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Viel M., 2006. La scrittura musicale nell’età del computer. iStream eText 20.7.2012.

La Camera
Verde, Roma.

La scrittura musicale nell'età del computer


iStream eText 20.7.2012

È di qualche settimana fa l’annuncio di un concerto dedicato a celebrare il compleanno di


Alan Turing con l’esecuzione da parte della London Symphony Orchestra di alcune
composizioni scritte da Iamus, un’applicazione per computer realizzata dall’Università di
Malaga (1).
Pur non trattandosi certo di una novità, dato che i primi programmi per la composizione
automatizzata risalgono almeno al 1956 (2) e compositori come Gottfried Michael Koenig,
Iannis Xenakis e persino John Cage ne hanno fatto un uso sistematico, l’annuncio può
certamente essere considerato come il sintomo di quanto la scrittura musicale sia
cambiata nel corso dei suoi mille e duecento anni di storia (almeno per quanto riguarda la
sua introduzione nella tradizione europea).

Quando parliamo di musica, la scrittura è sempre connessa a una notazione, cioè a un


sistema di iscrizioni finalizzate alla realizzazione di una performance sonora. Vorrei qui
concentrarmi su due aspetti importanti della notazione.

Il primo aspetto è quello legato alla sua funzione di connettore tra momenti temporali
diversi. Potremmo dire che una istanza di notazione esprime una funzione direttiva il cui
compito è quello di certificare all’interno di una comunità che due diverse esperienze
d’ascolto saranno considerate come parte di una stessa classe, se i rispettivi operatori
sonori, gli interpreti insomma, la seguono.

Nel contesto musicale, ciò significa che la partitura di un brano musicale è parte di un
sistema segnico che include tutti i possibili eventi sonori generati dalle interpretazioni
realizzate dai musicisti, anche qualora gli ascoltatori non fossero in grado di riconoscere il
brano al semplice ascolto.

La nascita della notazione sotto questo aspetto viene spesso imputata alle esigenze della
memoria. Personalmente preferisco vedere in esso la risposta a quella sorta di
compulsione a ripetere che, opponendosi agli effetti dissolutivi del tempo, sembrano
essere alla radice dello stesso processo di significazione.
Si tratta insomma di una cornice assolutamente generale, ma che allo stesso tempo ci
segnala che pur essendo il suono la “dimensione irriducibile” (3) della musica, la notazione
è invece orientata a determinare le azioni degli interpreti all’interno di un percorso più o
meno coercitivo, orientato alla costruzione di oggetti musicali, cioè a una strutturazione del
mondo che ci circonda nel suo aspetto sonoro, ma anche in tutto ciò che è legato
istituzionalmente a quanto chiamiamo musica. In questo senso la notazione è un
dispositivo che entra in relazione con processi culturali e sociali e in definitiva con i giochi
di potere che li guidano. Non c’è dunque da meravigliarsi se il big bang notazionale che è
seguito alla istituzione del Canto Gregoriano nel mondo cristiano abbia seguito in parallelo
la nascita del Sacro Romano Impero.

Un secondo importante aspetto della notazione è la frammentazione dell’esperienza che


essa realizza, così che un’intera performance è per così dire spezzata in direttive più
semplici, sia nel contesto della polifonia degli strati musicali sovrapposti che in quello della
nella successione lineare degli eventi. Ciò porta a due notevoli conseguenze: la prima è
che poiché l’unità è perduta, quando cerchiamo di ricomporre i frammenti nella totalità
dell’esperienza musicale c’è sempre qualcosa che viene lasciato fuori, e questo qualcosa
è ciò che chiamiamo “espressione”, la quale non è quindi mai inclusa nella partitura se non
nella forma di suggerimenti del tutto convenzionali. La seconda conseguenza è che questa
frammentazione ci permette di riorganizzare i pezzi e di assemblare differenti istanze di
notazione o differenti partitura in modo tale che la scrittura, cioè la ricomposizione
arbitraria dei frammenti secondo logiche che non sono strettamente attinenti al suono,
reclama il primato come téchne rispetto alla trascrizione, cioè alla composizione di direttive
notazionali con il semplice scopo di raggiungere un ben preciso risultato sonoro.

Sebbene la notazione sia una pratica culturale diffusa in tutto il mondo, il suo sviluppo nel
corso della storia della cultura europea la rende particolarmente importante nel
distinguerla dalle altre tradizioni planetarie. Da questo punto di vista la storia della musica
occidentale può essere considerata come la graduale appropriazione da parte della
notazione, e quindi della scrittura come più sopra intesa, dei territori dell’espressione. Ai
due estremi cronologici della tradizione occidentale abbiamo così da un lato la ben nota
affermazione di Isidoro di Siviglia (risalente al VII secolo) (4) che si lamenta di come sia
impossibile tradurre su carta una melodia, mentre dall’altro lato abbiamo la creazione di
una notazione così precisa da arrivare a descrivere nei minimi dettagli dei compiti
esecutivi che gran parte dei musicisti non è in grado di eseguire (come avviene nello “stile”
notazionale tipico della scuola compositiva strutturalista intorno agli anni Cinquanta).

