Analisi
Analisi dell’interpretazione
Le nuove metodologie
Giovanni Umberto Battel
1. Introduzione
Mancando metodi d’indagine e strumenti critici a livello
scientifico, la competenza dell’interprete non è definibi-
le con chiarezza. Gli studi tradizionali sull’argomento si
limitano inevitabilmente alla sfera delle ipotesi soggetti-
ve convalidate, se così si può dire, dal solo prestigio
artistico, didattico o critico del relatore.
La situazione attuale, data la diffusione della cultura
musicale e l’aumentato numero di esecutori di ottimo
livello, sembra matura per il passaggio, anche in questo
campo, da una competenza analitico-musicale intuitiva a
una competenza scientifica.
Quanto è avvenuto, recentemente e in particolare negli
anni Ottanta, nel campo dell’analisi musicale ha aperto
le nuove frontiere della ricerca in questo campo: alludo
alla rottura del tradizionale isolamento degli studiosi del
settore, all’avvento delle nuove tecnologie informatiche
applicabili anche alle discipline umanistiche, alla cre-
scente autonomia teorica e metodologica dell’analisi
musicale e alla conseguente disponibilità degli operatori
dei diversi settori (composizione, esecuzione, didattica,
musicologia) a valutarne l’importanza.
A partire dagli anni Ottanta diversi metodi analitici ini-
ziano a diffondersi (Bent-Drabkin, 1990; Dal Monte-
Baroni, 1992), e diviene gradualmente possibile distin-
guere tra i molteplici usi dell’analisi e determinare fina-
lità specifiche. In questo contesto si afferma gradual-
mente il concetto di scientificità dell’analisi, la disciplina
assume una propria indipendenza teorico-metodologica
e un maggior rigore operativo. Oltre a questi presuppo-
sti musicologici, un grande impulso, nella direzione
indicata, viene dalla rivoluzione tecnologica introdotta
dall’avvento del computer e dal suo impiego in ogni set-
tore. L’analisi dell’interpretazione può essere vista a
questo punto come un particolare settore della più
generale disciplina analitico-musicale.
La scientificità o meno dell’analisi dell’interpretazione
non rappresenta un sistema critico per realizzare even-
tuali graduatorie di valore fra gli artisti. Lo scopo è solo
quello di proporre un metodo verificabile, sottoponibile
a correzioni e mutamenti, e confortato dall’applicazione
ad un numero indefinito di casi.
Per studiare il risultato sonoro di ogni lavoro esecutivo è
necessario conoscere quali possono essere i parametri
su cui l’esecutore interviene e perché interviene in un
modo e non in un altro. Il primo problema è di facile
soluzione: un violinista, per esempio, può modificare
l’intensità di una nota, la durata, l’intonazione e può
produrre o meno un vibrato. Molto più complesso è
invece il secondo problema: la spiegazione delle scelte
interpretative. Dando per scontato che la funzione
dell’interprete è quella di comunicare all’ascoltatore il
senso dell’opera eseguita, la scelta dei mezzi utilizzabili
a questo fine, e di tutte le loro combinazioni possibili,
può derivare da infinite considerazioni; questo spiega,
almeno in parte, l’esistenza di diverse scuole interpreta-
tive e di molteplici modi esecutivi, più o meno convin-
centi. Ma le scelte esecutive non seguono il dominio di
un assoluto soggettivismo; ci sono tratti comuni, opinio-
ni condivise, giudizi simili, che accomunano i musicisti
e il pubblico. Spiegare scientificamente il perché di un
gesto interpretativo, in tutta la sua ricchezza di sfumatu-
re, può risultare difficile se non impossibile; ma se si
inizia a isolare i parametri analizzabili in un’opera musi-
cale, come per esempio le variazioni di durata, diventa
possibile, con i mezzi che oggi offre la tecnologia, inda-
gare sull’operato dell’interprete.
Proprio per l’importanza che lo strumento d’indagine a
questo punto assume, condizionando i risultati della
ricerca, divido questa rassegna in due paragrafi: uno
dedicato ai metodi di misurazione usati e un altro dedi-
cato alla presentazione delle teorie che poggiano su tali
metodi.
2. Strumenti di rilevazione dei dati sonori
Come riferisce Gabrielsson (1985) in un suo articolo, le
misurazioni fisiche della musica eseguita, che presenta-
no molte difficoltà tecniche, sono iniziate nel nostro
secolo. Nel 1902 Sears riuscì a misurare le durate modi-
ficando opportunamente un piccolo organo a canne: nel
retro di ogni tasto veniva conficcata una specie di spilla
di acciaio che, all’abbassamento del tasto, immergendosi
in una vaschetta di mercurio, chiudeva un circuito elet-
trico; di qui partiva un filo collegato a quattro scrittori
magnetici che scrivevano sulla membrana affumicata di
un kimografo. La durata dell’abbassamento del tasto
veniva così riportata con una precisione nell’ordine di
un centesimo di secondo. Nel 1920 Morton usò una tec-
nica simile per lo studio di esecuzioni di trilli e di ritmi
sovrapposti, come il tre contro due. In Germania
Hartmann nel 1932 misurò le durate, in due esecuzioni
pianistiche, del primo movimento della Sonata op. 27 n. 2
(Al chiaro di luna) di Beethoven, grazie alla pianola:
pianoforte automatico azionato dai rulli di carta perfora-
ti. Il foglio perforato contiene dei piccoli fori corrispon-
denti in posizione e lunghezza all’esatta altezza e durata
delle note. La misurazione delle durate può così essere
3
 Analisi
fatta direttamente sul rullo. Nel 1930 lo psicologo della
musica americano di origine svedese Carl Emil Seashore
(1866-1949), assieme ai suoi collaboratori presso la Iowa
University, introdusse nuove tecniche per studiare ese-
cuzioni con pianoforte, violino e voce umana. Quelle
pianistiche furono studiate per mezzo dello Iowa Piano
Camera. Una leggera striscia di legno di balsa fu incol-
lata all’estremità di ciascun martelletto, ogni striscia
aveva un foro. Una lampadina posizionata sotto i mar-
telletti, quando il martelletto iniziava la sua corsa e il
legno bucato percorreva una stretta zona, faceva passa-
re attraverso il foro un ristretto fascio di luce che
impressionava una pellicola in movimento costante; un
altro fascio veniva generato quando la parte finale
dell’estremità del legno bucato finiva di percorrere la
stessa zona, attimo corrispondente alla percussione del
martelletto sulla corda. Da queste due strisce di luce
sulla pellicola era possibile misurare le durate con una
precisione nell’ordine del centesimo di secondo e anche
le intensità relative derivate dalla velocità dei movimenti
dei martelletti. Furono studiate inoltre esecuzioni di pia-
nisti famosi, come Backhaus e Paderewski, registrate su
pianola come nei precedenti studi citati di Hartmann.
Anche esecuzioni di violinisti, fra cui Elman, Kreisler,
Menuhin e Szigeti, e cantanti furono studiate, attraverso
incisioni discografiche o registrazioni effettuate diretta-
mente nello studio appositamente preparato. Queste
analisi, oltre a dati sulle intensità e sulle durate, mostra-
vano anche dati relativi alle continue micro-variazioni di
frequenza, per la fine intonazione, e all’estensione del
vibrato. Tali strumenti di ricerca vennero abbandonati
dopo i lavori di Seashore, e anche il metodo sperimen-
tale nell’analisi dell’interpretazione musicale venne trala-
sciato dagli studiosi per qualche decennio. Gli studi sul
ritmo di Fraisse (1956) e i successivi studi di Bengtsson,
a partire dal 1969, danno nuovo impulso a questo meto-
do di lavoro, qualche anno dopo Gabrielsson (1973a)
(1973b) (1973c) pubblica una serie di studi sul ritmo.
Al di là dei metodi e delle ipotesi di lavoro di cui par-
lerò più avanti, vediamo gli strumenti utilizzati: per
quanto riguarda la produzione del suono non ci sono
ancora novità particolari e come riferisce Gabrielsson in
uno di questi articoli (1973a) i modelli ritmici venivano
prodotti con un pianoforte o con un tamburo e registrati
normalmente. L’importante novità risiede nell’uso del
computer per trattare i dati, creare scale di valutazione e
conf rontare i risultat i. Poco dopo Bengts son e
Gabrielsson (1980) usano uno speciale programma di
computer per trattare i dati, e lavorare sull’ipotesi che vi
siano, nella condotta del ritmo, alcune sistematiche
variazioni, definite SYVAR (“systematic variation”), che
si allontanano dalla meccanica regolarità. Parallelamente
studi sull’interpretazione vengono condotti da Shaffer
(1981) con uno strumento completamente nuovo dal
punto di vist a dell’analisi: u n pian oforte a coda
Bechstein collegato a un computer. Lo stesso strumento
viene usato da Clarke (1982) per uno studio sulla con-
dotta del tempo nel brano di Satie Vexations. In questo
articolo e in un altro studio di Shaffer, Clarke e Todd
(1985) sul metro e il ritmo nell’esecuzione pianistica tro-
viamo la descrizione dello strumento. L’azione di ogni
tasto viene controllata da due fotocellule: una collocata
in modo da essere attivata quando il martelletto lascia la
4
propria posizione di riposo o vi ritorna, l’altra situata in
modo da rilevare l’attimo in cui il martelletto colpisce la
corda. Lo stato di attivazione o disattivazione di tutte le
fotocellule viene letto da un computer PDP-12. L’attiva-
zione di ogni fotocellula viene rilevata con una precisio-
ne nell’ordine del millesimo di secondo e il suo stato
viene registrato. Tre parametri esecutivi possono essere
estratti dalle informazioni delle fotocellule: 1) il tempo
di attacco della nota che viene rilevato dalla fotocellula
superiore, dato che l’inferiore, registrando la partenza
del martelletto, misura l’inizio dell’abbassamento del
tasto e non l’inizio del suono; 2) la fine del suono e
quindi la durata relativa della nota, registrata dalla foto-
cellula inferiore quando il martelletto ritorna nella sua
posizione di riposo, tenendo presente che nel pianofor-
te a coda il doppio scappamento non fa tornare il mar-
telletto in questa posizione fintantoché non viene rila-
sciato il tasto, mantenendolo in una posizione interme-
dia dopo la percussione e col tasto abbassato; 3) l’inten-
sità della nota come misura della differenza temporale
tra l’attivazione della prima fotocellula e l’attivazione
della seconda: il tempo misurato è inversamente pro-
porzionale alla velocità del martelletto quindi all’inten-
sità del suono prodotto. Naturalmente altre due impor-
tanti caratteristiche esecutive vengono di conseguenza
rilevate: la contemporaneità o meno delle note di un
accordo, e la presenza di vari gradi di staccato o legato,
derivati da una articolazione discreta o continua dei
suoni. L’utilizzazione di questo strumento è fondamenta-
le per tutti i successivi studi, di cui parlerò più avanti, di
Clarke e Shaffer; anche Todd, per verificare l’ipotesi di
un modello interpretativo, prima per il ritmo (1985) e
poi per la dinamica (1992), usa il pianoforte con le foto-
cellule.
Come ha riferito Shaffer nel 1990 a Ravello, il computer
ha spianato la strada agli studi sull’interpretazione per-
mettendo la lettura di dati rilevati con i sensori elettroni-
ci posti sullo strumento o permettendo di filtrare e ana-
lizzare registrazioni presenti sul mercato. Con quest’ulti-
mo metodo si ampliano le possibilità di confronto, altri-
menti ridotte a sole prove di laboratorio, e si va verso
un numero statisticamente significativo di esempi,
confortati dal prestigio degli interpreti. Così ha operato
Repp (1990a) per uno studio che confronta i modelli di
deviazioni espressive temporali di diciannove pianisti
nell’esecuzione del Minuetto dalla Sonata op. 31 n. 3 di
Beethoven.
Un altro filone di studi sull’interpretazione, reso possibi-
le anche grazie alle potenzialità del computer fin dal
1978, è quello sull’analisi attraverso la sintesi svolto da
Sundberg, Askenfelt e Fryden (1983): in questo caso il
computer controlla un sintetizzatore vocale.
Questa rassegna sugli strumenti di lavoro nell’analisi
dell’interpretazione si conclude con la citazione del pro-
tocollo MIDI (G. Perotti, 1990): nel 1981 venne proposto
il primo protocollo di comunicazione specifico per lo
scambio di dati fra apparecchiature musicali elettroni-
che, e dal 1984 è stato stabilito uno standard che tutti i
produttori di apparecchiature con interfaccia MIDI sono
tenuti a rispettare; questo garantisce la compatibilità tra
strumenti di diverse marche. Dato che il codice MIDI
usa il linguaggio binario, è possibile lo scambio di dati
col computer: nel 1986 è stato così proposto un linguag-
 Analisi
gio musicale comune per lo scambio di informazioni tra
i vari programmi implementati sui personal computers,
e nel 1988 è stato ufficialmente definito lo Standard
Midi File che rende compatibili tra loro i vari software
musicali. Tutto ciò è di fondamentale importanza per i
più recenti studi sull’interpretazione, infatti il linguaggio
MIDI permette non solo di registrare i dati dell’esecuzio-
ne ma anche di comandare, via computer, gli strumenti,
e confrontare tra loro diverse ricerche; insomma un dia-
logo completo tra strumento e computer.
Lo Yamaha Disklavier Grand Piano (Battel, 1994) rap-
presenta l’ultimo anello di questa ideale catena di mezzi
per l’analisi dell’interpretazione, dato che in esso ritro-
viamo la stessa tecnica di dialogo strumento-computer
appena descritta, applicata a un normale pianoforte a
coda e non a uno strumento elettronico. Si può dire che
le difficoltà per effettuare misurazioni fisiche sulla musi-
ca eseguita, ben evidenti da questa rassegna di studi,
sono, almeno per quanto riguarda un’esecuzione reale
al pianoforte, completamente scomparse alla fine degli
anni Ottanta.
3. Il metodo sperimentale
3.1 I primi lavori
Come si è già visto, i primi lavori risalgono all’inizio
secolo: Hartmann, nel 1932, fece dettagliate analisi di
esecuzioni pianistiche e trovò caratteristiche comuni
come anche differenze inter-individuali. Le conclusioni a
cui giunsero Sears e Hartmann sono abbastanza simili e
si possono così riassumere: le durate di note indicate
con valori simili vengono eseguite in modo non costan-
te e con notevoli varianti; i rapporti indicati dalla parti-
tura come 2:1 e 3:1 deviano nell’esecuzione in più o in
meno; l’indicazione legato viene realizzata attraverso
una sovrapposizione delle note vicine e cioè il tasto
viene rilasciato un po’ in ritardo; negli accordi le note
sono suonate senza una matematica sincronizzazione e,
nel caso di un pianista, si è rilevato che il basso negli
accordi veniva spesso suonato in anticipo rispetto alle
parti superiori. Sempre negli anni Trenta gli studi di
Seashore forniscono molti dati. Per esempio in un
Notturno di Chopin in 3/4 si riscontrò che il secondo
quarto, quando era in misure formate da tre unità di
quarti, veniva accorciato e, quando era in misure forma-
te da una metà e un quarto, veniva allungato. Si trovaro-
no rallentandi verso la fine delle frasi e accelerandi
all’inizio delle successive frasi. Il fraseggio veniva sotto-
lineato anche attraverso mezzi dinamici, mentre non si
trovarono consistenti relazioni tra intensità e accento.
Nell’esecuzione degli accordi fu riscontrata l’asincronia,
a volte con il basso a volte con l’acuto in anticipo.
L’ambito di deviazione nella sincronia delle note di un
accordo è stata misurata nell’ordine di un ± 30 msec., a
parte alcuni casi di varianti maggiori dipendenti dal pia-
nista o dal pezzo eseguito. Furono trovate differenze
inter-individuali e caratteristiche comuni in molte altre
variabili esecutive, e la consistenza intra-individuale, tra
ripetute esecuzioni dello stesso pezzo, fu generalmente
alta. Per quanto riguarda i dati relativi ad esecuzioni di
cantanti e violinisti, furono trovate importanti caratteri-
stiche inerenti la modifica del suono come intonazione,
vibrato e portamento, ma anche complesse relazioni fra
fattori comprendenti durate, altezze e caratteristiche
melodico-armoniche: il contorno di una frase fu spesso
un crescendo seguito da un diminuendo, si riscontraro-
no rallentandi alla fine delle frasi, più pronunciati alla
fine dei pezzi, e varie suddivisioni temporali. Come
si vedrà, molti dei problemi discussi oggi dai ricerca-
tori erano già stati trattati dagli studi del gruppo di
Seashore.
3.2 L’esecuzione del ritmo
Dopo gli studi pionieristici pubblicati da Gabrielsson nel
1973 il primo lavoro che si occupa specificamente
dell’ esecuzione del ritmo musicale è qu ello di
Bengtsson e Gabrielsson (1980). I due autori spiegano il
metodo usato per analizzare l’esecuzione del ritmo
basandosi sull’ipotesi, poggiante sulla lettura degli studi
precedenti, che l’interprete produca sistematiche varia-
zioni della durata degli eventi sonori in rapporto alla
stretta regolarità meccanica. Segnalo gli aspetti essenziali
e le novità più significative: ad esempio il ritmo ternario
di una semplice melodia svedese, in cui si ripete conti-
nuamente la figura , è stato eseguito con una sistema-
tica deviazione dal rapporto 2:1, risultando mediamente
1.78:1 (con variazioni da 1.97 a 1.53:1). Lo stesso con-
cetto è stato usato per descrivere un modello di SYVAR
(systematic variation) a livello più alto, cioè riferito alla
forma dell’intero brano (un periodo musicale di due
frasi di 8 battute ciascuna): l’esecuzione mediamente più
significativa è caratterizzata da un inizio un po’ lento, un
pronunciato rallentamento alla metà del pezzo (fine
frase), un certo accelerando all’inizio della seconda frase
e un ritardando finale. Naturalmente la struttura ritmica
e formale dell’esempio scelto è molto semplice, ma i
risultati sono stimolanti per ulteriori indagini con altri
pezzi di musica. Poco dopo Gabrielsson (1982) confer-
ma la riduzione del rapporto 2:1 attraverso altri esempi
musicali e in particolare, oltre ad altri canti popolari sve-
desi, con l’inizio della Sonata in La maggiore K. 331 di
Mozart in cui il rapporto , presente più volte nelle
prime battute, risulta eseguito mediamente con un rap-
porto situato tra 1.6:1 e 1.9:1.
L’articolo successivo di Bengtsson e Gabrielsson (1983)
si può dire rappresenti un punto d’arrivo naturale dei
precedenti lavori: vengono usate ben 15 melodie fra cui,
oltre a quelle già esaminate, anche un’aria dalle Nozze
di Figaro di Mozart, un minuetto di Beethoven, un
brano dal Concerto per organo in Sib maggiore di
Händel e altro ancora. Caratteristica comune di tutti i
brani scelti è l’avere un metro in 3/4 o 6/8. Innanzi tutto
va precisato che l’esecuzione meccanica e regolare non
può esistere nell’esecuzione dal vivo; però diventa una
specie di struttura di riferimento per comparare diverse
esecuzioni: se essa è la norma, le diverse esecuzioni
reali possono essere descritte come deviazioni da questa
norma. Naturalmente, affinché si possano chiamare
SYVAR, si deve trattare di deviazioni ricorrenti e non
casuali. Ecco alcuni esempi che possono indicare il tipo
di ricerca e di risultato ottenuto. Con il metodo già spie-
gato nel 1980 furono trovate varie SYVAR sia a livello di
nota (evento sonoro) che di movimento, di mezza misu-
5
 Analisi
ra e di misura. A livello di evento sonoro singolo il
modello ebbe un rapporto entro i valori di 1.70-1.85:1
(anziché il meccanico 2:1), ma quando la figura si trova-
va alla fine o all’inizio della frase allora era più vicino al
modello meccanico, e lo stesso valeva per un brano
dall’evidente carattere di marcia (quindi più meccanico).
Il modello anziché 3:1 fu eseguito entro valori 2.10-
2.70:1, il puntato fu inoltre reso più stretto all’inizio
della frase e più morbido verso la fine. A livello di
movimento ci furono molto esempi di differenti SYVAR:
il modello fu eseguito rallentando il primo e il terzo
movimento. Altri modelli furono eseguiti rallentando il
terzo movimento nel caso si presentasse un inizio in
levare e così via. Anche a livello di mezza battuta e di
battuta si trovarono simili modelli, un esempio dei quali
è quello lunga-breve-breve-lunga che rappresenta
l’interpretazione sottolineante la struttura di una frase in
quattro battute con una forma del tipo: inizio lento-
accelerando-rallentando finale.
Un punto di incontro in cui confrontare gli studi
sull’esecuzione musicale fu il seminario svoltosi a
Stoccolma nell’ottobre del 1982: un voluminoso scritto,
con allegati gli esempi musicali, (Sundberg, 1983) ce ne
dà un resoconto.
L’articolo di Bengtsson e Gabrielsson (1983) contenuto
in questo volume prosegue e integra i lavori che finora
ho analizzato: in particolare viene citato per la prima
volta il metodo dell’analisi attraverso la sintesi che ha
un’importanza centrale per tutti gli studi successivi. Le
risposte ai tests che Gabrielsson aveva proposto nei suoi
lavori del 1973 presentavano un problema caratteristico:
i giudizi degli ascoltatori su diverse esecuzioni non pos-
sono prescindere dalla globalità dell’interpretazione, ed
è difficile per non dire impossibile indagare quanto una
singola componente, per esempio una SYVAR, influisca
di per sé su tali giudizi. Gli effetti di ciascuna separata
variabile sono invece osservabili grazie al metodo della
sintesi: producendo una versione artificiale, con un sin-
tetizzatore, si può ottenere un adeguato controllo di
ogni rilevante variabile. Si può selezionare una singola
variabile, variarla sistematicamente negli esempi musica-
li sintetizzati e presentarla agli ascoltatori per il giudizio.
Questa è in breve la descrizione del metodo analisi
attraverso sintesi.
Nello stesso articolo gli autori puntualizzano un altro
problema lasciato precedentemente in sospeso: la consi-
derazione, analizzando le durate di note consecutive,
delle sfumature esistenti tra l’attacco di una nota e della
successiva. Questo problema è, come si può intuire, di
importanza centrale nell’esecuzione pianistica. La figura
rappresenta una schematizzazione dei possibili rapporti
suono-silenzio tra due note consecutive.
NOTA 1 NOTA 2
D if
D fi
D ii
LEGATO
STACCATO
PORTATO
6
[D=durate, i=inizio, f=fine] D-ii significa durata tra
l’attacco della prima nota e l’attacco della seconda, D-if
significa durata tra l’attacco della singola nota fino alla
fine della stessa, e D-fi significa durata tra la fine di una
nota e l’attacco della seguente. È chiaro che nel ritmo il
ruolo determinante è dato dai valori D-ii, però la perce-
zione musicale è senza dubbio interessata dal problema
suono (D-if) e non-suono (D-fi) entro gli attimi conse-
cutivi degli attacchi delle note (D-ii). Inoltre questa
distinzione riflette alcuni aspetti della notazione musica-
le che, per questo aspetto esecutivo, usa i termini: lega -
to, staccato e portato. Naturalmente esistono infiniti
gradi di sfumatura tra D-if e D-fi, il legato può perfino
essere così marcato che la durata D-if diventa più lunga
che D-ii; si crea così una sovrapposizione fra due suoni,
espediente normalmente usato a fini espressivi dal pianista.
L’articolo continua con la descrizione di alcuni esempi
di analisi mediante sintesi: in particolare parlerò del
caso della Sonata in La maggiore di Mozart già citata.
Come si era visto, attraverso l’analisi di ripetute esecu-
zioni, gli autori trovarono diversi livelli di variazione
dalla stretta meccanicità ritmica, a livello di nota, di bat-
tuta, di frase. Nell’esempio vengono presi i due profili
esecutivi più comuni tra tutte le esecuzioni, e vengono
preparate tre versioni sintetizzate: una semplicemente
meccanica e due secondo i due profili delle durate
variate. Viene anche aggiunto un leggero effetto di stac-
cato (D-fi=90% D-ii, nella parte melodica e 95% nelle
altre parti), ad esempio nel primo profilo per le note
seguite da una ribattuta, e anche per sottolineare la fine
di battuta 4 (semifrase). Per un’idea precisa del risultato
è ovviamente necessario ascoltare i brani allegati in
disco alla pubblicazione del 1983, ma anche il solo gra-
fico che riporto qui di seguito può illustrare bene il pro-
filo ritmico prodotto con questo metodo di analisi
dell’esecuzione. La linea continua a zig-zag rappresenta
il variare del profilo ritmico in rapporto alla meccanicità
visualizzata con la linea orizzontale.
FI
SE
1 2 3 4 5 6 7 8
Le conclusioni a cui giungono gli autori sono che la ver-
sione sintetizzata è senza dubbio più naturale di quella
meccanica, anche se molto resta da aggiungere affinché
sia somigliante in modo soddisfacente ad una reale ese-
cuzione. Per continuare la ricerca è necessario trattare
anche le altre variabili di ogni singolo suono. In ogni
modo i risultati fin qui ottenuti, manipolando solo certe
variabili della durata, confermano la validità del metodo.
Un caso in cui tali modifiche rappresentano la quasi
totalità del senso musicale è l’accompagnamento nel

valzer viennese: è risaputo che in questo ritmo ternario
il primo movimento viene accorciato, il secondo allun-
gato e il terzo rimane nei valori intermedi. Nella seguen-
te tabella, che propone sei possibili rapporti tra i tre
valori del ritmo ternario, il primo rapporto (33%-33%-
33%) rappresenta l’assoluta regolarità; i successivi rap-
porti, anticipando l’attacco del secondo movimento,
producono gradualmente versioni sempre più irregolari
nello stile del valzer; le versioni nn. 4 e 5 sembrano
essere le migliori.
Movimenti Dii %
1 2 3 importante la considerazione fatta a questo punto dagli
33 33
31 36
29 38
27 40
25 42
23 44
Nel caso del valzer è determinante anche il rapporto
legato-staccato; la prossima tabella mostra come tale
rapporto possa essere modificato variando il D-if in
modo da produrre note staccate o legate (visualizzate
con rettangoli rispettivamente più corti o più lunghi).
Gli autori hanno utilizzato un modello ternario di durate
con determinati rapporti D-ii (cfr. precedente tabella),
28%-39%-33%, applicando a esso diversi valori di D-if.
Movimenti D if
28% 39% 33%
1 I I I
2 I I s
3 I s I Clynes intende dimostrare che queste microstrutture
4 I s s
5
I s s
6 s I s
7 s s I pause lo interrompano solo momentaneamente. Una
8 s s s di un autore o di un altro attraverso il pulse, un passag-
[I=legato, s=staccato]
Alcune versioni appaiono all’ascolto nettamente impro-
babili, mentre la n. 4 si avvicina di più a quella che gli
autori hanno usato per la precedente tabella. In ogni
modo il fatto più importante non è trovare il perfetto
valzer viennese fra queste esecuzioni sintetizzate, ma
dimostrare l’importanza delle variabili manipolate nel
Analisi
caratterizzare il senso del movimento di valzer, oltre che
prendere coscienza delle quantità di tali variazioni.
Ulteriori possibili arricchimenti sono rappresentati ad
esempio dal considerare il tempo con un movimento
fluttuante e non rigidamente fisso, creando accelerandi
e decelerandi, dalla sincronizzazione non perfetta tra
melodia e accompagnamento (circa 20-30 msec. di asin-
cronia) e da altri interventi analoghi. In questo modo la
realizzazione della versione sintetizzata completa richie-
de una mole considerevole di manipolazioni per ottene-
re un’esecuzione che non sia banale o goffa. È molto
autori: ciò che è psicologicamente semplice e naturale è
33
fisicamente complesso, mentre il semplice fisicamente
risulta innaturale e complesso psicologicamente.
33 Proseguendo nell’utilizzazione di questa e di altre simili
metodologie per l’analisi dell’interpretazione è molto
utile ricordare questa asserzione; si eviteranno le facili
33
obiezioni, a tutta la metodologia sperimentale per l’ana-
lisi esecutiva, derivate dal confronto tra la complessità
33 del lavoro e la meravigliosa semplicità e istantaneità di
un’intuizione musicale ben riuscita.
33
3.3 Le microstrutture espressive e il compositore
33 L’articolo di Clynes (1983), l’ultimo della citata raccolta
(Sundberg, 1983), si occupa delle microstrutture espres-
sive presenti nell’esecuzione musicale, in particolare di
tre variabili: 1) la differenza di intensità tra diverse note
di un tema, 2) la distintiva forma d’intensità delle singo-
le note entro una melodia, 3) le deviazioni di durata. La
ricerca si avvale di un particolare programma per com-
puter che permette di modellare la forma dell’intensità
di note individuali e la loro durata. Secondo Clynes la
memoria a breve termine ci permette di confrontare tra
esecuzione meccanica e piccole variazioni, che non
sono specificate nella partitura, ma sono importanti per
una significativa comprensione della musica. Le loro
relazioni si raccolgono entro microstrutture. Le micro-
strutture sarebbero più facilmente percepibili dalla
mente umana che la macrostruttura, a cui molti studiosi
si sono dedicati. Attraverso una serie di esperimenti
possono, come dire, cristallizzarsi in una pulsazione
specifica per ogni autore: quello che lui chiama pulse
interno sarebbe la specifica firma del compositore, un
po’ come la pennellata nell’arte visiva. L’ambito tempo-
rale in cui si manifesta questo pulse è in cicli da 0.7 a
1.2 secondi (un battito di metronomo tra circa 50 e 84).
L’autore ritiene che esso venga ripetuto in modo auto-
matico dall’inizio alla fine del pezzo, e che eventuali
semplice scala per esempio può diventare caratteristica
gio neutrale prende l’aspetto mozartiano o beethovenia-
no attraverso il giusto pulse. Ecco un esempio di come
questa microstruttura può essere rappresentata, secondo
Clynes, per Mozart, Beethoven e Schubert, in un tempo
4/4: il rapporto di intensità si traduce in un abbas-
samento del volume sonoro rispetto alla prima nota
( -d B), la variazione di durata è espressa con un
riferimento teorico medio a 100.
7
 Analisi
Il pulse è riproducibile anche con altri metri e Clynes
offre tabelle analoghe a quella del 4/4.
Nel caso di note di diverso valore, le deviazioni di dura-
ta vanno applicate in proporzione; invece l’intensità è
considerata prevalentemente in base alla posizione
metrica della nota indipendentemente dalla sua durata. I
casi con rapporti ritmici più complessi devono ancora
essere studiati. In ogni modo Clynes è convinto che
anche se l’applicazione del pulse non è obbligatoria essa
migliora sempre l’esecuzione.
Prima di concludere il proprio articolo egli compie una
serie di interessanti osservazioni su particolari funzioni
espressive. A livello di microstruttura: 1) una nota di
minor intensità che segue una di maggior intensità va
eseguita legata alla precedente in misura maggiore che
nell’ordine opposto; 2) una nota suonerà più piano
dopo un suono di grande intensità che prima di esso
(effetto mascheramento, il cui grado dipende dal
tempo); 3) micropause vanno inserite tra le frasi e tra le
sezioni più grandi, oltre che prima di un inizio in levare
o prima di un piano subito. A livello di struttura: 1) la
generale tendenza ad accompagnare la melodia ascen-
dente con un incremento di sonorità va graduata a
seconda dell’autore e del brano: per esempio in
Beethoven è opportuno mantenere costante l’intensità,
mentre per Mozart viene suggerito un maggior crescen-
do nell’ordine di 4 dB per ottava, per Schubert fino a 6
dB; 2) l’alternanza tra battute scure e battute chiare
(intese come antecedenti e conseguenti), non indicata
ovviamente nella partitura, può essere per Mozart ripro-
dotta con un rapporto di 0.72, in Beethoven altri model-
li tendono a dominare, ad esempio crescendo e piano
subito. Dopo una lunga serie di esempi musicali, Clynes
riassume i diversi passaggi necessari per dare una forma
artistica ad una melodia eseguita tramite il computer:
• inserire note con il valore nominale scritto nella
partitura
• scegliere il tempo
• applicare il pulse per il particolare compositore
• inserire le micropause nei punti appropriati
• scegliere, sulla base di una particolare formula (cfr.
articolo), l’intensità di ogni nota
• aggiustare ad orecchio le ultime note della frase
• inserire crescendi, diminuendi e accenti dalla parti-
tura
• modificare le variabili di una o più note per formare
una particolare espressione
• se la frase si ripete, cambiare la ripetizione
• rallentare del 5% la prima nota all’inizio del pezzo
(non nella ripresa)
• ascoltare i risultati dopo ogni gradino e aggiustare i
parametri per migliorare il risultato.
8
Si può concordare con l’autore sul fatto
che, in questo modo, il computer diventa
uno strumento che può aiutare l’uomo a
pensare musicalmente.
Molti aspetti del lavoro di Clynes presenta-
no punt i di c ontatto con alt ri studi
sull’interpretazione, ma l’ipotesi che lascia
maggiori perplessità è quella sull’esistenza
del pulse del compositore. Altri studiosi si
sono occupati del problema arrivando a
contestarne l’esistenza.
Repp (1989) valuta , attraverso prove
d’ascolto, l’esistenza o meno del p u l s e ,
giungendo a negare che esso possa catturare l’essenza
del compositore. Thompson (1989) descrive i risultati di
una ricerca sperimentale sull’esistenza del pulse in alcu-
ni brani per pianoforte di Mozart e Beethoven. Egli
mette in rilievo come, a differenza di altri studiosi,
Clynes abbia focalizzato la propria attenzione su un
aspetto dell’espressione che non è in relazione con le
specifiche caratteristiche strutturali del pezzo. Per son-
dare come, nella realtà, musicisti professionisti interpre-
tano lo stile specifico dell’autore, Thompson ha fatto
eseguire a un pianista due pezzi, uno di Mozart e uno
di Beethoven, invitandolo a dare un carattere prima
mozartiano e poi beethoveniano ad entrambi. Gli ascol-
tatori non ebbero difficoltà a individuare lo stile corret-
to, e i commenti degli stessi e del pianista individuano
alcune precise caratteristiche dei due modi di eseguire:
beethoveniano significa con più pedale, maggiore esten-
sione dinamica, crescendo seguiti da piano subito e più
rubato; per essere più mozartiano invece il pianista
deve comunicare un generale clima di movimento, ese-
guire con più articolazione, maggiore aria tra le frasi e
con maggiore enfasi alla parte acuta per creare un colo-
re più chiaro. Questo dimostra l’importanza di fattori
espressivi legati a sistemi di stilizzazione che la teoria
musicale tradizionale, attenta principalmente alla struttu-
ra del pezzo, non definisce in modo soddisfacente. Il
pulse però è un modello molto più limitato di tutti i fat-
tori appena elencati. Thompson porta a termine alcuni
esperimenti concernenti la teoria di Clynes. Le conclu-
sioni portano a credere che sia difficile convalidarla
scientificamente. Per esempio l’ascoltatore è in grado
generalmente di individuare il pulse di Beethoven ma
non ritiene che migliori la qualità musicale dell’esecu-
zione; mentre il pulse di Mozart, che risulta essere il pre-
ferito, rappresenta in realtà un generale modello di
accentuazione tipico di tutta la musica tonale.
Clynes (1990) analizza dettagliatamente le critiche alla
sua teoria e pubblica le sue osservazioni in difesa del
pulse. Al di là dei problemi relativi alla validità della teo-
ria del pulse, vi sono in questo articolo considerazioni
importanti sul metodo per condurre ricerche sull’inter-
pretazione.
