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CRISTOLOGIA POSTCALCEDONESE

4 lezione 29/10/07

Opere perse che parlano di Giovanni di Scitopoli conosciute per notizie di altri autori.

Sappiamo che un tale Basilio di Cilicia scrisse un’opera contro Giovanni di Scitopoli, perché
questo aveva a sua volta scritto contro i nestoriani. Quest’opera di Basilio è scritta in forma di
dialogo dove ci sono tre personaggi: Lampadio che tiene il posto di Basilio di Cilicia; Marino, che
tiene il posto di Giovanni e infine, un terzo che si chiama Tarazio, che poneva le domande a
entrambi.
Questo era un topos, uno schema letterario tipico di certi scritti, (come quello del Dialogo con
Trifone di Giustino), dove appaiono di norma due personaggi che pongono le tesi opposte e un terzo che fa
da arbitro.
In quest’opera emerge che la lotta tra Giovanni e Basilio era al livello di testimomia
scritturistici, vale a dire, sull’uso della Scrittura o sull’uso dei Padri.
In questo caso si ha una maggiore importanza riconosciuta alla Scrittura, mentre di solito in
quest’epoca si da una maggiore importanza agli scritti dei Padri, i testimonia patristici.
I temi rilevanti di questa notizia, da un punto di vista teologico, sono:
1. La sofferenza del Verbo nella carne. L’espressione “nella carne” è la limitazione
relativa alla sofferenza del Verbo che, di per sé, non soffre in quanto divinità. Si
accetta che il Verbo soffra ma nella sua carne, dunque è il Verbo incarnato che
soffre, non il Verbo in quanto tale.
2. Dire Cristo vuol dire Dio.
3. L’unità della persona di Cristo.
4. La communicatio idiomatum.
5. L’uso della formula “unus de Trinitate passus est carne”, quindi uno della Trinità ha
sofferto nella carne. Questa formula chiarirà la dottrina di Calcedonia.

Basilio accusa Giovanni di essere un cirilliano e di essere un accettore della formula


teopassita. Questa opera probabilmente denota una certa insofferenza dell’uso della formula unus de
trinitate da parte degli ambienti calcedonesi. Probabilmente in ambito calcedonense (quindi, i
difensori della formula di Calcedonia: due nature in una sola persona) c’era un certo sospetto
riguardo a questa formula che veniva avvertita un qualche modo come troppo cirilliana, in qualche
modo monofisita, mentre altri calcedonesi tendevano ad accogliere senza problema questa formula.

Giovanni doveva aver preso le distanze dal difisismo estremo, cioè da coloro che, tra i
calcedonesi, dividevano troppo l’uomo da Dio in Cristo, e quindi aveva sottolineato l’importanza
dell’unità della persona di Cristo. Qui il problema dei calcedonesi è quello di sottolineare la dualità
di natura e l’unità della persona.
Di questa opera di Giovanni di Scitopoli abbiamo notizia in Fozio, ma non ne abbiamo resti.
Il patriarca Fozio (+890) scrisse un’opera chiamata biblioteca dove tratta di tutti gli autori e le opere
dell’epoca, è una specie di patrologia dove riporta parecchie notizie molto utili.
C’è, poi, un’altra opera, è uno scritto di Fozio chiamato Contro gli Aposchisti, cioè contro coloro che
si separano dalla Chiesa, contro i separati. Questa è un’opera contro i monofisiti radicali, vale a dire seguaci
di Eutiche e di Dioscoro.

