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PARAFRASI

Giacomo da Lentini

Mia signora, vi voglio dire


di come l’Amore mi abbia catturato
– a dispetto dell’orgogliosa alterigia
che voi, splendida, tenete nei miei confronti – e come ciò non mi giovi.
Povero me! Il mio cuore
si trova in tante sofferenze
e si sente vivo nell’atto di morire,
per il fatto che ama in modo completo, e anzi lui considera vita questo morire!
Dunque io muoio e vivo nello stesso tempo?
No, in verità, ma il mio cuore
muore più spesso e con maggior dolore
di quanto non farebbe per cause naturali,
per amor vostro, signora, che egli ama
e desidera più di se stesso,
benché voi lo rifiutiate:
o amore, il vostro legame è stata una sventura.

La mia passione
non può tradursi in versi,
né il modo in cui la provo
potrebbe immaginarlo un cuore né lingua potrebbe esprimerlo;
e ciò che scrivo è nulla
se paragonato a quanto io sia avvinto
tanto visceralmente:
il fuoco che sento in petto mi pare non possa mai estinguersi,
anzi continua a bruciare:
perché allora non mi trasforma in cenere?
Ho sentito dire che la salamandra
può vivere nel fuoco, rimanendo indenne;
io faccio lo stesso per via di una lunga consuetudine,
vivo nel fuoco della passione,
ma non so come esprimerlo:
il mio frumento mette le spighe, ma non produce chicchi.

Signora, così mi càpita


di non poter riuscire
a esprimere compiutamente
il sentimento amoroso che io provo;
come colui che è preso dal prurito
così il cuore mi tormenta,
(come colui) che non si acquieta,
finché non riesce a grattare la parte che gli rode.
L’impotenza mi sconvolge,
come il pittore che dipinge e cancella,
e non è mai contento
della sua pittura, e si rimprovera
di non riuscire a rendere somigliante al modello
la sua creazione artistica;
e non è da biasimare
l’uom precipitato tra i flutti se s’aggrappa a qualsiasi cosa.

Il vostro amore, che mi ha (messo)


in un mare burrascoso,
è come quella nave
che in piena tempesta getta ogni carico pesante,
e (i marinai) sfuggono grazie al sacrificio (del carico)
dalla situazione di pericolo;
allo stesso modo io sacrifico
a voi, splendida, i miei gemiti e le mie lacrime.
Perché se io non li lanciassi,
(il cuore) sembrerebbe sentirsi sprofondare,
e certo affonderebbe,
essendo tanto pesante a causa del suo desiderio;
perché tanto si abbatte verso la riva
il mare in tempesta, finché non si placa,
così anch’io mi dibatto,
allorché, dopo gemiti e pianti, credo trovar pace.

Ben mi sono manifestato


a voi, signora senza pietà,
per quanto io sia innamorato,
ma penso che non vi piacerei manco dipinto.
Dal momento che soltanto a me, infelice,
è assegnata una tal sorte,
perché non ne (d’amarvi) desisto?
Non riesco, fino a tal punto Amore mi ha sottomesso.
Vorrei ora capitasse
che il mio cuore uscisse (da me)
completamente reincarnato in persona,
e non vi dicesse neppure una parola, oh altezzosa,
perché Amore lo ha ridotto a tal punto
che, se vi fosse una vipera,
(essa) perderebbe la propria natura aggressiva
e, vedendolo in tale stato, si mostrerebbe pietosa.

Guido Guinizzelli (Bologna, sec. XIII)

X
Io desidero celebrare la mia donna con lodi sincere
e paragonarle la rosa e il giglio:
[ella] appare risplendente più della stella mattutina
ed equiparo a lei le bellezze celesti.

Le paragono la pianura verdeggiante e l’aria,


tutti i colori dei fiori, il giallo e il rosso acceso,
l’oro e l’azzurro dei lapislazzuli, preziose gemme da regalare:
Amore in persona attraverso di lei si perfeziona. ovvero attraverso di lei Amore perfeziona [i cuori].

Va per strada abbellita e così nobile


che diminuisce la superbia di colui al quale rivolge il suo saluto salvifico
e lo converte alla nostra fede cristiana, se [egli] è miscredente:

e non le si può accostare chi sia ignobile;


vi aggiungerò che [ella] ha un potere ancora più grande:
nessuno può concepire pensieri malvagi quando la guarda.

VI
Il vostro leggiadro salutare e la magnanima espressione
che esibite allorché m’imbatto in voi, mi annichila:
Amore mi sconvolge e non si preoccupa
di farmi soffrire oppure di gratificarmi,

perché attraverso il cuore [Amore] mi scagliò una freccia


che ora lo divide, spezzandolo da parte a parte;
non riesco a dire, poiché io brucio di dolore
così come colui che si sente prossimo alla sua fine.

[Il dardo d’Amore] penetra attraverso gli occhi come il fulmine


che cade attraverso l’apertura di una torre
e rompe e taglia in due quanto trova all’interno:

[io] resto [immobile] come una statua di metallo,


in cui non s’agita più alcun soffio di vita,
e che dell’uomo non possiede altro che l’aspetto esteriore.

Rustico Filippi (Firenze, sec. XIII)

XXI
Ovunque tu vada, porti con te la puzza,
o laida fetida bucaiola,
al punto che chiunque ti stia vicino
si tappa le narici e scappa seduta stante.

I denti nelle tue gengive recano il tartaro,


perché li impesta l’alito fetente;
le tavolette [del cagatoio] sembrano [profumate] come il legno di cipresso
se confrontate con il tuo tanfo, che è così immediato.

Infatti è come se si spalancasse un intero cimitero


quando apri bocca: perché non ti ammazzi
o ti nascondi, così che nessuno più si accorga di te?

Poiché l’intera terra ti teme:


son certo che dentro di te si riproducano le volpi,
tanto afrore ne emana, sporca vacca.
Cecco Angiolieri (Siena 1255/60-ivi 1311/13)
LXXIV
Tre cose soltanto mi son gradite
di cui non posso [mai] soddisfarmi appieno:
cioè la fica, il vino e il gioco d’azzardo;
esse mi destano completa letizia in petto.

Però son costretto a goderne di rado,


ché le mie sostanze mi costringono al rifiuto
e quando ci penso, sbraito a più non posso
perché, per pochi quattrini, tralascio le mie voglie.

E aggiungo: “Possa essere trafitto da una picca!”


ciò a mio padre, che mi tiene sì a corto di denari
che [, se fossi un uccello da preda,] anche senza richiamo farei ritorno dai posti più lontani.