1) La precisione nella misurazione delle durate deve
avere una definizione di 1 msec. al massimo 2 msec. Se
non viene usato un suono sinu soid ale (Repp e
Thompson hanno usato un pianoforte digitale Roland)
bisogna tenere conto dell’influenza dei suoni armonici (i
bassi per esempio sono più ricchi di armonici) e modifi-
care di conseguenza i rapporti di sonorità: più il suono
è ricco di armonici e meno deviazione è necessaria per
 Analisi
ottenere lo stesso effetto. 1 È importante dividere il
pezzo in senso orizzontale e applicare il pulse alle sin-
gole voci pesandolo separatamente. I vari gradi di stac-
cato devono essere considerati separatamente per cia-
scuna nota e si possono stabilire eventuali regole di
variazione sulla base di considerazioni strutturali e
melodiche, il pulse è comunque indipendente dallo stac-
cato. Con queste e altre considerazioni Clynes dettaglia
dunque ulteriormente e assai minutamente la sua analisi
delle microstrutture.
2) Per quanto riguarda la presentazione acustica del
materiale registrato Clynes fa alcune osservazioni sulla
qualità dell’impianto di riproduzione, che deve essere
alta (con Dolby, DAT, ecc.); l’acustica della sala è altret-
tanto importante dato che per un pulse della durata di
un secondo il riverbero dovrebbe essere non più di
0.3/0.5 sec., cioè non più della metà. Per una appropria-
ta immagine spaziale del suono del pianoforte, con
l’ascolto in cuffia, la parte melodica predominante
dovrebbe essere inviata all’orecchio sinistro e l’accom-
pagnamento a destra; questo raccomandando che il
suono sia immaginato provenire sempre da davanti
anziché da dietro.
3) Le considerazioni musicali riguardano i brani usati da
Repp e Thompson per i tests; infatti viene contestato
l’uso di certi pezzi giovanili, e quindi meno rappresenta-
tivi, anche se l’aver trovato preferibile il pulse di Haydn
per il primo Beethoven può essere un argomento a
favore del pulse anziché contro; un’altra contestazione
riguarda l’uso di parti di Sonata, estratte dal contesto
generale, per esempio l’ultimo tempo, senza aver udito
il resto. Gli abbellimenti inoltre vanno considerati a
parte poiché si aggiungono alla microstruttura; per il
loro trattamento, come ad esempio per il pedale, l’auto-
re considera la possibilità di ulteriori studi. Sono da evi-
tare i passi con forte effetto di sincopato. Con queste e
altre analoghe argomentazioni Clynes tende dunque a
svalutare le critiche dei colleghi e a ribadire la validità
della sua tesi.
Repp (1990b), nella stessa rivista, risponde subito alle
critiche seguendo lo stesso schema di presentazione di
Clynes e tentando di demolirlo con argomenti contrari.
Successivamente un dettagliato e approfondito test, che
si propone di continuare questa ricerca e rispondere
almeno in parte ai quesiti appena riferiti, appare in un
altro articolo di Repp (1990c). Lo studio è più ampio dei
precedenti sia per il materiale musicale usato che per il
campione di ascoltatori. La descrizione del metodo è
senza dubbio utile per gli studi di analisi dell’interpreta-
zione.
Vennero scelte le battute iniziali di venti brani per pia-
noforte, c inque per og nuno dei q uattro auto ri
Beethoven, Haydn, Mozart e Schubert, usando questi
criteri: metro pari (2/4 e 4/4), struttura convenzionale
(generalmente frasi di otto battute), presenza di poche
pause o note lunghe, non presenza di particolari accenti
o graduali cambi nell’intensità e nel tempo, non movi-
menti lenti (considerando che il ciclo del pulse duri
circa un secondo). Il sistema per inserire nel computer i
dati delle partiture è formato da una tastiera elettronica
e da un programma denominato FORTE che permette di
registrare altezza, durata, intensità e pedale ON-OFF con
una definizione di 5 msec. e 0.27 dB. La musica viene
inserita dalla tastiera e il programma permette poi di
equalizzare le durate e le intensità lungo tutto il brano;
debbono invece essere effettuate a mano la sincronizza-
zione eventualmente imprecisa delle note, l’allineamen-
to del pedale con la giusta nota e, nel caso un brano
finisse con un’appoggiatura, la diminuzione di intensità
dell’ultima nota, quest’ultima è l’unica correzione
e s p r e s s i v a .2 Per ognuno dei venti pezzi furono poi
costruite le versioni con i pulse, in modo tale da avere
tutti i brani suonati con i quattro diversi pulse. Gli estrat-
ti vennero divisi in versioni AT (amplitude-timing), ver-
sioni A (solo amplitude) e versioni T (solo timing), per
valutare separatamente i giudizi sui due aspetti del
pulse, quello dell’intensità e quello della durata. Sul
fronte dei soggetti per il test, è importante segnalare il
fatto che vengono usati tre diversi gruppi: 1) gruppo
pilota, costituito da non musicisti (test AT); 2) gruppo
studenti (test AT); 3) gruppo esperti (test AT, A, T). Alla
presentazione della versione neutra fu chiesto anche il
grado di familiarità del pezzo (sì-no); la valutazione,
immaginando per la versione neutra un punteggio
uguale a zero, fu chiesta da +5 a -5, con l’indicazione di
fingere una valutazione dell’abilità di pianisti finalisti in
un concorso, per quanto riguarda la capacità di suonare
espressivamente in modo da aumentare le caratteristiche
individuali del compositore. I soggetti furono informati
che si trattava di esecuzioni generate dal computer e
non ci si poteva aspettare una qualità di livello umano.
Le tabelle per ogni risultato forniscono tutti i dati per la
discussione; riassumendo si può dire che per il gruppo
pilota ci fu una generica preferenza dei p u l s e d i
Beethoven e Haydn e un rifiuto di quello di Schubert;
per gli studenti l’ordine di preferenza fu Haydn,
Beethoven, Mozart, Schubert; per gli esperti fu preferito
di gran lunga il pulse di Beethoven nel test AT, nel test
A l’ordine fu Beethoven, Haydn, Schubert, Mozart e nel
test T il pulse di Mozart fu di gran lunga il preferito
seguito da Haydn, Beethoven e Schubert. Quest’ultimo
dato mi sembra particolarmente interessante perché il
p u l s e di Mozart ritmicamente riproduce la normale
accentuazione del metro 4/4 con la sottolineatura della
suddivisione bipartita. Molte altre considerazioni vengo-
no fatte dall’autore, in ogni modo non fu trovata una
relazione specifica tra pulse e compositore, quanto piut-
tosto tra valutazione sul pulse e singolo pezzo. Alcuni
modelli sono preferiti ad altri, ma ciò dipende in larga
misura dalla struttura della composizione. È importante
la dimostrazione che variazioni di durata e intensità
contribuiscono egualmente alla formazione di giudizio
sulla qualità musicale.
Repp conclude affermando, in linea con l’opinione di
vari autori quali Clarke, Gabrielsson, Palmer, Shaffer e
Todd, che gli studi sull’esecuzione musicale suggerisco-
no che le deviazioni espressive sono flessibilmente adat-
tate alla struttura musicale di una composizione. L’auto-
re ha a disposizione una grande tavolozza di espedienti
strutturali ed espressivi che suggeriscono diverse ed
appropriate variazioni nell’interpretazione; una rigida
microstruttura come il pulse difficilmente può coesistere
con tutte queste diversità.
9
 Analisi
3.4 L’analisi quantitativa e i prodotti discografici
La ricerca di una microstruttura costante come il pulse
nelle esecuzioni di grandi interpreti si può dire sia il
punto di partenza per un altro articolo di Repp (1990a).
In questo caso la verifica non usa il metodo dell’analisi
attraverso la sintesi, ma il metodo dell’analisi quantitati-
va dei dati ottenuti da registrazioni in commercio. Il
punto di forza del lavoro è rappresentato soprattutto
dalla quantità di esecuzioni studiate: diciannove inter-
pretazioni del M i n u e t t o dalla Sonata op. 31 n. 3 di
Beethoven dei più grandi pianisti del mondo. A diffe-
renza dei precedenti studi, c’è quindi una convalida dei
risultati statisticamente rilevante; inoltre non si tratta di
esecuzioni ottenute in laboratorio ma di registrazioni in
commercio che chiunque può reperire. Gli scopi della
ricerca sono tre: 1) cercare la presenza del pulse di
Clynes nelle esecuzioni reali, 2) studiare le variazioni
espressive di durata, 3) analizzare le valutazioni degli
ascoltatori sulle varie esecuzioni e confrontarle con le
reali variazioni di durata. Naturalmente vi sono alcune
limitazioni: date le oggettive difficoltà di misurazione su
esecuzioni registrate, vengono considerate solo le varia-
zioni di durata e non quelle d’intensità; inoltre per la
valutazione del pulse occorrono ovviamente molti brani
e diversi autori, mentre in questo caso viene condotto
un lavoro molto approfondito ma su un solo pezzo. I
dati e i conseguenti confronti sono molteplici. Vengono
riportate, oltre alle durate, le medie metronomiche,
misurando, a livello di semiminime, la durata di tutte le
note.
I risultati ci mostrano, per quanto riguarda il pulse, una
non consistenza tra le previsioni di Clynes e le esecuzio-
ni considerate: il modello prevedeva in sostanza un
allungamento del primo e del terzo quarto e un conse-
guente accorciamento del secondo. Si trovò una forma
simile solo nella prima e nella settima battuta del
Minuetto, in nessuna del Trio e della Coda; mentre un
generale accorciamento del secondo battito si può vede-
re un po’ in tutto il Minuetto. Questa seppur vaga somi-
glianza col pulse viene però, con una dettagliata analisi
dei momenti di tensione (dissonanze, note più acute) e
di rilassamento (consonanze e note più gravi), messa in
relazione con le richieste espressive specifiche di questa
melodia e non con un costante e autonomo modello di
deviazione ritmica. Questo porta alla conclusione già
letta nei precedenti articoli, per cui, secondo l'idea di
Schnabel, tutte le ricreazioni interpretative dipendono
dalla conoscenza della struttura e dalla conoscenza del
carattere della composizione.
Infatti l’analisi delle variazioni di durata porta diretta-
mente a confermare l’ipotesi di molti studiosi, quali
Clarke, Shaffer e Todd, che tali modelli espressivi derivi-
no direttamente dai fattori strutturali. In primo luogo, al
di là di individuali caratteristiche, c’è una larga aderenza
delle varie esecuzioni a uno standard comune: i confini
della frase vengono sottolineati con un rallentando del
tempo, proporzionale alla loro importanza; la seconda
parte del Minuetto viene eseguita più velocemente; la
nota strutturalmente importante, nel terzo movimento di
battuta 6,
10
Menuetto
Moderato e grazioso
1
cresc.
porta a un rallentando dovuto sia all’inflessione melodi-
ca che a l pia n o sub ito riportat o nella par titu ra;
quest’ultima caratteristica interpretativa risponde ai prin-
cipi, rilevati da Clarke, della sottolineatura di una nota
importante, melodicamente o armonicamente, con un
rallentando della nota stessa o con un rallentando della
nota che la precede, come in questo caso.
Il terzo e ultimo campo di indagine, la valutazione delle
esecuzioni, costituisce un importante tentativo di trovare
un metodo per studiare il complesso mondo del giudi-
zio sull’interpretazione. Gli insegnanti, i critici musicali, i
giurati di un concorso, esprimendo il loro parere su
un’esecuzione e ancor meglio su più esecuzioni dello
stesso brano, a prima vista, sembrano portarci nel
mondo della più assoluta soggettività. Al contrario, attra-
verso questo studio, sembra vi possa essere una certa
coerenza tra i vari giudizi e forse la variabilità risulta più
da una incapacità di usare adeguate scale di valutazio-
ne.
Quello che mi sembra maggiormente interessante è la
scoperta che la coerenza tra i giudici è dovuta al comu-
ne riferirsi a una ipotetica esecuzione standard, che
ognuno ha dentro di sé, che racchiude le basilari varia-
zioni espressive richieste dalla struttura musicale, senza
le quali l’interpretazione sarebbe percepita come atipica,
povera e antimusicale. Difficil mente può esistere
un’unica definitiva esecuzione di un dato pezzo, ci può
invece essere una tipica o media esecuzione che in
genere gli ascoltatori gradiscono. Le differenze di opi-
nione tra gli ascoltatori nascerebbero pertanto dalla
valutazione delle deviazioni da questo comune stan-
dard. Se le deviazioni sono grosse la reazione può esse-
re uniformemente negativa; nel caso si tratti di deviazio-
ni attribuite alla fantasia dell’interprete i giudizi divergo-
no sensibilmente e queste esecuzioni sono stimolanti
per lunghe discussioni; infine quando l’interprete si
avvicina allo standard immaginato dagli ascoltatori l’ese-
cuzione ottiene subito giudizi positivi del tipo “suona
bene”.
Si comprende così che l’uso di scale di valutazione può
essere un metodo valido per collegare l’analisi dell’ese-
cuzione con le ipotesi di giudizio, e più in generale per
tentare di fornire all’ascoltatore dei parametri condivisi-
bili per valutare l’interprete.
3.5 L’analisi quantitativa in laboratorio
Questi lavori effettuati su registrazioni commerciali sono
complementari a quelli svolti in laboratorio, anzi deriva-
no da essi. Infatti l’ipotesi dello stretto rapporto tra strut-
tura musicale ed espressione, confermato, secondo
Repp, dai grandi interpreti, è stato l’oggetto anche di
precedenti studi effettuati con il pianoforte munito di
sensori che ho descritto in precedenza. Shaffer (1978,
 Analisi
1981) aveva ipotizzato che l’azione esecutiva fosse data
da un modello in due fasi: prima interviene una rappre-
sentazione strutturale del testo e poi, da questa, nasce la
rappresentazione dei comandi che specificano i movi-
menti per eseguire. Questo meccanismo è sotto il con-
trollo di un interno cronometro. Partendo da questi
assunti e da un precedente esperimento di Michon
(1974), Clarke (1982) analizza l’esecuzione di due stu-
denti dei corsi superiori di un brano piuttosto singolare:
Vexations di Satie. Questo pezzo, composto nel 1893
circa, consiste di 840 ripetizioni di uno schema formato
da un tema monodico e due variazioni, e fu eseguito a
New York nel 1963 da cinque pianisti a turno, occupan-
do un tempo di 19 ore.
Le intenzionali deviazioni nella condotta del tempo
dell’esecuzione musicale, definibili deviazioni espressi-
ve, sono indicative della percezione della struttura musi-
cale da parte dell’esecutore, e servono a chiarirla
all’ascoltatore; lo studio sull’interpretazione diventa così
lo studio su come l’esecutore percepisce la struttura del
pezzo, rivelabile dall’analisi musicale, e su come questa
percezione è trasformata in deviazioni di durata. Come
ho già detto, il punto di partenza di questi studi è, per varie
ragioni tecniche e teoriche, l’analisi del tempo; le altre
dimensioni vengono studiate sempre in fasi successive.3
Agli esecutori fu chiesto in primo luogo di eseguire il
brano a diverse velocità, rimanendo entro una durata
totale di 15/25 secondi; e in secondo luogo di mantene-
re una relativa costanza nel tempo, entro ciascuna ese-
cuzione, evitando rubati eccessivi e cambiamenti repen-
tini di tempo. Povel (1977) aveva verificato sperimental-
mente che l’esecutore generalmente marca i confini di
gruppo con un temporaneo rallentamento del tempo
seguito da un accelerando; la presente ricerca di Clarke
conferma questi dati, mostrando che i due pianisti ope-
rano varie segmentazioni, diverse in parte tra loro, e
diverse in parte anche in rapporto alla velocità di esecu-
zione (più veloce è l’esecuzione e meno confini di
gruppo ci sono). Questi risultati vengono indicati come
conferma del rapporto struttura-interpretazione.4
Lo studio successivo, sempre sul ritmo, di Shaffer,
Clarke e Todd (1985), che utilizza un altro brano di
Satie: Gnossienne n. 5, produce risultati analoghi.
3.6 Un modello espressivo dall’analisi strutturale
L’ipotesi centrale di questi studi, che l’espressione sia
largamente determinata dalla struttura musicale, viene
studiata e confermata da Todd (1985), non solo rilevan-
do i dati delle esecuzioni registrate con il pianoforte col-
legato al computer, ma anche confrontandole con un
modello espressivo che l’autore ipotizza sulla base
dell’analisi strutturale del pezzo.
È necessario ricordare che questo primo esperimento,
come gli altri già visti, si occupa dell’espressione deriva-
ta dalle sole deviazioni temporali, rimandando a ricer-
che future l’altra principale variabile: l’intensità.
Per costruire l’ipotetico modello espressivo derivato
dalla struttura musicale, Todd utilizza una teoria analiti-
ca particolare: La teoria generativa della musica tonale
sviluppata dal compositore Lerdahl e dallo studioso di
linguistica Jackendoff (Lerdahl, Jackendoff, 1983).
Questa teoria sviluppa una grammatica che mette in
relazione composizione e struttura dal punto di vista
dell’ascoltatore. L’interprete e l’ascoltatore sono in grado
di operare una serie di generalizzazioni per cui i diversi
brani hanno strutture comuni.
In questo senso va letta la scelta di Todd e il suo riferi-
mento obbligato alla linguistica. Infatti Lerdahl e
Jackendoff collegano il metodo analitico che descrive
l’organizzazione gerarchica della musica tonale proposto
da Schenker (1932) con la teoria linguistica della gram-
matica generativo trasformazionale di Noam Chomsky
(1965, 1972, 1980).
Questo sistema sembra adatto per rivelare i punti in cui
inserire le modifiche espressive del tempo e il grado di
importanza, gerarchicamente inteso, di questi punti, così
da graduare conseguentemente il peso della modifica:
nel caso studiato da Todd la modifica temporale, studia-
ta su esecuzioni reali, è un rallentando.
Egli opera nel seguente modo: determina, attraverso le
regole del sist ema analit ico ideato da Lerdahl e
Jackendoff, gli accenti strutturali che emergono, a livello
della frase, in tutto il pezzo, successivamente stabilisce il
grado di importanza relativa di questi accenti creando
un’intera struttura ad albero. Il procedimento è più o
meno facile in rapporto alla complessità del pezzo.
Todd, nei suoi esperimenti con musiche di Mozart,
Haydn e Chopin, introduce rallentandi di fine frase,
coinvolgendo il livello della battuta o mezza-battuta.
I principali livelli di deviazione espressiva sono tre:
1) fluttuazioni a livello di nota per un livello locale;
2) rubato, o comunque livello intermedio, per le
d e v i a z i o n i concernenti il fraseggio; 3) variazioni di
tempo a livello globale che impongono l’andamento a
tutto il pezzo.
Il livello intermedio è certamente quello più caratteriz-
zante per l’esecutore, dove opera maggiormente la sua
capacità di analisi del brano. Secondo l’ipotesi di Todd
l’interprete: 1) capisce la struttura della musica organiz-
zandola in una forma gerarchica, cioè trova gli accenti
strutturali, in questo caso gruppi cadenzali attraverso
un’analisi armonica, e dà loro diversa profondità struttu-
rale; 2) per rendere esplicita questa struttura ritmica
generale del pezzo rallenta nelle conclusioni strutturali,
riflettendo in questi rallentandi il grado di importanza
gerarchica relativo alla loro profondità.
Immaginando di affidare questo compito a un compu-
ter, la prima parte del lavoro può essere fatta attraverso
la grammatica di Lerdahl e Jackendoff, come appena
descritto, la seconda con il modello di rallentando idea-
to da Todd. Il rallentando è progressivo, ha il culmine
nel punto analiticamente ritenuto saliente, e la quantità
di deviazione è in rapporto alla profondità strutturale
dei gruppi cadenzali. Todd considera che il rallentando
ai confini delle frasi sia il fattore espressivo più significa-
tivo nel campo delle durate anche per motivi extra
musicali: la frase tende a essere simile a un singolo atto
motorio in cui la tensione dei muscoli declina alla fine.
La forma dinamica della frase è la forma di un movi-
mento: nella recitazione o nel canto una frase diviene
un singolo atto respiratorio, infatti il respirare del can-
tante si può dire abbia dato origine al fraseggiare musi-
cale. Rallentare verso la fine sembra sia una naturale
tendenza che caratterizza tutte le sequenze motorie,
anche nei canti degli uccelli o nei ronzii degli insetti
11
 Analisi
(Kronman, Sundberg, 1987); il linguaggio umano utilizza
il rallentando come segnale di confine delle frasi anche
con valore gerarchico in rapporto alla struttura sintattica.
Si spiega così la naturalezza di questo effetto nelle dura-
te ai confini di frase.
Il confronto con le esecuzioni reali, solo a livello di
deviazioni ritmiche, ci mostra una buona concordanza
tra rallentandi proposti dal modello e interpretazione
umana. Le prevedibili discordanze dipendono soprattut-
to dal fatto che un interprete non opera a un solo livello
di analisi, ma usa altri espedienti, e combinazioni diver-
se tra essi, per evidenziare un modello espressivo più
completo. La corrispondenza tra l’analisi e la sua tradu-
zione in vari gradi di rallentando col modello di Todd
appare meno efficace nell’esecuzione di un brano
romantico. L’interprete si discosta in diversi casi dal
modello, sia per la scelta del punto in cui rallentare, sia
per la gradazione degli stessi rallentando. Per conclude-
re: il modello può essere applicabile con successo a una
musica strutturalmente semplice, in cui metrica, armonia
e melodia non creino rapporti contrastanti.
Lo studioso che ha recentemente teorizzato in modo
esauriente l’organizzazione in livelli gerarchici della
struttura temporale della musica è il già citato E.F.
Clarke. Gli articoli precedentemente analizzati dimostra-
no che lo spazio temporale è diviso in unità distinte ma
non in modo lineare: si va dalla forma dell’intero brano
alle sezioni, sottosezioni e così via, fino a sub-unità e al
livello della singola nota.
Clarke (1987) espone il sistema che emerge dagli studi
teorici da un lato e percettivi dall’altro. L’assunto princi-
pale è che la musica è organizzata gerarchicamente in
una rete di livelli interconnessi.
Molte teorie musicali concordano con questa afferma-
zione, ma l’approccio psicologico si è occupato soprat-
tutto di un livello definibile come medio senza curarsi
molto della gerarchia dei livelli. La novità introdotta da
Clarke è una possibile dimostrazione che le differenze
tra i diversi livelli non appartengono solo alla teoria
musicale, ma si riferiscono a significative caratteristiche
psicologiche.
Molti studiosi, fra cui Sloboda (1988), hanno dimostrato
che per varie ragioni il metro è l’aspetto saliente nella
percezione della struttura ritmica di un brano musicale:
1) viene assimilato indipendentemente dal valore relati-
vo delle note in esso contenute; 2) gioca un ruolo deter-
minante per la stabilità dei gruppi ritmici; 3) figure ritmi-
che che si appoggiano a una struttura metrica sono più
facilmente riproducibili dall’ascoltatore e dall’interprete;
4) figure ritmicamente ambigue tendono ad essere inter-
pretate in un modo metricamente accettabile.
Molti esperimenti, a partire da Seashore nel 1938
(Shaffer 1981, Bengtsson e Gabrielsson 1983, Sloboda
1983, Clarke 1985), mostrano che l’esecutore fa uso di
variazioni temporali in un modo altamente controllato e
riproducibile. Inoltre questo livello della condotta del
tempo non è un opzionale; infatti Seashore per primo
ha dimostrato che l’esecuzione perfettamente regolare è
quasi impossibile: chiedendo a un pianista di suonare
un brano metronomicamente, questi in sostanza riduce-
va quantitativamente le stesse deviazioni temporali che
effettuava nell’esecuzione spontanea. Shaffer (1981)
dimostrò che anche nella lettura a prima vista c’è un
12
profilo espressivo nella condotta del tempo, che rivela a
sua volta la comprensione del brano a un qualche livel-
lo strutturale. Tutte questi riscontri hanno fornito la base
per le ipotesi sull’origine e la forma delle deviazioni,
non solo temporali, espressive.
Il sistema di regole iniziato da Sundberg, Askenfelt e
Frydén (1983), permette di rendere più umana un’esecu-
zione artificiale, prodotta scrivendo la partitura per un
particolare programma per computer che la esegue poi
con un sintetizzatore, attraverso l’aggiunta di leggere
deviazioni temporali che modificano i rapporti perfetta-
mente proporzionali della notazione. Lo stesso si può
dire degli esperimenti già citati di Gabrielsson e di quelli
del pulse di Clynes e del modello di Todd (1985).
Il modello teorico proposto da Clarke e altri, che consi-
dera l’espressione un fenomeno generato dalla com-
prensione della struttura musicale nel momento dell’ese-
cuzione, ha bisogno di ulteriori conferme e verifiche.
Clarke e Baker-Short (1987) compiono un esperimento
in questa direzione. La variabile considerata è ancora
una volta il tempo, e lo studio è focalizzato sulla capa-
cità di imitare il rubato, cioè di riprodurre con precisio-
ne un profilo espressivo che si allontana dalla meccani-
ca regolarità. L’ipotesi degli autori è che se le informa-
zioni strutturali ed espressive si traducono poi in un
programma motorio che permette l’esecuzione, i musici-
sti dovrebbero essere facilitati nella riproduzione di
modelli espressivi di rubato coerenti con una plausibile
interpretazione strutturale. L’esperimento utilizza due
profili melodici in quattro casi: 1) profilo melodico ben
strutturato (ad esempio contenente una cadenza perfet-
ta) con rubato coerente (ad esempio con un rallentando
verso la conclusione della melodia), 2) profilo melodico
debolmente strutturato con rubato coerente, 3) profilo
melodico ben strutturato con rubato incoerente, 4) pro-
filo melodico debolmente strutturato con rubato incoe-
rente. I soggetti sono esperti studenti di pianoforte; lo
strumento usato per le esecuzioni è una tastiera che
produce il suono del pianoforte; le misurazioni, attraver-
so il collegamento via MIDI con il computer, danno
informazioni sulla dinamica, grazie alla già citata scala
per la velocità del tasto da 0 a 127, e sul tempo, con
una precisione nell’ordine di 1 millisecondo. Solo le
informazioni sul tempo vengono utilizzate nell’esperi-
mento.
In breve, i risultati mostrano che: 1) i soggetti sono in
grado di imitare tutte le versioni proposte; 2) quando il
profilo del rubato è ben formato le riproduzioni sono
molto vicine all’originale con scostamenti medi nell’ordi-
ne di soli 20 ms., tenendo conto che le semicrome
hanno un valore stabilito in 240 ms.; 3) quando il rubato
è incoerente le riproduzioni differiscono significativa-
mente dall’originale, andando verso un compromesso
tra il modello di rubato preferito dall’esecutore e quello
strano da imitare; il maggior numero di esecuzioni
diverse fra loro si trova nel caso del profilo melodico
ben strutturato. Quest’ultimo aspetto è particolarmente
interessante perché, nel caso del profilo melodico
debolmente strutturato l’esecuzione poco musicale
viene imitata meno precisamente ma con poca variabi-
lità: questa maggiore costanza, che nel caso dello stesso
profilo eseguito con il rubato più giusto, sembra deter-
minata dal fatto che, essendo entrambi i parametri, linea
 Analisi
melodica e rubato, poco strutturabili, il musicista li per-
cepisce come materiale antimusicale e tenta di riproporli
semplicemente “a pappagallo”. Infatti l’assenza di strut-
turazione non crea nel musicista alcun conflitto mentre
il contrasto tra struttura ed espressione sì. Quando uno
dei due parametri è strutturato l’esecutore è più prepa-
rato a trattare il frammento come struttura musicale.5
L’implicazione pedagogica conseguente è fondamentale:
gli allievi di strumento sono senza dubbio abili nell’imi-
tare la dimostrazione dell’insegnante, ma raggiungeran-
no un grado di stabile esecuzione espressiva solo quan-
do la struttura, che quell’espressione rende più esplicita,
verrà compresa assimilata.
Gli studi fin qui citati hanno toccato la sola variabile
temporale come espediente espressivo; Todd (1992)
propone un modello espressivo artificiale che concerne
la dinamica, completando idealmente il precedente
lavoro (Todd, 1985) che si occupava solo di un modello
per il tempo.
Lo scopo di questo modello è di creare uno strumento
di analisi musicale attraverso il confronto con l’esecuzio-
ne reale: i dati rilevati con il pianoforte dotato di sensori
suggeriscono una struttura e dei valori parametrici; que-
sti risultati vengono usati per produrre una esecuzione
che simula i dati originali; infine la simulazione viene
comparata con l’originale, ripetendo il ciclo fino a rag-
giungere una esecuzione simulata accettabile.
In questo caso il prodotto espressivo è una serie di cre -
scendi e diminuendi. L’ipotesi che il profilo tipico di
una frase sia spesso rappresentato da un
accelerando/ritardando, dimostrato da vari studi a parti-
re da Seashore, viene accoppiata a quella del profilo
dinamico crescendo/diminuendo. Questa similitudine
viene teorizzata sotto vari aspetti: 1) sembra corrispon-
dere a un principio di azione motoria che produce un
innalzamento della tensione, seguito dalla conseguente,
caduta in entrambi i casi; 2) ci sono molti sistemi fisici
che associano intensità e velocità, come l’interazione tra
martelletto e corda, e tra vento e superficie; 3) l’osserva-
zione delle analisi già condotte su entrambe le variabili
sembrano accoppiarle così: più veloce/più forte - più
lento/più piano. A questo proposito Todd cita gli studi
effettuati da Gabrielsson (1987) sul tema della Sonata di
Mozart in La K. 331 e le osservazioni di Shaffer (1981)
su esecuzioni del Preludio di Chopin in Fa# minore: in
entrambi i casi la lettura dei dati riportati conferma la
giustezza dell’accoppiamento; 4) anche la dinamica,
come la condotta del tempo, appare in funzione della
struttura, infatti più importante è il confine e più eviden-
te appare il diminuendo oltre al ritardando. Il risultato,
cioè la simulazione dei crescendi e diminuendi speri-
mentata sul Preludio in Fa# di Chopin, attraverso varie
strategie, giunge a una certa corrispondenza con l’ese-
cuzione reale presa come punto di partenza. Nonostante
questo buon risultato, Todd stesso pone limiti precisi a
questo progetto analitico: 1) è necessario analizzare più
brani e più esecuzioni per valutare la bontà del metodo;
2) i risultati non dovrebbero produrre solo un confronto
fra grafici ma vere e proprie esecuzioni sintetiche da
testare con l’ascolto; 3) la proposta di fraseggiare con
continui crescendo-diminuendo non può essere una
semplice e veloce regola per interpretare la musica.6
3.7 L’analisi mediante la sintesi
Più volte ho citato la definizione analisi attraverso la
sintesi. Si tratta di un metodo di studio per l’analisi
dell’esecuzione musicale sviluppato negli anni Ottanta.
In pratica la maggior parte dei lavori citati si basa su di
esso e, dato che in questo lavoro tale metodo occupa
un ruolo centrale, cito l’articolo di Gabrielsson (1985)
che ne dà una breve ma chiara spiegazione.
Il modello di ricerca ruota attorno all’asse esecuzione-
percezione e si compone di vari stadi.
1) Selezione delle esecuzioni. Scegliere buone e/o tipi-
che esecuzioni del pezzo di musica che si desidera stu-
diare.
2) Analisi delle variabili esecutive. Le variabili fisiche
dell’esecuzione sono molteplici: durate, intensità, fre-
quenza, inviluppo, vibrato delle note; quali e quante
variabili analizzare dipende dagli scopi e dalle ipotesi di
lavoro, così come dalle possibilità tecniche dello stru-
mento e dai mezzi di rilevazione.
3) Controllo dell’attendibilità, classificazione delle esecu-
zioni. È necessario classificare le esecuzioni in diverse
categorie, con diverse caratteristiche, al fine di capire
quali dati sono più importanti e quali meno fra quelli
raccolti.
4) Selezione delle variabili da studiare. Questo stadio
dipende dai due precedenti e termina temporaneamente
la parte analitica dello schema per dare spazio, con i
seguenti stadi, al giudizio degli ascoltatori.
5) Sintesi di versioni con sistematiche variazioni. In que-
sto stadio il ricercatore prepara diverse versioni del
pezzo di musica, in modo che le versioni differiscano
sistematicamente nelle variabili fisiche che si debbono
studiare (durate, intensità, ecc.).
6) Giudizi sulle versioni sintetizzate con attenzione
rivolta alle variabili selezionate.
7) Controllo dell’attendibilità del giudizio e della classifi-
cazione dei giudici. Bisogna usare metodi adeguati per
controllare l’attendibilità dei giudici e dei loro giudizi,
possibilmente classificando gli ascoltatori in diverse
categorie.
8) Studio delle relazioni tra esecuzione e variabili speri-
mentali.
9) Ripetizione fino al convergere dei risultati.
Lo schema proposto può essere ampliato o modificato,
ma il concetto principale rimane comunque questo:
l’analisi delle esecuzioni reali produce ipotesi da testare
attraverso le variazioni sistematiche inserite nelle versio-
ni sintetiche.
3.8 Il sistema di regole del Royal Institute of
Technology
A partire dal 1983, presso il Di partimento di
Comunicazione Linguistica e di Acustica Musicale
dell’Istituto Reale di Tecnologia (KTH) di Stoccolma, è
stato sviluppato, da A. Askenfelt, L. Frydén, J. Sundberg
e altri, un sistema di regole esecutive per studiare
l’interpretazione musicale, basato sul metodo dell’analisi
attraverso la sintesi appena descritto. Dalle prime for-
mulazioni alle attuali, il metodo si è via via arricchito,
attraverso diverse definizioni ed esperimenti, fino alla
13
 Analisi
descrizione formale (Friberg, 1991). Nel primo articolo
sull’argomento (Sundberg, Askenfelt, Fryden, 1983) gli
autori definiscono le regole usate dall’interprete regole
di pronuncia: se si immagina di tradurre la musica scrit-
ta in suono, riproducendo semplicemente le esatte altez-
ze e durate, come può fare un computer, il risultato sarà
senza dubbio musicalmente scadente. Cosa manca a
questa esecuzione n o m i n a l e? Le deviazioni espressi-
v e introdotte dal musicista nell’atto di suonare.
Come viene specificato in un altro articolo (Thompson,
Friberg, Fryden, Sundberg, 1986), la nascita e lo svilup-
po del sistema di regole è simile a una serie di lezioni di
musica, in cui l’insegnante indica allo studente come
migliorare le proprie capacità esecutive. In questo caso
l’allievo è il computer e l’insegnante è Lars Fryden,
coautore degli articoli citati, violinista di quartetto e
insegnante presso il Conservatorio della Swedish Radio
Edsberg (Svezia). Dopo aver ascoltato le esecuzioni
generate dal computer, egli ha suggerito come migliora-
re l’esecuzione; questi suggerimenti sono stati tradotti in
un gruppo di regole esecutive. In questo modo la com-
petenza musicale di Lars Fryden è stata considerata un
fatto ben documentato e un primo oggetto della ricerca.
In questi anni le regole sono state anche testate
(Thompson, Friberg, Fryden, Sundberg, 1986; Sundberg,
Fryden, Friberg, 1989; 1991) in esperimenti formali
d’ascolto con musicisti professionisti e studenti di livello
avanzato che hanno giudicato la qualità musicale delle
esecuzioni artificiali, assegnando delle soglie di udibilità
per ciascuna regola e delle quantità preferite di modifi-
cazione espressiva. Infine sono stati fatti, in qualche
caso, confronti con esecuzioni reali.