Opere pervenuteci di Giovanni di Scitopoli


1. C’è un frammento di un’opera contro Severo, dove c’è scritto: “ vedi che dell’unico e
medesimo signore nostro Gesù Cristo noi contempliamo due energie, ossia quella della
divinità e quella dell’umanità senza separazione e senza cambiamento”. Questo frammento
viene riportato in un fiorilegio antimonoenergita del VII secolo, legato al concilio
lateranense del 649.
Come intendere queste “due energie” che sono senza separazione e senza cambiamento, e
quindi, richiamano a Calcedonia? Certamente non si può parlare, nell’epoca di questo fiorilegio di
due energie intese come l’intendevano gli energisti del VII secolo.
Qui, invece, il termine energia va collegato alle nature. Se ci sono due nature ci sono due
energie. L’energia fa riferimento alla natura, non alla persona. L’energie vanno collocate insieme
con gli idiomata; ne sono come il fondamento.
Nel brano citato, il termine natura si deve capire come questa azione provvidenziale del
Verbo nell’universo e nella storia ampliando quanto papa Leone aveva detto nel Tomus a proposito
della forma Dei e della forma servi.
L’energia divina è l’azione provvidenziale di Dio, è il principio di attività e anche
l’attività che svolge come Dio.
Quando il Verbo, la seconda persona della santissima Trinità si incarna, prende la carne e
diventa uomo assumendo in perfezione la nostra natura umana. Ma quello che lui faceva (ecco la
energia divina) quando come Verbo, stava nella santissima Trinità continua a farlo pur essendosi
incarnato; allora, per esempio il Verbo opera nella creazione, perché il Padre ha creato per il Verbo,
e quest’opera continua nel Verbo incarnato, in quest’uomo perfetto che è Cristo, che in quanto
uomo ha un’energia umana vale a dire tutte le attività umane ha, pure, un’energia divina.
Giovanni voleva dire questo al parlare di energia, cioè che il Verbo incarnato continua a
svolgere la sua opera provvidenziale nella storia insieme alla sua attività come uomo.

2. Un’altra opera sono gli Scoglia allo Pseudo Dionigi, (Gli scoglia sono i commenti in margine
ad un’opera). Questa è un’opera che fino a poco tempo fa si credeva che fosse stata scritta da
Massimo il Confessore, ma da poco è stata attribuita a Giovanni di Scitopoli da uno studioso
di questo tema che è Von Balthasar. Anche c’è un’autore inglese che ha scritto su questo
tema chiamato Paul Rorem.
Questi scoglia furono scritti tra l’anno 537 e il 543, quindi nell’ultima parte della vita di
Giovanni, quando lui era vescovo di Scitopoli.
La prima cosa a notare in questa opera è che Giovanni riconosce l’autenticità degli scritti
attribuiti a Dionigi l’Areopagita, i quali sono: la gerarchia celeste,la gerarchia ecclesiastica, de
divinis nominibus e la teologia mistica.
Oggi sappiamo che questi scritti non possono essere affatto di Dionigi l’Areopagita, quel
discepolo di san Paolo ad Atene (Atti 17,34) perché appaiono appena nel 532 per la prima volta.
Perciò il suo autore reale viene chiamato “lo Pseudo Dionigi”.
Queste opere furono mostrate per la prima volta dai severiani monofisiti nella Collatio cum
Severiani (che fu una conferenza tenuta a Costantinopoli) per affermare la loro cristologia
appoggiandosi nell’autorità di questo discepolo di san Paolo all’Areopago. Ma il vescovo Ipazio di
Efeso, calcedonense, lesse gli scritti e determina che sono dei falsi, e li rifiuta. Tuttavia questi
scritti dello Pseudo Dionigi si fanno strada all’interno degli autori calcedonesi che s’interesano e li
leggono, tra questi c’era Giovanni di Scitopoli.
Per Giovanni, Dionigi in quelle opere non aveva fatto che anticipare la formula di
Calcedonia. Per lui Dionigi non fa parte né dei severiani né dei calcedonesi, ma della tradizione
della Chiesa e va presso come un testimone della fede ortodossa.

Lettura dei testi


Scholia alle gerarchie celesti dello Pseudo Dionigi
Commentando Dionigi, appunto, Giovanni esprime la propria teologia. Perciò ora, a
lezione, leggeremo qualche suo testo.
Dell’Osso vuole dimostrare con questi testi, che quest’autore, Giovanni di Scitopoli era un
calcedonense, non un neocalcedonese come glielo considera in generale, e questo lo si fa a partire dal
linguaggio calcedonense che usa.
Vedi i testi greci consegnati a lezione sotto il titolo di SCHOLIA PS. Dionigi
1- PG 4,68 A,5