Strappargli 1/12 di soldo sarebbe più difficile,


la mattina della festa, quando si è soliti elargire,
che far catturare una gru ad una poiana.

Guido Cavalcanti (Firenze 1250/55-ivi? 1300)

XIII
Voi, che attraverso le pupille mi feriste il cuore
e risvegliaste lo spirito addormentato,
pensate alla mia esistenza dolorosa,
che Amore la annienta tra gli affanni.

Egli [Amore] piomba colpendo col taglio [della sua spada] con una forza tale
che le [altre] mie povere facoltà spirituali battono in ritirata:
restano in suo potere soltanto la mia sembianza
e un filo di voce che esprime il pianto.

Questa potenza d’amore, che mi ha annientato,


partì veloce dai vostri occhi nobili [, o mia signora]:
[essa] mi scagliò una freccia tra le costole.

La botta arrivò così precisa al primo lancio,


che l'anima si risvegliò atterrita,
accorgendosi che, sul fianco sinistro, il cuore aveva cessato di vivere.

XVIII
Noi siamo le sconcertate piume d’oca,
le forbicine e il temperino addolorato,
che hanno vergato con angoscia
i versi che voi avete [appena] ascoltato.

Adesso vi spiegheremo per quale ragione ci siamo allontanate


e siamo giunte qui, davanti a voi, in questo momento:
la destra che ci impugnava afferma di aver percepito
cause preoccupanti manifestatesi nel cuore [del nostro poeta];

le quali cause lo [il cuore e quindi il poeta] hanno annientato a tal punto
e lo hanno spinto tanto vicino alla morte
da non lasciare di lui [in vita] altro che il pianto.

Adesso vi preghiamo, per quanto più ci è possibile,


di non rifiutarvi di conservarci [presso di voi, come reliquie],
finché un minimo di compassione vi illumini.

XXXV
Poiché io non confido di far mai più rientro
in Toscana, o mia piccola ballata,
vai tu, dolce e chiara,
davanti alla mia signora,
la quale per la sua nobiltà d’animo
ti accoglierà degnamente.

Tu recherai notizie delle mie sofferenze,


dense di dolore e di grande timore;
bada, però, che non di veda alcuno
che sia avversario della nobiltà d’animo;
perché certamente, per mia sventura,
tu verresti ostacolata
e tanto maltrattata
che ciò sarebbe per me motivo di pena;
e poi, dopo la morte,
causa di lacrime e di nuovo dolore.

O mia piccola ballata, tu percepisci che la morte


m’incalza tanto che la vita sta per lasciarmi;
e avverti come il cuore palpiti convulso
per il discorrere confuso e turbato degli spiriti vitali.
Il mio corpo è già così esausto
che io non sono più in grado di resistere:
se vuoi rendermi un servizio,
porta l’anima con te
(per questo davvero ti scongiuro)
quando si separerà dal cuore.

O mia piccola ballata, alla tua amicizia


affido la mia anima fragile:
portala con te, nella condizione sofferente in cui si trova,
a quella bella donna a cui ti invio.
O mia piccola ballata, quando sarai davanti a lei
dille sospirando:
“Quest’[anima], vostra devota,
viene per stare con voi,
separatasi da colui
che fu schiavo d’Amore”.
E tu, [mia] voce turbata e sfinita,
che vieni fuori in lacrime dal cuore sofferente,
insieme con l’anima e con questa piccola ballata
provvedi a narrare della mia mente distrutta.
Voi incontrerete una signora bellissima,
di spirito così elevato
che per voi sarà un piacere
restare sempre al suo cospetto.
E tu, anima [mia], venerala
sempre per la sua virtù.

Dante Alighieri (Firenze 1265-Ravenna 1321)


Vita nuova
I In quella sezione del volume dei miei ricordi, prima della quale si potrebbe leggere ben poco, si
trova un titolo in rosso che recita: “Qui comincia la Vita nuova”. Dopo questa rubrica io trovo
vergate le parole che ho intenzione di ricopiare in questo breve libro, e se non tutte, almeno la parte
fondamentale di esse.
[...]

XVII
Questa nobilissima signora, della quale si è narrato nelle pagine precedenti, guadagnò un tale favore
presso tutti che, quando passava per strada, la gente accorreva per vederla, e questa cosa mi
procurava enorme gioia. Quando ella si trovava nelle vicinanze di qualcuno, nel cuore di quello
s’infondeva una tale cortesia che egli non osava sollevare lo sguardo né osava rispondere al saluto
di lei. E di questa cosa in molti, per averlo sperimentato in prima persona, potrebbero essermi
testimoni di fronte a chi non lo credesse [vero]. Ella camminava [per le strade della città] adorna e
fregiata di umiltà, senza mostrare alcun vanto per ciò che osservava e ascoltava. Molti, dopo che lei
era passata, dicevano: “Costei non è una donna, è anzi uno dei più splendidi angeli del Paradiso”.
Ed altri dicevano: “Costei è un miracolo! Che sia benedetto Nostro Signore, che sa compiere simili
miracoli!”. Io dico che ella era così nobile e così fornita di ogni qualità che coloro che la
guardavano sentivano nascere dentro si sé un sentimento di dolcezza così puro e piacevole che non
erano in grado di descriverlo a parole; e nessuno era in grado di guardarla senza essere subito
costretto a sospirare. Queste cose, ed altre più stupefacenti, si trasmettevano da lei con effetti di
straordinario valore. Per cui io, riflettendo su tutto ciò, e volendo riprendere la poesia in lode di lei,
mi riproposi di comporre alcuni versi, con lo scopo di spiegare gli effetti miracolosi e straordinari
da lei prodotti, in modo che, non soltanto coloro che potevano vederla in carne e ossa, ma anche
tutti gli altri potessero sapere quello che le parole sono in grado di farci capire. Composi quindi
questo sonetto [che comincia]: “Tanto gentile”.

Tale è l’evidenza della nobiltà e del decoro


di colei ch’è mia signora, nel suo salutare,
che ogni lingua trema tanto da ammutolirne,
e gli occhi non osano guardarla.

Ella procede, mentre sente le parole di lode,


esternamente atteggiata alla sua interna benevolenza,
e si fa evidente la sua natura di essere venuto
di cielo in terra per rappresentare in concreto la potenza divina.