Dalle prime formulazioni il numero di regole è andato
ampliandosi, fino a comprendere oltre una ventina di
regole, e alcune di esse sono state modificate. La classi-
ficazione può seguire criteri diversi: il tipo di parametri
investiti, come ad esempio la durata o l’intensità; il tipo
di modifiche apportate; il tipo di note investite; il conte-
sto; lo scopo; la funzione musicale ipotizzata e così via.
In una presentazione del 1989 (Sundberg, Fryden,
Friberg), gli autori attribuiscono a ciascuna regola una
funzione nella comunicazione musicale; di qui la divi-
sione dell’intero sistema in due gruppi di regole: 1)
regole di differenziazione, che permettono all’ascoltato-
re di percepire la differenza tra i suoni, identificando
categorie di durata e di altezza; 2) regole di raggruppa -
mento, che aiutano l’ascoltatore a raggruppare i suoni,
in modo da formare unità più ampie quali motivi, semi-
frasi e frasi. Inoltre vi sono altre due categorie non in
relazione con la funzione di comunicazione musicale: a)
regole per la musica d’insieme, b) regole tecniche del
programma.
I parametri investiti dalle regole sono i seguenti:
1) la durata totale della nota espressa in millisecondi (o
in percentuale)
2) il livello dell’intensità espresso in decibel
3) la frequenza (intesa come fine intonazione) espressa
in cents
4) l’ampiezza del vibrato espressa in percentuale
5) la frequenza del vibrato espressa in hertz
6) l’articolazione tra le note.
Le regole possiedono due importanti aspetti riguardo la
loro funzione: 1) le note su cui agiscono, attuando le
14
modifiche; 2) la quantità di modifica indotta dalla rego-
la, che può essere modificata per mezzo del fattore di
moltiplicazione K, questo però rimane comunque fisso
al valore prestabilito per tutta la durata del pezzo.
Le regole sono ordinate, nel senso che la sequenza di
note viene processata in ordine cronologico da ciascuna
regola, a seconda di come appaiono nel programma,
solo quelle riguardanti la musica d’insieme operano per
ultime.
Le regole sono inoltre additive, nel senso che gli effetti
di ognuna, sulla nota interessata, vengono puramente
sommati; in questo modo, quando si usano molte rego-
le, può bastare una quantità più bassa di modifica di
quando si usa una sola regola.
3.9 Progetto per l’analisi dell’esecuzione pianistica
Applicando il metodo analitico poggiante su: 1) produ-
zione di esecuzioni artificiali, 2) confronto con esecuzio-
ni reali, 3) giudizio degli ascoltatori, sono state sviluppa-
te ricerche limitate al repertorio pianistico (Battel,
Bresin, 1993; Battel, Bresin, De Poli, Vidolin, 1993) che,
partendo dalle regole esecutive appena descritte, sfrutta-
no il disklavier prodotto dalla Yamaha (un normale pia-
noforte in grado di registrare e riprodurre i movimenti
della tastiera e di comunicare via MIDI con un compu-
ter). Il fatto che il suono delle esecuzioni artificiali sia
prodotto da un vero pianoforte e non da un sintetizza-
tore, ha richiesto diverse modifiche e un ampliamento
del sistema di regole esecutive, stimolando la ricerca
verso nuove ipotesi da testare (Battel, 1994).
4. Conclusioni e prospettive
Il metodo analitico sperimentale, secondo cui bisogna
modificare un fattore alla volta, mantenendo gli altri
costanti, richiede la produzione di versioni semplificate
in cui si manipola solo una variabile imponendo valori
costanti alle altre. Il prodotto ha inevitabilmente lo svan-
taggio di suonare abbastanza dissimile da una reale ese-
cuzione in cui tutte le variabili fisiche cambiano conti-
nuamente. Per ottenere dei dati sugli effetti di altre
variabili e sulla loro interazione sarà necessario proce-
dere a successivi esperimenti, prevedendo anche una
lunga serie di sessioni di lavoro. L’uso dello strumento
reale, per ora possibile solo nel caso del pianoforte,
agevola notevolmente la ricerca. Una interessante alter-
nativa, procedente lungo questa strada ma in direzione
contraria, è quella di manipolare l’esecuzione reale;
infatti grazie alla tecnica digitale oggi è possibile isolare
singoli fattori fisici e modificarli. Le versioni ottenute
possono essere sottoposte allo stesso modo al giudizio
degli ascoltatori: anche in questo caso si può effettuare
la manipolazione di un solo fattore mentre gli altri resta-
no invariati, ma questo essere invariati, non si presenta
come uniformità artificiale bensì in tutte le sfumature
contenute nella versione reale. Questo tipo di approccio
è stato finora poco o per nulla usato, anche se in futuro
potrebbe essere visto come complementare al preceden-
te in un lavoro che comprenda l’uso combinato dei due
metodi. L’interesse delle versioni reali manipolate, come
di quelle artificiali realizzati con il disklavier, risiede
 Analisi
soprattutto nel fatto che gli ascoltatori sono più motivati
e interessati verso stimoli naturali piuttosto che verso
prove da laboratorio.
L’utilizzazione delle misurazioni di variabili esecutive
porta a una importante e conclusiva considerazione: ci
sono molte credenze e assunzioni circa le caratteristiche
della musica eseguita, alcune corrette altre sbagliate; dal
momento che con i mezzi appena descritti si possono
fare misurazioni precise, sembra giusto fare affidamento
più su queste ultime che su pregiudizi e su giudizi sog-
gettivi.
NOTE
1 Mi sembra discutibile la critica riguardo l’insufficienza della
definizione dello standard MIDI: le gradazioni possibili nella
discriminazione dell’intensità sono 127; Clynes ritiene questo
livello una risoluzione molto povera, per inserire crescendo,
diminuendo, accenti, intensità della microstruttura a vari
livelli e in tutte le voci. Indubbiamente una maggiore defini-
zione, come in campo visivo, è sempre possibile, però biso-
gna tener conto della soglia di percepibilità del nostro udito
nel discriminare le differenze e soprattutto dell’importanza
musicale delle differenze da notare: ciò che ci fa percepire
un pensiero espressivo è il rapporto fra l’intensità delle note
in successione e non il loro valore assoluto. Inoltre proprio il
fatto che, per l’esecuzione pianistica, vi siano più voci con-
temporaneamente rende ancora più alto il numero di combi-
nazioni possibili anche con i soli 127 gradi di base.
2 Piuttosto discutibile mi sembra la scelta, operata da Repp per
la versione neutra, di non toccare la durata effettiva delle
singole note, mantenendola inalterata rispetto alla reale ese-
cuzione fatta da lui sulla tastiera per inserire la partirura: in
questo modo rimangono eventuali maggiori o minori gradi di
staccato fra le note e l’esecuzione, secondo l’autore, mantie-
ne qualcosa di umano che può innalzarne la qualità musica-
le. Ora, è vero che il pulse modifica solo le durate metriche
delle note, però la presenza o meno di diverse articolazioni
può attirare l’attenzione dell’ascoltatore sul parametro stacca -
to-legato rendendo meno attendibile la valutazione del pulse.
3 Bisogna osservare che la scelta di questo brano è significati-
va: l’ambiguità, non della notazione, ma della stessa musica è
notevole. Non ci sono indicazioni di movimento, di tempo e
segni di battuta, indicazioni di tonalità, né tanto meno legatu-
re e altri segni espressivi; melodicamente e armonicamente
non concede chiari punti di tensione-rilassamento. Queste
caratteristiche rendono il pezzo, paradossalmente, più idoneo
alla ricerca di una strutturazione, che sembra non esserci; e
l’interprete, di fronte a questo materiale quasi inerte, richia-
ma inconsciamente alla mente schemi e riferimenti acquisiti
nello studio di altri brani, non solo più ricchi di notazioni
espressive, ma anche più chiaramente strutturati. Questo
aspetto non mi sembra ben chiarito nell’articolo.
4 Secondo me invece non c’è una conferma così evidente,
almeno interpretando i picchi di durata più lunga come indi-
ce del punto esatto del confine. Se l’unico indice di separa-
zione strutturale è il rallentando più marcato, allora la con-
cordanza tra lettura dei due pianisti ed analisi non è così
forte come sembra a Clarke. È probabile che, attraverso
l’analisi, qui non effettuata, dell’uso di altre variabili quali
l’intensità, che producono specifiche accentuazioni e altre
inflessioni dinamiche, il rapporto esecuzione-struttura possa
riacquistare maggiore consistenza. Per studiare la concordan-
za tra struttura musicale e deviazioni ritmiche, secondo me
sarebbe necessario utilizzare brani più chiaramente strutturati
dal punto di vista metrico, melodico e armonico.
5 È importante sottolineare che per imporre un ‘rubato’ e defi-
nirlo appropriato, l’autore non si basa sul proprio o altrui
istinto, ma fa riferimento alle già citate teorie di Lerdahl e
Jackendoff e al modello di Todd.
6 Già queste tre considerazioni possono di per sé rendere
poco utilizzabile il modello, ma mi sembra si debba contesta-
re anche l’assunto di base: la concordanza o accoppiamento
tempo/intensità difficilmente può arricchire l’interpretazione
di un brano. Infatti proprio perché questo principio è quasi
naturale e istintivo, la pedagogia strumentale cerca gradual-
mente di controllarlo per rendere l’allievo padrone delle due
variabili, in modo indipendente, al fine di arricchire la pro-
pria tavolozza espressiva e di far uso dei mezzi espressivi
dosandone, e non solo sommandone, le caratteristiche. Il
caso contrario, in cui un rinforzando è accompagnato da un
r a l l e n t a n d o , meglio definito come s o s t e n u t o , è talmente
comune, e spesso musicalmente necessario, che mi sembra
pericoloso inserire come defoult il modello dinamico propo-
sto da Todd.
Al fine di confermare la propria ipotesi Todd afferma che
l’espressione segnata nella partitura spesso non trova diretta
relazione con la reale esecuzione, e questo solo perché in un
punto di un’esecuzione riscontra un piccolo crescendo al
posto del diminuendo prescritto. Qui, secondo me, Todd
sbaglia perché l’esempio citato può essere solo un’eccezione
e comunque non fa testo. Le indicazioni dell’autore fanno
parte della struttura del brano, sia che la enfatizzino sia che
creino un voluto contrasto.
15
 Analisi

16 16
 Opera
L’intermezzo sinfonico dei Troyens:
questioni storiche, musicali e drammaturgiche
Maurizio Biondi
1. Opera e modello letterario
Berlioz trasse il libretto dei suoi Troyens direttamente
d a l l ’E n e i d e di Virgilio rielaborando temi del poema
emblematici quanto diversi: la caduta di Troia e l’amore
tra Enea e Didone. Nell’opera i due momenti si trovano
direttamente affiancati, tanto che alla notturna scena di
suicidio che conclude l’episodio troiano (nn. 14-16)
segue e si contrappone — con netta frattura narrativa,
ma simbolica integrazione di opposti — la solare ceri-
monia che apre l’episodio cartaginese (nn. 17-23). In
questa fusione veramente atipica di episodi relativamen-
te indipendenti potrebbero essere intervenuti, tra gli
altri, due fattori complementari: da una parte, l’impossi-
bilità di ritagliare dall’enorme e composita materia lette-
raria un segmento più ampio e continuo, dall’altra, il
desiderio di superare la secolare tradizione operistica —
a Berlioz nota almeno nell’esempio della D i d o n d i
Piccinni1 — che riduceva il soggetto virgiliano alla sola
storia d’amore del IV libro. Nei Troyens la vicenda di
Enea e Didone appare reintegrata in un più vasto conte-
sto epico, accanto a quelle di altri personaggi e di intere
collettività, quale espressione del grandioso e sovraindi-
viduale tema del fatum. Proprio nel frammentario acco-
stamento di momenti irrelati l’opera si delinea come un
tentativo di interpretazione globale del poema.
Al tempo stesso la scelta del dittico prefigura il carattere
eterogeneo e discontinuo della rielaborazione librettisti-
ca, la particolare dialettica di rispetto e riformulazione
del modello letterario che caratterizza tutta l’opera e
trova emblematica espressione nel trattamento di un
decisivo passaggio del IV libro: la caccia reale durante
la quale Giunone, in accordo con Venere, scatena una
violenta tempesta allo scopo di far smarrire Enea e
Didone e costringerli a cercare rifugio in una grotta
dove, per propiziatorio intervento divino, diverranno
amanti. Berlioz interpretò questa particolare scena di
caccia — priva di spunti dialogici, ma densa di sugge-
stioni e di risonanze simboliche — nella forma di un
intermezzo sinfonico precisamente correlato a un’azione
scenica: si tratta della celebre pantomima Chasse Royale
et Orage. Il quadro, che inizialmente apriva il IV atto,
mutò poi forma e collocazione all’interno dei Troyens à
Carthage (la versione parziale presentata nel 1863 al
Théâtre-Lyrique) per poi scomparire dopo la prima non
senza aver attirato il giudizio negativo di gran parte
della critica per l’assenza di un fondamentale mezzo di
espressione teatrale: il canto dei personaggi.2
L’atipico ricorso a un intermezzo pantomimico non è
spiegabile solo come adesione al modello letterario,
dato che all’inclusione del passo virgiliano si accompa-
gnò una radicale riformulazione dell’originale contesto
narrativo. Se nell’Eneide la festa alla corte di Didone e la
caccia reale stabiliscono gli estremi di una parabola con-
sequenziale, nei Troyens il dialogo della regina con la
sorella (n. 24) precede l’arrivo di Enea, l’incontro dei
futuri amanti trapassa direttamente nell’allegoria erotica
(nn. 28-29), mentre la festa, con la sua atmosfera di
inquietudine e di passione inespressa, si colloca alla
fine (nn. 32-37), in una sorprendente inversione conce-
pita forse per risolvere il carattere metaforico della cac-
cia nell’eloquenza della parola cantata. La scena
d’amore che Virgilio “aveva dimenticato”3 — e che
Berlioz derivò dal Merchant of Venice di Shakespeare —
assunse il ruolo di vincolante momento narrativo, collo-
cato strategicamente alla fine dell’atto come culmine
dell’accumulo tensivo dei numeri precedenti, mentre la
caccia perse il carattere di netta cesura tra un ‘prima’ e
un ‘poi’, per diventare momento quasi accessorio, incu-
neato verticalmente nella vicenda a causa anche dell’eli-
minazione di quel dialogo tra Venere e Giunone che in
Virgilio introduce e giustifica compiutamente l’evento.
Una stessa mancanza di connessioni è evidente rispetto
alle scene successive: la precipitazione tragica che nel
poema segue il congiungimento degli amanti non era
confacente al ritmo narrativo dell’opera e venne differita
dal momento evasivo del balletto tradizionalmente
richiesto nel IV atto di un grand-opéra.
Si potrebbe però dire che le cosmiche e sconvolgenti
conseguenze dell’amore erano già state sviluppate nella
scena che vede Enea e la sua armata lanciarsi in difesa
di Didone contro l’orda del pretendente dinastico Iarba
(n. 28): un passaggio ideato da Berlioz allo scopo di
avvolgere l’incontro dei futuri amanti nella vorticosa
tensione di un finale d’atto, ma che non manca di con-
nessioni con il modello letterario. La Renommée che
all’indomani della vittoria diffonderà “au loin la honte et
la mort d’Iarbas” discende direttamente dalla Fama, il
mostro alato che in Virgilio porta la notizia del congiun-
gimento silvano degli amanti fino al re numida, accen-
dendone l’ira e innescando la catena di eventi che por-
terà alla morte di Didone (Eneide, V, 173 sgg.). Oltre al
preciso riferimento testuale anche la musica rimanda al
poema nello svelare l’implicazione tragica che si cela
dietro il tono positivo degli avvenimenti, collegando
così scena guerresca e caccia reale nella rappresentazio-
17
 Opera
ne di uno stesso evento ‘fatale’: l’annodarsi apparente-
mente glorioso, ma in realtà funesto, dei destini di Enea
e Didone. Diverse sono la sostanza e l’angolatura dei
momenti, ma simile è la collocazione dell’amore in un
contesto dilatato e in una situazione di estremo allarme,
come simile è il ruolo di interferenza del commento
musicale rispetto alla piena affermatività degli eventi
scenici.4 E nel rappresentare il tema di fondo del fatum,
questi due tumultuosi quadri di massa inscenati sullo
sfondo di una idealizzata natura mediterranea sembrano
anche rivisitare immagini e atmosfere degli ultimi libri
d e l l ’E n e i d e, di quell’episodio italiano che, seppure
escluso dal libretto, faceva parte della vertiginosa espe-
rienza infantile posta all’origine dell’opera:
[...] I’immaginazione mi circondava di tutti i miei eroi
troiani e latini: l’infelice Turno che più di tutti mi spezza-
va il cuore, il buon re Latino, Lavinia così rassegnata e
ancora tutte queste armi luccicanti nelle quali vedevo
riflettersi il sole d’Italia attraverso nuvole di polvere.5
2. Temporalità
Il tentativo di interpretare la caccia nel diverso contesto
operistico non può ignorare la problematica disarticola-
zione temporale del materiale narrativo, per la quale il
successivo incontro tra Enea e Didone sembra prescin-
dere talmente dal cruciale evento erotico da poterlo pre-
cedere, come di fatto avviene nell’E n e i d e. Anche
nell’opera la festa riflette una situazione in fieri: l’amore
muove gradualmente al suo disvelamento lirico attraver-
so i tre grandi numeri conclusivi dell’atto, intensificando
retroattivamente il senso della caccia quale evento ‘inca-
psulato’, che non deriva da alcuna premessa e, di fatto,
non produce alcuna conseguenza. Peraltro, la soluzione
alternativa, spesso adottata in passato, di collocare
l’intermezzo dopo il duo d’amore appare impraticabile a
fronte non solo della chiara volontà dell’autore, ma
anche di un contesto drammaturgico che con l’appari-
zione finale di Mercurio esclude un qualsiasi ritorno alla
celebrazione degli amori regali, e questo nonostante il
dio non affronti direttamente l’eroe (come avviene in
Virgilio) e il suo appello Italie! — lanciato mentre gli
amanti si allontanano estatici e ignari sullo sfondo — si
indirizzi, per così dire, esclusivamente al pubblico. Basta
lo sconvolgimento davvero tellurico del commento
orchestrale a definire, nella coscienza dello spettatore
prima che in quella dei personaggi, la fine dell’idillio e
il consegnarsi irrevocabile alla tragedia finale.
Nella ricerca di un nesso vincolante Ian Kemp coglie
nell’inversione di caccia e festa un tentativo di trasfor-
mare il momento erotico da innesco del disastro a esal-
tante premessa della dimensione sublime e idealizzata
del duo,6 senza considerare come, accanto agli aspetti
radiosi e vitalistici, l’intermezzo mantenga — nell’espres-
sione tesa e inquietante della caccia e della tempesta,
nell’esasperata violenza del suo climax — il significato
virgiliano di accadimento gravido di negatività: “Ille dies
primus leti primusque malorum / causa fuit” (IV, 169).
Indifferente al problema della consequenzialità è invece
l’idea espressa da Charles Beye della sintesi di opposti:
18
una duplice e speculare rappresentazione dell’amore —
realizzata una prima volta con mezzi atipici e in una
forma tanto allegorica quanto fortemente ‘fisica’, e una
seconda con mezzi tradizionali e in una forma tanto
diretta quanto sublimata — che rende caccia e festa
momenti di un insieme aperto, mostrati in ordine spar-
so, piuttosto che narrati in logica successione.7
Tuttavia, l’ipotesi di una drammaturgia per pannelli
chiusi e slegati si applica con difficoltà all’intera opera,
dimostrando come il momento dell’amore tra Enea e
Didone sia una sorta di enclave, nella quale, all’opposto
del travolgente dinamismo di certi episodi troiani, viene
portata all’estreme conseguenze una staticità propria
dell’edenico mondo cartaginese fin dalle scene celebra-
tive dell’in iz io del III att o. In molti altri lu oghi
dell’opera, il senso di stringente processualità, di diveni-
re immanente è tanto fo rt e da aver spinto Paul
Robinson a leggere l’intera opera come inconsapevole
raffigurazione dell’idea hegeliana della storia, pur inclu-
dendo l’atemporalità come antitesi dialettica: l’amore si
configura come forza antistorica per eccellenza, deside-
rio di immutabilità, dissolvimento del t e l o s e della
volontà eroica.8 Al martellante ritmo della tragedia troia-
na si sostituisce la letargica e incosciente dissipazione
temporale della festa cartaginese, in una progressiva
inerzia che conferisce massima intensità all’apparizione
finale di Mercurio: ritorno traumatico del “principio sto-
rico” (Robinson) e compimento della “strategia locale”
di accumulare numeri chiusi, statici e contemplativi, in
vista di uno sconvolgente tracollo finale.9 A monte di
questa cesura l’estasi erotica degli amanti è insieme cul-
mine e arresto del divenire drammatico: evento cruciale
e libera divagazione si fondono in una soluzione intrin-
secamente ambigua che scardina l’ordinata temporalità
del dramma.
3. Visione
Con siderando i T r o y e n s nel loro insieme Ernest
Newman si chiedeva in che misura l’opera riuscisse a
esprimere una tematica filosofica di fondo, un’idea rias-
suntiva dei suoi momenti: il termine di paragone era la
Tetralogia di Wagner.10 Pur individuando una certa coe-
sione architettonica la sua impressione era che la forza
del lavoro stesse non nella rappresentazione di un tema
unificante, bensì nella capacità di rendere intenso il sin-
golo frammento, di trascrivere le specifiche suggestioni
di figure, gesti, scenari, grazie a un’ispirazione di natura
essenzialmente visuale dalla quale, però, deriverebbe
un limite nella resa di contenuti di fondo. Già Wagner
aveva espresso analoghe riserve: “Berlioz ha magnifica-
mente prestato attenzione alle cose visuali [...] riflette il
mondo intero, seppure le sue impressioni non sono
troppo profonde, è uno specchio, ma uno specchio pic-
colo e infranto”; della natura “non ne ha colto l’anima,
ma ne ha ascoltato attentamente gli accenti, ha saputo
rendere l’atmosfera dei paesaggi”.11
Da una diversa prospettiva la capacità di circoscrivere
tematiche di fondo si potrebbe invece collegare proprio
 Opera
alla visionaria frammentarietà di certe scene e, in parti-
colare, a certe soluzioni pantomimiche cariche, nella
loro atipicità, di intensi sottintesi. Non si tratta propria-
mente di un’antitesi del numero vocale, quanto della
più compiuta espressione di una generale tendenza a
interpretare i contenuti narrativi come momenti autono-
mi, sciolti da un vincolante legame con l’intreccio e le
situazioni contingenti: un gesto di astrazione e di assolu-
tizzazione di situazioni e personaggi. Più che un deside-
rio di negare al canto una centralità che nell’opera resta
indiscutibile, la pantomima esprime una certa inclinazio-
ne a sottrarre carattere argomentativo all’azione dram-
matica, a cristallizzare l’evento in f i g u r a. Di queste
scene visionarie la tradizionale forma chiusa è il presup-
posto essenziale, poiché garantisce una sorta di piedi-
stallo dal quale il momento emblematico si mostra con
la massima evidenza; ed è per questo che anche quan-
do tali momenti sono calati in complessi scenici conti-
nui, il loro carattere di giustapposizione contrastante
evidenzia, più che mai, che si tratta di “quadri musicali
autonomi attraverso il cui accumulo si costituisce l’intero
affresco”.12 Momento chiuso per antonomasia, la panto-
mima veicola un particolare senso di contemplazione
statica, atemporale, e ciò intensifica l’evento non solo
nella sua evidenza fisica, ma anche nella sua significa-
zione recondita. Nelle scene di Andromaca (n. 6) e della
caccia, dove la presenza del fatum sembra farsi più
intensa che mai, la perdita del canto mostra personaggi
che non agiscono ma sono agiti. Il destino avvolge que-
sti momenti con un’assolutezza che tronca ogni possibi-
le discorsività e fa delle figure umane gli emblemi muti
di un tema metafisico di fondo. L’espressione di un
retroterra protervo e indecifrabile è eloquente proprio
perché allusiva, sottratta all’univocità della parola.
Forma riflessa e riflessiva, veicolo di significati esterni, la
pantomima appare il mezzo attraverso cui l’autore, in
quanto voce narrante, interviene a commentare gli
eventi: in questo senso la si può considerare come
espressione tipica di teatro epico.
Se la critica del 1863 poté deplorare l’assenza di un duo
nella g rotta basato sui laceranti dilemmi dei
protagonisti,13 la peculiarità della scelta berlioziana fu
proprio quella di evitare il grande confronto tragico,
intriso di estasi e angoscia, affidandosi alla soluzione
allegorica del modello letterario, priva di qualsiasi evi-
denza psicologica e sentimentale. Nella scelta di
quest’ottica distanziante, lo stesso svolgersi dell’azione,
elemento essenziale della pantomima, finisce per annul-
larsi: i movimenti vorticosi delle masse, gli sconvolgi-
menti naturali si immobilizzano; gesti ed eventi di con-
gesta intensità diventano posa e sfondo, al pari che
nella pittura di David, Delacroix e Géricault. L’intermez-
zo suggerisce come certi luoghi del poema, prima di
convertirsi in scene d’opera, fossero esistiti a modo di
quadri di un privato museo mentale: il musicista che
pure diceva di non intendersi affatto di pittura e di esse-
re “poco sensibile alla bellezza convenzionale”14 celava
nella sua inclinazione alla pantomima una ideale pro-
pensione figurativa. Si potrebbe ricordare il caso del
quintetto (n. 35) ispirato dal quadro di Pierre-Narcisse
Guérin Enée racontant à Didon les malheurs de la ville
de Troie , ma un esempio forse ancora più rivelatore lo
fornisce il passo di una lettera, scritta alla principessa
Sayn-Wittgenstein durante la composizione dell’opera,
che mostra come il musicista tendesse a estrapolare
dalla materia letteraria singole immagini per convertirle
in assoluti momenti visionari:
Sono rapito da una frase di padre Nestore nel Troilus
and Cressida di Shakespeare. Rileggo questa incredibile
caricatura dell’Iliade, nella quale tuttavia Shakespeare ha
fatto Ettore più grande di quanto non lo fece Omero. Nel
rendere omaggio alla sublime generosità del difensore di
Troia, Nestore racconta quante volte lo aveva visto in
battaglia, per risparmiare la folla dei soldati greci sbigot-
tita al suo irrompere e incapace di resistergli, passare
sfolgorante sul suo carro, levando in aria la spada per
non colpire quegli sventurati. Era, dice il vecchio
Nestore, simile a un Giove dispensatore di vita.
Che quadro farei di tutto ciò se fossi un grande pittore!
Mio Dio, com’è bello! [...] Quando mi imbatto in simili
passi, ho l’impressione che il cuore mi vada in pezzi...15
4. Scenario e azione
La fedeltà con cui alcuni particolari sono ripresi alla let-
tera da Virgilio mostra con quanta forza la suggestione
visuale potesse agire sul musicista: il passaggio di
Ascanio al galoppo, il calare delle tenebre durante la
tempesta, la fuga dei cacciatori. Ma nell’insieme ha
ragione David Cairns nel dire che lo scenario originale,
con i suoi picchi rocciosi e le sue capre selvatiche, è
troppo aspro e arido per aver ispirato questo immagini-
fico scorcio di foresta vergine africana, che parrebbe
piuttosto discendere dalle suggestioni della pittura neo-
classica in una combinazione “della grandeur, dell’uni-
versalità e della forma dinamica di Poussin, con la
numinosa chiarità e il senso di età dell’oro di Claude”.16
Dal trasognato splendore estivo della campagna cartagi-
nese attraversata da Enea nel suo cammino verso la città
(Eneide, I, 430), al Lazio arcaico degli ultimi libri del
poema, alle impressioni paesaggistiche del viaggio in
Italia, a un Midi francese evocato da una melodia di
possibile derivazione provenzale (cfr. nota 35), un insie-
me di riferimenti letterari e autobiografici sembra con-
vergere in questo scenario naturale, creando uno sfondo
volutamente indefinito contro il quale si staglia una
immagine mitologica di precisa funzionalità pantomimi-
ca: la scena di due naiadi che vengono a bagnarsi in un
bacino prima di fuggire spaventate ai primi richiami
della caccia.
Nella sua recensione del 1863 il critico del Figaro aveva
letto nell’omissione della scena virgiliana della partenza
dei cacciatori i limiti di un musicista incapace di dare
vita a un momento di classica eleganza e compostezza,
e smanioso solo di immergersi nell’orgia fonica del tem-
p o r a l e ,1 7 ignorando come il momento delle naiadi
potesse essere stata concepito proprio per rimpiazzare
(senza richiedere un cambio di quadro) il passo lettera-
rio omesso. L’aura radiosa che nel poema avvolge i pre-
parativi mattutini della caccia appare ricreata nell’inter-
mezzo con il risveglio della foresta e il bagno delle crea-
ture silvane: momenti similmente arcani, posti a evocare
il mondo antico e mitico di Virgilio, e a stabilire, simil-
19
 Opera
mente alla C a l m e di gluckiana memoria (inizio di
Iphigénie en Tauride), un termine di contrasto per lo
scatenamento centrale. Inoltre, la scena iniziale assolse
al bisogno di arricchire un nucleo rappresentativo in sé
estremamente esile, dato che l’ingresso di Enea e
Didone nella grotta — cuore dell’intera azione pantomi-
mica, attorno al quale tutto gravita come preparazione e
commento — è un evento che, al contrario dello svilup-
parsi lento e avvolgente della scena di Andromaca, si
consuma in pochi istanti.
Dopo la scena delle naiadi Berlioz sostanziò l’azione
pantomimica con il movimento dei cacciatori e il corre-
do degli effetti naturalistici della tempesta, fino al punto
culminante dell’invisibile congiungimento carnale che
fauni, satiri e silvani, armati di rami accesi, vengono a
celebrare selvaggiamente con le loro “danze grottesche”,
nel buio della tempesta, tra cascate d’acqua e altri scate-
namenti naturali. Le figure mitologiche sono impersona-
te anche da coristi, così da poter sottolineare la crucia-
lità del momento con la riproposizione del ciclico
appello Italie! e con le paniche grida inarticolate diretta-
mente ispirate da Virgilio: “fulsere ignes et conscius
aether / Con ubiis summoque ulularunt vertice
nymphae.” (V, 161). Mentre in una seconda versione
dell’intermezzo (cfr. nota 20) le naiadi riappaiono dopo
il temporale, nelle versione originale (oggi ristabilita)
una fitta coltre di nuvole viene a coprire interamente la
scena e non si dissipa che nelle battute finali, per resti-
tuire brevemente la contemplazione del sereno e disabi-
tato scenario iniziale. Si tratta di una soluzione ardita e
suggestiva che eliminando sorprendentemente l’azione,
cioè il presupposto stesso della pantomima, pone un
ultimo e decisivo accento su un fondamentale ‘protago-
nista’ della Chasse: il paesaggio antico.
5. Spazialità
La sovrabbondanza di effetti scenici, criticata da molte
recensioni del 1863, si può interpretare sia come trasfi-
gurazione ‘romantica’ del quadro antico, sia come tenta-
tivo di emulare la grandiosità del modello: una fanta-
smagoria visiva parallela a quella sonora. Tuttavia, la
scena fissa rendeva difficile riprodurre il taglio ‘cinema-
tografico’ della narrazione virgiliana, il suo modo di
muoversi dinamicamente attraverso eventi e scenari,
così come altri momenti dell’opera — l’introduzione del
cavallo e la caduta di Troia — avevano posto in modo
critico il problema di trasporre sul palcoscenico azioni
altrettanto caleidoscopiche. Ed è significativo come in
tutti questi casi la difficoltà fu affrontata ricorrendo a
strumenti posti sul palco, dietro le quinte, quasi a creare
attraverso la spazializzazione delle fonti sonore una
ideale dilatazione dei confini visivi.
Nel caso della Chasse si trattò di quattro fanfare di cac-
cia, tre delle quali affidate ai saxhorns: gli strumenti
inventati da Sax solo nel 1845 e alla cui timbrica avveni-
ristica, non ancora addomesticata dalla tradizione, fu
affidato il compito di ricreare una dimensione antica ed
esotica. In sintonia con un’assolutizzante concezione del
20
suono, l’estrema modernità tecnica proiettata verso un
futuro utopico (quello prefigurato nell’invenzione lette-
raria di Euphonia), 18 si fuse con un’immaginaria archeo-
logia musicale, intesa anch’essa come evasione dal pre-
sente e dalla storia, ma nell’opposta direzione del più
favoloso e irrecuperabile passato mitico. Più concreta-
mente, questi strumenti — che il musicista definì stare
alle altre voci dell’orchestra “come un cannone sta a un
fucile”19 — risolsero il problema di bilanciare le fonti
lontane con le torrenziali masse sonore prodotte
dall’orchestra nel punto culminante della tempesta,
tanto che l’impiego dei corni — indicato come alternati-
va, e oggi reso obbligatorio dall’obsolescenza dei
saxhorns — sembra problematico a causa della limitata
sonorità di questi strumenti. Berlioz non poté verificare
questa soluzione di ripiego, dato che le uniche esecu-
zioni della Chasse a cui poté assistere furono quelle di
una seconda versione, adeguata alle limitate possibilità
del Théâtre-Lyrique, nella quale gli squilli venatori sono
reintegrati in orchestra e affidati a strumenti ordinari.20
A proposito di questo arrangiamento Kemp cita l’elimi-
nazione della terza fanfara per mostrare come in quel
particolare punto l’accompagnamento sia così significati-
vo da rendere inessenziale il tema stesso, 21 seppure non
si possa escludere che il taglio rappresenti una mera
semplificazione, motivata dalla difficoltà di eseguire cor-
rettamente la battuta ternaria della fanfara contro il
tempo binario di base.
La stessa eliminazione degli strumenti sul palco è una
questione aperta: affermando che si tratta di una modifi-
ca poco rilevante si dimentica come Berlioz avesse
incluso il punto di partenza dei suoni tra le fondamen-
tali risorse compositive, accanto a ritmo, armonia, tim-
bro.22 A differenza dei grandi contesti ritualistici del
Requiem e del Te Deum, il vincolante luogo teatrale non
aveva consentito un estensivo sfruttamento del princi-
pio, ma nella Chasse la spazialità mostra una più sostan-
ziale implicazione compositiva, poiché dalla diversifica-
zione tra fossa e palcoscenico scaturisce l’idea base del
brano: la contrapposizione tra il tessuto orchestrale —
continuo e integrato, ma anche sostanzialmente atemati-
co — e le libere e intermittenti irruzioni delle fanfare
che si incastonano nella struttura sinfonica senza dare
luogo a sviluppi. (Il fatto però che il carattere ‘esterno’
delle fanfare sia in primo luogo di natura strutturale
non esclude il ricorso alla spazializzazione come
mezzo per realizzare in modo più pregnante l’idea
compositiva.)
