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Nasce Ludwig Mies, nel 1910 aggiunge il cognome della madre perché il doppio
cognome gli avrebbe conferito un’aura più alta di fronte alle committenze dell’alta
società.
Il padre era scalpellino, aveva una cava ed era impegnato in lavori di marmo, per cui
Mies conosceva la pietra da taglio in generale e le potenzialità di questa. Ritroviamo
questa attenzione nel dettaglio architettonico e nell’uso dei materiali pregiati.
Non si diplomerà mai nella facoltà di ingegneria o architettura, ma frequenta la
Domschule (scuola cattedrale).
Trascorse un periodo nel laboratorio del padre e nell’azienda di mobili di Bruno Paul, nel
1905 si trasferisce a Berlino e dal 1908 al 1911 lavorò nello studio di Behrens (dove
conobbe Gropius e Le Corbusier): qui fu esposto all’idea di sintesi per il disegno
industriale moderno e alla questione di una cultura industriale capace di unire
pragmatico e utile.
Allo scoppio della guerra aveva già disegnato degli edifici e tra gli anni 20 e 30 definì la
maggior parte dei termini di base della sua opera successiva: la ricerca di valori
spirituali, la riduzione a forme semplici, gli elementi essenziali della storia, l’ordine della
tecnica industriale.
Dopo la guerra, Mies van der Rohe diresse la sezione di architettura di uno dei gruppi
radicali, il “Novembergruppe”.
Nel 1923 divenne membro fondatore della “rivista G Materiale per la progettazione
elementare ” di Berlino, dichiarando la sua opposizione al formalismo, a un’architettura
che non trova corrispondenza nella funzione, un’architettura vuota, sostenendo forme
legate alla praticità e una costruzione sotto il vessillo di una Nuova Oggettività.
Nel 1937 non concorde col nazismo scappa in America. Inoltre vi si recherà anche
Gropius in quanto avevano problemi a gestire la Bauhaus. In America trova ricchezza e
quindi occasioni per la sua architettura.
“Less is more” una frase che lo identifica. Come Loos, tende a prosciugare l'architettura
di ciò che secondo lui è ininfluente nel suo linguaggio. Conia anche lo slogan “God is in
the details”, e insieme riflettono una lenta maturazione su certi temi che culmina nelle
ultime opere.
In un’intervista parla di un’etica della sua architettura: l'architetto non è chiamato a
lasciare un segno di sé come uomo ma ad interpretare la cultura del momento, l’edificio
deve essere un oggetto fabbricato dalla cultura del tempo. Quindi l’opera di Mies van
der Rohe doveva esprimere un tempo dove la tecnologia consentiva delle scelte
figurative diverse.