Questa rappresentazione è, per chi la contempla, così carica di bellezza


che per il canale degli occhi entra in cuore
una dolcezza conoscibile solo per diretta esperienza;

e dalla sua fisionomia muove, oggettivata e fatta visibile,


una soave ispirazione amorosa
che non fa se non suggerire all’anima di sospirare

Questo sonetto è così facile da capire, per via di ciò è stato raccontato nella prosa che lo precede,che
esso non necessita di analisi. E quindi, lasciandocelo alle spalle, riprendo il mio racconto dicendo
che questa mia signora guadagnò un tale favore che non soltanto veniva onorata e lodata ma grazie
a lei molte altre donne ricevevano onori e lodi. Per questa ragione io, vedendo questa cosa, e
volendo che essa fosse manifesta anche a coloro i quali non potevano vederla, maturai la decisione
di comporre un’altra poesia, nella quale tutto ciò fosse spiegato dettagliatamente; e così scrissi
quest’altro sonetto, che inizia “Vede perfettamente omne salute”, il quale spiega, riguardo a lei,
come il suo potere si esercitasse nelle altre donne, così come viene chiarito nell’analisi. [...]

XII
Dopo aver affrontato la questione di cosa di Amore nella precedente lirica [§. XI], mi prese il
desiderio di voler esprimere, in lode di questa nobilissima [Beatrice], parole attraverso le quali
spiegare come grazie a lei si desta tale Amore; e come non soltanto esso si desti ove si trova
assopito, ma anche laddove tale Amore non alberghi, ella, operando un miracolo, sia in grado di
farlo nascere. Pertanto scrissi questo sonetto, che comincia “Negli occhi porta la mia”:

Nel suo sguardo la mia signora ha con sé Amore


per cui diventa nobile tutto ciò che ella vede;
ovunque ella passi, ciascuno si rivolge verso di lei,
e chi riceve il suo saluto si sente sobbalzare il cuore in petto,

così che, chinato lo sguardo a terra, [egli] sbianca in volto


e si pente di tutti i suoi peccati:
dinanzi alla mia signora si danno alla fuga i vizi della Superbia e dell’Ira.
O donne [che sapete cosa sia Amore], datemi un aiuto nel celebrare le sue lodi.

Tutte le sensazioni di bellezza, tutte le idee di umiltà


si destano nell’anima di chi ascolta la sua voce,
per cui viene esaltato colui che ha avuto in sorte di scorgerla per primo.

Ciò che ella diviene quando comincia a sorridere


non si può spiegare né ricordare
tanto appare portento straordinario e nobilissimo.

Questo sonetto si divide in tre sequenze. Nella prima scrivo come questa signora trasformi in azione
questa potenzialità grazie alla parte più eccelsa del suo sguardo; e nella terza scrivo il medesimo
effetto in virtù della parte più eccelsa della sua bocca; fra queste due parti si colloca un breve inciso
che esprime quasi l’invocazione a trattare convenientemente sia la parte che precede sia quella che
segue, ed esso comincia qui: “Aiutatemi, donne”. La terza parte comincia qui. “Ogne dolcezza”. La
prima parte [, a sua volta,] si suddivide in tre: prima scrivo come per virtù diventi nobile tutto ciò
che ella guarda, il che significa che [Beatrice] è in grado di far germogliare l’Amore anche dove
esso non sia; poi scrivo come ella trasformi Amore in azione negli animi di tutti coloro che ella
guarda; nella terza scrivo quello che accade positivamente nei loro animi. La seconda comincia qui:
“ov’ella passa”; la terza, qui: “e cui saluta”. Quando in seguito scrivo “Aiutatemi donne”, dichiaro
chi sono i miei interlocutori, e invoco le donne che mi aiutino a farle onore. Poi ove scrivo “Ogne
dolcezza”, scrivo quanto già spiegato nella prima parte, ma secondo le azioni della sua bocca, una
delle quali è costituita dalla sua piacevolissima voce, l’altra dal suo meraviglioso sorriso; non scrivo
però che cosa quest’ultimo provochi negli animi altrui, perché la memoria non può ricordare né la
bellezza di quel sorriso né i portenti da esso operati.

XXXI
[...] Mi apparve una meravigliosa visione, nella quale io vidi cose che mi suggerirono di non parlare
più di questa santa sino a quando io non fossi in grado di scrivere degnamente di lei. E per ottenere
ciò io m’impegno davvero quanto più posso, com’ella stessa sa. Così che, se a Colui il quale è causa
finale di ogni cosa piacerà che la mia vita si estenda per un numero di anni sufficiente, io confido di
poter scrivere di lei quello che mai poeta scrisse di donna. E, compiuta quest’opera, voglia colui che
è il signore della misericordia che la mia anima possa elevarsi a contemplare la gloria della sua
signora, cioè di quella santa Beatrice, la quale nella gloria del cielo si specchia nella faccia di Colui
“che è benedetto per tutti i secoli dei secoli”.

Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547)

XCIX
I miei anni sereni sono trascorsi rapidissimamente,
ed essi furono davvero scarsi e subito svanirono:
poi volle il Cielo, a cui è inutile resistere,
farmi nemico della serenità e di me stesso.

Così ho già vissuto larga parte della mia vita: e quando


avrebbe dovuto cessare di ardere la fiamma della tua freccia,
o Amore, mentre questo corpo affaticato e indebolito
si sta disgregando progressivamente all’interno come all’esterno,

provo un nuovo desiderio potente e robusto


sommarsi nell’anima alle pesanti e vecchie brame,
cosicché ora provo una passione due volte più potente, e ciò non sembra nuocermi.

Ahimé, sono davvero prossimo alla mia fine:


perché può campare oramai ben poco quel malato
nel cui corpo, mentre le forze vengon meno, si rinnova [godutamente] la temperatura della febbre.

Gaspara Stampa (Padova 1523-Venezia 1554)

Voi che recepite in questi versi dolorosi,


in questi ritmi dolorosi e tetri,
l’eco dei miei affanni d’amore
e delle mie sofferenze, le più acute fra tutte,

se ci sarà qualcuno capace di valutare e di considerare la forza della mia abnegazione,


confido di ottenere fama, e pure perdono, per le mie sofferenze
fra le persone nate nobili,
dal momento che la causa del mio amore è tanto eccezionale.
E confido che qualche altra donna sia indotta a dire:
“Fu ben fortunata colei, dacché fu capace di affrontare un così sublime tormento
per un motivo altrettanto sublime!

Ahimè, perché una passione e un destino così grandi


non capitarono a me, in grazia dell’amore per un simile gentiluomo,
così da poter essere anch’io esaltata tanto quanto questa celebre signora?”