Dal punto di vista dell’autore è difficile dire quanto la
seconda versione sia un soddisfacente compromesso o
piuttosto una totale capitolazione, anche perché se in
certi casi una minima alterazione viene lamentata come
responsabile del crollo totale di un’idea, in altri modifi-
che sostanziali sono accettate senza sforzo per far fronte
a necessità contingenti. 23 E mai come nel caso dei
T r o y e n s quest’ambivalenza appare tanto evidente,
sostanziata com’è da sentimenti di estremo orgoglio arti-
stico e di estrema disillusione esistenziale, al punto da
affiancare annotazione che vietano ogni libertà nei reci-
tativi24 ad altre che autorizzano tagli sconcertanti:
 Opera
Nel caso in cui il teatro non fosse abbastanza grande da
permettere una messinscena animata e grandiosa di que-
sto intermezzo, se non si potesse disporre di coriste che
attraversino la scena a chioma sciolta, e di coristi trave-
stiti da fauni e da satiri che si abbandonino a salti grotte-
schi al grido di Italie!, se i pompieri avessero paura del
fuoco, i macchinisti paura dell’acqua, il direttore paura
di tutto, e soprattutto se non fosse possibile cambiare la
scena abbastanza rapidamente prima del terzo atto, allo-
ra questa sinfonia dovrà essere soppressa.25
6. Pantomima o sinfonia?
L’annotazione non è che il riflesso cupamente ironico
della prima del 1863: proprio a causa del lunghissimo
cambio di scena e del mediocre allestimento, Berlioz si
era risolto a eliminare la Chasse, senza prendere in con-
siderazione la versione sinfonica annunciata invece dalla
stampa.26 Il compromesso fatto per le fanfare sul palco
non fu ripetuto per la pantomima: la perdita della scena
equivalse tout court alla perdita dell’intermezzo. In
quell’occasione Joseph d’Ortigue, uno dei pochi ammi-
ratori incondizionati del brano, criticò la scelta muoven-
do una contestazione di ordine generale che è anche la
prima di una lunga serie di prese di posizione in favore
di un impiego sinfonico:
A quanto sembra Berlioz ha ritenuto che questa sinfonia
sarebbe stata incomprensibile senza la fantasmagoria
della scena. Quando dunque recederà dall’errore (errore
unicamente del suo spirito) di pensare che una sinfonia
abbia bisogno di un programma?...27
Se a fronte della chiara volontà dell’autore la questione
della veste esecutiva, come quella della collocazione,
sarebbe priva di fondamento, la sua tenace sopravviven-
za sembra evidenziare l’esistenza di un sottostante pro-
blema estetico. Nello scontrarsi di posizioni a favore ora
dell’impiego pantomimico, ora di quello sinfonico, un
primo ribaltamento di fronte avvenne già nel l892 con il
successivo allestimento parigino dei Troyens à Carthage,
quando autorevoli berlioziani come Julien Tiersot e
Adolphe Jullien si mostrarono concordi nel criticare
l’esecuzione della Chasse a sipario chiuso,28 e lo stesso
Paul Dukas ebbe modo di sottolineare come un vivido
t a b l e a u teatrale fosse stato così trasformato in un
“poema sinfonico piuttosto incomprensibile”, al pari di
quanto sarebbe accaduto alla scena demonica del
Freischütz privata della sua controparte visiva.29
Negli orientamenti più recenti la critica è tornata ten-
denzialmente a favorire la versione sinfonica, come
mostra una recensione del celebre allestimento del
Covent Garden (1969) nella quale Martin Cooper venne
a sostenere l’intrinseca non rappresentabilità dell’inter-
mezzo, la sua analogia con le visioni puramente mentali
della sinfonia Roméo et Juliette, il suo esemplificare
l’impossibile collimazione tra la poetica di Berlioz e il
mezzo operistico. 30 In generale è tipica di un filone cri-
tico moderno l’idea che la messinscena della Chasse
sia un’intrusione indebita, un indebolimento di una
forma musicale in sé compiuta e autonoma; e già
Newman, dopo la rappresentazione di Glasgow del
1935, si era convinto della superiorità della versione
sinfonica, considerando la componente pantomimica
un intralcio alla comprensione dei valori puramente
musicali.31
Di fronte alla stretta correlazione scenico-musicale —
che secondo Hugh Macdonald fa dell’intermezzo “il
brano più teatrale dell’intera opera”32 — questa sorta di
conflitto tra forma e funzione non sembrerebbe aver
fondamento, ma la difficoltà in un certo senso sta pro-
prio nell’evidenza del nesso: la capacità mimetica della
musica è giudicata fuorviante. Per questo, anche se le
attuali risorse scenotecniche sembrano in grado di ren-
dere puntualmente le complesse e dettagliate didascalie
sceniche, proprio il loro accresciuto realismo accentua il
rischio che il ‘doppiaggio’ visivo risulti esteticamente
grossolano. Né agevoli risultano le interpretazioni stiliz-
zate e simboliche, considerato come la scena reclami la
stessa energia cinetica, la stessa necessità e icasticità
degli accadimenti sonori. Se non si intende corredare
del loro equivalente visivo la cavalcata, la pioggia, le
cascate, il fulmine, e ogni altro evento così inequivoca-
bilmente suggerito dalla musica, si resta con in mano un
imbarazzante repertorio di figure difficilmente rielabora-
bile in altre forme. Il vincolante sistema di corrispon-
denze creato da Berlioz può essere problematico sia che
si accetti, sia che si tenti di eluderlo.
7. Tematica
L’idea della Chasse quale forma ‘unica’, originale e com-
piuta proiezione di specifici materiali compositivi, spin-
se Newman a tralasciare funzioni e correlazioni esterne:
l’invenzione musicale, pur destinata alla scena, non ne
dipende in modo vincolante e anzi tende a esistere
autonomamente da essa.33 Tuttavia già il semplice ven-
taglio tematico — così caratterizzato scenicamente da
prestarsi a una titolazione di comodo — mostra come le
funzioni rappresentative siano così integrate a quelle
musicali da formare un nesso inscindibile. Questo è evi-
dente fin dal tema iniziale, lo scenario (1-8), che assolve
a un compito ‘paesaggistico’ attraverso una specifico
assetto compositivo, strutturalmente integrato. La tratta-
zione fugata del tema esprime luminosità sorgiva, cre-
scente animazione mattutina (vedi il risveglio primaveri-
le all’inizio della Damnation de Faust), anche se il pro-
cedimento manca di una reale sostanza polifonica e
svolge una semplice funzione ordinatrice: come se le
imitazioni fungessero da netto contorno che delimita i
‘suoni di natura’ dei legni, gli effetti sfumati e atmosferi-
ci dell’armonia cromatica, delle sincopi e dei tremoli.
Il fugato — in Berlioz “colore espressivo, analogo al
grottesco o al caratteristico”34 — qui fa anche parte di
un insieme di contrasti (cromatismo, contrappunto e
archi in opposizione a diatonismo, omofonia e legni)
predisposto per la successiva apparizione della semplice
melopea delle naiadi (30-43). Il fatto che questo tema
sia stato ricondotto alla sfera del canto popolare (il pro-
venzale O Magali)35 o anche a una tradizione settecen-
tesca di musica pastorale36 evidenzia lo stesso carattere
di citazione, di inclusione compositiva, già proprio del
fugato. L’espressione di quiete bucolica e innocenza ori-
21
 Opera

ginaria si affida a un disegno rudimentale, nel quale, (241-260). Inseriti in contesti così sofisticati tali temi pos-
tuttavia, l’irregolarità e l’asimmetria dell’armonia eviden- sono così mantenere la semplicità di fattura teorizzata da
ziano il tipico paradosso che in Berlioz lega la ricerca di Berlioz a proposito del finale della Quinta di Beethoven:
primitivismo a studiati calcoli compositivi, a ricercata
riflessività estetica.37 [...] le prime quattro misure del tema non sono in effetti
molto originali, ma le forme di fanfara sono per natura
Inserito nello schema del contrasto è anche il richiamo limitate, e noi crediamo che non sia possibile trovarne di
(45-85), il lontano segnale di inizio della caccia: tempo nuove senza uscire del tutto dal carattere semplice, gran-
dioso e pomposo che è loro proprio.39
e ritmo sono nuovi, uno statico pedale sostituisce con-
trappunto e armonia, il timbro è quello (in ogni senso)
Nella C h a s s e questo carattere viene garantito da un
inaudito dei saxhorns, la stessa fonte sonora è dislocata.
materiale essenzialmente diatonico, mentre l’espressione
Se la funzione scenica è esplicita, la fisionomia del tema
della natura e della passione è di tendenziale dominio
resta però ambigua, priva della verosimiglianza dei suc-
del cromatismo, con la sola eccezione della sensibile
cessivi squilli, e la spazializzazione, altrove decisamente
abbassata — quasi un settimo armonico inserito come
realistica, realizza un effetto di ‘lontano’ nel senso più
tratto naturale e arcaico — che colloca idealmente la
poetico che concreto del termine. Musicalmente ambi-
fanfara 2/2 tra la soluzione artificiale del richiamo e
guo è l’innestarsi in una pentatonia primitiva di due
quella elementare delle successive fanfare, basata sullo
caratteristiche flessioni semitonali che, a modo di corpi
schema convenzionale della triade maggiore.
estranei, producono reattive contrazioni ritmiche. La
cadenza finale, senza sensibile, realizza una massima
indeterminatezza anche rispetto al metro e all’aspettativa
8. Materiali
di una seconda appoggiatura, dando quasi l’impressio-
ne, contro lo sfondo ‘neutro’ del pedale, che il passag-
Dietro una apparente eterogeneità il ventaglio tematico
gio sia scritto così:38
nasconde una rete unificante di relazioni: se lo scenario
Es. 1
privato dei cromatismi contiene al suo interno lo sche-
ma pentatonico del richiamo,40 dal suo stesso segmento
iniziale Do-Si-Sib-La derivano tutte le figurazioni semito-
nali dell’opera e, in particolare, quella transizione alla
ripresa (284-308) che nel riprendere a modo di eco fan-
tasmatica il precedente coro silvano completa una con-
vergenza allegorica, come se nelle diverse trasformazio-
In questo suono sottratto all’ordinario contesto orche-
ni del modello cromatico prendesse forma uno stesso
strale, sembra metaforizzarsi la rievocazione remota, la
‘spirito di natura’ nei suoi diversi stati di quiete, di scate-
sfocatura della memoria, la dimensione di immensità
namento panico e di riflusso. La sensibile abbassata
connaturata alla visione berlioziana del paesaggio anti-
riproposta in q uesti passi è un tipico stilema
co. Ed è sintomatico di una natura sfuggente il rove-
b e r l i o z i a n o 4 1 che qui assume massimo rilievo al
sciarsi del tema da innesco dell’azione drammatica a
momento del climax, venendo a disturbare violente-
suggello della riconquistata pacificazione: nella sua
mente l’affermazione della triade perfetta fatta dall’intero
duplice significazione amorosa e venatoria il richiamo
blocco orchestrale (245). Già nel Requiem Berlioz aveva
trasfigura il segnale prosaico in vago arabesco sonoro.
introdotto lo stesso tipo di dissonanza, quale espressio-
Sempre caratterizzata dal principio del contrasto è anche
ne di caos e di sgomento, nelle articolazioni grandiose
la successiva sezione dei cacciatori (86-120), la quale,
della fanfara quadrifonica del Dies Irae, ma simili effetti
pur emergendo progressivamente, rompe l’assetto stati-
perturbanti si ritrovano anche nei Troyens: nella conclu-
co e conchiuso dei pannelli precedenti con il suo dina-
siva imprecazione cartaginese, nel fatale rapimento di
mico divenire sinfonico. Allorché verso il punto di mas-
Didone all’apparire dell’eroe e, soprattutto, nella chiusa
sima tensione la sezione viene ripresa per rappresentare
del cataclismatico grido di guerra contro Iarba, 42 dove la
il disperdersi finale dei cacciatori sotto l’infuriare della
sensibile abbassata mostra in pieno la sua capacità di
tempesta (204-218), il suo lungo sviluppo viene molto
incrinare la grandiosa compattezza del momento epico:
abbreviato, condensando un effetto di montante disordi -
affermazione e tracollo, per usare una sigla mahleriana
ne e tensione che già alla prima apparizione è dato da
di Adorno, si fondono per esprimere l’implicazione tra-
un estremo contrarsi dei segmenti, fino al punto che la
gica e distruttiva che accompagna come un’ombra la
spirale ritmica, come avvitandosi su se stessa, finisce per
progressione eroica, il tema teleologico del poema.
bloccarsi per effetto del suo slancio cinetico.
Nella Chasse a questa capacità di rendere intensamente
Le fanfare successive (121-130, 185-189, 190-201) si
eloquente un particolare compositivo si aggiunge
diversificano tra loro in modo così marcato da dare
un’implicazione strutturale, poiché dalla sensibile abbas-
luogo a battute diverse (2/2, 6/8, 3/4) e a figurazioni
sata si innesca un globale schema armonico-tonale ten-
sempre nettamente differenziate da quelle dell’orchestra,
dente verso la sottodominante. Indicativo, in tal senso, il
in un contrasto ritmico sfruttato tanto nelle apparizioni
ricorso a inversioni della consueta sequenza sottodomi-
singole, quanto nell’eclatante riesposizione simultanea,
nante-dominante,43 specie nel richiamo, dove un sottile
punto di massima tensione e densità del brano che
gioco di interdizioni funzionali moltiplica sul piano
accompagna l’ingresso di Enea e Didone nella grotta
armonico i caratteri di ambiguità del tema, con il con-

22
 Opera
corso di una sfuggente inflessione minore che conferi-
sce al collegamento V-II un intenso effetto di rottura
dell’orizzonte tonale:
Es. 2
Riassorbito come temporanea diversione il RE min.
dell’esempio precedente riappare ancora nello sviluppo
dei cacciatori (92-99), questa volta innescando un defi-
nitivo distacco dalla tonalità di partenza: lo stesso colle-
gamento V-II che aveva espresso sospensione e vaporo-
sa vaghezza si inverte di segno nel propulsivo contesto
della caccia per siglare un effetto di dilagante tensione,
una sorta di squadernamento scenico-musicale.
9. Tonalità
Il DO di impianto, abbandonato agli inizi della caccia,
ricompare solo al momento del completo esaurirsi
dell’azione e del ristabilirsi della situazione iniziale.
L’ovvia ripresa tonale, scenicamente motivata, mostra
però un tratto atipico in quanto non logico processo,
ma libero, stupefatto rifluire di un dato anteriore rimasto
radiosamente intoccato, come le n a i a d i, ai margini
dell’evento convulso. Il continuo gioco di dissolvenze
cromatiche della transizione crea una condizione di
amorfa sospensione tonale, equivalente alla scomparsa
della scena dietro una fitta coltre di nuvole.
Nell’ambito del DO iniziale la tendenza armonico-tonale
di quinta discendente (derivata dalla sensibile abbassa-
ta) non produce modulazioni stabili: la sottodominante
è sempre transitoria, e la stessa estensione verso tonalità
con due e tre bemolli rimane latente fino a quando la
turbolenza ritmico-armonica dei cacciatori, in una sorta
di inarcarsi dell’intera struttura, non afferma decisamen-
te il MIb (100) con un impatto espressivo causato non
dalla sorpresa ma dallo scioglimento di un preesistente
nodo formale. La forte tensione preparatoria e la collo-
cazione cruciale conferiscono al MIb un ruolo che si
potrebbe definire di controtonica: similmente al DO
anche questa tonalità fa due sole apparizioni distanziate
(all’apparizione dei cacciatori e al loro disperdersi fina-
le), definendo un vero e proprio confine scenico-musi-
cale che delimita lo sviluppo centrale entro una piccola
porzione del circolo delle quinte: RE min., SIb, SOL min.
Successivamente, durante la pantomima delle creature
silvane — al culmine dell’oscurità, della violenza degli
elementi, dell’intossicazione emotiva — il confine viene
forzato e la tonalità sprofonda ulteriormente fino a un
punto di massimo allontanamento dato dal REb (266) e
dalla sua successiva trasformazione enarmonica in
minore (281).
Il cambio di modo che caratterizza questo estremo
approdo tonale è un procedimento ricorrente (al quale
si sottrae solo il SIb delle fanfare), in genere legato alle
fluttuazioni della passione e dell’evento naturale, ma
che qui assume un più preciso significato: espressione
metaforica dell’ottenebramento e della perdita di centro
conseguenti al congiungimento degli amanti, inequivo-
cabile segnale di fine. L’enfatizzata cadenza al lontano
DO diesis min. conclude una parabola musicale e sceni-
ca, segnando un punto di massimo distacco e smembra-
mento a partire dal quale muove la ricomposizione.
Questo completarsi di un preciso schema sembra scon-
fessare l’ipotesi di Kemp circa un impiego essenzialmen-
te circoscritto e coloristico delle tonalità:44 ipotesi che
seppure fondata su particolari “caratteri” definiti dal
compositore nel suo Traité di orchestrazione, in realtà
tradisce quel fondamentale convincimento berlioziano
per il quale il senso musicale non è una proprietà intrin-
seca dei materiali — in sé solo gettoni neutri — bensì
risultato della loro specifica utilizzazione entro un altret-
tanto specifico contesto compositivo.45
9.1 Modulazione e tema
Nella Chasse lo schema tonale si contestualizza innanzi-
tutto attraverso tecniche di modulazione che contrap-
pongono il DO, affermato con chiari e spaziati movi-
menti cadenzali, alle altre tonalità, inserite con soluzioni
fluide e dirette. Nella parte iniziale le reiterate riafferma-
zioni della tonica danno alla cadenza perfetta un’enfasi
che sarebbe illogica se non intervenisse la soluzione di
escludere quasi totalmente tale cadenza dallo svolgi-
mento del brano per riproporla alla fine, con straordina-
rio effetto di differimento,46 quale specifico elemento di
caratterizzazione del DO: “evidenza collaterale” (Tovey)
che contribuisce a rendere percettibile e significante lo
schema tonale.
Le altre tonalità sono invece introdotte in modo atipico,
attraverso s c i v o l a m e n t i armonici — dati spesso da
cadenze di inganno o da semplici relazioni di terza
(164-5, 183-4, 218-9, 226-7) — il cui rilievo è ben esem-
plificato dal REb del coro silvano (265-6) con il suo
improvviso tramutare in tonica la perturbante settima
abbassata: “l’intera massa polifonica si fonde in un sin-
golo, decisivo gesto al momento di stabilire una nuova
tonalità”.47
Decisivo alla caratterizzazione delle tonalità è poi il
nesso che si stabilisce tra modulazione e tema. Anche in
questo caso si delinea una contrapposizione di massi-
ma: la coincidenza tra i due elementi, caratteristica del
DO, viene successivamente eliminata, cosicché le affer-
mazioni di tonalità secondarie risultano eventi ‘vuoti’,
dislocati rispetto ai loro complementari eventi tematici.
Se la prima apparizione del MIb è solo spostata su un
materiale secondario, una completa frattura tra tema e
modulazione accompagna invece le successive appari-
zioni del RE min./magg. (132) e del SIb (165). In queste
due sezioni l’armonia stabilisce un nesso tra i due
momenti dissociati attraverso una sequenza nella quale,
tra l’insistito caricamento (C) di una funzione di domi-
nante e la sua successiva risoluzione (R), è interpolato
un caratteristico passaggio di n e u t r a l i z z a z i o n e ( N ) :
23
 Opera
come se per un tratto il logico e orientato vettore armo-
nico venisse messo fuori causa dall’irrazionale disordine
dell’evento scenico.
La collocazione del tema diversifica ulteriormente que-
sta sequenza armonica. Nella sezione in Re l’intento è
quello di interdire fino all’ultimo la tonalità: il tema si
innesta sulla neutralizzazione (ancora una settima
abbassata) e la prolunga, mentre alla fine la forte tensio-
ne cadenzale è dirottata, trasformando l’inganno V-VI da
soluzione diversiva in vera e propria modulazione:
Es. 3
Al contrario, nella sezione in SIb — dopo l’apparente
arrivo a RE min. (la tonalità precedentemente disattesa)
— la tonica viene riaffermata in coincidenza con la fan-
fara:
Es. 4
Il tema, evento così carico di tensione differita, scaturi-
sce improvviso attraverso il gesto minimo, quasi inarti-
colato, dello scivolamento cromatico (la-sib), unendo al
senso della libera irruzione il vincolante scioglimento di
un conflitto strutturale predisposto su larga scala. L’arti-
colarsi dell’intera sequenza diviene ancora più evidente
grazie anche a un ritmo armonico che all’assoluta stati-
cità del caricamento e della risoluzione contrappone la
fittissima, pulviscolare mobilità cromatica della neutraliz-
zazione. Se poi a questa opposizione strutturale si
somma anche quella ‘fisica’ tra orchestra e strumenti sul
palco, la concreta realizzazione dell’idea compositiva
raggiunge la sua massima pregnanza.
Con la ripresa del MIb (219), la dissociazione si fa anco-
ra più marcata, in quanto la modulazione avviene prima
del culmine scenico-musicale dell’ingresso degli amanti
nella grotta (240), ma dopo la ripresa tematica (203),
opponendo alla fluida continuità dinamica di quest’ulti-
ma un granitico blocco accordale contro il quale il
movimento delle figurazioni viene come a infrangersi.
Ma sono proprio il contrasto e la dislocazione a permet-
tere all’evento tonale di proiettarsi in primo piano come
espressione dello sconvolto scenario naturale che per
un attimo diviene protagonista assoluto e, nello svuotar-
si di presenze umane, appare definitivamente invaso
dalle forze sovrannaturali, oscure dominatrici dei destini
umani, che presiedono al compiersi dell’evento fatale.
La ‘falsa’ ripresa del MIb partecipa anche al disegno
discontinuo tipico del brano, offrendo un culmine par-
ziale dal cui riflusso scaturisce il climax definitivo:
24
Es. 5
Tra i due momenti, la collocazione decentrata di un
tema produce ulteriori fratture armoniche: mentre il SI
min. (autentica interpolazione nell’interpolazione) simu-
la una strutturata modulazione, il RE della fanfara si
innesta come libera appendice, attraverso la consueta
tecnica dello s c i v o l a m e n t o. Sul riflusso dinamico
dell’enorme onda sonora il MIb riesplode con irraziona-
le anticipo sul tempo debole della battuta, cosi che per
un’ennesima volta la modulazione resta vuota, mentre
gli ingressi delle fanfare e del coro cadono subito dopo,
come una manciata di figure proiettate con scomposta
violenza sul campo aperto della tonalità.
9.2 La forma integrale
Il problema centrale della Chasse consiste nella media-
zione tra piano musicale e piano rappresentativo. Uno
strutturato svolgimento sinfonico deve integrarsi a un
mutevole e irregolare svolgimento scenico, la necessità
di ripetizioni e connessioni musicali non può perdere di
vista il globale effetto di disordine richiesto dal soggetto.
In particolare, i passaggi atematici, in apparenza volti
solo a liberi effetti naturalistici, mostrano il massimo
sforzo di mediazione compositiva: le fratture ritmiche e
armoniche che li caratterizzano tendono a evitare che
l’ingresso del tema sia qualcosa di ‘ben preparato’ — la
logica risoluzione di un accumulo di tensione, di un
movimento orientato inequivocabilmente verso un cul-
mine —, ma in ultimo si rivelano momenti integrati che
riaffermano più fortemente il principio, che si direbbe
beethoveniano, di conferire carattere di necessità al
momento tematico. Proprio nel gioco di interdizioni e
risoluzioni il rapporto tra parti tematiche e non fonda la
sua forza vincolante.
Nella creazione di questa dialettica compositiva tutti gli
elementi operano in stretta correlazione: come aveva
intuito Newman quello della Chasse è un esempio di
forma integrale nella quale lo stesso schema tonale non
è comprensibile prescindendo dalle tecniche di modula-
zione, dalla dinamica delle figurazioni, dalla tensione
funzionale dei vettori armonici e da tutti i diversi ele-
menti che concorrono alla caratterizzazione delle tona-
lità stesse. Ma paradossalmente è la stessa integrazione
formale a permettere ai singoli elementi di stagliarsi con
la forza di irrelati gesti rappresentativi, dimostrando
come il principio del contrasto, responsabile delle solu-
zioni apparentemente più anarchiche, in realtà sottenda
nei suoi schemi applicativi uno degli aspetti più rigorosi
dello stile: e questo sarebbe anche in sintonia con la tesi
di Brian Primmer per la quale in Berlioz tanto più estre-
mi sono gli argomenti trattati, tanto maggiore diviene il
 Opera
controllo dei procedimenti compositivi.48
La Chasse esprime in modo esemplare i tratti tipici di un
‘tardo stile’ che interseca soggettività e oggettività: un
intensificarsi di atteggiamenti riflessivi, proprio a tutti i
Troyens, che spiega come mai il musicista trattò il tema
drammatico di più forte appropriazione personale con
le soluzioni più formalizzate e sistematiche, al punto da
aver fatto pensare alla reviviscenza di una anacronistica
“dottrina degli affetti”.49 Se in sede moderna l’intermez-
zo non è stato criticato per una eccessiva stilizzazione
dei suoi procedimenti ciò è in parte dovuto all’audacia
del passaggio culminante; anche se, fra tutte le inven-
zioni del brano, la sovrapposizione delle fanfare è
anche quella che esprime meglio il tipico procedimento
di pianificare razionalmente un effetto irrazionale.
L’espressione del momento di massimo disordine e vio-
lenza si converte nella lucida furia di una costruzione
contrappuntistica poliritmica — di una complessità
senza paragoni per l’epoca — che sintetizza tutta la
concezione compositiva della Chasse: tanto la sua strut-
tura è calcolata, tanto il suo effetto sonoro è caotico.
La sovrapposizione delle fanfare è anche una dimostra-
zione eloquente di come certe particolarissime sonorità
non siano riducibili, come vorrebbe un diffuso pregiudi-
zio, a semplici soluzioni di orchestrazione.50 L’indubbia
debolezza delle trascrizione pianistica, spesso addotta a
prova della totalizzante preminenza del timbro, non sta
nella sott razione del ‘co lore’ in quanto tale, ma
nell’insuperabile difficoltà a ricostituire un globale nesso
compositivo garantito in origine non solo dalla tavoloz-
za strumentale, ma da tutto l’insieme delle specifiche
capacità di articolazione del medium sinfonico. In parti-
colare, la complessa e originale articolazione delle figu-
re (non riproducibile sul pianoforte) gioca un ruolo
essenziale nella creazione di particolari effetti evocativi
e descrittivi, innalzando eventualmente il ritmo, e non il
timbro, a elemento di primo piano, implicato in modo
più sostanziale in una concezione — che tuttavia non
può dirsi centrale in Berlioz — del suono come in sé. La
complessità ritmica è essenziale nel compensare la rudi-
mentalità di temi e armonie, il vuoto dei passaggi ate-
matici: ne deriva una tipica commistione tra superfici
sonore a larga campitura, simili ad affreschi da cogliere
in modo sintetico e distanziato, e articolazioni di minia-
turistica complessità che richiedono una percezione
attenta e ravvicinata. La stratificazione dei disegni, per
quanto di intento coloristico, non si fonde mai in massa
indifferenziata, ma mantiene sempre percettibile la spe-
cifica attività dei singoli strati all’interno della figura
sonora, in una trasparenza di scrittura che esprime
l’ideale tecnico ed estetico di un maestro dell’orchestra-
zione ai vertici delle sue possibilità.
10. Modelli musicali
La fedeltà al postulato della chiarezza era tale da mette-
re in discussione i modelli più amati. Nel temporale
della Sesta di Beethoven le quartine dei contrabbassi e
le quintine dei violoncelli (b. 21 sgg.) — che “si urtano
reciprocamente senza arrivare a fondersi in un unisono
reale”51 (effetto ‘rumorista’ che ha esaltato i commenta-
tori moderni) — sono oggetto di un commento circo-
spetto che, nella sua impronta conservatrice, si apparen-
ta ai giudizi negativi su certe presunte “stravaganze”
armoniche della sinfonia. Il passaggio colpisce però per
la sua atipicità, dato che il brano era ammirato incondi-
zionatamente per la sua capacità tanto di riassorbire
l’assunto imitativo in pura forma musicale, quanto di
elevarlo al massimo grado di “verità e sublime”, a riparo
dal volgare equivoco di una natura prise sur le fait.52 Il
modo con cui Berlioz guarda all’esempio beethovenia-
no, ammirando insieme l’elemento pittorico e quello
musicale, trova un corrispettivo nella duplice funzione
che la componente extramusicale svolge nella sua musi-
ca, sia come fine poetico in sé, sia come innesco per
particolari soluzioni compositive. La legittimazione este-
tica offerta da una situazione limite, quale quella
dell’evento naturale terrifico, spalanca la strada a ine-
spresse potenzialità musicali: la motivazione esterna giu-
stifica e regola il radicalismo, le pulsioni di uno stile
altamente soggettivo e complesso.53 E in quest’ottica si
può interpretare la condanna delle più avanzate soluzio-
ni di Wagner in quanto non eccezioni espressivamente
mirate, ma parti stabili e integrate del linguaggio.
In ambito critico l’adeguatezza delle risorse musicali al
soggetto poetico-drammatico è un tema centrale. Così, a
proposito dell’orage nella sinfonia del Guillaume Tell,
Berlioz riconosce di trovarsi di fronte a un brano ‘ben
scritto’, ma depreca che Rossini non sia stato indotto dal
soggetto ad abbandonare i ritmi squadrati e le frasi sim-
metriche in favore di un più adeguato “beau desor-
dre”.54 La scarsa efficacia descrittiva del brano si delinea
come la conseguenza di un difetto propriamente musi-
cale: un ricorso a stereotipi compositivi che spezza il
sottile legame tra imitazione e trasfigurazione del dato
materiale. I passaggi jetées dei fiati che alludono alla
pioggia sono banali non nell’intendimento realistico, ma
nel riproporre una formula musicale logora. 55 L’imitazio-
ne perde la sua funzione di veicolo del nuovo, diven-
tando preda di un consumo volgare, di una degustazio-
ne culinaria dell’effetto.
Peraltro, i caratteri di “spoglia desolazione” ammirati
nella tempête d’apertura dell’Iphigenie en Tauride, per
quanto al riparo da implicazioni edonistiche, non resta-
no immuni da critiche circa gli eccessi di semplicità ed
economia del “sistema” gluckiano, responsabili in ultimo
di mortificare le potenzialità espressive del tema rappre-
sentativo.56 Tuttavia il maggiore disappunto non sembra
venire dalla semplicità dei materiali e dell’orchestrazione
(senza tromboni), quanto da uno sviluppo condizionato
da inefficaci ripetizioni e progressioni. Sotto questo
aspetto gli esempi di Gluck e di Rossini risulterebbero
clamorosamente uniti da una stessa presenza di procedi-
menti meccanici e convenzionali, responsabile di insteri-
lire la vividezza e la ‘verità’ del quadro naturalistico. Ciò
dimostra ancora più chiaramente come per Berlioz la
grandezza dell’esempio beethoveniano stesse in una
capacità rappresentativa direttamente conseguente
dall’assoluta originalità della concezione compositiva: la
25
 Opera
tecnica si liquida attraverso il suo stesso potenziamento,
il linguaggio sinfonico si trasfigura in ‘voce della natura’.
All’opposto di un abbandonarsi all’informale, l’estetica
del beau desordre si configura come una ricerca di pre-
gnanza formale al di là degli schemi tradizionali.
In questo senso, per quanto Berlioz sia stato una figura
chiave nello sviluppo del “caratteristico” e del “brutto”
in musica,57 in lui resta centrale il postulato di una
forma compiuta e razionale posta a mediare la rappre-
sentazione di tematiche estreme. La forte persistenza di
un’estetica classica — evidente nel quasi ossessivo inte-
ressamento alla questione del Bello assoluto 58 — riusci-
rebbe a spiegare come mai un artista così diverso poté
guardare all’opera di Mendelssohn con tanta ammirazio-
ne, scorgendovi, non diversamente da Schumann, la
perf etta concil iazione t ra forma ed espress ione.
All’implicita idea berlioziana di una tecnica compositiva
che nell’affinarsi si decanta poeticamente si può accosta-
re la celebre autocritica di Mendelssohn, durante la revi-
sione delle Hebriden, a proposito del passo che “sa più
di contrappunto che di olio di pesce, di gabbiani e di
merluzzo, mentre dovrebbe essere il contrario”: una
rivalsa della componente evocativa e pittoresca attraver-
so l’originale caratterizzazione delle soluzioni compositi-
ve che Berlioz non mancò di evidenziare nella sua ana-
lisi del brano.59
11. Analisi e concezione compositiva
Il tipo di considerazioni tecniche che si trovano nella
recensione delle Hebriden mostrano uno stile analitico
essenzialmente volto a scrutare nel dettaglio, come
attraverso una lente di ingrandimento. Qui, come altro-
ve, il musicista si sofferma su momenti circoscritti, tra-
scurando strutture tematiche, armoniche e tonali su
larga scala. Sottolineature e punti esclamativi vengono
idealmente posti su certi passaggi — a volte minimi e
apparentemente trascurabili — senza attenzione per
come questi riescano, o meno, a collegarsi in un insie-
me coerente. L’interesse è soprattutto rivolto all’indivi-
duazione e all’esaltazione del particolare emblematico.
Non si tratta mai la complessiva proprietà estetica
dell’oggetto, che resta qualcosa di chimerico, ma ciò
che di questo è stato registrato con maggiore intensità
emotiva: l’antologia dei suoi luoghi memorabili. L’analisi
non ricostruisce il testo, ma ne oggettiva in senso tecni-
co l’esperienza poetica, e per questo non riflette perso-
nali concezioni compositive. Il fatto che in sede critica
non si configuri un’idea di ‘forma’ non costituisce la
prova di un approccio compositivo irriflesso, così come
la mancanza di certi contenuti tecnici non esclude la
loro presenza nella musica.
Peraltro, l’ipotesi di globali procedimenti compositivi
non sembra neppure contraddetta da quella fondamen-
tale concezione berlioziana che, incentrata com’è sul
principio sovrano dell’espressione e degli effetti tangibili
e immediati, appare strettamente dipendente dalla carat-
terizzazione individuale di ogni singola soluzione, dalla
concreta eloquenza di un hic et nunc. Nell’intermezzo
26
gli elementi strutturalmente integrati si mostrano in
modo direttamente eloquente, suggerendo la presenza
di una possibile eredità beethoveniana proprio nella
capacità di evidenziare la struttura, di drammatizzarne la
dialettica interna, seppure in Beethoven si tratti in larga
misura di un rispecchiamento interno, di un’autorifles-
sione della forma, e in Berlioz di una trasposizione
esterna, di un gesto funzionalizzato, sempre e comun-
que, a un significato extramusicale.
Accettata la presenza di una componente strutturale in
questa musica, la frattura tra sfera critica e sfera creativa
si può spiegare in rapporto al contesto giornalistico,
all’indole letteraria del recensore, ai criteri estetici
dell’epoca. In senso lato, il ruolo limitato dell’analisi è
interpretabile come segno della scarsa fiducia nella pos-
sibilità di circoscrivere in senso tecnico il valore di
un’opera. Come è caratteristico di altra critica coeva
anche qui l’analisi viene tendenzialmente sostituita dalla
parafrasi poetizzante, considerata come migliore stru-
mento per tentare di cogliere un’essenza e attenuare il
distacco, considerato incolmabile, che separa l’espres-
sione musicale da quella verbale.60 In Berlioz non è poi
raro imbattersi nella figura retorica, essa stessa culmine
di poetizzazione letteraria, della parola che si arrende di
fronte all’indicibile: la resistenza che la creazione musi-
cale oppone a essere spiegata in una qualsiasi forma
discorsiva appare come un tratto elettivo. L’incommen-
surabilità diviene criterio stesso di giudizio estetico.61
12. Leggibilità estetica e ricezione storica
Il significato e il valore di un’opera, difficilmente circo-
scrivibili a parole, si impongono invece come evidenze
assolute nel contesto diretto dell’esperienza musicale.