“Guarda che anche l’ordine dei santi troni ha detto che è “teoforo” [o “deiforo”]. Guarda,
dunque, poiché il beato Basilio, il cappadoce, chiamò la carne “teofora” [o “deifera”]
bisogna vedere come lo intenda. Ma la carne dello stesso Signore, secondo l’essenza e
secondo l’ipostasi si è unita allo stesso Verbo Dio. Perciò anche, lo stesso è detto da parte
dei Padri che ha preso la carne e si è rivestito della carne. Che c’è di strano se anche la sua
carne è detta deifera? Dal momento che porta il Verbo di Dio secondo un’unione
indissolubile essendo detta propriamente e secondo verità la sua carne”
Giovani sta spiegando come lo Pseudo Dionigi, in questo scritto, chiama “teofora” (o “dei
fera”), cioè portatrice di Dio, una delle gerarchie angeliche. La differenza tra la carne “deifora” di
Cristo e i troni (gerarchia angelica) che sono pure deifori, è che la prima porta Dio per natura, i
secondi invece lo portano per grazia.
Appare un’espressione riguardo all’unione, si dice che quest’unione è kat* oujsivan kai kaè*
ujpovstasiò (secondo l’essenza e secondo l’ipostrasi) quindi c’è un duplice modo di dire l’unione
della carne, che indica la natura umana di Cristo, al Dio Verbo che ne indica la natura divina.
L’espressione corretta, più vicina al dogma di Calcedonia è kaè* ujpostasiò, mentre l’altra, kat*
oujsivan, ha un sapore di monofisismo, perché fa riferimento a un’unione essenziale. Ma comunque
tra i calcedonesi dell’inizio del III secolo era normale adoperare tutti e due i termini.
Tra monofisiti e nestoriani c’era un duplice modo di considerare l’unione delle nature. I
monofisiti dicevano che l’unione delle due nature era kat* oujsivan, mentre i nestoriani dicevano
che era un’unione secondo la grazia, kataV cavrin, questa, però, era ritenuta come un’unione
debole. Pero quest’ultima forma di capire l’unione non si può accettare perché troppo debole, pure
il cristiano ha questo tipo di unione con Dio quando è in uno stato di grazia normale.
L’unione di cui si parla tra il Verbo e la carne è un’unione forte che non confonde, non
divide, ma comunque è vera e reale: “savrx kaiV legomevnh ujpavrcousa kurivwò kaiV kata
ajlhvèeian” essendo detta propriamente e secondo verità la sua carne.
È impossibile dividere la carne, cioè l’umanità dal Verbo e, allo stesso tempo, non si può
pensare che i due diventino uno solo. Il problema è sempre questo.

PG 4,57 c
kaiV oJvti aujtoVò kaiV nomoqevthò kaiV uJpoV novmon, kaiV oJvti kaiV aujtoVò wJò
ajvnqrwpoò di*ajggevlwn dietavtteto, ejv te th/= eijò Aijvgupton ajnacwrhvsei, kaiV ejn th=/ ejx
aujth=ò ujpostrofhV/, kaiV oJvti aujtoVò ejstin oJ kaiV tw=v ajggevlwn dhmiourgovò. JvWste
ei=jò kaiV aujtoVò CristoVò ejn duvo fuvsesi toV mevga th=ò oijkonomivaò katepravxato
musthvrion:
Trad.: Ed è lo stesso il legislatore e colui che è setto la legge e lo stesso colui che come
uomo era servito dagli angeli, che fuggì in Egitto, lo stesso nel suo ritorno, lo stesso è il creatore
degli angeli, cosiche uno solo è lo stesso Cristo in due nature che ha realizzato il grande mistero
dell’opera della salvezza.