Pietro Bembo (Venezia 1470-Roma 1547)

Capelli ricci e biondi, lucenti e nitidi come l’ambra,


che vi dispiegate all’aria e fluttuate su un volto più candido della neve;
occhi dolci e più brillanti del sole,
tanto splendenti da tramutare in giorno luminoso una notte buia,

sorriso capace di placare le sofferenze più crudeli e terribili,


labbra rosse come rubini e denti bianchi come perle, da dove fuoriescono parole
così soavi che l’anima non desidera altra gioia,
mano bianca e perfetta come l’avorio, capace di afferrare e rubare i cuori,

canto, paragonabile all’armonia delle sfere celesti,


matura assennatezza anche nella più giovane età,
grazia giammai veduta in precedenza fra noi, esseri umani,

massima onestà unita a massima bellezza:


furono [queste] le scintille da cui divampò il fuoco della mia passione, e sono [queste]
le virtù presenti in voi che a poche delle sue creature il cielo concede con tanta generosità.

Francesco Berni (Lamporecchio, Pistoia 1497/98-Firenze 1535)

XXXI [Sonetto alla sua donna]

Capelli grigi come argento puro, ispidi e attorcigliati


senza alcuna cura attorno a un volto davvero giallastro,
fronte increspata dalle rughe, cui se rivolgo lo sguardo impallidisco,
e sulla quale si rompono i dardi di Amore e della Morte;

occhi bianchi e lucidi come le perle, sguardi strabici, deviati


da qualsiasi oggetto distante da loro;
ciglia bianche e fredde come la neve e poi dita e mani
un po’ grassocce e corte, per le quali mi si stringe il cuore;

labbra esangui, bocca larga e livida;


denti neri come legno d’ebano, radi e dondolanti;
voce di un tono mai sentito, per descrivere il quale non ci sono parole;

comportamenti superbi e duri [da sopportare]: a voi, nobilissimi


intendenti e prigionieri d’Amore, faccio presente che queste
sono le qualità della mia signora.

Torquato Tasso (Sorrento, Napoli 1544-Roma 1595)


Gerusalemme Liberata

Canto I

1
Narro degli eserciti devoti e del condottiero [Goffredo di Buglione]
che affrancò il Santo Sepolcro di Gesù Cristo.
Egli fece molto con l’intelligenza e il braccio;
molto soffrì nella nobile conquista:
e inutilmente gli si contrappose l’Inferno ; e inutilmente
si armarono le schiere confuse di Asia e di Libia:
Dio gli garantì il suo aiuto, e sotto ai sacri
vessilli [della croce] egli ricondusse i suoi compagni sbandati.

2
O Urania, tu, che di effimeri onori
non ti cingi le tempie come quelli tipici del monte Elicona [sacro alle Muse],
ma in Paradiso tra i cori angelici
possiedi una corona d’oro tempestata di stelle immortali,
ispira nel mio cuore un fuoco sublime,
rendi chiari i miei versi, e perdonami
se intreccio agli avvenimenti storici invenzioni favolose,
se, oltre ai tuoi, abbellisco in parte le mie pagine di altri piaceri.

3
Tu sai che i lettori sono attratti soprattutto là [dalle opere] ove il monte Parnaso [cioè la poesia],
carico di seduzioni, riversa con maggiore abbondanza i suoi piacevoli inganni,
e che la verità, se mescolata a piacevoli forme,
ha convinto, grazie alla lusinga di queste, anche i più restii.
Così al bambino ammalato si offre
il bicchiere i cui bordi sono cosparsi di un dolce miele:
[in questo modo] egli, illuso [dal sapore del miele], non si accorge di bere una medicina amara
e da questo inganno trae la sua salute.

4
Tu, grande e generoso Alfonso [II d’Este], che sottrai
all’impeto della tempesta e guidi in porto
me, viaggiatore smarrito, sballottato tra gli scogli
e le onde, e quasi sommerso,
accetta con volto benigno questo mio poema,
che ti offro quasi come in devoto suffragio.
Un giorno, forse, accadrà che la mia poesia, che prevede
il futuro, possa scrivere di te ciò che ora si limita a tratteggiare.

5
Se dovesse mai accadere un giorno
che tutta la Cristianità fosse in pace,
e che con bastimenti e destrieri cercasse di riconquistare
ai feroci Turchi la nobile preda di Gerusalemme ingiustamente occupata,
sarebbe ragionevole che a te si concedesse il potere dell’esercito o, se preferisci,
l’elevato comando della flotta.
Emulo di Goffredo, ascolta intanto questi miei versi,
e preparati al combattimento.

6
Erano trascorsi quasi sei anni da quando
i crociati erano passati in Oriente per realizzare la nobile conquista del Santo Sepolcro,
ed essi avevano conquistato Nicea con la forza
e la munita Antichia con l’astuzia.
Avevano poi difeso Antiochia in battaglia
respingendo uno sterminato esercito persiano
e avevano espugnato Tortosa; quindi era trascorso
la stagione fredda e si attendeva la primavera del nuovo anno per riprendere le ostilità.

7
E in effetti non era lontano il termine
di quell’inverno piovoso che aveva posto fine alle contese;
quando, Dio dal suo trono elevato,
che si trova nel luogo più puro del firmamento [nell’Empireo],
ed è tanto più in alto dell’ottavo cielo stellato
quanto esso è distante dal centro della terra [ove si trova l’Inferno più profondo],
girò gli occhi verso il basso, e in un solo attimo
e con un unico sguardo vide tutto ciò che il mondo riunisce.

8
Contemplò tutto quanto, e in Siria
si concentrò poi sui comandanti crociati;
e attraverso il suo sguardo capace di scrutare
le passioni umane sin nella parte più intima dell’anima,
vide Goffredo di Buglione che desidera espellere
dalla città santa di Gerusalemme gl’iniqui infedeli,
ed essendo pieno di fede e di fervore religioso, non si cura [cioè disprezza]
ogni fama, ogni autorità, ogni ricchezza terrena.

9-15 Dio scruta le anime e i pensieri dei maggiori prìncipi cristiani e manda l’arcangelo Gabriele
a
Goffredo di Buglione, affinché l’eroe riunisca i comandanti a consiglio e muova senz’altro
l’esercito
crociato alla conquista di Gerusalemme.