Nonostante ogni implicazione scettica e aristocratica, la
fiducia che il compositore accordò al potenziale comu-
nicativo della musica fu enorme, confidando che quel
valore, altrimenti intangibile, si rivelasse attraverso la
risposta emozionale, lo sconvolgimento interiore
dell’ascoltatore. Questa fede nell’immediata leggibilità
ed efficacia dell’espressione pregnante è un elemento
essenziale nella definizione di orientamenti e soluzioni
creative. Come osserva Dahlhaus: “per quanto rivoluzio-
nario, Berlioz voleva farsi capire dal pubblico”. 62 Di
questa componente ‘didascalica’ della poetica i Troyens
sono forse la migliore espressione, in quanto sintesi dei
vari aspetti lirici, corali, sinfonici e monumentali di uno
stile insieme raffinato e diretto, elaborato ed essenziale.
Al di là del sentimento di cruda disillusione che ne pun-
teggiò la genesi, l’opera definita “grande e forte e, mal-
grado l’apparente complessità dei mezzi impiegati, sem-
plice”63 rappresentò l’estrema possibilità di misurarsi
con il genere ufficiale del grand-opéra, di ottenere un
vasto riconoscimento, la desiderata consacrazione popo-
lare. E per questo, seppure a tratti violentemente tentato
di abbandonarla, Berlioz la completò e cercò di rappre-
sentarla spinto non solo dall’orgoglio artistico, ma anche
dal convincimento di avere in mano una creazione di
destinazione eminentemente ‘pubblica’. Il desiderio
 Opera
esplicito era che le melodie dei Troyens potessero esse-
re cantate per le strade di Parigi.64
In questa prospettiva bisogna ipotizzare che il musicista
avesse concepito una struttura drammaturgica nella
quale il modello letterario e le implicazioni personali
non dovessero creare uno schermo interferente, un
obbligatorio filtro di lettura. La stessa presenza ideale
dell’autore all’interno dell’opera, in funzione di com-
mento a eventi e personaggi, diviene esteticamente fon-
data se si stabilisce che a parlare è un “soggetto esteti-
co”, inglobato nella sostanza artistica dell’opera, e non
un “soggetto biografico”, del quale è lecito non sapere
nulla.65 La fortissima appropriazione privata del tema da
parte dell’autore sostanzia in modo decisivo l’opera e al
tempo stesso resta sullo sfondo: anche per un consape-
vole ascoltatore moderno, la conoscenza di un retroterra
intimo può aggiungere elementi di suggestione, ma a
rigore non è esteticamente pertinente.
L’opera non fu concepita come confessione autobiogra-
fi ca, ma neppure c ome parafr asi let teraria.
Naturalmente, Berlioz doveva ipotizzare diversi gradi di
compenetrazione da parte dei suoi ascoltatori, privile-
giando il sensitivo conoscitore di Virgilio rispetto al frui-
tore ‘ingenuo’, ma non per questo concepì un’opera per
conoscitori, una rielaborazione erudita. Mentre la raffi-
nata parafrasi dell’Eneide richiede la conoscenza del
tema epico, i Troyens sembrano garantire la diretta com-
prensibilità di situazioni e caratteri, prescindendo da
una rete sotterranea, comunque importante, di rimandi
al poema. Eventualmente, come indica Paolo Isotta, la
presenza vincolante di un modello può essere trasferita
su un piano propriamente musicale: “l’epica di secondo
grado” (T.S. Eliot) svolta da Virgilio rispetto a Omero,
troverebbe un corrispettivo nel ripensamento fatto da
Berlioz delle opere di Gluck e di Spontini, intese
anch’esse quali archetipi artistici assoluti.66
Tuttavia, nonostante l’autonomia narrativa, resta signifi-
cativo come molte recensioni del 1863 abbiano conside-
rato la Chasse una ellittica citazione letteraria, incom-
prensibile ai più. L’attendibile testimonianza circa l’effet-
to “strano e disorientante”67 sul pubblico evidenzia che
non si trattò di una limitato atteggiamento della critica,
ma di una generalizzata reazione negativa. A ciò va
aggiunta la componente di eccesso lamentata perfino da
un ammiratore come Paul de Saint Victor:
[...] ciò che si potrebbe rimproverare a Berlioz è di aver
conferito alla sua sinfonia un carattere più satanico che
mitologico. Questa caccia infernale sembra orchestrata
dal diavolo delle leggende germaniche. I proiettili strega-
ti del Freischütz fischiano in orchestra. Si ascoltano le
grida riecheggianti di amazzoni a cavallo di manici di
scopa: Har! Har! Sabbat! Sabbat!. Al posto di Enea in
costume frigio e di Didone nelle vesti di Diana cacciatri-
ce, non ci si meraviglierebbe di vedere arrivare la vecchia
Bàubo a cavalcioni della sua scrofa, o quella strega che
sbarca al Brocken su di un trogolo impavesato con uno
straccio sudicio al posto di una vela. Il libro cabalistico
cancella il poema, è Virgilio tradotto dal dottor Faust.68
Le maggiori riserve furono però indirizzate alla musica:
quasi tutti i critici interpretarono il brano come il pro-
dotto di un’ispirazione iconoclasta, scagliandosi contro
le “violente e orribili dissonanze”69 e le sonorità ipertro-
fiche (seppure le une fossero inesistenti e le altre restas-
sero limitate al breve passaggio culminante). In genera-
le, considerato come tutta l’opera sembrò il parto di una
musa modernista e dissonante, si può capire perché negli
ultimi anni il sentimento di incomprensione, lamentato
dal compositore per tutta una vita, avesse assunto conno-
tazioni pressoché persecutorie. Se ne ha un esempio,
intriso dal consueto livore ironico, in una lettera scritta
all’amico von Bülow durante la creazione dell’opera:
I critici luterani, mi dite, non hanno troppo maltrattato il
mio Pastore bretone. È gente onesta, in fondo, che quan-
do sente l’accordo di mi bemolle ammette francamente
che, benché scritto da me, tale accordo non risulta disso -
nante. Il nostro maniaco della Rivista dei due Mondi non
è di tale probità e quando gli si fa ascoltare un accordo
di mi bemolle uscito dalla mia penna lo dichiara intolle-
rabile.70
Nel tentativo di interpretare in chiave storica la proble-
matica ricezione della musica di Berlioz si potrebbe risa-
lire all’inquadramento estetico degli esordi, consideran-
do come l’etichetta di ‘giacobinismo’ musicale — tipica,
ad esempio, della rappresentativa Symphonie fantasti -
que — si impresse indelebilmente in tutta la produzione
successiva. Trent’anni dopo il ruggito rivoluzionario
della Jeune France, nel clima involuto del Secondo
Impero, il preconcetto avrebbe investito anche l’ultimo
tentativo parigino del compositore, nonostante le posi-
zioni conservatrici ostentate in musica come in politica
da quest’ultimo e la positiva accoglienza riservata
all’Enfance du Christ.
Il problema venne a trasformarsi in un autentico para-
dosso allorché, verso il volgere del secolo, la critica ini-
ziale di modernità si invertì di segno. Sotto l’influsso di
un incipiente wagnerismo i Troyens subirono una sorta
di spiazzamento storico che li avrebbe sospinti verso
una terra di nessuno: l’opera troppo vicina per essere
guardata con l’ottica del prodotto storico, risultò anche,
a paragone della nuova estetica del dramma musicale,
irrimediabilmente lontana. Considerandone gli aspetti
meno innovativi — come le forme chiuse, i recitativi,
l’armonia — si sospettò che il lavoro fosse stato anacro-
nistico al suo stesso nascere, e se ne ripudiò
quell’immagine che solo in tempi recenti sarebbe appar-
sa suggestiva: la rosa d’inverno della tragédie-lyrique, la
nostalgica reincarnazione gluckiana.
Se si torna alla prima del 1863 con la mente a questi svi-
luppi fa una certa impressione leggere come, nella pur
favorevole e argomentata recensione di Gustav
Bertrand, la Chasse abbia potuto configurarsi come un
vero e proprio enigma estetico resistente a ogni volente-
roso tentativo di interpretazione (eccetto la soggiogante
melodia del richiamo).71 Ancora una volta, l’impressio-
ne è che la difficoltà di lettura derivasse dall’atipico
modo del brano di stilizzare un effetto informale, di
mescolare antico e nuovo. È presumibile che dopo
l’allestimento parigino del Thannhäuser di Wagner la
C h a s s e non potesse più suonare come un lavoro
‘d’avanguardia’, ma forse proprio l’impossibilità di rife-
rirla a una precisa linea di sviluppo storico ne rendeva
ancora più difficile la lettura: il suo stesso modo di esse-
re moderna appariva enigmatico. E in quest’aporia criti-
27
 Opera
ca sembra delinearsi l’intero problema storico ed esteti-
co dei Troyens, grazie anche a una parafrasi letteraria
che restituisce come meglio non si potrebbe il senso di
un classicismo quintessenziato travolto da quel “gesto
schiacciantemente moderno”72 destinato a rimanere a
lungo indecifrato:
Questa sinfonia, come altre di Berlioz, mi fa pensare al
pittore stravagante e profondo che Balzac ha tratteggiato
nel suo racconto Il capolavoro sconosciuto:
“Guardate — gridava — questi capelli inondati di luce...
questo seno... queste carni palpitanti! C’è tanta profondità
in questa tela, l’aria è così vera che non la potreste distin-
guere da quella che vi circonda. Dov’è l’arte? Perduta,
scomparsa... — Ma quelli che lo stavano a sentire non
vedevano che colori confusamente ammassati tra una
moltitudine di linee bizzarre, come a formare una sorta di
muraglia pittorica. Eppure, nell’avvicinarsi, scorsero in un
angolo della tela la punta di un piede nudo che emergeva
da questo caos di toni e di sfumature indefinite: un piede,
ma un piede meraviglioso, vivente! Restarono pietrificati
d’ammirazione...”
Questo piede, nella sinfonia di Berlioz, è la fanfara poeti-
ca e lontana.73
NOTE
1 J. RUSHTON, Berlioz’s roots in 18th Century French opera, in
“Berlioz Society Bulletin”, 1965, n. 50, pp. 5-7.
2 26
Un’ampia selezione di recensioni del 1863 sui Troyens à
Carthage è contenuta in: A. E RNST, L’oeuvre dramatique de H.
Berlioz, Calmann Lévy, Paris, 1884, pp. 251-287. Per riferimenti
più specifici si rimanda alle successive citazioni.
3 Lettera a Toussaint Bennet del 11 giugno 1856, in
Correspondance générale (CG), Flammarion, Paris, 1972-1989,
V, p. 317. (Tutte le traduzioni dei passi citati sono nostre.)
4 Eloquente è anche la relazione tematica che collega l’allusiva
coda sinfonica del III atto (n. 28, b. 381 sgg.) al tema di apertu -
ra della caccia.
5 Lettera al padre Louis del 19 febbraio 1830, CG, I, p. 310.
6 I. K EMP, Chasse royale et orage, in Hector Berlioz: Les Troyens,
Cambridge Opera Handbooks, Cambridge University Press,
Cambridge-New York, 1988, p. 150.
7 C. B E Y E, Sunt Lacrymae Rerum, in “Parnassus”, X, 2, 1982,
p. 78.
8 P. R OBINSON, The Idea of History, in Opera and Ideas, Cornell
University Press, Ithaca NY, 1985, pp. 104-156.
9 J. R U S H T O N , The ouverture to “Les Troyens” , in “Musical
Analysis”, lV, 1985, p. 122.
10 E . N E W M A N , Before the Beecham Broadcast , in B e r l i o z ,
Romantic and Classic (antologia di saggi), Victor Gollancz,
London, 1927, p. 197.
11 L. GUICHARD, Berlioz jugé par Richard Wagrer d’apres le Journal
de Cosima, in Berlioz Biographie et autobiographie. Festival
Berlioz, Actes du colloque, Lyon, 1980, p. 51.
28
12 O. VISENTINI, Hector Berlioz fra tradizione e modernità, in
H. Berlioz. Memorie, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1989,
p. 129.
13 J. WEBER, Les Troyens, “Le Temps”, 17 novembre 1863.
14 H. BE R L I O Z , M é m o i r e s, Garnier-Flammarion, Paris, 1969, II,
p. 42.
15 Lettera alla principessa Sayn-Wittgenstein, CG, V, p. 363.
16 D. C AIRNS, Berlioz and Virgil. A consideration of “Les Troyens”
as a Virgilian opera, in “Proceedings of the Royal Musical
Association”, XCV, 1968-69, p. 104.
17 B. JOUVIN, M. Hector Berlioz, “Figaro”, 8 novembre 1863.
18 H. BERLIOZ, Euphonia ou la ville musicale, nouvelle de l’avenir. in
Les soirées de l’orchestre, Stock, Paris, 1980, pp. 312-354.
19
H. B ERLIOZ, Sur l’etat actuel du chant, in A travers chants,
Grund, Paris, 1971, p. 126.
20 La seconda versione della Chasse è riportata nell’appendice dei
Troyens, NBE, Bärenreiter, Kassel, vol. IIc, p. 841.
21 I. KEMP , op. cit., p. 152.
22 H. BERLIOZ , Musique, in A travers chants, cit., p. 29. Stessa
importanza viene attribuita alla molteplicità dei suoni (raddop-
pi di una singola parte).
23 Stridente è ad esempio il contrasto tra i continui compromessi
accettati specie durante i viaggi musicali e le particolari qualità
interpretative che Berlioz riteneva essenziali alla sua musica: “È
necessaria una precisione estrema unita a un brio irresistibile,
una foga controllata, una sensibilità sognante, una maliconia
per così dire morbosa, senza di che i tratti principali delle mie
figure risultano alterati o vengono del tutto cancellati.”
(Mémoires, cit., II, p. 330.)
24 J. TIERSOT, Berlioziana, in “Le Menestrel”, vol. 70, n. 34, 21 ago-
sto 1904, p. 267.
25 Ibidem, n 37, 11 settembre 1904, p. 294.
“La France”, 9 novembre 1863. Una colorita e ampia descrizio-
ne dei fatti relativi all’allestimento del 1863 la fornisce Berlioz
stesso nei suoi Mémoires (cit., II, pp. 338-344).
27 J. D’ O R T I G U E, Première représentation des Troyens de M.H.
Berlioz, “Journal des débats”, 9 novembre 1863.
28 J. TIERSOT, Les Troyens à Carthage, “Le Ménestrel”, vol. 58, 12
giugno 1892, p. 187. A. J ULLIEN, Musiciens d’aujourd’hui, vol.
II, Librairie de l’art, Paris, 1894, p. 97.
29 P. DUKAS, Les Troyens, in Chroniques musicales sur deux siècles.
1892-1923, Stock, Paris, 1979, p. 67.
30 M. C O O P E R , Les Troyens, in Judgements of Value, Oxford
University Press, 1988, pp. 101-103.
31 E. NEWMAN, Berlioz, Romantic and Classic, cit., pp. 216 e 229.
32 H. MACDONALD , Berlioz, Dent, London, 1982, p. 166.
33 E. NEWMAN, The Royal Hunt and Storm, in Berlioz Romantic
and Classic, cit., p. 229.
34 M. BORTOLOTTO, Tunisie française, in Consacrazione della casa,
Adelphi, Milano, 1982, p. 315.
35 J. R U S H T O N , The musical language of Berlioz, Cambridge
University Press, London-New York-Sydney, 1983, p. 266.
36 H. KÜHN, Antike Massen. Zu einigen Motiven in “Les Troyens”
von Hector Berlioz, in “Opernstudien: Anna Amalie Abert zum
65. Geburtstag”, Tutzing, 1975, p. 141.
37 C. DAHLHAUS, Il realismo musicale, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 59.
 Opera
38 Questo tipo di riscrittura, volta a evidenziare le conflittualità rit-
miche dei temi rispetto alla battuta, è impiegato diffusamente
da P. FRIEDHEIM nel suo saggio: Berlioz and Rhythm, in “The
Music Review”, XXXVII, 1976, p. 5.
39 H. B ERLIOZ, Étude critique des symphonies de Beethoven, in
A travers chants, cit., p. 54.
40 I. KEMP, op. cit., p. 156.
41 W. S CHENKMAN, Fixed ideas and recurring patterns in Berlioz’s
melody, in “The Music Review”, 40, 1, 1979, p. 25.
42 Il passo è citato, in relazione alla particolare risoluzione ascen-
dente della settima abbassata, in J. R USTHON, The musical lan -
guage of Berlioz, cit., p. 41.
43 Quello che definiamo inversione è un caratteristico stilema (cfr.
P. F R I E D H E I M , Radical harmonic Procedures in Berlioz, in
“Music Review”, XXI, 1960, p. 282) inserito comunque in una
logica armonica funzionale.
44
I. KEMP, op. cit., p. 153.
45 “In musica sono un incredulo, o, per meglio dire sono della
religione di Beethoven, Weber, Gluck, Spontini, che credono,
professano e provano con le loro opere che tutto è buono o
che tutto e cattivo; l’effetto prodotto da certe combinazioni è il
solo criterio valido per condannarle o assolverle” (Mémoires,
cit, II, p. 324).
46
Per un esempio di differimento cadenzale nel Requiem cfr:
E.T. C O N E , Inside the Saint’ s Head , in “Berlioz Society
Bulletin”, n. 87, 1975, p. 9.
47 J. R USHTON, The musical language of Berlioz, cit., p. 111.
48 B. P RIMMER , The Berlioz Style, Oxford University Press, London-
New York-Toronto, 1973, p. 24.
49 M. BORTOLOTTO, op. cit., p. 319.
50 Per un simile orientamento critico in ambito italiano: F. D’AMICO,
Berlioz cent’anni dopo, in “Chigiana”, Leo S. Olschki, Firenze, 1971,
p. 77.
51 H. BERLIOZ, Étude critique des symphonies de Beethoven, in A
travers chants, cit., p. 58.
52 In uno scorcio di gusto surrealista, Berlioz esprime l’equivoco
estetico del realismo attraverso la figura di un ossessionante
inventore che pubblicizza la sua macchina sonora capace di
imitare il vento meglio delle gamme cromatiche del temporale
beethoveniano (“Revue et gazette musicale de Paris”, 7 gen-
naio 1838, in Cauchemars et passions, a cura di G. Condé,
Lattès, Paris, 1981, p. 86).
53 La funzione ausiliaria dell’elemento poetico e programmati-
co è suggerita da H. Macdonald nelle conclusioni del suo
studio: Berlioz’s Self-Borrowings, in “Proceedings of the
Royal Musical Association”, XCII (1965-66), pp. 27-44.
54 “Journal des débats”, 17 febbraio 1844, in Chauchemars et pas -
sions, cit., p. 53.
55 La Chasse tenterà di riscattare il convenzionale topos imitativo della
pioggia con un complesso canone poliritmico degli archi (bb. 190-
195). Cfr. al riguardo l’analisi di I. KEMP, op. cit., p. 151 e sgg.
56 “Gazette musicale de Paris”, 9 novembre 1834, in Cauchemars
et passions, cit., p. 189.
57 C. D AHLHAUS, op. cit., pp. 43-61.
58 Il relativismo estetico dietro il quale il musicista si trincera è
interpretabile come polemica reazione all’inautenticità della
vita musicale. In una novella umoristica, il fatto che una sonata
dettata medianicamente da Beethoven dal suo soggiorno ultra-
terreno su Saturno, invece che esprimere una sfera superiore,
possa risultare del tutto insulsa a “noi, musicisti infimi di un
mondo infimo e subsaturnino” fa ipotizzare maliziosamente
che, per converso, “le opere rappresentate e applaudite gior-
nalmente sulla terra, perfino in teatri che il pudore vieta di
nominare” altro non sarebbero che “banalità infinite per l’uni-
verso infinito” (H. B E R L I O Z , Beethoven dans l’anneau de
Saturne, in A travers chants, cit, pp. 108-109). Il tema del Bello
Assoluto, presente in numerosi passaggi critici di Berlioz, è al
centro di un’altra divagazione letteraria a sfondo cosmico: Les
operas se suivent et se ressemblent - La question du beau, in Les
soirées de l’orchestre, cit., pp. 217-220.
59 “Journal des débats”, 17 febbraio 1844, in Chauchemars et pas -
sions, cit., pp. 50-52.
60 C. DAHLHAUS , Analisi musicale e giudizio estetico, Il Mulino,
Bologna, 1987, p. 28.
61 Ciò che Berlioz dice sull’aria dell’Alceste di Gluck “Ah, divinités
implacables”, dichiarando preventivamente di essere “perfetta-
mente incapace di descriverne la dolorosa bellezza”, è uno tra i
tanti possibili esempi di discorso sulla musica che si costruisce
per autonegazione: “Bisognerebbe essere un grande scrittore,
un poeta dal cuore infiammato per descrivere degnamente un
tale capolavoro, un tale modello di bellezza antica, un così stu-
pefacente esempio di filosofia musicale unita a tanta sensibilità
e nobiltà. E tuttavia anche il più grande dei poeti sarebbe in
grado di farlo? Una simile musica non si descrive; bisogna
ascoltarla e possederne il sentimento” (L’Alceste d’Euripide, cel -
les de Quinault et de Calzabigi; les partitions de Lulli, de Gluck,
de Schweitzer et de Haendel sur ce sujet in A travers chants, cit.,
p. 207).
62 C. DAHLHAUS, Analisi musicale e giudizio estetico, cit., p. 28.
63 Lettera all’imperatore Napoleone III del 28 marzo 1858, CG, V,
2285, p. 555.
64 K. HOLOMAN , Berlioz, Harvard University Press, Cambridge-
Massachusetts, 1989, p. 529.
65 La distinzione tra soggetto estetico e soggetto biografico è tratta
da C. DAHLHAUS, Beethoven e il suo tempo, EDT, Torino, 1990,
p. 43 e sgg.
66 P. ISOTTA, Enea e Didone dal poema alla musica, “Corriere
della sera”, 29 maggio 1982,
67 A. DE GASPERINI, Les Troyens, “Le Ménestrel”, 15 novembre 1863.
68 P. DE SAINT VICTOR, Les Troyens à Carthage, “La Presse”, 9 novem-
bre 1863.
69 B. JOUVIN, op. cit.
70 Lettera a Hans von Bülow del 20 gennaio 1858, CG, V, p. 531.
Il tema è ripreso in una nota dei Mémoires, cit., II, p. 315.
71 G. BERTRAND, La crise musicale. A propos des Troyens de M. Hector
Berlioz, in “Revue Germanique et Française”, IV, 1° dicembre
1863, pp. 755-773.
72 M. BORTOLOTTO, op. cit., p. 327.
73 G. BERTRAND. op. cit., p. 766.
29
 Opera

30 30
 Computer music
Basi midi per la musica classica
Federico Maria Barnaba
Aspetti generali
La riproduzione della musica attraverso il personal
computer e gli strumenti elettronici midi è un gran-
dissimo passo avanti in fatto di diffusione, archivia-
zione e stampa della musica classica e offre grandi
opportunità nel campo commerciale e in quello
didattico; al tempo stesso, oltre a porre l’uomo di
fronte a problemi etici e tecnici, costringe l’utente
alle costose rincorse dei nuovi software e delle mac-
chine più veloci. Il passaggio a strumenti di lavoro
sempre più sofisticati, che diventa necessario per esi-
genze appena superiori a quelle amatoriali, è dovuto
alla vertiginosa crescita sotto il profilo della qualità
dei prodotti in commercio e alla scarsa compatibilità
delle versioni successive dei software negli hardware
via via meno recenti.
Qui ci occuperemo della stampa delle partiture e
della loro realizzazione sonora attraverso l’elaborato-
re, i software dedicati, il protocollo midi di codifica e
trasmissione dei dati e i generatori di suono (le tastie-
re elettroniche, o device, e i campioni sonori).
Il funzionamento di queste apparecchiature è sche-
matizzato in figura 1. Innanzi tutto, se l’utente non
possiede già un file con la partitura del brano di suo
interesse, deve crearlo cioè trascrivere i simboli musi-
cali (input) nel pentagramma che appare sullo scher-
mo del computer con il sistema di codifica offerto dal
software. I sistemi di codifica sono peculiari per cia-
scun programma, però possono essere raggruppati in
tre principali categorie: l’immissione delle note dalla
tastiera del computer, l’inserimento con il mouse e
quello attraverso l’esecuzione su una tastiera elettro-
nica collegata via midi. Nel primo caso il software
predispone una mappa dei tasti per definire l’altezza
delle note, la loro durata e altri aspetti della simbolo-
gia musicale, mentre con il mouse si spostano sul
pentagramma i disegni dei simboli desiderati.
La procedura di trascrizione è seguita da una fase di
correzione e da una di modifica (editing) del file, che
dipende dal fine ultimo del lavoro. Qui ci si imbatte
nella prima grave carenza del protocollo midi: esso
non contempla la trasmissione dei simboli d’espres-
sione (trilli, tremoli, staccati, crescendo...) quindi
l’utente li codificherà solo se è interessato alla stampa
della partitura, altrimenti eviterà un lavoro che risulta
inutile, visto che nessuna tastiera elettronica li riceve.
Tuttavia, per ottenere un risultato che sia soddisfa-
cente all’ascolto, non si può prescindere dall’imboc-
care una strada alternativa: il lungo lavoro di editing
cioè la modifica dei parametri degli eventi nota con-
tenuti nei messaggi midi che vengono memorizzati e
poi trasmessi alla tastiera elettronica. Come vedremo,
ciò permette di ottenere risultati che emulano in
parte l’esecuzione umana. Ogni generatore di suono,
in genere, ha in memoria diverse varianti timbriche
per ogni strumento, ma la limitazione dovuta all’uso
di sedici canali midi non consente di utilizzarle in
modo efficiente per ricreare le varie possibiltà espres-
sive. È anche per questo che si ricorre all’editing dei
parametri, che è quindi condizionato dalla scelta dei
timbri tra quelli disponibili. Questo lavoro include
quello di missaggio (editing dei volumi) se la sorgen-
te non possiede molte uscite audio separate da colle-
gare ad un mixer.
Il file che contiene i dati pronto per l’esecuzione
musicale prende il nome di base midi; molti device
incorporano un disk drive in grado di leggere questi
file contenuti su un floppy disk senza avere bisogno
di collegarsi con l’elaboratore.
La stampa
Il programma più adatto a stampare uno spartito
musicale (a parità di stampante) è il “Finale”, disponi-
bile per le piattaforme Macintosch e pc. È l’unico in
commercio a mettere a disposizione dell’utente una
grande quantità di simboli pensati per ogni esigenza
musicale (ambito classico, leggero, elettronico...) e
offre in più la possibilità di crearne di personali attra-
verso alcuni t o o l s grafici messi a disposizione in
apposite finestre di lavoro.
“Finale” consente sia l’input delle note da device
esterno, sia l’immissione dalla tastiera del computer
ed entrambi i metodi risultano, in questo programma,
abbastanza veloci. Si deve notare, però, che si otten-
gono risultati diversi: l’immissione da tastiera codifica
le note attraverso messaggi midi con inizio (note on)
come da spartito, e con durata temporale (tempo tra
il segnale di note on e quello di note off) pari a quel -
lo nominale, mentre l’input da tastiera elettronica via
41
 Computer music
midi registra gli eventi esattamente come l’utente li
esegue sul device (con risoluzione temporale fino al
millesimo di secondo) rendendo necessaria una suc-
cessiva opera di quantizzazione per riportarsi allo
spartito originale. La funzione di quantizzazione,
disponibile su tutti i software, ha un’importanza fon-
damentale in quanto permette di riportare le note alla
posizione esatta; in realtà il computer non conosce la
musica e quindi sposta l’evento di note on alla posi-
zione, tra quelle formalmente esatte, che è più vicina
al tempo dell’evento trasmesso con la pressione del
tasto. Questa operazione, dunque, fa ottenere l’esito
sperato solo quando la differenza temporale tra
l’evento nominale e quello reale è molto piccola,
altrimenti è possibile che il programma interpreti il
segnale di note on come inizio di una nota in posi-
zione inesatta: ad esempio vedendolo come un ritar-
do di una nota che doveva essere suonata un sedice-
simo prima quando magari si tratta dell’anticipo di
una nota che deve suonare un sedicesimo dopo. Un
discorso analogo vale per la durata reale delle note
che può essere confrontata con una griglia di valori
nominali. Risulta quindi evidente che l’immissione via
midi richiede una buona capacità tecnica nel suonare
una tastiera altrimenti il suo uso è sconsigliabile a
causa del tempo che si deve poi impiegare nella cor-
rezione del file.
Ultimata l’acquisizione delle note, corretto lo spartito
e aggiunti i simboli d’espressione, si può iniziare la
stampa; questa operazione è gestibile facilmente da
funzioni di impaginazione e con dei font di buona
fattura (a parte i simboli creati per l’uso delle legatu-
re); per questo “Finale” viene impiegato ormai da
tutte le case editrici musicali. Altri software, presenti
in commercio a prezzi molto più contenuti (ad esem-
pio “Allegro”) o che vengono offerti con l’acquisto di
una scheda audio (ad esempio “Cakewalk” oppure
“Jam Session” per la scheda Sound Blaster), non sono
adatti a ottenere stampe o a realizzare basi midi di
partiture complesse.
Principali problemi per la realizzazione di una
base midi
Nonostante tutte le valide opzioni a disposizione
dell’utente, “Finale” non possiede finestre adeguate a
un editing fine dei dati midi e quindi gli mancano
quelle funzioni necessarie alla realizzazione di una
base midi atta a produrre un risultato sonoro soddi-
sfacente. A questo scopo si usano altri programmi,
detti sequencer, quali “Cubase” (Atari, Macintosh, pc),
“Performer” (Macintosh), “Notator” (Atari, Macintosh).
Questi software sono dotati di una particolare finestra
di editing che sostituisce la notazione tradizionale
con una più adatta alla gestione degli eventi midi: al
posto del pentagramma c’è una griglia di quantizza-
zione (figura 2) che si sviluppa orizzontalmente nel
42
tempo nella quale sono inseriti dei trattini che rap-
presentano le note; il punto di inizio del trattino indi-
ca il momento di inizio dell’evento nota (key on) e la
sua lunghezza è proporzionale alla durata. Da questa
finestra è possibile l’inserzione delle note attraverso
l’uso del mouse: questo metodo, pur non essendo
veloce quanto quelli precedentemente analizzati (che
sono pure presenti in questi software, in altre fine-
stre), offre delle funzioni estremamente comode per
plasmare i dati midi durante e dopo l’immissione
degli eventi nota.
La necessità dell’editing nasce dalla povertà del pro-
tocollo di trasmissione midi. Innanzi tutto si compen -
sa la mancanza delle notazioni agogiche agendo sui
parametri che vengono trasmessi con i comandi di
accensione e di spegnimento di una nota: key on
(istante di inizio), key off (durata) e velocity (dinami-
ca). Ad esempio accorciando la durata della nota
(ovvero il numero di tick che intercorrono dal segna-
le di key on a quello di key off) si ottiene un effetto
staccato; allungando la durata di una nota e con-
temporaneamente anticipando l’inizio della succes-
siva si ottiene un effetto che simula una legatura di
espressione.
Purtroppo, per venire incontro alle necessità di chi
usa i sintetizzatori per suonare dal vivo in tempo
reale, alcuni parametri del suono non sono indipen-
denti; in particolare la key velocity agisce modifican-
do, oltre al volume, anche i segmenti di inviluppo
d’ampiezza della forma d’onda che genera il timbro;
spesso l’alterazione sul timbro percepita all’ascolto è
notevole e porta a suoni lontani da quelli che caratte-
rizzano gli strumenti reali che si vogliono emulare.
Per ovviare a ciò si deve prima fissare, attraverso
appositi strumenti (tools) presenti nella finestra di
edit, la key velocity in modo che il timbro sia soddi-
sfacente all’ascolto e poi lavorare sulle variazioni di
ampiezza attraverso il comando di volume (control
change 7); l’operazione va ripetuta su tutta la partitu-
ra voce per voce. A questo punto il risultato può
essere migliorato in successive approssimazioni tor-
nando a ritoccare la key velocity e riequilibrando
l’ampiezza dell’onda sonora attraverso il volume, fino
a raggiungere il miglior compromesso offerto
dall’abbinamento tra il software e la tastiera elettroni-
ca a disposizione dell’utente.
Questo è una specie di missaggio digitale ed è molto
lungo sia perché lavorando su una voce si deve aver
presente il risultato complessivo sia perché esistono
anche altri parametri che devono essere considerati
(particolari segnali midi da memorizzare nel file e
trucchi del mestiere). È spesso necessario anche
variare la sintesi del suono nel device, ma lavorare
con tanti timbri che riproducano sfumature di suono
pone grossi problemi di memoria e di gestione del
midi, che offre solo sedici canali di trasmissione con-
temporanei.
Nel caso in cui il computer sia dotato di una scheda
 Computer music
audio, la quale contiene già in sé molti suoni cam-
pionati, il d e v i c e esterno non serve, e nemmeno
l’interfaccia midi (cfr. figura 3). È utile però puntua-
lizzare che nei software viene comunque usato il pro-
tocollo midi e che diviede inutile solo l’interfaccia,
ovvero quella scheda che permette di trasmettere o
ricevere segnali midi dall’esterno. È necessario ricor-
dare che per lavorare viene sempre usato il protocol-
lo midi.
Per creare una base midi dal risultato sonoro apprez-
zabile è dunque necessario l’impegno di due figure
distinte: un informatico con conoscenza del midi e
un musicista che lo sappia guidare alla realizzazione
di un insieme sonoro il più realistico possibile. La
conoscenza approfondita di un software musicale
non è cosa che si apprende rapidamente e non è suf-
ficiente lo studio teorico per poter affrontare i proble-
mi connessi al suo uso: solo lunghi periodi di pratica
porteranno a risultati soddisfacenti. Bisogna ricordare
infine che esiste la necessità di un continuo aggiorna-
mento e chi è interessato alla materia può trovare in
edicola la rivista “Midi Songs”.
Basi midi in commercio
La maggior parte delle basi midi in commercio è
distribuita in floppy disk che contengono per lo più
brani di musica leggera. Alcune ditte infatti inserisco-
no tra le canzoni qualche pezzo di musica classica
(ad esempio il dischetto allegato al mensile “Midi
Songs”) oppure realizzano intere compilation in ven-
dita nei negozi di strumenti musicali (ad esempio i
Midisk della Edirol e i floppy disk della Musicisti di
Bologna). Naturalmente le copie pirata di basi midi
in commercio sono illegali. Invece attraverso l’acces-
so alle BBS, chi possiede un modem può scaricare
legalmente nel hard disk del proprio computer le
basi midi che esistono in rete.
È bene sottolineare che in tutti i casi si tratta di basi
che necessitano di essere editate, dato che non sono
pensate per quel particolare generatore di suoni che
l’utente può possedere.
Conclusioni
Un software che risolva definitivamente i problemi
della trascrizione e della realizzazione elettronica non
esiste. Oltre tutto se esistesse probabilmente non
avrebbe una interfaccia-utente sviluppata in modo
da rendere agevole il lavoro umano. Ultimamente
sono stati presentati dei nuovi programmi che sono
in grado di creare un midi file di una partitura sem-
plicemente leggendola da una stampa con uno scan -
ner; per il momento, però, sono ancora piuttosto
lenti, imprecisi e non sono in grado di interpretare i
manoscritti; senza contare che lasciano aperto il pro-
blema dell’editing dei dati che è forse la questione
più importante.