Ciò che chiamo espressione, vale a dire ciò che è lasciato fuori dalla notazione, è
l’insieme delle pratiche esecutive che vengono date per scontate da chi pratica la musica
e che sono quindi trasmesse oralmente o per imitazione, così che non solo non c’è modo
di modularle o trasformarle, ma spesso non c’è neppure la possibilità di darle un nome o di
descriverle, poiché fanno parte di uno sfondo culturale invisibile. Il modo in cui è seduto un
pianista, ad esempio, oppure le microscopiche variazioni di dinamica e velocità che
seguono il respiro interiore dell’interprete: anche se questi elementi stanno sullo sfondo
della performance musicale, tuttavia influenzano estesamente il modo in cui la musica
viene suonata e quindi percepita all’ascolto.

In un percorso di mille anni, la storia della musica occidentale si è sviluppata attraverso la


graduale appropriazione del non detto e di ciò che viene dato per scontato verso ciò che si
può controllare e trasformare, in un processo di slittamento delle qualità percettive e di una
loro organizzazione in insiemi quantitativi ordinati, in parametri.
Pur in una visione molto semplificata della storia della notazione europea, possiamo
partire da ciò che possiamo considerare il primo carattere qualitativo che è stato isolato e,
per così dire, messo su carta: l’ordine seriale (IX secolo), vale a dire la possibilità di
disporre gli accadimenti musicali in una successione temporale ordinata. Poi è stata la
volta del diàstema, vale a dire della divisione del continuo di altezze in gradini discreti: le
note (XI secolo), seguito dalla divisione di ambiti temporali in pattern ritmici (XIII secolo),
dalla durata delle singole note (XIV secolo), da ciò che potremmo chiamare “sincronismo”,
vale a dire la sensibilità per ciò che avviene contemporaneamente in differenti strati sonori,
con l’invenzione della partitura (XVI secolo), l’armonia (XVII secolo), le dinamiche (XVIII
secolo), il timbro come una qualità indipendente dalla melodia (all’inizio del XX secolo) e
infine il movimento nello spazio di strati sonori a dispetto del fatto che i musicisti sono
normalmente in posizioni statiche (metà del XX secolo).

Non appena le qualità sono state isolate dal continuum esperienziale dell’espressione, è
stato possibile trasformarle in un insieme ben educato di grafemi e di convenzioni grafiche
con cui enunciare i frammenti ordinati di direttive per l’esecutore, così da arricchire la
grafemologia (5) del sistema convenzionale di notazione musicale. A questo punto queste
si sono rese disponibili ad essere disposte in modo diverso rispetto alla loro presenza
originale come parte dell’espressione: Esse sono infatti aperte a una grammatologia che
finisce con il “condensarsi” essa stessa in tecniche di composizione e infine in stili musicali
e attitudini di ascolto.
Ad esempio, se anche la dinamica è sempre stata realizzata come parte dell’espressione,
è solo dopo essere stata inclusa nel dominio della notazione che è stato possibile
concepire quell’effetto di crescendo e diminuendo, al tempo così strabiliante proprio
perché sembrava essere indipendente dall’espressione così com’era comunemente
intesa, che ha contribuito alla fama di Carl Stamitz e della Alta Cappella di Mannheim nel
tardo XVIII secolo. Ma una volta che la dinamica si è liberata, per così dire, dalle catene di
un’espressione musicale convenzionale, la quale è sempre legata a un preciso contesto
storico e geografico, allora diventa soggetta ad altre catene, quelle del pensiero
compositivo anch’esso legato a un preciso contesto culturale, ma anche alle possibilità
che nascono dalla tensione della tecnica verso il suo stesso superamento. Se ci appaiono
quindi nuove possibilità nell’uso delle dinamiche, che prima non erano neppure
sospettabili, si tratterà comunque e sempre di affrontare le conseguenza della
frammentazione operata dalla notazione, vale a dire la ricostruzione dell’unità
dell’esperienza musicale, un’unità che però non sarà più semplicmente legata ai processi
di assoggettamento (del fruitore, ma anche del musicista stesso), bensì riceve dalla
notazione, che a questo punto diventa un possibile strumento di liberazione, uno spiraglio,
un’apertura verso le possibilità dell’esistenza.