16
[Disse l’angelo Gabriele]: – O Goffredo, è prossima la stagione
propizia [la primavera] per proseguire la guerra;
perché allora frapporre altri ritardi
alla liberazione di Gerusalemme occupata [dai Mussulmani]?
Tu raduna quindi i comandanti crociati in assemblea,
tu incita i pigri a terminare l’impresa.
Dio ti sceglie ormai per loro capo, e loro
si sottoporranno a te di buon grado.

17
Dio mi ha inviato a te come ambasciatore: io ti svelo
il suo disegno nel suo stesso nome. O quale grande speranza
devi avere di ottenere un nobile trionfo, o quale grande impegno ora dovrai avere
per governare l’esercito che ti viene affidato! –
Tacque; e, scomparso alla vista, risalì verso le zone
più elevate e più limpide del cielo.
Goffredo [, dal canto suo,] resta silenzioso nell’animo e abbagliato
dinanzi a queste parole e alla luce [dell’angelo].

18
Ma, dopo essersi ripreso, e dopo aver ripensato
alla visita, al mittente, alle parole,
[Goffredo] se prima desiderava, adesso brucia completamente di mettere
termine alla guerra di cui è stato eletto capitano.
Non che vedersi anteposto dal cielo agli altri comandanti
gli dilati l’anima di vana ambizione,
anzi il suo desiderio prende maggior vigore nel corrispondere
a quello di Dio, come una fiammella acquista più splendore dentro una fiamma.

19
Pertanto [Goffredo] invita a raccogliersi i più forti crociati,
i quali erano sparpagliati non lontano [da lui];
manda una dopo l’altro lettere e messaggeri;
ogni sua richiesta si unisce sempre a una riflessione;
ciò che può attirare e spronare un cuore magnanimo,
ciò che può ridestare il pregio impigrito,
tutto sembra che egli riesca a inventarsi [per convincere], e lo abbellisce
in forma adeguata così che le sue richieste seducono e convincono.

20
I comandanti si mossero, seguiti dai loro accoliti,
e solo il principe Boemondo di Taranto non partecipò all’assemblea.
Una parte di loro pose le tende fuori delle mura, un’altra parte
trovò dove soggiornare all’interno della città di Tortosa e del suo recinto.
I maggiorenti dell’esercito crociato si riunirono
(nobile consesso di uomini saggi) in un’importante giornata.
In questa occasione il devoto Goffredo cominciò a parlare in mezzo a tutti,
magnifico nell’aspetto e solenne nelle parole:
[...]

28
Signori, io dichiaro a voi (e le mie parole saranno
ascoltate dagli uomini di oggi e da quelli di domani,
nonché dalle gerarchie angeliche lassù in Paradiso):
è giunta l’ora della conquista [di Gerusalemme];
risulta assai pericoloso frapporre indugi,
perché rischierebbe di divenire alquanto insicuro l’esito che adesso appare certo.
Presagisco che se la nostra azione [bellica] si mostrerà lenta
i Mussulmani [di Gerusalemme] otterranno il supporto delle forze egiziane.

29-32 Segue la breve orazione di Pietro l’Eremita, per cui il monaco concede pieno sostegno al
parere
di Goffredo di Buglione, del quale caldeggia l’investitura a comandante supremo e unico,
ottenendo
l’approvazione unanime dei principi convenuti a consiglio.

33-70 Alba del nuovo giorno e rassegna degli eserciti cristiani.

71
Il giorno dopo, allorché si dischiudono
all’arrivo del sole le limpide porte d’oriente [perifrasi per indicare l’alba],
si udì un rumore di fanfare e un rullo di tamburi
che incita ogni crociato a mettersi in marcia.
Nei giorni più caldi non appare tanto gradito
il tuono apportatore dell’auspicio di un fresco temporale,
quanto il suono fiero degli strumenti marziali
risulta gradito agli eserciti avidi di sangue.

72
Subito ciascun guerriero, preso da un violento desiderio,
mette addosso la propria corazza,
e subito compare armato di tutto punto,
subito ogni soldato si sistema accanto al suo comandante,
e l’intero esercito riunito
spiega al vento tutte le sue insegne:
e sulla bandiera regale più ampia
si dispiega al vento la Croce vittoriosa.

73
Nel frattempo il sole, ascendendo
progressivamente negli spazi del cielo,
colpisce le armature e ne riverbera vampate e bagliori
tremolanti e luminosi, con cui ferisce gli sguardi.
Sembra che l’aria bruci intorno di fiamme
e splenda quasi al modo in cui avvampa un vasto incendio,
e il rumore prodotto dalle armi di ferro si armonizza
con i feroci nitriti [dei cavalli] e stordisce i luoghi circostanti.

74-80 Trionfale marcia di avvicinamento dei crociati a Gerusalemme.

81
Ma la fama, messaggera
sia di notizie vere sia di notizie false,
preannuncia che sono riunite le forze cristiane, galvanizzate [per le vittorie ottenute,]
che esse si sono messe in marcia e che non vi sia nulla che le rallenti;
la fama replica il numero e la tipologia delle diverse compagnie,
descrive i nomi e le virtù degli eroi più valorosi,
racconta le loro gesta, e con espressione orribile
spaventa i Mussulmani che occupano Gerusalemme.
82
L’attesa del disastro è forse un male peggiore
che non sembrerebbe il disastro stesso;
ogni orecchio e ogni cervello prestano attenzione
a qualsiasi diceria, anche presunta,
e un parlottare incerto fuori e dentro
si diffonde per le campagne e nella città occupata dalle forze infernali.
Intanto l’anziano re, di fronte all’approssimarsi del pericolo,
medita incerto i suoi propositi di sangue.

83
Il re di cui raccontiamo si chiama Aladino, ed essendo da poco
sovrano del regno [di Gerusalemme], vive in costante affanno:
in gioventù era stato un uomo feroce, ma ora la sua indole bestiale
appariva ammansita dall’avanzare degli anni.
Egli [Aladino], che aveva inteso il piano dei crociati
di assalire gli spalti della città da lui governata,
assomma alle antiche nuove ragioni di diffidenza,
e teme sia dei nemici sia dei suoi stessi sudditi.

84
Poiché dentro una stessa città [Gerusalemme] vive mescolato
un popolo di religioni diverse:
la parte più debole e numericamente inferiore ha fede in Cristo,
la parte più forte e numericamente superiore ha fede in Maometto.
Ma quando Aladino conquistò Gerusalemme
e cercò d’insediarvi il suo regno,
ridusse le tasse ai suoi correligionari [ai Mussulmani],
e le addossò ai Cristiani disgraziati.