Per quel che riguarda i timbri le novità verranno
dagli sviluppi della generazione sonora attraverso
modelli fisici, di cui esiste qualche prototipo già com-
mercializzato (ad esempio lo Yamaha VL1). I timbri
fino ad ora sintetizzati o campionati non contempla-
no la possibilità di agire su tutti quei parametri che
sarebbero necessari; per rendersi conto di ciò è suffi-
ciente pensare alla difficoltà di riprodurre ogni speci-
fica sfumatura del suono di un violino, dove l’esecu-
tore è importantissimo con le sue imprecisioni nel
soddisfare l’udito di chi lo ascolta. E anche quando
si potesse disporre dei parametri, diventerebbe
estremamente complessa la loro gestione. Tra l’altro
il protocollo midi, che usa una porta seriale, non
sarebbe abbastanza veloce e dovrebbe essere sosti-
tuito da qualche sistema dalle caratteristiche più
avanzate.
Per il momento bisogna accontentarsi di campionare
più sfumature possibili in modo da poterle usare
compatibilmente con le disponibilità e i costi della
memoria degli hardware e le citate limitazioni del
midi.
In sostanza, i risultati che si possono ottenere sono
per ora validi solo per la didattica, con il necessario
avvicinamento dei musicisti all’uso dell’informatica,
oppure nell’ottica di un abbattimento dei costi, ad
esempio per la realizzazione di prove che permetta-
no l’ascolto di un’idea musicale.
43
44 44
 Estetica
L'ascolto del romanzo
Roberto Favaro
Nel suo grande romanzo giovanile, I Buddenbrook,1
Thomas Mann dedica solo la parte conclusiva del
libro al tema musicale. Per i primi due terzi, infatti, la
musica vi compare, apparentemente, solo come argo-
mento secondario, come elemento di rifinitura
descrittiva o al meglio come uno tra i tanti e diversi
fattori costitutivi dell’articolazione narrativa e della
vita immaginaria dei personaggi. L’ultimo terzo del
romanzo vede invece al tempo stesso una prolifera-
zione dei riferimenti espliciti all’arte dei suoni e una
vera e propria centralità del soggetto musicale come
determinante per gli sviluppi e gli esiti conclusivi
della vicenda narrata, vale a dire la parabola di deca-
denza e rovina della ricca famiglia lubecchese.
Un’accesa discussione musicale tra alcuni dei princi-
pali personaggi apre quest'ultima parte del libro:2
Gerda Buddenbrook, violinista, madre dell’ultimo
rappresentante della dinastia e moglie del senatore
Thomas, dibatte nell’ampia sala da musica della loro
lussuosa dimora, insieme al maestro di musica e
organista Edmund Pfuehl, sostenendo le ragioni e la
preferibilità del “moderno” linguaggio wagneriano
contro l’“antiquato” impianto grammaticale, lessicale
e formale della musica barocca di Johann Sebastian
Bach. L’interlocutore — il maestro Pfuehl appunto —
ipotizza al contrario una modernità bachiana ponen-
dola in qualche modo a capo, o a monte, delle
acquisizioni estetiche dello stesso Wagner attraverso
quella sua inedita, già di per sé moderna e originalis-
sima coniugazione emancipatoria del piano polifoni-
co-contrappuntistico con quello armonico-accordale.
Thomas Mann concepisce e licenzia il suo primo
capolavoro letterario tra gli ultimi anni dell’Ottocento
e il 1901. Circa una ventina d’anni dopo, esattamente
nel 1919, Italo Svevo scrive, dopo un lungo intervallo
di silenzio, il suo terzo romanzo intitolato La coscien -
za di Zeno 3 che verrà poi pubblicato, con immediata
risonanza internazionale, nel 1923. Nel quinto capito-
lo della Coscienza, che porta il titolo di La storia del
mio matrimonio, 4 Svevo costruisce una singolare
trama di seduzione e rivalità amorosa attorno al tema
musicale. Zeno Cosini, il protagonista del romanzo,
contende a Guido Speier la mano della giovane Ada
Malfenti, duellando infelicemente sul terreno per lui
meno congeniale del violinismo dilettantistico. Lo
scontro avviene nel corso di quelle cosiddette esecu-
zioni domestiche tenute dai due giovani presso il
salotto di casa Malfenti. Per Speier la pagina scelta è
la Ciaccona di Bach: seducente, ammaliante, perfino
patinato il violinismo di Guido Speier appare così
molto più e molto meglio che un semplice dilettanti-
smo; goffo, grottesco, patologicamente instabile,
invece, lo stile di Zeno smaschera in questo modo, a
partire dal suo modo di affrontare non certo la
C i a c c o n a ma anche solo pagine più abbordabili,
forse il tratto di più acuto malessere di quella
coscienza che del romanzo è la vera co-protagonista.
Un salto di una cinquantina d’anni ci porta in una
zona anche geograficamente molto distante della cul-
tura letteraria mondiale. Alejo Carpentier, cubano di
origine francese — uno dei maggiori scrittori e teorici
della letteratura latino-americana di questo secolo —
ma anche, va aggiunto, non a caso uno dei padri
della musicologia caraibica, scrive nel 1974 il suo
romanzo forse più famoso, intitolato Concerto baroc -
co.5 Carpentier racconta una storia al tempo stesso
realistica, meravigliosa e fantastica. A un ricco perso-
naggio messicano del primo Settecento fa attraversare
l’Atlantico, approdare a Venezia, incontrare e cono-
scere contemporaneamente Vivaldi, Scarlatti, Händel,
e, in oscillanti e fantastici viaggi nel tempo, perfino
Stravinskij e Louis Armstrong. Tra concerti grossi e
Jam session jazzistiche, Carpentier dipana un filo nar-
ratologico in cui il costante, problematico dialogare
tra vecchio e nuovo continente pone al centro
dell’attenzione le morfologie e i profili culturalmente
molteplici e al tempo stesso correlati della realtà e
della storia.
Questi primi appunti, la segnalazione pur approssi-
mativa di questi tre casi narrativi esemplari, suggeri-
scono diversi motivi di ragionamento. Da un lato,
infatti, i tre modelli pongono all’attenzione del lettore
un dato comune, il riferimento a un ambito culturale,
a una matrice linguistica, infine a un materiale musi-
cale facilmente identificabili e collocabili. Nei casi
presi ad esempio, la scrittura dei tre autori — diversi
per formazione, distanti cronologicamente e perfino
geograficamente, non omologabili a identiche griglie
estetiche o tecnico-letterarie — trova nell’arte musica-
le del Settecento uno strumento di elaborazione poe-
tica compatibile con i rispettivi metri di riferimento
valutativo e con le personali strategie anche di tipo
45
 Estetica
filosofico, etico, comunicativo dei singoli scrittori. Si
tratta insomma di segni, in questo caso di veri e pro-
pri segni barocchi — se mi si consente il richiamo —
d’altra parte necessario e ineludibile, al tema com-
plessivo di questa manifestazione.
La letteratura, il romanzo anche di epoca recente,
può costituire il punto, o meglio uno degli infiniti,
possibili punti di partenza, per ricognizioni lungo la
storia della cultura non solo musicale di tutti i tempi
e luoghi in cui l’oggi, il tempo della nostra lettura,
l’incontro cioè delle nostre strategie di consumo e
percezione con l’orizzonte creativo dei diversi artisti,
sia la base per una continua, infinita trasformazione e
modificazione del rapporto stesso di fruizione e, in
questo caso, di lettura. Così il Barocco, i segni lettera-
ri di questi diversi barocchi narrativi, entrano nella
nostra esperienza di lettura secondo una molteplicità
prospettica in cui conta non solo la nostra idea di
Barocco, ma l’idea che del Barocco hanno i diversi
scrittori, la loro epoca, i loro anni di formazione e
lavoro, e da qui i personaggi da loro inventati, a loro
volta inseriti in contesti estetici variabili a seconda
delle intenzioni loro attribuite dallo scrittore, dal
tedesco Mann, dal mitteleuropeo Svevo, dal caraibico
Carpentier. Il dato, pur provvisorio, che deriva da
questi primi appunti di viaggio ci segnala e sottolinea
la sostanza stratificata, dilatabile, espansiva, per usare
la terminologia di Michail Bachtin,6 dell’opera d’arte
letteraria.
Ma il lungo preambolo esemplificativo pone anche
una seconda, non distante ma forse più stringente
questione. Certo Thomas Mann elabora la sua prima
opera di successo secondo l’impianto strutturale, nar-
ratologico e formale del grande romanzo familiare
ottocentesco in cui il tracciato rettilineo delle genera-
zioni, appoggiato a una solida base realistica di deli-
mitazioni spaziali e temporali ben riconoscibili, con-
ferisce all’opera un sicuro tratto di identificazione di
genere. Così, per altro verso e muovendo verso altri
ambiti letterari, la Coscienza di Italo Svevo, ritaglian-
dosi una propria, personalissima nicchia narrativa, si
situa in quell’area diciamo così psicoanalitica o di
indagine introspettiva del romanzo novecentesco.
Allo stesso modo, il Concerto barocco di Carpentier,
a sua volta estraneo ai generi dei due precedenti casi,
raccoglie l’eredità della letteratura fantastica ottocen-
tesca, recupera i fondamenti dell’immaginazione di
un Hoffmann o di un Poe, ne elimina le incrostazioni
di psichica patologia, ne amalgama gli elementi a lui
più congeniali con i tratti stupefacenti e magici della
cultura latino-americana e caraibica.
Dunque grandi differenze. Eppure, il dato comune ai
tre modelli, sostanziandosi sulla materia, sugli ogget-
ti, sull’azione stessa del lavoro narrativo, precede il
momento distintivo della tecnica, dello stile, del
genere e consente infine il riconoscimento di ele-
menti musicali, in questo caso barocchi per quanto
46
tra loro certamente diversissimi, nel corso della
nostra azione di lettura. Sono insomma la scrittura,
meglio ancora lo scrivere, l’uso convenzionale di
segni relativi a determinati significati, la traduzione in
caratteri di stampa di parole e cose, a caratterizzare il
punto di incontro dei tre scrittori e da questi, come
pretende inevitabilmente la catena della comunica-
zione, degli imprescindibili lettori delle opere stesse.
Ecco, dunque, la seconda questione posta dal richia-
mo esemplificativo iniziale e che in un certo senso ci
fa entrare nel vivo del tema di questa conferenza. Il
problema dell’ascolto del romanzo, infatti, dell’ascol-
to anche di questi romanzi esemplari, parte da qui e
implica un ragionamento sulla scrittura e sull’espe-
rienza della lettura.
Nel lento processo storico di acquisizione di una evo-
luta tecnica di espressione del pensiero, un nodo cer-
tamente decisivo è rappresentato dal passaggio dalla
cultura orale, implicante la natura sonora del discor-
so, a quella alfabetizzata del discorso scritto, in cui si
impone la dimensione spaziale e visiva della parola,
per così dire silenziosa, ridotta a segno impresso su
una superficie. Muta anche, in questo percorso di tra-
sformazione da oralità a scrittura, il rapporto tra chi
pronuncia o scrive e chi percepisce nell’ascolto o
nella lettura. L’oralità esige imprescindibilmente la
compresenza di chi comunica e di chi recepisce. La
scrittura, al contrario, presuppone o determina inevi-
tabilmente l’azione distanziata o comunque distinta
tra chi scrive in un dato momento un certo testo, e
chi, individualmente, lo legge. La tecnica tipografica,
il lento perfezionamento e l’uniformazione dei carat-
teri di stampa, l’omologazione dei tipi, dei corpi, uni-
tamente alla sempre maggiore capacità di dire e rap-
presentare e pensare — ma anche capire leggendo
— unicamente attraverso dei segni, ha portato in
linea generale all’affermazione di una cultura scritta.
Se in passato, un passato lontano, il pensiero stesso
si formava e articolava seguendo una concatenazione
verbale mnemonica, ora la fissazione e memorizza-
zione scritta del testo consente di ripensare, di
migliorare, di elaborare infine il pensiero stesso.
Senonché la prospettiva storica e il grado di “univer-
salità” del processo dato qui nella sua genericità e
generalità di assunto acquisito dalla storia della cultu-
ra va corretto, segnalando che non tutte le civiltà,
non tutte le zone geografiche della terra, non tutti i
continenti hanno registrato simultaneamente e secon-
do identiche regole di sviluppo questa trasformazio-
ne da oralità a scrittura. Il discorso vale infatti soprat-
tutto per quel mondo e quella cultura occidentali
segnati dai progressi economici capitalistici e poi
industriali più rapidi e decisi, come innanzitutto
nell’Europa occidentale e poi nel nord del continente
americano. Per il resto, per zone di maggiore arretra-
tezza economica, industriale, culturale e sociale, per i
paesi latino-americani per esempio — come indica
nei suoi scritti teorici lo stesso Carpentier 7 — l’alfabe-
 Estetica
tizzazione, la diffusione capillare della scrittura, della
stampa, del libro, della distribuzione massiccia e dun-
que della stessa lettura, segnano nel corso della storia
e fino ancora ai primi decenni del nostro secolo se
non addirittura agli anni successivi al secondo conflit-
to mondiale, un costante e grave ritardo caratterizza-
to da un sostanziale analfabetismo, al quale si accom-
pagnano tuttavia, dunque non negativamente, ampie
e cospicue presenze di una cultura orale in singolare
convivenza con le forme per noi ormai consuete e
consolidate dell’alfabetizzazione.
Ma per quanto riguarda l’Occidente, la grande diffu-
sione di una stampa e di un’editoria di massa a parti-
re dal XIX secolo, ha posto la necessità di mettere in
contatto scrittori e lettori anche lontani attraverso
una rigorosa precisione comunicativa di segni e sim-
boli di rappresentazione scritta. La completa “interio-
rizzazione” del linguaggio scritto è l’ulteriore, straor-
dinario salto che compie l’uomo nell’atto di comuni-
care scrivendo e leggendo. Si tratta di una consape-
volezza che consente infine di riunire, organizzare e
raccogliere sullo stesso piano spaziale e visivo di
segni grafici apparentemente muti e silenziosi, i
diversi aspetti del pensiero. Attraverso l’interiorizza-
zione progressiva della tecnica di scrittura e di lettu-
ra, il testo, inteso come terreno grafico omogeneo e
fisicamente unificante, è in grado allora di contenere
e di associare termini relativi ad ambiti sensoriali ete-
rogenei, come il tatto, la vista, l’odorato, l’udito, atti-
vati in quello che tecnicamente si usa definire pro-
cesso sinestetico. In altre parole, quando ci immer-
giamo nell’esperienza della lettura, entriamo nel
mondo creato dallo scrittore e il nostro sguardo che
vede le parole scritte è così in grado di sentire, di
ascoltare, di tastare, naturalmente di vedere fantasio-
samente tutto quel mondo, di completare, immagi-
nandole, tutte le latenze e le imprecisioni, di dare
vita alle situazioni, ai volti, ai colori, agli spazi, alle
forme, ai pensieri, Naturalmente ai suoni. Viene da
pensare a Kandinskij, il quale, parlando di rapporti
tra musica e pittura, scrive che “il suono interiore
assomiglia al suono di una tromba o di uno strumen-
to, come ce lo immaginiamo quando sentiamo la
parola ‘tromba’”.8 Esiste dunque una fusione fonda-
mentale tra letteratura intesa come atto della creazio-
ne letteraria e lettura considerata come azione impre-
scindibile per far vivere qualsiasi opera d’arte della
verbalizzazione.
L’ascolto del romanzo entra proprio in questo specifi-
co terreno di ragionamento. E appare allora chiaro
perché il discorso sia partito volutamente da così lon-
tano, dalla scrittura, addirittura dai suoi primordi, per
rendere evidente la correlazione imprescindibile che
questa ha con l’esperienza della lettura nella quale
l’ascolto si situa infine come componente dotata di
proprie, straordinarie potenzialità. Così, il testo e la
sua lettura producono infinite rifrazioni fra i sensi
stessi, i codici, le pluralità irriducibili di livelli e strati
della comunicazione, al punto che appare ineludibile
una nozione di lettura intesa come avventura infinita,
“inesauribile” direbbe Roland Barthes,9 da seguire e
praticare per tutte le strade e i percorsi possibili.
Anche quelli, appunto, del suono, dell’acustica, di
quella musica, insomma, considerata nel senso più
ampio possibile che da ogni pagina del romanzo va
formandosi e articolandosi in strati, livelli, momenti e
gradi differenziati, ugualmente compartecipi del risul-
tato narrativo finale.
L’ascolto del romanzo si occupa dunque di questo. Il
tortuoso tracciato che ci ha condotto fino a questo
punto ad allontanarci dalle righe iniziali dedicate a
Mann, a Svevo, a Carpentier, serve tuttavia a incrocia-
re e riprendere quella via. I tre esempi di musica nel
romanzo — tre modelli molto espliciti, in cui la musi -
ca compare quale soggetto centrale, in un certo
senso come personaggio co-protagonista — valgono
infatti come esemplificazione di ascolto anche al di là
di una tradizionale o convenzionale delimitazione del
terreno di ciò che si intende per musicale. Nella lettu-
ra che diviene ascolto entra perciò la componente
esistenziale, soggettiva del lettore, le sue esperienze
reali di ascolto, la sua capacità di associare parole a
suoni, nomi a musiche, oggetti a eventi acustici. La
lettura resta, tanto più nella sua versione uditiva, un
fatto irriducibile a leggi, regole, limiti normativi,
legandosi in stretta fusione con le vicende reali di chi
segue le parole sulla pagina scritta ponendole così in
essere: pensare alla tromba di Kandinskij in termini
di lettura, significa insomma attribuire a quell’oggetto
un suono che è o non è dentro di noi nella misura in
cui vi sappiamo associare un preciso suono, un tim-
bro, un registro, un volume desunti dalla realtà, o
altrimenti ve lo associamo immaginativamente secon-
do le regole della libera fantasia, di come immaginia-
mo esso possa essere. In ogni caso, tuttavia, l’ascolto
interiore è attivato, il romanzo si apre all’orecchio del
lettore presentandogli le sue infinite, poliedriche,
perfino stratificate immagini sonore, le voci dei per-
sonaggi, per esempio, i possibili paesaggi sonori, gli
oggetti, gli animali, gli elementi atmosferici, il vento,
la pioggia, i temporali, le deflagrazioni di una guerra,
le urla o il brusio sommesso della folla. Perfino il
silenzio, il vuoto di sonorità deliberatamente predi-
sposto dallo scrittore per rendere più efficace e pene-
trante una scena, per pesarne il grado di drammati-
cità o tensione, entra in questo contesto. Il livello è
naturalmente quello di una architettura sonora edifi-
cata, consapevolmente o inconsapevolmente, dallo
scrittore utilizzando ancora solo materiali sì udibili,
ma di natura extra-musicale: a questi si aggiungono
le musiche vere e proprie, prese dalla viva storia
dell’arte o fatte inventare dallo scrittore a un qualche
personaggio, si aggiungono le sonorità di strumenti
reali, il violino di Zeno Cosini, il pianoforte di Hanno
Buddenbrook, l’orchestra vivaldiana di Carpentier.
47
 Estetica
Ma la questione va oltre il puro dato compilativo.
Non si tratta infatti solo di ascoltare e catalogare i
materiali sonori presenti nel romanzo. La musica o il
suono entrano nella sua vita come elemento forman-
te, compartecipe insieme agli altri strati della comuni-
cazione verbale e della struttura narratologica com-
plessiva voluta dallo scrittore per realizzare il proprio
progetto poetico. Ma quelle musiche e quei suoni
entrano anche nella vita dei personaggi, nelle loro
orecchie di uomini reali che si muovono, vivono,
pensano, soffrono, provano emozioni e sentimenti
reali nella realtà puramente immaginaria del testo. E
noi, testimoni non visti di tutto ciò che accade sulla
scena dell’opera letteraria, viviamo in una sorta di
involontaria complicità con i personaggi stessi, condi-
videndo con loro tutto di quel mondo, comprese le
sue musiche, i suoi rumori, insomma tutte le sue
componenti acustiche per modo di dire udibili. Così,
per esempio, nei Buddenbrook assistiamo alla discus-
sione tra Gerda Buddenbrook ed Edmund Pfuehl.
Parlano di Wagner e Bach. Il che non coincide esat-
tamente con l’ascolto delle musiche dei due grandi
compositori tedeschi. Ascoltiamo più precisamente le
voci dei due personaggi che, con la loro inflessione
anche filosofica e morale, attribuiscono ai due artisti
ruoli e posizioni diverse, evocandone tuttavia
l’impianto sonoro menzionando i Maestri cantori
dell’uno o la tecnica contrappuntistica barocca
dell’altro. Così le melodie infinite e i cromatismi
wagneriani solo citati circondano la scena, si diffon-
dono nell’aria, segnano con la loro presenza/assenza
il colore generale dell’episodio. Tuttavia sentiamo
anche le voci di Gerda e di Edmund, il loro timbro, il
volume, avvertiamo l’atmosfera di quell’ambiente,
respiriamo il clima di quello spazio borghese e musi-
cale per antonomasia che è il salotto, ne valutiamo le
dimensioni, immaginiamo il violino di Gerda — si
tratta di uno Stradivari — e il grande pianoforte a
coda — un Bechstein —, ne vediamo la presenza
fisica di oggetti a tratti muti a tratti attivi sulla scena,
ne intuiamo le sonorità e le sfumature. Thomas Mann
non aggiunge qui nessun dato di riferimento al profi-
lo acustico determinato dalle condizioni atmosferiche
esterne. Ma altrove ne segnala la presenza, conferen-
do così all’insieme davvero polifonico della scena
una complessità sonora di straordinaria efficacia lette-
raria. Come si vede, infatti, la stratificazione e la
sovrapposizione di tanti piani e livelli di presenza
sonora conduce oltre il puro dato compositivo delle
singole opere musicali citate e dei loro autori.
Ma allora l’ascolto del romanzo, allargandosi a tutti i
punti di udibilità della scena, fino a quelli situati
negli interstizi e nelle pieghe del descrittivismo lette-
rario, pone all’attenzione del lettore la dimensione
complessiva del suono e del suo costituirsi in tessuto
dalla trama e dall’ordito finemente elaborati. Il che
porta infine l’opera d’arte letteraria, un’opera fondata
sull’organizzazione di parole scritte, a espandersi
48
paradossalmente oltre i propri limiti estetici costituti-
vi, trovando punti di contatto e di dialogo con altri
ambiti artistici, come quello dell’opera cinematografi-
ca, per esempio, o meglio ancora quello del dramma
radiofonico, dove la colonna sonora costituisce un
punto di incontro o di avvicinamento che supera
alcune delle pur presenti ed evidenti distanze: così
per il film lo strato del sonoro, incontrandosi costitu-
zionalmente con la natura motoria del flusso di
immagini e di fotogrammi, rappresenta uno dei fon-
damentali strumenti di intreccio tra i diversi linguaggi
e di realizzazione del principio rappresentativo degli
eventi filmici, mentre nel teatro invisibile della radio
— un teatro per così dire dell’udito10 — l’effettistica
sonora dei rumori e delle musiche serve a colmare le
lacune del testo recitato, allude a ciò che non è dato
vedere o a ciò che — gesti, azioni, movimenti — il
testo recitato non è in grado di contenere.
Il romanzo come flusso continuo e ininterrotto di
suoni, allora. L’opera letteraria e narrativa come una
sorta di traccia grafica e visiva di eventi acustici,
come un’immaginaria e anomala partitura, dotata di
proprie, inedite simbologie scritte, da solfeggiare, se
mi si consente il gioco di parole, durante l’atto stesso
della lettura. In un certo senso sì, se è vero che,
riprendendo il tema precedentemente affrontato della
natura interiorizzata della lettura e del riconoscimen-
to di eventi acustici dedotti dalla parola scritta, il fun-
zionamento della stessa partitura musicale, con i suoi
elaborati riferimenti grafici di tipo spazio-temporale
che rimandano ad altro da sé, consente ai musicisti
proprio la lettura della pagina musicale, di individua-
re cioè le caratteristiche sonore e uditive di una data
musica. Anche nel romanzo si individuano e si ascol-
tano le diverse parti come per un’orchestra, si ricono-
scono le differenze di altezza, di intensità, di timbro,
si sentono i piani diversificati, le figure di primo
piano, gli sfondi di accompagnamento orchestrale-
sinfonico, i ripieni della natura, del vento, i bassi osti-
nati, i lunghi pedali tenuti dietro l’immagine sonora
di un ipotetico solista. Mi viene in mente quell’episo-
dio dei Buddenbrook in cui la giovane Antoine pas-
seggia lungo la spiaggia di Travemuende insieme
all’amico Morten Schwarzkopf. Tra i due si svolge un
sommesso, quasi sussurrato dialogo mentre, dice
Thomas Mann, “contemplavano le verdi pareti delle
onde, tappezzate di alghe, che avanzavano minaccio-
se e s’infrangevano contro la roccia che le sfidava...
in quel folle, eterno fragore che stordisce, rende
muti, e distrugge la sensazione del tempo”. Vanno
delineandosi i contorni della nostra escursione.
L’ascolto del romanzo pone in definitiva una precisa
scelta di campo. Una scelta per certi versi radicale, di
spostamento dell’obiettivo e di allargamento
dell’angolo di visuale. Non a caso il titolo di questa
relazione, che riprende quello di un libro che ho
dedicato a questo argomento,11 non è ripiegato sulla
 Estetica
esclusiva problematica della musica nel romanzo,
vale a dire della presenza di singole scene di argo-
mento esplicitamente musicale da leggersi secondo il
metro della loro funzionalità alla ricostruzione di una
mera configurazione filosofico-musicale dello scritto-
re. In altre parole, l’ascolto del romanzo non serve
solo a stabilire quanto Thomas Mann fosse o non
fosse wagneriano, quanto Svevo fosse o non fosse
bachiano o quanto Carpentier vivaldiano o jazzofilo,
nel senso di una misurazione del loro tasso di ade-
sione a determinati impianti estetici o a specifici
movimenti artistici. Naturalmente c’è anche questo,
ma non solo. In tal senso preferisco parlare non tanto
o non solo di musica nel romanzo ma piuttosto e più
appropriatamente di musica del romanzo. In altre
parole, la musica dei Buddenbrook, la musica della
Coscienza di Zeno, la musica del Concerto barocco
sono le musiche — anche inconsapevolmente realiz-
zate — di Mann, di Svevo, di Carpentier, sono le loro
partiture riempite di rimandi e riferimenti e agganci
alla trama complessiva della storia, sono uno degli
ingredienti della loro specifica poetica, sono le colon-
ne sonore di quelle storie, sono i tracciati e i flussi
musicali all’interno dei quali, quando anche compaio-
no pagine realmente composte, queste vanno collo-
cate, divenendo così una sorta di musica al quadrato,
all’interno di un affresco compositivo più ampio che
inizia con la prima parola del romanzo e si conclude
solo con l’ultima, in quel punto in cui il margine
bianco della pagina segna la conclusione della narra-
zione e il silenzio definitivo del suo sonoro. È insom-
ma il concetto stesso di musica e di composizione a
subire qui quella radicale modificazione, avviata e
prodotta in particolare dai musicisti delle avanguardie
di questi ultimi cinquant’anni, che ne allarga l’ambito
di legittima accettabilità oltre il confine tradizionale
posto per esempio tra ciò che è convenzionalmente
ritenuto suono e ciò che è invece rumore. “Più si
scopre che i rumori del mondo esterno sono musica-
li”, dice non a caso John Cage, “e più c’è musica”,12
attribuendo così un valore e un significato centrali al
momento estetico della percezione e dell’ascolto inte-
si come momenti determinanti per la definizione del
perimetro dell’opera, con l’ipotesi estrema, che
riprendo provocatoriamente per l’ascolto anche del
romanzo, di un ascoltatore evoluto che, decidendo in
tutta autonomia che cosa è e che cosa non è musica-
le (dunque compresi i paesaggi sonori, i rumori di
fondo della nostra esistenza), diviene infine esso stes-
so il creatore in progress di una propria composizio-
ne dedotta per esempio dai materiali sonori forniti
dall’ambiente. L’ascolto diviene così, nella vita reale
come nel romanzo, fattore formante dello stesso
evento sonoro o musicale.
Sarebbe troppo lungo approfondire ed esemplificare
questi temi. Richiamo tuttavia l'attenzione almeno sui
Buddenbrook, su un romanzo, cioè, che rappresenta
un caso straordinario di felice compenetrazione del
fattore sonoro-musicale con tutta la vicenda narrata
da uno scrittore indubbiamente dotato di una fortissi-
ma coscienza della musicalità dell’opera letteraria.
Non senza un significato preciso, aggiungo, proprio
Thomas Mann scriveva in una lettera del 1947 di non
sentirsi “una creatura visiva ma, più che altro, un
musicista trapiantato nella letteratura”.13 Come si sa la
storia di questo romanzo è, sinteticamente, la parabo-
la di ascesa e declino di una ricca famiglia di Lubecca
seguita nel succedersi di quattro generazioni. Più pre-
cisamente, la linea retta parte dal punto di massima
serenità per declinare e infine precipitare miseramen-
te fino all’estinzione della dinastia. Quello che para-
lizza il lettore e lo inchioda ad assorbire le oltre 600
pagine dell’edizione italiana, è il lento ma progressi-
vo avanzare di un impaludamento che riguarda lo
stato delle energie vitali, delle forze imprenditoriali,
delle convinzioni borghesi dei diversi rappresentanti
dei Buddenbrook, e che infine invischia la nostra
stessa condizione di lettori. Per fare solo un esempio,
l’inizio per così dire post-illuministico del romanzo
(siamo nel 1835) si apre con una festa di famiglia
piena di solare e vivace vitalità. I suoni lievi e rasse-
renanti di un flauto traverso accompagnato da un
harmonium, sottolineano l’ambientazione anche psi-
cologica del racconto con uno stile assimilabile alla
galanteria del rococò. Alla fine del libro, una quaran-
tina d’anni dopo, Hanno Buddenbrook, poco tempo
prima di morire di tifo all’età di sedici anni, esegue
da solo al pianoforte, chiuso nella stanza della musi-
ca, una propria libera, intimistica improvvisazione
che ha tutti i tratti della seducente, ammaliante, avve-
lenata, patologica instabilità cromatica della musica di
Wagner. Ma il dato, apparentemente casuale, sembra
trovare poi conferma in tutta una gamma di suoni,
rumori, sfondi naturali e atmosferici (lo scrosciare
della pioggia, il sibilare del vento) che sottolineano,
per esempio, tutti i momenti negativamente topici
della storia, come i decessi dei diversi personaggi, le
sconfitte commerciali, i piccoli e grandi scandali che
investono la famiglia. Si potrebbe continuare per
tante pagine ancora, per esempio seguendo i cambia-
menti degli strumenti musicali intesi come oggetti
dell’arredamento nel corso del tempo, insieme
all’arredamento stesso, all’abbigliamento, alle dimore,
al lessico, infine al volume e all’aumento progressivo
di incisività e aggressività delle voci umane, allo stato
di salute fisica e pratica dei personaggi. Tutto si con-
nette e ognuno di questi percorsi rappresenta una
diversa prospettiva da cui guardare spesso anche lo
stesso episodio di tipo sonoro o musicale, conferen-
do all’ascolto del romanzo una natura prismatica di
grande potenzialità interpretativa. Basti questa som-
maria segnalazione per capire quanto l’elemento
sonoro non solo sia connesso con gli altri strati
della vicenda, ma che addirittura divenga per il let-
tore uno dei parametri anche emozionali di più
sicura efficacia.
49
 Estetica
Restano aperti, o sono venuti delineandosi, ambiti e
livelli di ulteriore ragionamento. Se il salto ci ha por-
tato infatti a muovere dalle pagine dei tre modelli
esemplari per approdare, dopo aver accennato alla
coincidenza per così dire barocca dei tre modelli, alla
questione generale del rapporto scrittura/lettura e da
questo all’ipotesi di un ascolto interiore allargato a
una sorta di vera e propria colonna sonora del
romanzo, da qui l’orientamento ci suggerisce di com-
piere un ulteriore passaggio oltre quella zona non
ben definita che separa ciò che sta fuori del testo
(cioè il nostro mondo reale e la nostra esperienza di
lettura e di rapporto con le parole scritte, con le
scene e le trame che leggendo si configurano), da ciò
che vi sta dentro (tutta quella realtà immaginaria ela-
borata dalla penna dello scrittore). Il salto ci porta
così a entrare in quella stessa realtà, a recepirla come
tale, a leggerne e a considerarne i connotati sociali,
psichici, perfino storici, economici, geografici, a indi-
viduarne le dimensioni spaziali, quelle temporali, a
seguirne i mutamenti di stile di vita, infine a vederne
la musica e i suoni come fatti reali e realmente pre-
senti in quello che diviene per noi lettori, e per la
durata della nostra lettura, un mondo vero di donne
e uomini che vivono, interagiscono, provano passioni
e affrontano emozioni, costruiscono e disfano rap-
porti sotto i nostri occhi.
Così la musica, quando suona, cioè quando vive
come evento acustico, non è mai un evento astratto,
sempre identico a sé stesso a prescindere dalle con-
dizioni reali, dalla prassi del suo accadere. La
Ciaccona di Bach, per fare un esempio, è un fatto
complesso, proprio perché dipendente di volta in
volta da chi, come, dove, quando, perché viene ese-
guita, ma anche da chi, dove, come, quando, perché
viene ascoltata. La correlazione, il grado di comparte-
cipazione dei diversi fattori, determinano la natura
dialogica dell’opera d’arte. Guido Speier, nella
Coscienza di Zeno, suona Bach in un salotto triestino
novecentesco. È un ricco affarista che suona per
diletto. Lo ascoltano nel caso specifico la giovane da
lui corteggiata oltre ad alcuni estatici (i parenti di lei)
o irritati (Zeno Cosini) ascoltatori privati. La “sua”
Ciaccona, la sua reale configurazione acustica, sono-
ra, stilistica, estetica, per non dire timbrica e ritmica,
dipenderà da tutti questi fattori correlati, a partire dal
perché quella musica suona, dal motivo cioè scate-
nante di quella esecuzione, vale a dire l’atto esibizio-
nistico-seduttivo. Svevo racconta l’episodio per bocca
del suo io-narrante, lo Zeno Cosini protagonista della
storia: “Giammai, né prima né poi, arrivai a sentire a
quel modo la bellezza di quella musica nata su quel-
le quattro corde come un angelo di Michelangelo in
un blocco di marmo”. 1 4 E continua poco oltre:
“Eppure io lottavo per tenere quella musica lontana
da me. Mai cessai di pensare: ‘Bada! Il violino è una
sirena e si può far piangere con esso senz’avere il
cuore di un eroe!’”.15 Poi, alla fine dell’esecuzione,
50
Zeno interviene, come si sa a sproposito data la sua
netta inferiorità musicale rispetto a Speier, per espri-
mere alcune sue perplessità su quell’esecuzione, in
particolare sul modo in cui, “verso la chiusa”, Speier
sceglie di scandire “quelle note” dice Zeno, “che il
Bach segnò legate”.16 Il giudizio di Zeno e la sua
lucidità critica sono inversamente proporzionali alle
sue doti tecniche: “Bach”, aggiunge infatti poco oltre,
“è tanto modesto nei suoi mezzi che non ammette un
arco fatturato a quel modo”.17 La replica di Speier
non si fa attendere: “Forse Bach non conosceva le
possibilità di quell’espressione. Gliela regalo io!”.18
Non semplicemente Bach, dunque, ma il Bach che
Italo Svevo inventa per Speier insieme a quello,
opposto per carattere, di Zeno Cosini, che entrano
così in relazione con l’eterogeneità delle nostre idee
su Bach, su note staccate o legate, su arco e mezzi
espressivi modesti o ridondanti. Ancora una volta,
una tendenza dell’opera d’arte all’espansione e alla
dilatazione oltre i limiti del testo scritto.