Ed eccoci finalmente giunti al nostro tema principale perché dopo mille anni di sviluppo
progressivo della notazione, la tecnologia elettronica ha portato una discontinuità che ha
cambiato drammaticamente tutto. Da un lato la musica acusmatica con l’assenza
dell’interprete non giustifica più la necessità di una notazione, che può ora essere
utilizzata per altri scopi come la visualizzazione (come nel caso della “partitura d’ascolto”
del brano Artikulation di György Ligeti) o la progettazione (come nel caso della “partitura di
realizzazione” di Kontakte di Karlheinz Stockhausen). D’altro canto la tecnologia digitale
incorpora i media tradizionali (come vuole Marshall McLuhan) prendendo così il posto
dell’interprete: un computer è esso stesso un esecutore in grado di rispondere
perfettamente alla attitudine coercitiva della notazione rimuovendo la presenza di quella
parte residuale che attiene alla performance umana, ovvero l’espressione. Inoltre,
l’intervallo temporale che separa il tempo della notazione da tempo dell’esecuzione può
essere ridotto sempre di più fino a giungere al tempo reale, in modo che la notazione può
ora mostrare il suo lato più profondo ontologicamente in quanto interfaccia.
Di conseguenza, se la notazione è un’interfaccia, allora anche altre interfacce possono
reclamare un ruolo egualitario nella composizione musicale (che a questo punto sarebbe
meglio chiamare produzione musicale), come ad esempio il modello del sequencer a
timeline che viene utilizzato nei software DAW come Apple Logic e Ableton Live, o il
modello a diagramma di flusso utilizzato da applicazioni come PD o Max.

All’interno dei diversi sistemi notazionali, la grafemologia si trasforma e di conseguenza


anche la grammatologia. Infine anche stili musicali e attitudini di ascolto sono soggetti a
profonde trasformazioni. Ad esempio, nonostante che sia il modello a timeline che quello a
diagramma di flusso possano essere comodamente usati per notare accordi, il
compositore/produttore viene piuttosto orientato dall’interfaccia verso altre pratiche che
sono più comode spostando l’attenzione su altri “oggetti musicali”, come il pattern
risultante dal cut&paste o le trasformazioni spettrali nel tempo. È facile capire perché
l’armonia che conosciamo attraverso gli ultimi 4 secoli, la “scienza dell’armonia” come
qualche accademico la chiama pomposamente, è diventata lentamente obsoleta ed è
stata sostituita da riff modali o drones accordali che nella musica dei secoli passati era
quasi impossibile incontrare.

Infine, cosa è successo davvero all’espressione? Ovviamente è ancora lì, nascosta tra gli
algoritmi e le interfacce, che si cela in ciò che i produttori di software danno per scontato,
magari nella forma di richieste da parte dei clienti. Ancora una volta l’identità del musicista
è legata a doppio filo con l’identità della musica, che è oggi invischiata nella rete
gigantesca del sistema di mercato internazionale. Se il cambio di paradigma tra notazione
e interfaccia presenta il vantaggio di permetterci il ritorno di una esperienza viva della
creazione musicale come pratica, dall’altro lato questo facilita l’incorporazione del sistema
di produzione e ci sottrae la possibilità che uno specchio notazionale possiede di mostrarci
come noi veniamo cambiati dalle macchine che utilizziamo.
Così forse alla fine la dialettica tra espressione e notazione può essere sostituita dalla
dialettica tra il software e hardware che il mercato ci impone e le possibilità che abbiamo di
hackerarli o di autocostruirli.
E dopo tutto questo è quindi quantomeno buffo che un sistema di intelligenza artificiale,
come il software Ianus realizzato dalla Università di Malaga, per poter cercare di mostrare
a noi la sua umanità ha dovuto essere programmato per comporre in una notazione molto
tradizionale una musica che suona come un brano di quasi un secolo fa.

NOTE

(1) Vedi ad esempio il link http://www.guardian.co.uk/music/2012/jul/01/iamus-computer-


composes-classical-music

(2) L’Illiac Suite per quartetto d’archi, il brano viene comunemente accettata come la prima
composizione scritta da un computer, è stata pubblicata da Lejaren Hiller nel 1956.

(3) Jean-Jacques Nattiez, Musicologia generale e semiologia, ed. it. a cura di Rossana
Dalmonte, trad. it. Francesca Magnani, Torino, EDT, 1987, p. 54.

(4) Dalle Etymologiae, libro III.

(5) Francois LévyNotre notation musicale est-elle une surdité au monde? In Ethique et
significations, La fidélité en art et en discours, sous la dir. de Mathilde Vallespir, Lia Kurts
et Marie-Albane Rioux, éditions Bruylant, collection “Au coeur des textes - N° 5“ dirigée
par C. Stolz, 2007.

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