85
Questa preoccupazione [cioè il timore della ribellione dei Cristiani] irrita e intensifica la sua ferocia
giovanile, che la maturità degli anni aveva attenuata e quasi spenta, e la rinvigorisce,
così che ora essa appare più che mai assetata di sangue.
Allo stesso modo ritorna feroce durante l’estate
il serpente che durante il freddo [letargo] invernale era parso innocuo;
così il leone addomesticato recupera
la sua violenza primigenia, se qualcuno lo aggredisce.

86
Scorgo – diceva [Aladino] – in questo popolo traditore [i Cristiani infedeli]
indizi evidenti di una strana gioia; [provocata dalla notizia dell’arrivo dei crociati]
la rovina di tutta la città solo ai Cristiani può portare beneficio,
e sembra che loro soli, nel disastro generale, debbano godere;
e probabilmente tramano in segreto tranelli e inganni,
rimuginando sul modo di assassinarmi
o sul sistema di schiudere nascostamente le porte della città
al mio nemico, cioè all’esercito loro alleato.

87
Ma non vi riusciranno: anticiperò questi loro piani
infami, e scatenerò completamente la mia ira [su di loro].
Li massacrerò, ne farò strage orrenda,
colpirò a morte i figli in grembo alle madri,
darò fuoco ai loro ricoveri insieme con le loro chiese:
queste saranno le pire sacrificali per i morti;
e nel loro Santo Sepolcro, nel bel mezzo dei riti religiosi,
ucciderò per primi i loro stessi sacerdoti.

88
Così il re crudele riflette in cuor suo,
e tuttavia non mette a frutto un disegno così malvagiamente concepito;
ma se egli risparmia quegli innocenti
è a causa della sua vigliaccheria, non della sua misericordia;
perché se da un lato lo incita a infierire il timore [dei complotti interni],
dall’altro lo trattiene una preoccupazione più forte:
teme di precludersi la via a trattative pacifiche,
e di innervosire troppo le armi vincitrici dei crociati.

89
Modera dunque lo scellerato la sua rabbia folle,
cercando di trovare altri obiettivi su cui sfogarsi;
atterra e rade al suolo le fattorie
e appicca il fuoco ai campi coltivati;
non mantiene viva o vegeta alcuna coltivazione
da cui l’esercito cristiano possa procurarsi cibo o dove possa alloggiare;
inquina le sorgenti e i corsi d’acqua, mescola
veleni mortali alle fonti limpide.

90
Agisce con cinica cautela e, nel frattempo, non dimentica
di fortificare Gerusalemme.
La città era già inespugnabile su tre lati,
solo nella parte rivolta a nord [Borea è il vento che spira da settentrione] appariva molto meno
sicura;
ma, sin dalle prime avvisaglie di pericolo, egli [Aladino] aveva protetto
il lato più debole della città con elevate opere di difesa,
e vi andava rapidamente raccogliendo un gran numero
di soldati prezzolati e di sudditi.

Canto XX

1
Già il sole aveva risvegliato gli esseri viventi alle fatiche [quotidiane],
ed erano passare dieci ore dalle otto di sera [erano quindi le sei del mattino],
quando il drappello di soldati [mussulmani] rinserrati dentro la torre [di David]
scorse da lontano una forma indistinta,
come foschia che avvolge il mondo al tramonto,
e alla fine [essi] si resero conto che si trattava dell’esercito amico [degli Egiziani],
che offusca l’aria intorno di un velo di polvere
e occupa il piede dei colli e le campagne.
2
Dall’alto della torre gli eserciti assediati lanciano
le loro grida sino al cielo,
con un rumore simile a quello con cui volano in gruppo
le gru dai lori nidi in Tracia nei freddi giorni d’inverno,
e si librano stridendo
tra le nuvole verso luoghi più caldi, affrontando i venti freddi;
che la speranza suscitata dal sopraggiungere dei soccorsi ora rende in loro [negli assediati] pronta
la mano a ferire con l’arco e la lingua a vibrare offese.

3
Comprendono bene i Cristiani da dove
nascano il rinnovato vigore e le provocazioni irose,
e si girano a guardare alle loro spalle; ed ecco da lì
si vede comparire il grande esercito [egiziano].
Immediatamente s’infiammano di valoroso coraggio
gli animi bellicosi [dei Crociati] e invocano guerra.
I soldati fieri gridano all’unisono:
“Lancia il segnale [di guerra], o comandante invincibile”, e [nell’attesa] sussultano.

4
Ma il prudente Goffredo si rifiuta di dare campo prima che
sorga l’alba del giorno successivo e trattiene i più temerari,
né vuole neppure che l’esercito avversario sia provocato
con azioni di rapida e sporadica guerriglia.
“È giunto il tempo” soggiungeva “che dopo così grandi
sforzi [profusi nei precedenti combattimenti] io vi conceda un giorno di completo riposo”.
Forse [, così facendo, Goffredo] volle anche alimentare nei suoi avversari
l’insensata presunzione nei loro stessi mezzi.

5
[Dunque,] tutti i Cristiani si organizzano, in spasmodica attesa
del ritorno della nuova alba.
Il cielo non era mai stato così limpido e sereno
come allo spuntare di quel giorno epocale:
l’alba sorrideva propizia e sembrava avere
attorno l’intera corona dei raggi solari;
e Dio diede maggior vigore alla solita luce [del giorno],
e volle contemplare le eroiche imprese senza nebbia alcuna.

6-11: Sorto il sole, Goffredo dispone le varie parti dell’esercito per l’assalto decisivo.

12
Poi, montato su un destriero, di squadrone in squadrone
[Goffredo] sembrava librarsi tra i cavalieri e i soldati a piedi.
Attraverso la visiera alzata mostrava l’intera faccia:
scagliava fulmini con gli occhi e con l’aspetto.
Rincuorò i timorosi e rinnovò la fiducia degli ottimisti,
ai temerari ricordò le loro gesta
e ai valorosi le loro azioni di coraggio: agli uni promise più lauti
compensi, agli altri più grandi onorificenze.

13
In ultimo si arrestò là dove stavano raccolte le principali
e più gloriose compagnie,
e da un luogo alquanto elevato iniziò
il suo discorso, conquistando subito l’attenzione di tutti quelli che l’ascoltavano.
Come sono solite scorrere le nevi sciolte
dalle vette dei monti in acque torrentizie,
così fluivano mobili e rapide
le parole squillanti dalla sua bocca.