Un ultimo ragionamento tra i tanti ancora possibili, e
che qui diamo solo come accenno, riguarda il rap-
porto particolarissimo che il romanzo, compresa la
sua componente musicale, stabilisce e intrattiene con
la dimensione temporale. 19 Un tempo inteso non
come problematica unitaria, bensì come molteplicità
dalle infinite rifrazioni. I tre casi presi in esame sono
altrettanti modi di intendere il decorso di eventi nella
narrazione e dunque nella lettura: rettilineo e crono-
logico nei Buddenbrook, il tempo diviene più fram-
mentario nella Coscienza di Zeno, dove la narrazio-
ne-introspezione si dedica a episodi distinti dissemi-
nati qua e là nella vita del protagonista. Nel Concerto
Barocco, infine, il tempo interno alla vicenda presen-
ta una successione e un avvicinamento paradossali di
eventi in cui il regolare fluire del tempo e la vera
successione dei fatti desunti dalla storia reale
dell’uomo vengono disinnescati e messi fuori uso
dalla tecnica di Carpentier. “Antonio Vivaldi”, raccon-
ta quest’ultimo, “si lanciò nella sinfonia con favoloso
impeto, in gioco concertante, mentre Domenico
Scarlatti — perché di lui si trattava — si abbandonò a
far vertiginose scale al clavicembalo, mentre Georg
Friedrich Händel si abbandonava alle abbaglianti
variazioni che travolgevano tutte le norme del basso
continuo”.20 In altre parole se la pagina di Vivaldi
presenta una sovrapposizione di voci, un ricamo con-
trappuntistico di due parti che si rincorrono, l’alter-
narsi di strumenti che poi si ritrovano all’unisono, la
penna dello scrittore (e in questo caso anche la
tastiera del mio computer) mette inevitabilmente in
sequenza temporale eventi che nella realtà vivono
simultaneamente. In nessun caso avremo la coinci-
denza esatta, la scrittura scivolerà infatti oltre i termi-
ni temporali reali di quei fenomeni o ne produrrà
una rapida contrazione sintetica che riduce il tempo
di durata dell’atto reale: “il gioco concertante” sta
 Estetica
chiuso, dal punto di vista visivo e grafico, dentro
queste tre parole le quali rinviano però a un fatto di
più lunga ed elaborata consistenza. La scrittura e la
parole possono determinare allora una risonanza,
come fosse l’omonimo pedale del pianoforte per
mezzo del quale un tasto schiacciato moltiplica e
prolunga le rifrazioni sonore ponendo in vibrazione
per simpatia le altre corde dello strumento. Leggiamo
del “gioco concertante” in questo punto per farcene
accompagnare per qualche riga ancora, magari per
qualche pagina, nella nostra, libera e fantasiosa lettu-
ra. Ecco di nuovo emergere, tanto più nel caso di
una descrizione letteraria del fatto musicale, la discre-
panza tra tempo della rappresentazione e tempo rap-
presentato.
Ci stiamo avvicinando alla fine del nostro viaggio. Il
caso del romanzo di Carpentier presenta tuttavia
alcune particolarità che meritano di essere qui bre-
vemente segnalate. L’opera è attraversata da cima a
fondo dalle sonorità barocche vivaldiane, händeliane
e scarlattiane. Lo scrittore ricorre però, inserendo il
proprio lavoro nel filone della letteratura fantastica, a
dei giochi di prospettiva temporale continuamente
variabili e variati. Se la storia inizia infatti in un non
meglio precisato periodo della prima metà del
Settecento, questa finisce nel nostro secolo, quasi ai
giorni nostri, nei primi anni Settanta. I personaggi
portanti restano tuttavia gli stessi, solo passati attra-
verso la metamorfosi delle mode dei secoli, cambiati
d’abito, trasportati da treni anziché da vascelli, avvolti
dai suoni della tromba di Louis Armstrong in un con-
certo veneziano anziché dagli archi e dagli ottoni
barocchi. Solo un segno, non a caso una sonorità,
non perde la propria costante e riconoscibile fisiono-
mia: sono i rintocchi dei mori in piazza S. Marco a
Venezia introdotti di tanto in tanto a segnalare che
un certo tempo, frammentario, confuso, mescolato
nella successione fantastica degli eventi, è trascorso.
Il trait d’union unifica così e mette in relazione tra
loro i giorni veneziani del magico incontro dei tre
grandi compositori e le giornate conclusive della jam
session trombettistica: segna che il tempo, tanto o
poco, è trascorso, che la musica e dunque l’uomo e
le cose sono cambiati, ma che un qualche frammento
di passato è trascorso e filtrato attraverso le maglie
della storia, che qualcosa degli a solo vivaldiani resta
e convive nella musica jazz di Armstrong.
La categoria di Carpentier è quella del reale-meravi-
glioso. Significa che elementi di storia realmente
accaduta vengono utilizzati in una trama in cui il
soprannaturale non nasconde risoluzioni, smaschera-
menti onirici o svelamenti di trucco finali. 21 Il meravi-
glioso, come suggerisce Tzvetan Todorov, non pro-
voca nessuna reazione nel personaggio e nel lettore.
Quello che sembra cioè impossibile viene accettato
infine come una realtà priva di retroscena magici. In
questo senso, la musica dà una propria determinante
spinta verso la realizzazione del reale-meraviglioso
proprio sul piano della temporalità. È vero infatti che
la citazione di una musica o di un genere musicale
noti, vale a dire caratterialmente identificabili, colloca
quella stessa musica nel tempo e a quel dato tempo
può attribuire colori, facce, vestiti, pensieri, età. La
somma e la sovrapposizione, meglio ancora l’incon-
tro di musiche appartenenti a tempi ed epoche
distanti, serve a relativizzare il tempo stesso, a porne
un metro di riferimento imprescindibile, per cui la
musica di Armstrong, il sound di quel jazz non può
datare all’indietro, prima degli anni Dieci o Venti del
Novecento. Ma è vero anche che Carpentier sposta la
vicenda del suo romanzo attraverso spazi di grande
ampiezza, dall’America centrale fino alla Venezia di
un carnevale vivaldiano. Tempo e spazio si muovono
nelle sue pagine con identica dinamicità e fluidità.
Nel corso del viaggio dal Messico fino al vecchio
continente, i personaggi sostano qua e là, nei Caraibi,
per esempio, poi in Spagna, a Madrid, a Barcellona.
Lungo sarebbe riassumere tutta la vicenda. Eppure
alcuni tasselli vanno aggiunti prima di chiudere. In
quei luoghi, ancora lontani dalla nostra civiltà sette-
centesca, il Signore messicano trova e assume un aiu -
tante nero e da questo inizia a sentire ritmi e suoni
percussivi della antica tradizione afro-cubana. Quei
suoni si accodano alla comitiva, seguono la meravi-
gliosa idea di Carpentier e giungono infine a
Venezia, entrano nelle orecchie di Vivaldi, partecipa-
no coi suoni improvvisativi del nero percussionista al
concerto grosso. Poi tutti, i compositori europei e i
viaggiatori latino-americani, si ritrovano ubriachi
all’alba nel cimitero di Venezia, sopra la tomba di un
certo Stravinskij, “Un bravo musicista — disse
Antonio, — ma antiquato, talvolta, nei suoi intenti. Si
ispirava ai temi di sempre, Apollo, Orfeo,
Persefone”.22 E continua poco oltre, sull’onda di un
ragionamento che chiama in causa il Neoclassicismo
del russo: “Il fatto è che questi maestri che chiamano
all’avanguardia si preoccupano tremendamente di
sapere quanto hanno fatto i musicisti del passato e ten-
tano addirittura, a volte, di ringiovanirne lo stile. Noi,
invece, siamo più moderni. Io me ne frego di sapere
com’erano le opere, i concerti, di cent’anni fa”.23
Il soprannaturale, che si situa sulla longevità impro-
babile dei personaggi, mira evidentemente a stabilire
un nesso qualificante, ma anche una visione stratifi-
cata e geologica, tra i diversi impianti culturali delle
diverse civiltà o zone della terra. Carpentier non
assume, perché fisiologicamente non può farlo, una
visione eurocentrica della cultura, del romanzo, della
musica. Vede il mondo da un altro punto di vista,
quello dell’isola caraibica, del nuovo continente, di
una terra dove le vecchie impalcature, anche musica-
li, dell’Occidente conquistatore devono infine trovare
incontro e mediazione con i suoni autoctoni a loro
volta mescolati nei secoli con segni musicali dalle
incerte origini africane, in uno scambio simbiotico
reciproco e continuo. È il riscontro della problemati-
51
 Estetica
cità di un diseguale sviluppo della cultura mondiale
quello che emerge dalle pagine di Carpentier con
l’elevazione del caso caraibico, del sincretismo di più
culture, a modello. Il reale-meraviglioso si colloca a
quest’altezza del nostro viaggio. Il compendio delle
varie fasi storiche e culturali, dalle antiche alle
moderne, rintracciabile in molti Paesi latino-americani
fa da base reale alla visione meravigliosa e fantastica
degli “impossibili” eppure concretissimi incontri
musicali del romanzo. Ma vale la pena allora di
segnalare quell’affresco (un concerto celeste) conser-
vato in una cattedrale barocca di Haiti, trovato dallo
stesso Carpentier, in cui un angelo suona le maracas,
definendo anche sul piano dei modelli di riferimento
musicale la componente sincretica di quella cultura.24
Ma non è solo questo che ci comunica l’ascolto del
romanzo di Carpentier. Il carattere dialettico della
cultura o delle culture, i liberi viaggi attraverso i
secoli e le epoche delle musiche, indicano una linea
di pensiero che si oppone al determinismo meccani-
cistico di una storia anche musicale pensata come
linea di sviluppo inevitabile e fondata sul principio di
causalità che impone l’idea che ogni fatto, dunque
ogni musica derivi da un altro e a un altro dia corso.
Dall’ascolto del Concerto barocco si trae l’insegna-
mento importante di una visione diversa delle cose
musicali e culturali in cui conta la prassi reale dei
fatti, delle musiche per esempio che ogni giorno,
nella nostra esperienza di ascolto radiofonico, con-
certistico o discografico, sentiamo, dal Barocco di
Vivaldi al jazz di Miles Davis, da Monteverdi a Luigi
Nono, da Beethoven ai canti a tenores della
Sardegna, dal canto trobadorico all’Heavy Metal, dai
cubani Moncada a Stockhausen, dai tanghi di
Piazzolla a Jovannotti. Alejo Carpentier, in un altro
romanzo intitolato Los pasos perdidos,25 dà a una
locanda il nome emblematico di “Ricordo del futuro”.
Così va visto nell’oggi il senso di “contemporaneità
del non contemporaneo”, come lo chiamerebbe
Franco Moretti nel suo recente Opere Mondo.26 Così
in questo nostro tempo, come nel tempo del roman-
zo, convivono tempi diversi, il moderno insieme ai
52
segni vitali, qui anche barocchi, di altre epoche e
civiltà. Credo di capire e di recuperare questo senso
della temporalità, ogni volta che in Sardegna mi capi-
ta di sentire e studiare i Tenores di Bitti o gli Attitos,
gli antichi eppure musicalmente modernissimi canti
funebri della cultura isolana, mescolati dialetticamen-
te ai suoni della nuova musica, della musica contem-
poranea o d’avanguardia come si dice, di compositori
oggi trentenni, attentissimi a quelle radici e a quei
suoni tanto quanto lo sono al nuovo musicale delle
frontiere compositive più avanzate e innovative.27
Così il ritorno, dopo tante generazioni, verso le terre
d’origine, porta con sé nuovi impianti linguistici e
musicali. Ma la visione, appunto stratificata e geologi-
ca, del romanzo di Carpentier insegna molto, per
esempio che le sovrapposizioni e gli accostamenti di
culture diverse non registrano sempre la sostituzione
o il dominio totalizzante e prevaricante di una
sull’altra. È possibile la fusione, la felice coesistenza.
Così, una ritmica forsennata e tribale entra, seguendo
la sua fantasia di scrittore visionario ma realista, tra le
pagine concertistiche barocche. Così i segni barocchi,
l’impianto dialogante del call and response tra grosso
e concertino settecenteschi, filtrano fino ai riff e ai
background che colloquiano con una tromba jazz,
dicendoci, per concludere, che l’ascolto del romanzo,
in quanto avventuroso e libero viaggiare tra le pagine
di un libro, è anche questo, è gusto della scoperta, è
timido e periglioso avanzare tra luoghi sconosciuti, è
scivolamento sulla superficie liquida del testo, è la
costante invenzione di soluzioni e vie d’uscita che
migliorino la nostra capacità di capire e godere della
pagina scritta. È anche la capacità di riconoscere e
sentire e rispettare, fuori di metafora, la pluralità
delle voci, la fisionomia delle identità, la polifonia
delle parti. L’orecchio intollerante e in vena sempre
di colonizzare giudicando non sa ascoltare nulla,
nemmeno il romanzo.
“Quanto a noi”, scriveva Gaston Bachelard, “dediti
alla lettura felice, non leggiamo e non rileggiamo se
non quanto ci piace, con una piccola dose di orgo-
glio di lettura, mescolata a molto entusiasmo”.28
 Estetica
NOTE
* Questo saggio è la parziale rielaborazione di un testo
letto da Roberto Favaro in forma di conferenza il giorno
28 settembre 1994 presso il Palazzo Barugi di Foligno
(Perugia), nell’ambito della XV edizione del Festival
“Segni barocchi” in programma dal 22 settembre al
1° ottobre 1994. Si ringraziano gli organizzatori della
Manifestazione per la gentile autorizzazione a pubblica-
re questo testo.
1 T. MANN, Buddenbrooks. Verfall einer Familie, S. Fischer
Verlag, Frankfurt, 1901. L’edizione italiana cui si fa qui
riferimento è T. MANN, I Buddenbrook. Decadenza di
una famiglia, Torino, Einaudi 1982.
2
Si tratta dell’inizio del Capitolo VI della Parte ottava, in
ibid., pp. 452 e sgg.
3
I. S VEVO, La coscienza di Zeno, Bologna, Cappelli 1923.
Ci si riferisce qui all’edizione pubblicata da Dall’Oglio,
Milano 1938.
4 Ibid., pp. 82 e sgg.
5 A. CARPENTIER, Concierto Barroco, Mexico 1974. L’edizio-
ne italiana cui si fa qui riferimento è in A. CARPENTIER,
Concerto barocco. Romanzi brevi e racconti, Torino,
Einaudi 1991.
6 Cfr. M. BACHTIN, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi
1979.
7 Cfr. A. C ARPENTIER, La novela latino-americana en vispe -
ras de un nuevo siglo y otros ensayos, Mexico 1981.
8 V. KANDINSKIJ, Lo spirituale nell’arte, Milano, SE 1989,
p. 48.
9 R. BARTHES , L’ovvio e l’ottuso, Torino, Einaudi 1985,
p. 36.
10 Del confronto tra opera cinematografica e radiofonia,
oltre che di connessioni e differenze sinestetiche tra
film e romanzo si è occupato, su livelli di notevole e
rigoroso approfondimento, SERGIO MICELI nel suo La
musica nel film. Arte e artigianato, Fiesole, Discanto
edizioni 1982, e nel più recente Morricone, la musica, il
cinema, collana “Le Sfere”, Milano-Modena, Ricordi-
Mucchi 1994.
11 Cfr. R. F AVARO, L’ascolto del romanzo. Mann, la musica,
I Buddenbrook, collana “Le Sfere”, Milano-Modena,
Ricordi-Mucchi 1993.
12 Citato in J.-J. NATTIEZ , Il discorso musicale. Per una
semiologia della musica, Torino, Einaudi 1987, p. 27.
13 Lettera del 12 dicembre 1947 indirizzata a Emil
Preetorius, in T. MA N N , L e t t e r e, Milano, Mondadori
1986, p. 670.
14 I. SVEVO, cit., p. 151.
15 Ibid., p. 152.
16 Ibid., p. 153.
17 Ibid.
18 Ibid.
19 Cfr. su questo argomento le riflessioni di Roman
Ingarden. In p articolare cfr. R. I N G A R D E N , D a s
Literarische Kunstwerk. Eine Untersuchung aus dem
Grenzgebiet der Ontologie, Logik und Literaturwissenschaft,
Niemeyer, Halle 1931, e R. INGARDEN, Vom Erkennen des
literarischen Kunstwerk, Tuebingen, Niemeyer 1968.
Utile per la presentazione del tema tempo/letteratura in
Roman Ingarden il saggio di G. SC A R A M U Z Z A , Il tempo
nella letteratura: Roman Ingarden, in “Materiali filo-
sofici”, n. 11, 1984, pp. 40-59, ora ripubblicato in G.
SCARAMUZZA , Oggetto e conoscenza, Padova, Unipress
1989, pp. 101-122.
20 A. CARPENTIER, Concerto barocco, cit., pp. 32-33.
21 Cfr. T. TO D O R O V , La letteratura fantastica, Milano,
Garzanti 1988, in particolare le pp. 45-61.
22 A. CARPENTIER, Concerto barocco, cit., p. 41.
23 Ibid.
24 Carpentier ne parla in molti saggi e poi nel romanzo Los
pasos perdidos, La Habana 1974.
25 Ibid.
26 F. MORETTI, Opere Mondo, Torino, Einaudi 1994.
27 Esiste in Sardegna una vivace attività di ricerca concen-
trata attorno alle due maggiori associazioni dell’isola, la
cagliaritana “Spaziomusica Ricerca” e la sassarese Cerm
(Centro ricerche musica e sperimentazione acustica). In
particolare il Cerm si dedica da anni allo studio del
patrimonio etnomusicologico sardo (con un dipartimen-
to diretto da Pietro Sassu), alla sperimentazione e pro-
duzione di opere di musica contemporanea (con la
sezione di elettroacustica diretta da Alvise Vidolin) e
allo studio musicologico (con la sezione diretta da Luigi
Pestalozza). Sul Cerm e l’ultimo triennio di attività cfr.
R. F AVARO (a cura di), Suono e cultura. Cerm - Materiali
di ricerca 1990-92, Quaderni di M/R n. 31, Modena,
Mucchi editore 1994.
28 G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Edizioni
Dedalo 1989.
53
 Musica e…
La musica nel film
A Midsummer-night's Sex Comedy
di Woody Allen
Roberta Bortolozzo
A mano a mano che la filmografia di Woody Allen si
arricchisce di nuovi titoli, le sue opere vanno acqui-
sendo nuovi livelli narrativi e rivelando sovrapposi-
zioni di strati gnoseologici più o meno manifestata-
mente esplicitati. Questi livelli e strati, di differente
natura e provenienza, sono costituiti di volta in volta
— o al medesimo tempo — dai leit-motive della poe-
tica del regista, spesso intimamente connessi alle di
lui vicende biografiche, e dalle minute trame di tribu-
ti stilistici che Allen tesse intrecciando insieme arti
visive, musicali, letterarie, ornandole di copiosi riferi-
menti cinematografici.
Il fatto che, ‘malgrado’ questo corollario di molteplici
influenze, o anche ad ignorarle, il prodotto filmico
conservi una sua compiutezza ed autosussistenza,
sembrerebbe rendere in certo qual modo gratuito
— o quantomeno non indispensabile — lo sforzo
di individuare quali siano, e quanto peso detengano,
tali influssi; ma lo sforzo si direbbe doveroso ove già il
titolo stesso del film, ciò che avviene in A Midsummer
Night’s Sex Comedy (1982), contenga una citazione
che, seppur deformante, rimanda ad un’ispirazione
esterna assai precisa (la commedia shakespeariana A
Midsummer Night’s Dream).
L’utilizzo di musiche mendelssohniane parrebbe, in
questo contesto, supportare la matrice shakespearia-
na dell’opera, ma a indebolire questa teoria vale la
penuria di analogie profonde tra il film di Allen e la
(quasi) omonima commedia di Shakespeare.
Analizzando il rapporto fra l’azione delle due opere,
si nota che entrambe prendono l’avvio ad una vigilia
di nozze (Teseo ed Ippolita in Shakespeare, Leopold
e Ariel in AMSNSC) e dopo un breve prologo sposta-
no l’ambientazione in uno scenario campestre che
rappresenta un luogo emblematico, magico (il bosco
shakespeariano diventa il ruscello in A M S N S C) .
Protagoniste, qui e lì, sono tre coppie: in AMSNSC,
oltre a Leopold e Ariel, figurano Andrew e Adrian
Hobbes (coppia sposata, ma in crisi sessuale: la
donna è psicologicamente bloccata dal rimorso per
essersi concessa un anno prima a Maxwell, amico di
Andrew, all’insaputa del marito), Maxwell e Dulcy
(coppia formatasi per il weekend sull’onda di una
forte attrazione fisica).
È forse il peso detenuto dall’aspetto sessuale nelle
vicende narrate dal film a determinare l’inserimento
dell’attributo ’sexy’ nel titolo; qualora non si tratti,
piuttosto, della volontà dell’autore di distinguere fin
dal primo momento la sua creazione dall’“originale”
letterario etichettandola in modo ammiccante, otte-
nendo nel contempo un effetto comico di “abbassa-
mento di tono”.
Adrian rimpiange l’occasione perduta, anni addietro,
con Ariel, donna dal fascino quasi magico, che costi-
tuisce il “sogno” non solo del consulente finanziario-
inventore a tempo perso Andrew, ma anche del suo
amico medico-casanova a tempo pieno Maxwell; il
quale, abbagliato dalla bellezza di Ariel, o meglio fol-
gorato dal suo profumo, trascura per questa la pro-
pria compagna Dulcy, che sembra essere la sola per-
sona del gruppo a sentirsi in armonia con la natura
ed il proprio corpo, grazie alle conoscenze che di
questi ha attraverso la professione di infermiera, ed è
tuttavia attratta da Leopold, filosofo materialista auto-
re di Pragmatismo concettuale, di cui ammira la
“distinzione”. La trasumanazione finale di quest’ulti-
mo, falsificante la sua primissima affermazione “[...] a
parte questo mondo non esistono altri tipi di realtà”,
pone l’accento su uno dei temi del film, esposto
dallo stesso Andrew “[...] esiste in questa vita più di
quanto percepiamo con i cinque sensi”.
Allen e Mendelssohn
L’utilizzo di brani mendelssohniani, come si è detto,
parrebbe incarnare un altro cordone ombelicale che
unisce commedia letteraria e cinematografica: ma se
si considerano i numeri tratti dalle musiche di scena
per il Sogno di una notte di mezza estate, essi da tre-
dici sono ridotti a quattro (il resto della colonna
sonora è tratto da altre opere: il Concerto per violino
e orchestra op. 64, il Concerto n. 2 per pianoforte e
orchestra op. 40, lo Scherzo dalla Sinfonia n. 3 op. 56).
Di questi, lo Scherzo in sol minore, concepito da
Mendelssohn per raffigurare l’ingresso nel mondo
delle fate, è in AMSNSC a commento delle evoluzioni
aeree di Andrew e, nel finale, a descrizione della cac-
cia all’uomo intrapresa da Leopold con arco e frecce;
l’Intermezzo Allegro appassionato, in luogo di rappre-
sentare il risveglio di Ermia sola nella foresta, accom-
pagna bensì il vivace triangolo Andrew-Maxwell-Ariel
55
 Musica e…
al ruscello; l’Ouverture è trasferita al termine della
vicenda, mentre la celebre Marcia nuziale, che nella
scaletta mendelssohniana dovrebbe coronare le con-
clusive nozze di Teseo e Ippolita, sottintende ai titoli
di testa di AMSNSC .
Ciò sembra suggerire alcune considerazioni: a Woody
Allen interessa Mendelssohn per la natura delle sue
musiche, e non strettamente in relazione a quelle
composte per il S o g n o; Allen comincia dove
Shakespeare finisce, raccontando ciò che avviene
dopo le nozze; infine poiché uno dei temi del film è
il matrimonio, la Marcia nuziale posta all’inizio
avrebbe una funzione programmatica.
Le ragioni della scelta di queste musiche, e il motivo
del loro inserimento in particolari momenti
dell’opera, sono da ricercare all’interno dell’ossatura
concettuale di A M S N S C, che sembra formare una
serie di dualismi rintracciabili nelle relazioni tra i per-
sonaggi, le loro azioni e i loro dialoghi.
Primitività/razionalità
In qualche misura, impersonate la prima da Maxwell
e la seconda da Leopold; ma tutti i personaggi oscil-
lano, chi prima e chi poi, chi più e chi meno, dalla
prima alla seconda e viceversa.
A nessuno è di monito il divieto di “corteggiare
essendo sposati” (Maxwell lo rimprovera ad Andrew,
ma lui stesso insidia una promessa sposa, che non ha
remore a ricambiare i sentimenti di Andrew, il quale
è sposato; mentre lo scienziato Leopold, uomo di
cultura per definizione, è attratto dalla “primordiale
energia” di Dulcy).
Naturalità/condizionamento ovvero libertà/matrimonio
Leopold, che per tutta la vita ha frenato le pulsioni
per cui prova vergogna, alla fine dà loro libero sfogo.
Ariel, donna libera, rinuncia all’indipendenza in
favore del matrimonio solo perché ha paura della
vecchiaia.
Adrian, una volta liberatasi del fardello del rimorso
per la scappatella con Maxwell, esprime il suo ardore
amoroso (seguendo i consigli di Dulcy) nei luoghi
più impensati.
Andrew, grazie ai condizionamenti impostigli dalla
crisi matrimoniale (niente sesso), si realizza come
inventore riuscendo a volare.
Spontaneità/menzogna
Non vi è personaggio che non mentisca pur di obbe-
dire ai propri istinti; AMSNSC è un film sull’innocenza
perduta, oltre che un film sulle occasioni perdute.
Lo scontro tra Maxwell Jordan e Andrew Hobbes,
amici divisi dal comune amore per Ariel, rievoca
l’“homo homini lupus” di un altro Hobbes, il filosofo
Thomas (1588-1679).
56
Desiderio/amore
Chiede Ariel ad Andrew: “Se dici che mi desideravi in
quel modo, perché non eri anche innamorato di me?
I due sentimenti possono essere separati?”
Chiede Adrian ad Ariel: “Tu credi che quando due
persone si amano l’amore debba sempre esprimersi
fisicamente?”
Chiede Ariel ad Adrian: “Vuoi dire, se un uomo può
desiderare appassionatamente una donna e non esse-
re innamorato di lei?”
Afferma Leopold: “Considero sacri i voti matrimoniali,
e una volta sposo non sarò mai infedele”, aggiungen-
do però “Io voglio Ariel come moglie, ma la spinta è
forte (a Dulcy) [...] io non riesco ad impedirmi di
immaginare come sarebbe con te”.
Visibile/invisibile
Attraverso la sfera magica si colgono attimi presenti,
passati e futuri, oltre ciò che possono percepire i cin-
que sensi; ma ciascun personaggio interpreta le
immagini proiettate dalla sfera a modo suo, secondo
ciò che lo tocca più da vicino; vede quel che vuole
vedere...
Dimostrabile/indimostrabile ovvero reale/magico
“L’universo è magico” sostengono Adrian e Ariel,
“È bellissimo e spiegabile” replica Leopold,
“Non è tanto meraviglioso, giù in ospedale” commen-
ta Maxwell,
Andrew racconta: “Nelle notti d’estate si vedono
cose...”,
Leopold sentenzia: “Non ci sono fantasmi, a parte in
Shakespeare, e molti di loro sono più reali di tante
persone che conosco”.
Realtà/immaginazione
Ciò che è, a fronte di ciò che si pensava potesse
essere.
Ariel si confessa a Maxwell: “[...] prima credevo di
amare Leopold, poi credevo di amare Andrew [...]”.
Anche lo spettatore è vittima delle apparenze: nulla,
nell’aspetto fatato di Ariel, farebbe supporre che da
giovane, perdipiù educata dalle suore, “andava ed
era andata a letto con chiunque, compresa tutta la
squadra e le riserve dei Chicago”.
Essere/divenire
Da adulti si cambia: “primavera, estate, autunno ed
inverno hanno mutato le divise loro”, recita Leopold.
E regolarmente mutano i legami sentimentali dei per-
sonaggi (tutti vestiti di bianco, ch’è il colore della
transizione), che abbandonano i rispettivi partners
per stabilire nuovi poli d’attrazione. La medesima
 Musica e…
evoluzione creativa del regista è simbolica di questo
divenire: dichiarava Allen in un’intervista rilasciata a
Martin Mull, per “Crawdaddy” (dicembre 1973):
“Spero che un giorno sarò capace di fare film o com-
medie o qualcosa del genere che siano più profondi
di quello che ho fatto finora”.
Giovinezza/invecchiamento
Ciò che è, a fronte di ciò che era.
La paura di invecchiare confessata da Woody Allen in
un’intervista rilasciata a Penelope Gilliatt per il “New
Yorker” (febbraio 1974): “[...] la cosa peggiore che
può capitare è di diventare vecchio”, mina in AMSNSC
la sicurezza della pur affascinante Ariel. Ed è ancora
Ariel, seduta sul dondolo in compagnia di Adrian, e
rievocare con nostalgia e rimpianto gli anni della gio-
vinezza.
Pensiero/azione
Dall’intervista per “Crawdaddy” precedentemente
menzionata: “[...] per me guardarmi attorno fra un
paio d’anni e dire: maledizione, avevo l’opportunità
di scrivere e dirigere tutti quei film, e non l’ho fatto e
adesso non lo posso più fare, significherebbe perdere
un’occasione irripetibile. Perché generalmente succe-
de, soprattutto agli attori del cinema, di essere di
moda per un certo tempo, e poi è finita”.
Che le occasioni mancate siano al centro delle tema-
tiche di AMSNSC , ci è confermato dallo stesso regi-
sta: “È una storia d’amore, di sesso, di vita, di morte,
di opportunità mancate”.
Come un leit-motiv, ritorna sulle labbra di più perso-
naggi il sospirante “Ah, se avessi agito...”. (Maxwell:
“Una farfalla a banda gialla! Ne ho cercata una per
tutta la vita!”. Leopold: “[...] tutti i pensieri terribili che
per tutta la vita ho paventato di sfrenare...”. Andrew:
“[...] le nostre vite sarebbero state diverse, se avessi
agito...”).
Dissidio/armonia
Insegna l’esperta Dulcy che l’amore non deve essere
routine, ma deve accompagnarsi ad un senso di ecci-
tazione e di spontaneità. L’eccitazione, intesa come
vita sessuale inventiva ed appagante, e la sponta-
neità, intesa come sincerità = assenza di menzogna,
sono per l’appunto le due qualità mancanti all’interno
del rapporto di coppia Andrew-Adrian.
Ma l’instabilità, in AMSNSC, informa ogni personag-
gio, cosicché verrebbe spontaneo affermare che sia la
natura stessa dell’uomo a soffrire di ’squilibrio’: e che
siano la ricerca del proprio completamento, e
l’approfondimento del proprio essere, la chiave che
conduce al ritrovamento dell’armonia.
La musica
Per ammissione dello stesso Woody Allen “questa
storia è una favola quindi l’atmosfera deve essere
molto bella”; quale musicista potrebbe rivelarsi più
indicato per commentarla di Mendelssohn, a propo-
sito del quale Robert Schumann scriveva “[...] sem-
pre muove col suo solito passo giocondo; nessuno
ha sulle labbra un sorriso più bello del suo”?
Per di più, da numerose lettere indirizzate da
Mendelssohn alla sorella Fanny, risulta l’attrazione
che legherà per tutta la vita il compositore alle magi-
che atmosfere, ai mondi fiabeschi, ai luoghi sognanti
e alle immagini fantastiche.
In particolare, profonda impressione opera sul giova-
ne Mendelssohn la lettura dello shakespeariano
Sogno di una notte di mezza estate nella traduzione
tedesca di Schlegel; tanto che ancora diciassettenne,
compone l’O u v e r t u r e che rivela al mondo il suo
genio creativo.
Le restanti musiche di scena risalgono invece a
diciassette anni dopo (1843), e si concludono con la
medesima serie di accordi che avevano aperto
l’Ouverture, cosicché si può dire che l’ispirazione del
Sogno non abbandonò mai il musicista tedesco.
Ciò che balza agli ‘occhi’ immediatamente in AMSNSC
è la netta concordanza di immagini e suono e la loro
successione in forma di veri e propri quadri all’inter-
no dell’opera.
Il binomio musica = natura agisce sul binario della
immediata percezione: gioia, spontaneità, equilibrio;
freschezza, scorrevolezza, delicatezza inventiva,
armoniosa scelta della successione del ‘movimento’
sonoro e visivo: un missaggio di grande impatto
emotivo questo di Allen e Mendelssohn.
Non di meno è noto — e anche Allen lo sa — che
l’ammirevole armoniosità del linguaggio mendelssoh-
niano è frutto di uno strenuo lavoro di purificazione
dei materiali impiegati, e che pertanto compendia
due aspetti apparentemente conflittuali come un’ispi-
razione felicissima e una paziente opera di cesello,
risultando posta sull'asse naturalità/condizionamento,
vale a dire uno dei dualismi sopra citati come for-
manti l’ossatura concettuale di AMSNSC.
Attraverso l’artificio della scrittura, dunque, il compo-
sitore ricerca la naturale immediatezza dell’effetto
sonoro, così che artificio e spontaneità si compongo-
no in una superiore armonia (allo stesso modo in cui
la ritrovata sincerità restituisce la perduta armonia al
matrimonio di Adrian e Andrew).
L’armonia è dunque conciliazione di forze contrastan-
ti; come nella trama di A M S N S C essa scaturisce
dall’interazione di opposti, così la sensibilità romanti-
ca del musicista Mendelssohn necessita di incanalare
i propri aneliti in forme classiche per conservare la
sobrietà che la caratterizza; l’ispirazione desunta dai
classici informa anche il regista Woody Allen che per
57
 Musica e…
arricchire di bellezza pura la propria opera, trae
spunto dai classici del cinema (Bergman, Renoir), ma
non solo: in una sorta di ispirazione multimediale,
egli si accosta anche alle invenzioni pittoriche
impressioniste, alle teorie filosofiche del pragmatismo
americano più intransigente (Dewey), senza trascura-
re l’eredità comica della pochade e del burlesque.
A partire da Manhattan (1979), l’attenzione di Allen
verso la musica si fa più sensibile e porta il regista a
rendere sempre più raffinata la ricontestualizzazione
del materiale sonoro.
La trasgressione del livello narrativo operata da Allen
attraverso la musica avviene, in AMSNSC , in modo
netto e significante. L’accostamento suono-immagine
assume una pregnanza superiore alla funzione di
commento, resa esplicita dalla trasparenza delle
intenzioni dell’autore che qui vuole mostrare una
‘natura’ reale e al tempo stesso ideale.
Le risorse espressive utilizzate da Allen restano
comunque di matrice simbolica: il loro contenuto
assurge a funzione emotiva, regolatrice di stati inte-
riori e attivatrice di emozioni.