ejn duvo fuvsesi: è la formula calcedonense, perché mai un severiano (cioè uno che è contro
Calcedonia) avrebbe usato questo linguaggio.
th=ò oijkonomivaò: questo termine e pregnante perché significa sia Cristologia, sia l’opera di
salvezza, sia incarnazione; ma alla fin fine se ci si pensa sono tutti concetti riferiti all’opera soteriologica di
Cristo. Quando, invece si trova qeologiva deve capirsi come teologia trinitaria. Sono termini tecnici che
vanno tradotti così.
Con questi scoglia i calcedonesi facevano lo sforzo di ricuperare la teologia cirilliana per
l’ortodossia. Cirillo, infatti, era un’autore e padre così attestato che doveva essere riconquistato dai
calcedonesi, non doveva essere proprietà solo dei severiani e dei monofisiti.
PG 4, 196c- d2
ThVn oijvkonomivan ejntau=qa fravzei kalw=ò, oJvti ei=Jò th=ò Triavdoò ejvpaqe.
Shmeivwsai deV oJvti miva tw=n uJpostavsewm hJmi=n ejkoinwvnhsen oJlikw=ò: kaiV oJvti
aujtoVn toVn Kuvrion hJmw=n Ijhsou=n CristoVnaplou=n ei^pen, ei^ta suvnqeton
ajnakalouvmenon proVò ejautoVn thVn ajnqrwpivnhn ejscatiavn: kalw=ò ou^n levgomen, oJvti
eiJ=ò th=ò aJgivaò Trivadoò h^n ejn tw=/ staurw=/. Tou=to kataV Nestorianw=n kaiV
jAkefavlwn: ijdouV gaVr, fhsiV, miva tw=n JUpostavsewn oJlikw=ò hJmi=n ejkoinwvnhsen,
wJvò fhsin oj JApovstoloò, ejn wJ=/ katoikei= pa=n toV plhvrwma th=ò qeovthtos swmatikw=ò.
Tou=to deV toV ojlikw=ò kaiV kataV jApollinarivou ejstiV: dhloi= gaVr tevleion ajvvqrwpon
ajneilhfevnai aujtovn.

Qui espone correttamente l’incarnazione, l’opera della salvezza, ossia che uno della Trinità
ha patito. Nota che una delle ipostasi [il Verbo] ha communicato integralmente con noi, e che disse
dello stesso signore nostro Gesù Cristo che è semplice e composto, in riferimento all’estremità
della natura umana. Bene, dunque , diciamo che uno della santa Trinità era sulla croce. Questo
contro in nestoriani e gli acefali( i monofisiti). Ecco, infatti, disse una delle ipostasi ha
communicato con noi integramente come dice l’Apostolo: in cui abita ogni pienezza della divinità
corporalmente. Dire integralmente è contro Apolinare, infatti, indica che egli ha assunto un uomo
perfetto
Da questo testo emerge l’uso della formula ei=Jò th=ò Triavdoò ejvpaqe, uno della Trinità
ha patito, quindi è la formula teopassita. La formula collega quest’uno della Trinità alla sofferenza,
e d’altra parte abbiamo la perfezione di Cristo come uomo contro Apolinare. L’espressione
oJlikw=ò, integralmente, vuol dire che Cristo è fatto di anima e corpo, non solo di corpo come
diceva Apolinare, quindi questa koinoniva è integrale con l’uomo. Ma allo stesso tempo quando lui
dice una delle ipostasi, va contro i nestoriani che inducevano due ipostasi.
Ma la cosa molto importante che ha fatto confondere quest’opera come se fosse di Massimo
il Confessore, è una certa continuità con la sua riflessione. C’è l’idea dell’ipostasi composta, e in
questo si individua la novità di Massimo il Confessore che è quello che spiega meglio questo
concetto della IPOSTASI COMPOSTA: La sintesi in Cristo avviene al livello delle ipostasi, non al
livello delle nature. Ecco che il Verbo prima era semplice, poi, nell’economia diviene composta.

Si formulano delle domande su questo tema dell’ipostasi composta: com’è possibile che un’ipostasi sia
complessa? che vuol dire che c’è una composizione nell’ipostasi?
Il problema dell’ipostasi composta è il problema della necessità dell’incarnazione, cioè se si riconosce
un’ipostasi composta e si dice che il Verbo è un’ipostasi composta e non semplice, allora l’incarnazione è obbligatoria,
non è libera.

In questo testo emerge l’importanza della formula teopassita uno della Trinità che in
qualche modo cercava di poter assicurare l’integrità delle due nature, e anche indicare il soggetto
dell’incarnazione. L’uno della Trinità all’interno di una teologia calcedonense difisita assicura
l’unità del soggetto, e certamente però è importante il riconoscimento di una capacità compositiva
nella divina ipostasi del Verbo.