14
“O mio esercito, rovina degli avversari di Cristo,
conquistatore di tutto l’Oriente,
ecco arrivato il giorno finale, ecco giunto il giorno
che avete desiderato da gran tempo.
Né il Cielo ha permesso che adesso siano [qui] radunate le genti
a lui infedeli senza una precisa, fatale ragione:
[il Cielo] ha qui riunito tutti i vostri rivali,
affinché con una sola azione si possa dar fine a tante battaglie.

15
Noi otterremo diversi trionfi in un sol colpo,
né [per questo] sarà più grande il pericolo o lo sforzo.
Non ci sia, non ci sia in voi alcuna preoccupazione
nel trovarvi di fronte un esercito avversario tanto numeroso,
perché, a causa dei suoi dissidi interni, [esso] sta insieme con difficoltà
e si impaccia da solo a causa del caos del suo schieramento,
sicché vi sarà [fra loro] una piccola parte in grado di combattere davvero:
a molti mancherà il coraggio, a molti lo spazio e l’occasione.

16
Quelli che ci piomberanno addosso, saranno per lo più soldati senza armatura,
privi di vera forza e di perizia militare,
i quali adesso, per via della sola costrizione [dei loro capi], hanno abbandonato e hanno lasciato
i loro ozi o le loro fatiche di schiavi.
Ecco, vedo già l’incerto tremolio delle spade, degli scudi,
delle bandiere nel campo dei nostri nemici,
scorgo l’incertezza dei comandi e dei movimenti militari:
da segnali ben evidenti, prevedo il loro disastro.

17
Quel generale [Emireno], che armato di porpora e d’oro
sistema le truppe, e sembra così feroce a vedersi,
forse qualche volta ha sconfitto gli Arabi o i Mori [di Spagna],
ma il suo talento non potrà reggere al nostro valore.
Che potrà fare, posto che sia abile e competente, di fronte
al caos di un esercito così confuso e composito?
Son certo che egli sia pressoché sconosciuto e a sua volta non conosca i suoi uomini,
sicché a pochi possa dire: “Tu c’eri, io c’ero”.
18
Invece io guido un esercito scelto:
per una stagione abbiamo combattuto e vinto insieme,
e poi, per un’altra stagione, sono stato il vostro comandante.
Di quanti fra voi ignoro l’origine e la stirpe?
quale brando mi è sconosciuto? o quale freccia,
benché essa vibri ancora sospesa in volo,
non sarei in condizione di affermare se sia francese o irlandese,
e quale sia esattamente il braccio che l’ha scoccata?

19
Vi domando di dar prova del vostro consueto valore: ognuno oggi si comporti
come l’ho già notato [combattere] in altre circostanze;
e dimostri il solito ardore, e si ricordi
del suo onore, e del mio e di quello di Cristo.
Andate, distruggete gli infedeli; calpestate
il loro arti tagliati, e rendete definitiva la conquista del Santo Sepolcro.
Perché vi trattengo ancora? lo leggo chiaramente
nei vostri stessi occhi: la vittoria è già vostra”.

20
Mentre [Goffredo] finiva di pronunciare questa allocuzione,
sembrò discendere una luce improvvisa splendida e tersa,
come talvolta, durante le sere d’estate, è solita
staccarsi dal firmamento una stella cadente o un lampo.
Ma questa luce improvvisa sembrava provenire
dalla parte più profonda del sole;
e sembrò andasse a circondargli [di Goffredo] la testa, sicché
vi fu chi interpretò la cosa come il preannuncio
di un prossimo dominio [sulla terra o meglio nei cieli].

21
Forse (se i versi di un uomo possono provare
a penetrare con presunzione i segreti divini)
fu un angelo custode che scese dai cori
angelici e gli fece corona con le sue ali.
Mentre Goffredo diede ordini ai suoi crociati
e si rivolse alle sue truppe nel modo che abbiamo detto,
anche Emireno, comandante degli Egiziani, non perse tempo
nel disporre e nell’incoraggiare i suoi.

22-23: Viste le mosse dei crociati, anche Emireno, comandante degli Egiziani venuti in soccorso
agli
Arabi e agli Indiani, dispone l’esercito pagano per la battaglia.

24
Così Emireno, dispone i suoi [eserciti], e si muove anche lui [come Goffredo]
fra il centro dello schieramento e le ali esterne:
dà ordini ora con l’aiuto di interpreti, ora direttamente,
mescolando elogi e ammonimenti, punizioni e premi.
Ora dice a questo: “Perché, soldato, mostri un viso
così demoralizzato? e di che cosa hai paura?
Che può fare un [loro] soldato contro cento [di noi]? io sono certo
di mettere in fuga [i nemici] solo con l’ombra dei nostri corpi o solamente con il grido di guerra”.

25
A quello: “O prode, ora andiamo con volto audace
a riprenderci Gerusalemme che ci è stata sottratta”.
Ad alcuni risveglia nella mente l’immagine,
gliela fa vedere e quasi gliela indica,
della patria in ginocchio e della sua triste
e supplicante famigliola spaventata.
“Devi credere alle mie parole” gli diceva “proprio come se fosse la tua patria
che, per mezzo mio, ti pregasse in questo modo:

26
«Proteggi i miei comandamenti, e evitami
di irrorare, anzi di lavare, i templi altari con il mio stesso sangue;
proteggi le vergini dagli infedeli,
custodisci le sepolture e le spoglie degli antenati».
A te, [soldato], rimpiangendo l’età trascorsa,
i padri stanchi offrono i capelli canuti,
a te le spose presentano il torace e i seni,
le culle, i bambini e il letto nuziale”.

27
A molti poi aggiungeva: “L’Asia vi elegge
a difensori della sua reputazione; da voi si attende
un castigo terribile, ma legittimo,
contro quel piccolo esercito di invasori tagliaborse”.
In questo modo, con un’eloquenza sempre varia e in diverse lingue,
[Emireno] incita allo scontro le tante etnie [del suo esercito].
Ma ora i comandanti hanno finito di parlare, e i fronti ravvicinati
dei due eserciti sono oramai separati da un piccolo spazio.

28-139: Segue il racconto della battaglia: Gerusalemme è vinta e i maggiori eroi pagani sono
uccisi o
catturati (come Armida, arresasi a Rinaldo): il Santo Sepolcro è restituito ai Cristiani.

140
Morto il comandante Emireno, oramai restano
solo pochi rimasugli del grande esercito egiziano distrutto.
Goffredo insegue gli sconfitti e poi si ferma,
perché vede Altamoro[, re di Samarcanda,] appiedato e ferito,
con un tronco di spada in mano e metà dell’elmo sulla testa,
aggredito e circondato da uno sciame di lance.
Urla ai suoi uomini: “Dategli tregua; e tu, principe,
arrenditi e sii mio prigioniero: io sono Goffredo”.

