ed indiscussa supremazia, con possedimenti sempre più ampi nel
territorio del Regno. Gli effetti di questo eccesso di stato confessionale continueranno a lungo a gravare
su Napoli, dove la classe evoluta non crebbe con uno spiccato senso dello stato, anzi si manifestò sempre
come elite distaccata dal popolo, fervidamente pro o contro la Chiesa, più voltata alle disquisizioni
teoretiche che alle proficue azioni. La nobiltà, da parte sua, poté continuare a ritenere il Re un vassallo
della Chiesa, ed ad ordire quindi trame e congiure al fine unico di mantenere, o aumentare i propri
privilegi, che garantivano rendite parassitarie.
Tutti questi veri o presunti difetti non investono solo la figura di Roberto, che in ogni caso fu il migliore
del suo casato, ma trovano cassa di risonanza nei comportamenti della società meridionale nei secoli
successivi, che mostrò limiti di sviluppo proprio a causa delle condizioni economiche, sociali e civili
inasprite dai problemi lasciati irrisolti, tra i quali: la natura dello Stato, i rapporti con il potere temporale
del Papato, l’incomprensione tra Napoli e Sicilia.

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