PG4, 149 d. 152 a


ejpeidhV kaiV yuchVn noeraVn, kaiV sw=ma ghvinon ajnevlabe. KaiV kalw=ò ei^pen
ajsugcuvtw/ ejnanqrwphvsei: ejvmeine gaVr qeoVò ajvnqrwpoò ojfqeiVò, kaiV ejkatevraò
fusevwò swnzwn taV ijdiwvmata: kaiV shmeivwsai kataV jApollinaristw=n.
Dal momento che ha assunto un’anima razionale e un corpo terreno. E bene ha detto che
l’ha assunti –anima e corpo- con un’incarnazione inconfussa. Infatti, è rimasto Dio pur essendo
visto come un’uomo e salvando le proprietà di entrambe le nature e nota questo contro gli
apollinaristi.
ajsugcuvtw/: questa espressione è tipicamente calcedonense.
ejkatevraò fusevwò swnzwn taV ijdiwvmata: salvando le proprietà delle due nature; questo
pure è calcedonense, e lo dice il Tomus ad Flavianum, salve utriusque naturae proprietates quindi
Giovanni di Scitopoli qui sta citando papa Leone. Il problema è affermare l’integrità della natura
umana contro la dottrina apollinarista, che affermava una natura umana imperfetta. Allora se
Apollinare è vissuto nel IV secolo, ormai erano passati 200 anni, come mai questi autori ancora
insistono contro Apollinare? Primo perchè c’era un’immensa quantità di passi apollinaristi in giro
sotto il nome di autori certi, come ad esempio sotto il nome di Atanasio o di papa Giulio; secondo,
perché per i calcedonesi tutti i monofisiti (prima gli eutichiani e poi i severiani) discendevano degli
apollinaristi e venivano considerati come l’estremo lembo della teologia apollinarista. Terzo, un
aspetto più storico, il monofisismo si era diffuso tra i monaci, perché sottolineava l’umanità di
Cristo dando posto ad una grande venerazione di Cristo, perché chi vede Cristo vede Dio. I monaci
avevano una mistica di Cristo Logos. Il monaco è abituato alla mortificazione del corpo, a
trascurare il corpo, a sottomettere la corporeità, dunque, è naturale che a un monaco risultava più
attraente una cristologia di tipo monofisita che esaltava l’umanità.

CONCLUSIONE DEL PENSIERO DI GIOVANNI DI SCITOPOLI


Sostenne e difese la formula di Calcedonia dai due estremi opposti, cioè dal
monofisismo/apollinarismo e dal nestorianesimo, affermando con chiarezza l’integrità della natura
umana, e d’altra parte salvaguardando l’ortodossia della formula di Calcedonia da ogni deriva
nestoriani sottolineando l’unità del soggetto dell’incarnazione del Verbo ed è così che Giovanni
utilizza la formula Uno della Trinità. Lui si era accorto che la formula di Calcedonia poteva avere
una deriva nestoriani, e allora vuol salvarsi di questo pericolo con la formula Uno della Trinità ha
sofferto nella carne, e così si sottolinea l’unità del soggetto.
Possiamo ritenere che le istanze della teologia calcedonense della prima metà del VI secolo
si ritrova ben configurata nella riflessione di Giovanni, quindi lui era un calcedonense alla stessa
stregua di Giovanni il Grammatico, di Nefalio e di Leonzio di Bizansio. Solo che il nostro
Giovanni, avendo scritto in un’epoca abbastanza lunga, dal anno 510 circa fino all’anno 543, ha
vissuto da una parte la persecuzione dei calcedonesi (infatti lui scrisse un’apologia del concilio di
Calcedonia, al momento del regime dell’Enotikon) e dall’altra parte è vissuto in un’epoca (quando
scrive gli scoglia) in cui il calcedonesimo era ormai riconosciuto e l’imperatore Giustiniano
nell’anno 533 aveva emanato una legge in cui proclamava la formula Uno della Trinità ha patito
nella carne come legge del impero con un avallo da parte del papa Giovanni II. Il Papa prende la
formula e gliela suggerisce all’imperatore. A contraccambio di questo favore imperiale il papa
dovette scomunicare nel 534 i monaci ascemeti, che avevano difeso proprio la teologia
calcedonense sotto il regime dell’Enotikon ed avevano collaborati con i papi per difendere la
teologia difisita in ambito costantinopolitano. Durante questo periodo il patriarca di
Costantinopoli di fronte a questi imperatori, Anastasio, Giustino e Giustiniano, non aveva una
grande libertà. In realtà, Macedonio, il patriarca sotto il regime dell’Enotikon, era contro
l’imperatore, ma questo non dette noia all’imperatore. Invece il papa, in Occidente, era l’unica
figura di potere, aveva già mansione di amministrazione (pensiamo per esempio nella mensa per i
poveri, l’amministrazione della giustizia,ecc.).

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