L’adempimento di tale funzione, in questo contesto, è
ampiamente garantito dalla presenza di cliché struttu-
rali e semantici di materiali preesistenti, di elementi
appariscenti che caratterizzano la partitura musicale e
le immagini ad essa associate. La musica infatti pre-
senta modelli ritmico-melodico-dinamici assai facili,
sonorità ricche, soluzioni ‘comode’ e spedite, elemen-
ti che non richiedono all’ascoltatore un grande sforzo
alla memoria e all’anticipazione, ma perfettamente
funzionali a quel tipo di ascolto capace di percepire
soltanto, secondo la metafora di Adorno, “ciò che
cade sotto il cerchio di luce del riflettore”.
Immagini enfatizzate, perciò, dettate dall’intenzione
di persuadere il comportamento psicologico del pub-
blico che si ritrova ad uno stadio percettivo interme-
dio tra sensorialità e intelligenza, nella forma
dell’intelligenza vissuta ma non riflessiva. Ed è
quanto vuole ottenere Allen: un senso di immediata
esperienza attraverso la quale ‘passano’ indecifrati
significati.
Analisi dei brani
– Felix Mendelssohn, Marcia Nuziale dal Sogno di
una notte di mezza estate, opp. 21 e 61.
Accompagna i titoli di testa. Il sonoro comunica un
ambito ben definito; marcia nuziale significa matri-
monio: è questo uno dei temi dominanti della narra-
zione. Il primo personaggio ad apparire sullo scher-
mo è infatti Leopold, futuro sposo, alle prese con la
sua attività preferita di concettualizzazione del prag-
matismo.
La musica si presenta in funzione di contrasto: presa-
gisce un’ambientazione di festa, mentre la prima
scena si svolge in una stereotipata aula accademica in
58
cui il dialogo asciutto ed impegnato dei personaggi
ben si adatta al luogo tutt’altro che ‘spensierato’.
– Felix Mendelssohn, Scherzo: vivace non troppo in
Fa magg. dalla Sinfonia n. 3, Scozzese, in La min.,
op. 56.
Viene rappresentata qui la natura in movimento, in
una veloce successione di quadri. La musica è prece-
duta dall’immagine della sfera di Andrew che si
muove, quasi a significare un cambiamento di livello
della realtà.
Predomina il colore verde, colore rassicurante, rinfre-
scante e umano, proprio del regno vegetale che nel
risvegliarsi si rigenera; il verde è anche il colore della
speranza, della forza e della longevità, principio vita-
le dell’immortalità universalmente rappresentata dai
rami verdi. In questo caso il colore può assumere il
valore mitico dei verdi paradisi degli amori infantili e
lo sfondo musicale ne segue le tonalità.
Il sonoro dissolve sull’immagine di Adrian che mette
dei fiori (secchi e appassiti) in un vaso; se Adrian è il
simbolo di un matrimonio ‘imbalsamato’, i fiori recisi
potrebbero indicare una natura svilita dai condiziona -
menti umani, spenta nei suoi impulsi primordiali, cri-
stallizzata negli stereotipi sociali, esangue e priva di
spirito vitale.
– Felix Mendelssohn, Allegro molto vivace d a l
Concerto per violino e orchestra in Re min., op. 64.
Tutti i personaggi sono coinvolti, in questo quadro,
dal ritmo della natura; essi giocano bucolicamente e
potrebbero appartenere al mondo naturale anche le
loro artificiose attività: pescare, fotografare, suonare,
fumare, recitare ampollosi sonetti.
La musica comincia dopo una scena in cui gli ospiti
iniziano a socializzare mentre giocano e parlano di
arte; contrasta il biancore dei loro abiti con il verde
del paesaggio.
Il bianco — candidus — è simbolicamente il colore
del candidato, cioè di colui che sta per mutare condi-
zione; come colore di passaggio, nel senso in cui si
parla di riti di passaggio, esprime uno stato di muta-
zione dell’essere, di iniziazione, morte e rinascita.
Questo terzo quadro sembra succedere al secondo:
gli uomini come gli esseri vegetali e animali sono in
continua attività; tuttavia l’attività del regno biologico
si manifesta in simbiosi con i ritmi della natura ed è
essa stessa natura; l’agire umano invece gioca, elude
e sublima il possibile contatto immediato, fisico quin-
di, con gli elementi naturali.
L’Allegro ha inizio con la fuga nel bosco di Maxwell,
il quale con la scusa di aver ingoiato un fungo ‘vele-
noso’ si allontana dal gruppo per catturare Ariel e
baciarla ‘animalescamente’. Allen ci riporta nuova-
mente sul piano della pura istintività.
Nell’inquadratura successiva Ariel ed Adrian evocano
i sogni della giovinezza e dell’innamoramento: si può
essere innamorati senza amare? Si può sopravvivere
 Musica e…
ad un amore platonico senza approdare al naturale
compimento fisico del rapporto sessuale?
– Felix Mendelssohn, Scherzo in Sol min. (2°) dal
Sogno di una notte di mezza estate, opp. 21 e 61.
La musica accompagna il vicendevole ingannarsi dei
componenti del gruppo. È l’istinto che li spinge a tra-
dirsi: tutti mentono.
In questa corsa alla perdita dell’innocenza è l’acqua
ad imporsi come elemento visivo di maggior rilievo:
rubinetti, docce, vasche da bagno, lago e ruscello
combattono animosamente contro le menzogne
umane; l’acqua acquista il significato di mezzo di
purificazione e, nel ruscello, centro di rigenerazione.
Origine della creazione, l’acqua sensibile, madre e
matrice, fonte di tutte le cose, manifesta il ‘trascen-
dente’ ed è ambiguamente sorgente di vita e di
morte, creatrice e distruttrice. Il ruscello in particolare
simboleggia il corso dell’esistenza umana e le fluttua-
zioni dei desideri e dei sentimenti.
– Franz Schubert, Wohin?, lied n. 2 dal ciclo Die
schöne Müllerin op. 25.
Il testo di Wilhelm Müller, cantato da Leopold, si
innesta con mirabile precisione nella vicenda, com-
mentandone e anticipandone lo svolgimento: il desti-
no del giovane mugnaio, ch’è di vagare — così come
vagabonda è l’acqua, e sempre in moto sono le pale
del mulino — richiama il vagare dell’uomo che
invecchiando, con il trascorrere degli anni, ricerca il
proprio io (“Chi sono io?” si chiederà Leopold).
In tal senso la funzione del ruscello, che con il suo
vagare conduce il giovane mülleriano al mulino dove
incontrerà la bella mugnaia, è quella di ricondurre
Ariel e Andrew alla giovanile esperienza della grande
occasione perduta. Senonché il loro cammino è, per
così dire, controcorrente; non si può ricercare il pas-
sato, ovvero — questa la tesi eraclitea del racconto
— tutto scorre e diventa ‘altro’.
Proprio questo accade anche a Leopold, che scopre
in sé il cacciatore, l’uomo di Neanderthal, spinto da
un ‘fervore erotico’ e da un ‘rapimento’ magico (il
sogno di Dulcy che legge Capitan Cocoricò) a cui
non sa opporre resistenza. Sono emblematici i versi
di Wohin?: “Non so chi mi abbia ordinato di andare,
forse è stato un sogno; ho preso il mio bastone e ho
seguito questo flusso precipitante” e ancora i versi “O
ruscelletto, dimmi, dove?” paiono contrappuntare il
fondamentale interrogativo di Leopold “Chi sono io?”.
Il richiamo della natura che spinge il mugnaio a
vagare (“ho sentito un ruscelletto sgorgante dalla sor-
gente, tra le altezze rocciose e scorrere verso vallate
di sole, così fresco e meravigliosamente luminoso”)
diventa il richiamo dei sensi e della magia che spinge
Leopold a “sfrenare tutti i pensieri terribili” sempre
repressi; ma anche il cammino di Leopold è, come
quello di Ariel ed Andrew, controcorrente: egli cerca
il Neanderthal che è in sé, ma il Neanderthal (ironia
della sorte, lui stesso l’ha dichiarato) “s’è estinto”.
L’uomo d’oggi non può tornare ad essere l’uomo di
migliaia di anni fa, così come l’uomo ‘molto maturo’
(così si descrive Leopold) non può reggere a ritmi
amatori forsennati (“questi non sono i miei tempi”,
lamenterà nel corso dell’amplesso). E del resto
Leopold trapassa perché troppo lontane sono le
sponde tra le quali si dibatte: scienziato/giocatore di
volano, Dewey/Carlyle, filosofo pragmatico/critico
d’arte, interprete di Lieder passionali/religiosi, uomo
razionale/affascinato dalla “energia primordiale” di
Dulcy. Se, dopo la morte, diviene “fluttuante” (“wan-
dern fröhlich nach” aveva profetizzato cantando),
non fa che riappacificarsi con la natura, condividen-
do la stessa essenza “fluttuante” del tempo, del
ruscello, dei folletti...
– Robert Schumann, Ich grölle nicht, lied n. 7 dalla
raccolta Dichterliebe, op. 48.
Anche lo schumanniano Ich grölle nicht, su testo di
Heinrich Heine, rivela un profondo contatto con
l’azione di AMSNSC, a cominciare dal verso “quando
anche il cuore si spezza”, il cui sapore risulta forte-
mente jettatorio tra le labbra di chi, di lì a poco, è
destinato a morire d’infarto. In senso meramente
poetico, il cuore spezzato (seppur per breve tempo)
sarà invece quello di Maxwell, al momento che Ariel
gli preferirà temporaneamente Andrew.
Le parole “Ti vidi in sogno, e vidi la serpe che ti rode
il seno” non possono non rimandare alla scena nella
quale la sfera magica, messasi in movimento, proietta
sul muro, agli occhi dell’infuriato Leopold, le ombre
dell’occhialuto Andrew e di Ariel che si baciano.
Mentre il titolo “non ho rancore”, più volte ripetuto
nel corso del lied, suona palesemente ironico allorquan-
do Leopold, tutt’altro che privo di rancore, imbraccia
arco e frecce lanciandosi alla caccia del rivale.
– “Our father wich art in heaven [...]”.
Appare singolare che il filosofo pragmatista autore
della battuta “a parte questo mondo, non esistono
altri tipi di realtà” rivolga una preghiera al Padre che
è nei cieli (e che appartiene, quindi, ad una realtà
diversa da questo mondo); il significato di questa
scelta è dunque di presagio, o forse più ancora, di
testimonianza inconsapevole: Leopold indirizza il suo
canto ad una dimensione dell’esperienza di cui non
ammette l’esistenza (in quanto non verificabile che
direttamente, con la morte), ma di cui entrerà a far
parte ben presto.
– Felix Mendelssohn, Intermezzo dal Sogno di una
notte di mezza estate, opp. 21 e 61.
L’Intermezzo segue l’eccitata confessione di Maxwell
che rivela ad Andrew di avere ottenuto un appunta-
mento da Ariel al ruscello a mezzanotte. Soggiogati
da una cieca passione i due si ritrovano al ruscello a
contendersi Ariel.
59
 Musica e…
– Felix Mendelssohn, Adagio, molto sostenuto dal
Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in Re min.,
op. 40.
L’atmosfera è quasi irreale: ‘finalmente’ Andrew ed
Ariel passeggiano ‘dentro’ al loro sogno, ‘finalmente’ i
desideri e i sentimenti a lungo repressi hanno trovato
lo spazio e il tempo ideali per realizzarsi; anche la
musica accompagna lentamente lo scioglimento di
questa fitta trama; ancora una volta Ariel e Andrew si
ritrovano soli al ruscello, e la natura non sembrereb-
be voler deludere la magia di un’attesa così carica di
aspettative: “abbiamo una seconda occasione, non
bruciamola”.
– Felix Mendelssohn, Adagio, molto sostenuto dal Concerto
per pianoforte e orchestra n. 2 in Re min., op. 40.
Ritorna l’Adagio, la musica indica un’azione che si sta
svolgendo fuori campo e ancora occupa lo spazio
dell’immaginazione, quell’immaginazione, che con-
sente a Leopold di vedere le ombre di Ariel e
Andrew riflesse dalla sfera magica (è interessante
osservare come ogni personaggio interpreti le imma-
gini della sfera in modo differente). Leopold è pronto
a gridare vendetta.
Con l’improvviso cessare dell’Adagio il regista impo-
ne un brusco cambio di realtà. La nuova polarità
Ariel/Andrew si è imbattuta nella dimensione fisica
dello scorrere del tempo, nella scoperta che “il tempo
è passato” e “si cambia”, così improvvisamente
l’“esperienza atroce” (come entrambi la definiscono)
porta alla coscienza l’inadeguatezza di quel sogno, a
lungo cullato dall’immaginazione.
60
– Felix Mendelssohn, Scherzo in Sol min. dal Sogno
di una notte di mezza estate, opp. 21 e 61.
Il ritorno dello Scherzo, è il ritorno della passione e
degli istinti animaleschi. Leopold munito di arco e
frecce insegue Andrew, ma colpisce Maxwell. La
natura sembra prendersi gioco degli uomini, dei loro
sentimenti, delle loro attese.
“È vano l’agire contro natura!” potrebbe essere questa
la filosofia delle ultime scene: ma cos’è “natura”?
Il rigido determinismo che si scorge a posteriori fa
pensare che “le cose non potevano andare diversa-
mente” ed è quindi essa a determinare il corso degli
eventi. L’uomo appare, in questa prospettiva, forte-
mente condizionato dall’appartenere egli stesso alla
natura, mentre continuamente si confronta con la
memoria, il passato e l’‘esperienza’, sulla quale
costruisce e giudica presente e futuro, dimenticando
la legge fondamentale che “niente è mai la stessa
cosa”.
La domanda di Leopold, “Chi sono io?”, evidenzia la
sgradevole sensazione di innato squilibrio, smarri-
mento tra ‘essere’ e ‘dover essere’, dell’individuo, di
fronte al quale lo ‘scherzare’ della natura si rivela una
pericolosa messa in ‘gioco’ della sua identità.
– Felix Mendelssohn, Ouverture dal Sogno di una
notte di mezza estate, opp. 21 e 61.
La divertente, ma profonda esplorazione delle ‘ambi-
guità’ si chiude sui magici accordi dei fiati
dell’Ouverture che si aprono — ancora ambiguamen-
te — sulle parole di Leopold e sul paesaggio lunare
del bosco incantato e delle “luminescenti presenze”.
 Educazione Musicale

“Nicchia, ovvero il locale è l'universale”

Il pensiero compositivo in relazione alla formazione musicale
per un sapere sociale contemporaneo
Intervista con il compositore Walter Zimmermann

Teresa Camellini

Introduzione. la musica in sé determinano. In tal modo il pensiero

A proposito della manifestazione promossa dalla rivi-
sta «Musica/Realtà» dal titolo Musica d’oggi e
Didattica musicale tenutasi presso l’Istituto musicale
«C. Merulo» di Castelnovo ne’ Monti (Reggio Emilia)
lo scorso novembre 1994, alla quale erano stati invi-
tati a scrivere per gli allievi dell’Istituto compositori
italiani e stranieri, tra i quali Andrea Mannucci, Ennio
Morricone, Walter Zimmermann, Mauro Bonifacio,
Alain Banquart, Alfredo Aracil, ritengo sia di grande
interesse proporre in questa rubrica alcune interviste
con questi compositori in merito alla tematica riguar-
dante le principali funzioni della musica contempora-
nea in un contesto di formazione musicale.
Sono convinta che il valore che si conviene alla
musica nella società e gli effetti che su questa essa
produce in modo diversificato siano elementi essen-
ziali che concorrono allo sviluppo o all’impedimento
di determinate attitudini musicali. Per impedimento
mi riferisco a certi programmi di studio che ritengono
idonei alla formazione del giovane musicista solo
determinati autori e a tutti quei fenomeni di accultu-
razione musicale che spesso e ben volentieri la cosid-
detta critica di oggi definisce autorevoli per la divul-
gazione dei messaggi musicali. L’effetto della musica
dipende dal contesto in cui viene proposta, interpre-
tata e ascoltata. Spesso capita che la gente rivolga il
proprio interesse più ad alcune attività sociali cui la
musica è collegata che non alla musica in sé. La pre-
senza dei grandi autori dipende sì dal talento degli
esecutori ma anche da un pubblico capace di giudi-
zio critico. In sostanza, riconoscere i principî di una
composizione e gli effetti a essa legati vuol dire com-
prendere quelle relazioni che intercorrono tra l’espe-
rienza del compositore e quella dell’esecutore che
tramite la propria interpretazione stabilisce un legame
con l’esperienza sociale. In questo modo è forse pos-
sibile definire alcune funzioni che risultano determi-
nanti nello sviluppo di un “sapere sociale”. Il giovane
musicista dovrebbe avere l’opportunità di sviluppare
le proprie attitudini in un contesto culturale che gli
permetta di essere soggetto discriminante a proposito
delle diverse funzioni relazionali che il compositore e
compositivo non resta solo legato all’evolversi della
materia sonora, ma rappresenta il cardine relazionale
tra la creazione di idee e le loro funzioni sociali. In
sostanza, i valori etici e sociali dell’ascolto contempo-
raneo assumono importanza formativa se essi come
tali suggeriscono l’esperienza di un’appropriazione
culturale critica.
Un compositore che si propone di comunicare qual-
cosa di più di un bel suono dev’essere attento alle
associazioni che suoni diversi evocano in soggetti
diversi, e un esecutore che vuole comunicare con la
propria interpretazione deve fare attenzione alle rela-
zioni oggettive tra ciò che può comunicare l’evolversi
della materia sonora e la propria capacità soggettiva
di trasmetterla culturalmente ed emotivamente.
Il ruolo sociale del compositore d’oggi dovrebbe
essere, pertanto, quello di stabilire una miriade di
rapporti individuali partecipanti alla costruzione di un
“sapere sociale” contemporaneo. Si può parlare quin-
di di musica d’oggi e di didattica musicale se si tenta
di capire e chiarire sin da principio i diversi significati
che un pensiero compositivo induce sul sapere socia-
le. Ritengo che una società cresca musicalmente
quando l’individualismo musicale compete alla for-
mazione di valori comunitari; il giovane d’oggi
dovrebbe pertanto essere bombardato ogni giorno da
proposte sonore onde poter acquisire un coraggioso
senso critico nella valutazione dei messaggi sonori e
musicali.
Ho pertanto impostato la prima parte dell’intervista
con il compositore tedesco Walter Zimmermann par-
tendo da un’affermazione che ritengo valida se si
vuole compiere un ragionamento intorno alle funzio-
ni della musica d’oggi in un contesto di formazione:
la musica è uno strumento indispensabile per la tra -
sformazione dell’uomo nel mondo.
Il primo interrogativo che si pone come chiarimento
e proseguimento di tale argomentazione può essere
così delimitato: gli effetti di una determinata pro -
d u z i o n e (per produzione determinata intendo una
produzione circoscritta dentro ambiti di ragionamen-
to delimitati da considerazioni di ordine sociologico e

61
 Educazione Musicale
t e c n i c o ) compartecipano alla efficacia di una
situazione sociale?
Un secondo interrogativo prende le mosse dal primo
come conseguenza immediata: qual’è il ruolo socia -
le del compositore contemporaneo?
E allora: in un contesto formativo quali caratteri - che è composto dalla totalità delle proprie esperienze
stiche assumono le motivazioni iniziali a cui si
riferisce il pensiero compositivo?
Intervista.
Il compositore Walter Zimmermann risponde a questi
interrogativi utilizzando una lunga metafora che in
realtà descrive le motivazioni di ordine filosofico-
sociologico legate all’ontogenesi dell’uomo in rappor-
to alla sua idea del sapere sociale contemporaneo.
W. Z.: Un luogo è l’inizio di tutto. Ognuno comincia
in un luogo. Un luogo inizia in ognuno. Le cose
fanno un luogo. Terra, alberi, pietre, aria, tempo, sta-
gioni, usanze, suoni, dialetti, canzoni, musica. Le
cose che fanno una località fanno anche l’uomo. Il
luogo fa l’uomo e l’uomo fa il luogo. Quando l’uomo
entra nel luogo viene portato via nella vita, allora il
luogo inizia a crearlo. Inizia dentro di lui la formazio-
ne dell’universo locale. Prima gli si dà l’orientamento
verso l’interno. Padre, madre e poi casa e fattoria (o
casa retrostante o cortile interno). Queste denomina-
zioni diventano i portatori dei primi suoni. Le deno-
minazioni aumentano, il luogo si sviluppa verso
l’interno e verso l’esterno. Gli si dà l’orientamento
verso l’esterno. L’uomo impara a conoscere il proprio
luogo, i suoi dintorni, la casa come punto di riferi-
mento e centro al quale, per adesso, ritorna sempre.
Egli impara a sentire il luogo come spazio nel quale
è possibile muoversi nelle direzioni più svariate. Lo
spazio ha vie segnate e non segnate. Le une sono vie
culturali e portano ad altri centri del luogo, le altre
sono vie naturali e portano all’aperto, nell’ignoto, nel
selvaggio. Questo è da esplorare.
Ci si allontana dal luogo e si apprendono i confini
del luogo, quando si annunciano nuove vie culturali,
all’ingresso del prossimo luogo. Si riconosce il signifi-
cato del luogo come nicchia dalla quale si entra in
contatto con il mondo, si funziona in essa. Si ricono-
sce nell’apprendere dei luoghi vicini due cose. La
prima: una delimitazione, cioè l’altro luogo rimanda
al primo, la nicchia. La seconda: una immensità. Si
apprende che l’altro luogo è fatto delle stesse cose,
che gli uomini all’interno sono formati da uguali con-
dizioni. Questo unisce un luogo a un altro e viene a
formare l’habitat. Oltre all’habitat ci sono i dintorni
più lontani, che sono delimitati dall’habitat come, per
esempio, la città dalla campagna e viceversa.
Ebbene, in questa maniera l’uomo impara a capi -
re la casa, la nicchia, l’habitat, il più delle volte
quando entra nella spirale dell’imparare che lo
stacca dal mondo dell’esperienza del luogo . zazione e all’urbanizzazione delle estensioni rurali.
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Come può ritrovare il luogo?
Appena entra nel processo dell’imparare, l’uomo esce
dal luogo. Questo viene poi spesso riconosciuto
come inizio dell’alienazione. Appena esce dal luogo
impara a riconoscerlo come proprio spazio culturale
almeno fino a questo momento ed è questa la realtà
della sua esistenza. Quello che esiste nel luogo è
tutto lui, attuale. Questa comprensione gli fa anche
riconoscere una polarizzazione che ha motivato in lui
questa uscita unica dal luogo, spinto dalla febbre del
sapere o dall’obbligo di apprendere o da qualunque
altra cosa.
Questa polarizzazione viene determinata da due
forze, quella che lega al luogo e quella che si libera
da esso. Per il momento sembra che entrambe le
forze si disturbino a vicenda. L’uomo non sa ancora
che le forze si condizionano, che hanno bisogno una
dell’altra. Così vale già qui: «L’uomo è estraniato da
quello che gli è più familiare» (da Eraclito).
Le forze leganti sono state fondate dentro di lui attra-
verso il condizionamento verso il locale. L’inserimen-
to dell’uomo, non solo in un determinato campo
geografico nel quale è nato per caso, ma anche attra-
verso un sistema complicato di cultura locale, ha
fatto nascere queste forze leganti. Questo campo ha
fatto partecipare tali forze ai valori, alle usanze, alle
abitudini, alle pratiche, ai riti, alle cerimonie e alle
istituzioni. L’ancoraggio a tutti questi avvenimenti
piccoli e grandi della cultura locale copriva la netta
esperienza del luogo come spazio con tutti i condi-
zionamenti immaginabili, che erano centrati sul fatto-
re tempo, in concreto: sulla stagione. Oltre a questo
esiste una specie di etica locale, creata innanzi tutto
nell’ambito della famiglia, l’autocomprensione per la
nicchia, l’habitat e l’ambiente più esteso. L’etica loca-
le conia con diverse sfumature l’ambiente: si ha
paura della natura, la si ringrazia, ci si adorna con la
natura. Tutti questi atteggiamenti verso l’ambiente
compivano originariamente il loro significato nell’uni-
verso locale.
A questo punto si incrociano avvenimenti della
storia più recente con l’ontogenesi dell’uomo
descritto, fra i quali il fenomeno del “nazionali -
smo”.
Con l’accrescimento del dominio dell’uomo sulla
natura si resero autonome queste forme dell’etica
locale e si trasformarono dalla reazione iniziale
all’ambiente in una facilmente contentabile ripetizio-
ne dell’autocomprensione locale. La cultura locale
diveniva portatrice di uno sciovinismo che veramente
non pensava al locale ma alla struttura politica pre-
posta, per esempio lo Stato centralistico, al cui centro
il locale aveva un significato piuttosto periferico. La
cultura locale veniva anche minimizzata a mo’ del
Biedermeier, questo come controfase all’industrializ-
 Educazione Musicale
Questo etno-centrismo trasfigurava le relazioni iniziali
della cultura locale e caricava il repertorio, i detti, le
canzoni, ecc. inutilmente con denominazioni e fissa-
zioni di carattere sentimentale. Nacque il termine
“patria”. Il materiale della cultura locale; per esempio
i motivi ballabili furono adottati, ricoperti di nuovi
contenuti e funzioni. La relazione diretta con
l’ambiente era persa. Le forze che uniscono, come
uno dei poli nella relazione con il locale, si sono
allontanate dall’osservatore, che nel frattempo si è
rassegnato, si sono alienate rispetto alla loro relazio-
ne iniziale, al giuoco uomo-natura, e sono diventate
portatrici dell’illusione “patria”. Nonostante questo,
queste forze continuano a esistere, mascherate dalle
emozioni che si poggiano sul locale. “Patria” è l’illu-
sione del luogo dal quale si proviene. “Patria” non è
il luogo in se stesso. Ancora una volta: «L’uomo è
estraniato da quello che gli è più famigliare» (da
Eraclito).
Riconoscere da cosa è composto il miraggio
“patria”, significa in sostanza riconoscere come
ad esempio le denominazioni e gli appellativi
sentimentalizzanti che sono stati dati al materia - delle leggi della natura.
le locale venissero privati della loro spontaneità.
Allora per intraprendere nuovamente una rela-
zione diretta con questo posto come luogo di
orientamento, è necessario cercare delle forze
liberanti?
Nel XIX secolo iniziò l’abitudine di dare ai balli, che
prima erano contrassegnati con numeri e con il nome
del villaggio di provenienza, titoli poetici, del tipo
“melodia pastorale”. Per esempio un insegnante pub-
blicava un libriccino con i balli del vicinato, faceva
propri gli espedienti mnemonici, ne faceva melodie e
dava loro titoli poetici. Tutte queste denominazioni
crearono l’illusione, l’apparenza di un villaggio e
questo succede ancora. Ciò dev’essere abolito.
Bisogna contrapporre a queste denominazioni, appel-
lativi, una neutralizzazione. Con questa tecnica si
riporta il materiale all’anonimo, flessibile, spontaneo,
accidentale, improvvisato, dal quale proviene.
Riferendosi concretamente alle melodie, questo signi-
ficherebbe che tutte le melodie tramandate per iscrit-
to sono da intendere come trascrizioni di un’improv-
visazione senza inizio e fine, senza titolo. Delimitate
soltanto dallo spazio nel quale esistono. Come mate-
ria nuda, libera dal desiderio troppo umano di dare
un nome, dietro al quale non c’è niente altro che il
desiderio di dominare la natura.
Impiegare così le forze liberanti, avvicina il materiale
alla materia dalla quale proviene, all’aria, alla terra, al
paesaggio, al locale. William Carlos Williams scrive in
una delle sue tanti annotazioni sul locale: «Cose non
hanno nomi e luoghi non hanno significato. Come
premio per questa anonimità mi sento altrettanto
parte delle cose come alberi e pietre». In questa ano-
nimità ci si sente più vicini alla natura, allo spazio,
senza la maschera della storia. Il pensare storico
porta alla strettezza del prima-dopo, mira al dominio
sulla natura ed è causa di tutte le strettoie artificiali
dello spazio. «L’universo contadino è transnazionale.
Non riconosce nemmeno le nazioni» (Pasolini). Alla
ristrettezza del pensiero storico sta di fronte la lar-
ghezza del pensiero topologico.
Si tratta quindi di una specie di riconciliazione
della storia con il locale?
Una specie di riconciliazione per la quale la storia
s’intende come prassi dello spazio nel tempo e non
dello spazio tramite il tempo. Questa prassi, intesa in
modo nuovo, è in realtà così vecchia, richiede una
nuova definizione della relazione uomo-natura, diret-
ta a vedere l’uomo come parte della natura, che cam-
bia allo stesso modo in continuazione rimanendo
aperto per le proprie esperienze. Questa nuova men-
talità dovrebbe anche permettere che la natura si
comporti in modo correttivo e creativo ai pensieri e
ai sentimenti dell’uomo. Allora, non più un codice
rigido della cultura ma la tolleranza nei confronti
Allora questo imparare continuo richiede un
diverso atteggiamento del soggetto verso gli
oggetti che lo circondano. A quale processo si
riferisce?
Questo “imparare” non è un processo a spirale diffe-
renziato, ma si richiama completamente all’ambiente.
Dunque più oggettività nella relazione dell’uomo
con le cose?
Piuttosto: «Niente idee tranne che nelle cose» (W.C.
Williams). Si dovrebbe localizzare la conoscenza
delle cose fuori da se stessi, di mettere a fuoco il
carattere di un oggetto per sapere di esso tanto quan-
to è possibile, senza interpretare. Ci si tiene al di
fuori di quello che si osserva, del quale si vuol sape-
re qualche cosa, per ottenere così una diretta com-
prensione della natura della cosa. In nessun caso la
cosa viene osservata come proiezione dell’ego o per-
sino vista come un simbolo della natura, ma parte
della natura, nella conoscenza dell’intero, della tota-
lità. Così non è necessario discutere sulle cose, spie-
gare le cose, ma semplicemente presentarle.
Così oggettivate le cose allora vengono assimila -
te e comprese per se stesse, non è vero?
Così si pulisce il luogo da tutti i possibili soggettivi-
smi e nostalgie e soltanto così può essere presentato
come incarnazione della sua natura nuda, lapidaria.
L’uomo che da un lato trascende il locale nella sua
creazione e dall’altro lo incorpora nel proprio essere,
si muove in un processo dialettico che lo spinge tra la
trascendenza e l’incarnazione del locale.
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 Educazione Musicale
E come funziona questo processo dialettico?
Innanzi tutto è necessario il tentativo di capire la tra-
dizione, la creazione locale. In modi simili al «razioci-
nio negativo» di Hegel, il trascendere del locale in
modo dialettico si contrappone alla tradizione, che
vorrebbe fermarsi al capire. A questo si aggiunge in
modo speculativo l’incarnazione del locale, simile al
«raziocinio positivo» di Hegel che formula, presenta e
incorpora, sempre più purificata e in nuovi modi, la
tradizione attraverso le contraddizioni.
Ma è difficile mantenere entrambe le tendenze! È (N.J.) ed etnomusicologia ad Amsterdam. Nel 1987 intra-
comunque chiaro che questa condizione, sentita
come estraniamento, spinge l’uomo in avanti
per quel sapere sociale di cui parlavo nella intro - all’avanguardia della musica etnica) e ha già alle spalle un
duzione a questa intervista. Quando il locale è
anche l’universale?
Questa dinamica mette a fuoco aspetti sempre nuovi
del locale. La varietà delle esperienze cresce, si avvi-
cina a una possibile sintesi, a una totalità che proba-
bilmente non viene raggiunta. L’oscillazione tra il tra-
scendere e l’incarnazione del locale tiene in vita que-
sto processo di oggettivazione. E questo dà al locale,
passo dopo passo, generalità, universalità, nella quale
sorge l’eccezionalità. Infine il luogo perde il suo
mistero, l’essere qualcosa di unico, per il fatto che
tutte la proiezioni sul luogo vengono riprese. Questo
processo mira al punto dove, secondo Whintehead,
«ogni punto di vista spazio-temporale rispecchia il
mondo». Allora, e soltanto allora, il locale sarebbe
anche l’universale. Questo porrebbe fine all’estrania-
mento del soggetto spiazzato, che non si sa quando
uscì dalla sua nichhia ed entrò in questo processo,
che ora gli fa ripetere il ritornello oscuro: musica
locale.
Nota. In questo numero della rivista figura la prima
parte dell’intervista con Walter Zimmermann, autore,
fra l’altro, di una interessante composizione per voci
bianche dal titolo Selbstvergessen, interpretato dal
coro di voci bianche dell’Istituto «C. Merulo», da me
istruito e diretto. L’analisi di questo brano sarà l’argo-
mento portante nel seguito dell’intervista nel prossi-
mo numero di «Diastema».
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WALTER ZIMMERMANN
[da un intervento di Michela Garda, in «Musica/Realtà»,
dicembre 1993].
«Nato a Schwabach (Franconia centrale) nel 1949, Walter
Zimmermann appartiene alla generazione di mezzo, quella
che si trova tra i grandi protagonisti della seconda avan-
guardia e la nuovissima generazione di coloro che oggi
hanno trent’anni. La sua formazione appare molto sfaccet-
tata e anticonvenzionale: dotato di un solido mestiere
all’antica (è pianista, violinista e oboista) ha studiato anche
musica elettronica a Utrecht, computer music ad Hamilton
prende a Colonia l’esperienza del `Beginner-Studio’ (una
serie di concerti che spaziavano dalla minimal music
lungo soggiorno negli Stati Uniti rielaborato in un libro di
interviste Desert Plants (Vancouver 1976). Espressione
musicale di questa fase compositiva è Beginneer’s Mind
(1975), per voce e pianoforte. Dopo un viaggio di ricerca e
di ripensamento linguistico-musicale insieme ai due colle-
ghi di Colonia - Kevin Volans e Clarens Barlow - nei paesi
d’origine: rispettivamente la Franconia, l’Africa e l’India, il
risultato è un complesso ciclo di composizioni intitolate
Locale Musik che lo occupa dal 1977 al 1981. Negli anni
Ottanta si impegna nella creazione di ampli cicli di singole
composizioni che nascono il più delle volte come medita-
zioni musicali su temi e testi della tradizione filosofica e let-
teraria: Sterwanderung (1982-84) comprende un esplicito
riferimento a Novalis e Von Nutzen des Lassens (1981-
84) a Meister Eckhardt; Fragmente der Lebe (1987) è un
pendant musicale dei Frammenti di un discorso amoro -
so di Roland Barthes. Nel 1984 compone Die Blinden,
dramma “statico” per 12 cantanti e 9 strumenti dell’omoni-
mo dramma di Maeterlink; l’anno successivo è la volta di
un testo di Peter Handke: Über die Dörfer , Lied dramma-
tico per solisti, 3 cori e grande orchestra. Infine nel 1989 si
dedica a H y p e r i o n, opera breve tratta da Hölderlin e
ridotta in libretto da D. E. Sattler. Negli ultimi anni i titoli
della musica strumentale abbandonano il riferimento a un
testo definito e si ispirano a immagini allegoriche derivate
dalla tradizione barocca. È il caso di Geduld und gele -
genheit (1987-89) per violoncello e pianoforte e Festina
L e n t e (1990) per quartetto d’archi. La produzione più
recente comprende: D i s t e n s i o (1992) per trio d’archi;
Diastema (1993) per due orchestre senza direttore e infine
Schatten der Idenn per ensemble (1993/93).
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