141
E quello, che sino ad allora non aveva mai piegato
il suo nobile cuore ad alcun atto di sottomissione,
adesso che ascolta quel nome, la cui fama si diffonde
così illustre dall’Africa all’estremo Settentrione,
replica: “Farò ciò che chiedi,
perché sei meritevole di stima”; e gli consegnò le armi [aggiungendo]:
“Ma il tuo trionfo su Altamoro
non sarà privo di onore e di ricchezze.

142
Il tesoro del mio regno e le pietre preziose
della devota consorte mi riscatteranno”.
Gli ribatte Goffredo: “Dio non mi ha donato
un cuore che sia desideroso di ricchezze.
Conserva pure i tesori che ti danno le piagge dell’India
e quanto di prezioso raccoglie la Persia,
perché non aspiro a speculare sulla vita degli altri:
sono venuto a combattere in Asia, non a farvi il banchiere o il mercante”.

143
Tace e affida il nemico alla custodia dei suoi uomini
e si getta sulle piste dei fuggiaschi.
Essi cercano riparo fra gli steccati, ma qui
non possono trovare scampo alla morte.
Il terrapieno è conquistato rapidamente e riempito di cadaveri,
scorre il sangue a fiumi tra le tende,
e vi lorda i bottini e vi guasta, imbrattandoli,
i fregi e i fasti dell’esercito selvaggio [degli Egiziani].

144
In questo modo trionfa Goffredo, e gli resta ancora
una porzione di luce del giorno
per guidare i soldati vincitori
nella città oramai liberata, presso il Santo Sepolcro di Gesù.
Senza neppure togliersi il mantello sporco di sangue,
il comandante crociato entra nel sacrario insieme con gli altri;
e qui appende le sue armi [come ex-voto], e qui con devozione
adora il Santo Sepolcro e adempie la sua promessa [di liberazione].

Giuseppe Parini (Bosisio [oggi Bosisio Parini], Como 1729-Milano 1799)

La caduta. Ode

Quando la costellazione di Orione,


tramontando, porta con sé il cattivo tempo;
e riversa acqua, gelo e ghiaccio sul pianeta immerso nell’oscurità [della notte e del maltempo],

i cittadini di Milano mi vedono camminare, costretto [da qualche necessità] nel tempo
maligno, con la gamba sofferente [per zoppia], in mezzo al fango e alla disordinata
corsa delle carrozze [che nella confusione mi sfiorano];
ed essi mi vedono spesso precipitare per terra lungo la via
a causa di una pietra ostile,
malamente affiorante tra quelle dell’acciottolato,
o a causa di un tratto di strada scivoloso.

Il bambino ride [, guardandomi ruzzolare]; ma subito le ciglia


gli si riempiono [di lacrime] di pietà,
appena si accorge che mi sono ferito il gomito o le ginocchia
o il mento a causa della botta presa cadendo.

Un passante si avvicina sollecito e


mi dice: “Oh sfortunato poeta,
meritevole di una sorte meno crudele!”
E seguitando a discorrere, circonda il mio fianco

con mano compassionevole;


e mi rialza da terra;
e recupera il cappello sporco [di fango] e il bastone,
che mi è stato inutile, sparsi sulla strada:

“Prospera di denaro pubblico,


la città ti rende onore;
poeta eccelso e di fama incolume
dall’erosione degli anni

[essa] ti acclama ad alta voce in ogni dove;


e ti sollecita con fastidiosa insistenza
a completare l’ultima parte del Giorno,
grazie al quale può indicarti [con orgoglio] agli stranieri che domandano di te [, perché sei celebre].

Ed ecco che te ne vai trascinando il corpo indebolito


dall’età e dalla distrofia congenita
addirittura attraverso le strade,
fra la disgrazia [di una caduta] e il timore [di un’altra]:

e la tua poesia tanto magnificata


non è neppure in grado di procurarti uno straccio di calesse,
che ti salvaguardi dall’infuriare dell’inverno
nell’attraversamento degl’incroci stradali.

Uomo scontroso! Assumi, dài,


un diverso atteggiamento,
se vuoi riparare la tua testa, fattasi già bianca per gli anni,
da rischi ancora maggiori.

Tu non hai parenti,


non amanti, non possedimenti,
che siano in condizione di privilegiarti un giorno
rispetto ad altri numerosissimi nell’assegnazione di benefici.
Quindi sulle ripide scale [dei potenti]
arrampicati come puoi;
e quotidianamente fa’ risuonare
i corridoi e le stanze dei tuoi lamenti.

Oppure non rifiutare di mescolarti


alla schiera dei parassiti,
genuflettendoti davanti agli ingressi
dei ‘caporali’ che dettano legge ai generali;

e, grazie all’intercessione di quelli, insìnuati


nel gabinetto di chi comanda;
e semina barzellette e pettegolezzi
per sollevarli dalla loro uggia amara.

Oppure, se ne sei capace, rintraccia con maggiore scaltrezza


le vie nascoste che conducono
là dove, nel segreto silenzio,
si gioca la sorte delle nazioni;

e, facendo credere di aver escogitato mezzi inusitati


per incrementare le casse dello Stato,
smuovi le acque, e con l’imbroglio
vedi di pescare nel torbido [a tuo esclusivo vantaggio].

Ma chi potrebbe mai


risanare quella tua testa piena di utopie,
o portare su una diversa strada te,
che resti cocciutamente fedele alla tua Poesia [morale]?

Abbandonala [, una buona volta]: o, come un’attrice di infimo


rango, [essa] oltraggi la verecondia,
facendo divertire con composizioni oscene
i bassi istinti che si celano al di sotto dello sfarzo [dei grandi]”.

Il mio sdegno, fin troppo


represso, straboccando dai recessi
dell’anima, rompe
con violenza gli argini [del mio ritegno]; e replico:

“Chi sei tu, che sorreggi


questo mio vecchio
corpo, e cerchi di umiliare
il mio spirito? Ti mostri compassionevole, non onesto.

Ogni buon cittadino rivolge


il proprio ingegno verso quel fine
cui lo indirizzarono la sua indole naturale e le sue prime
esperienze, in modo che i suoi compatrioti gli portino rispetto.

Quando poi, divenuto anziano,


la necessità lo incalza,
egli avanza le sue richieste in modo consono e misurato,
con volto franco e libero, ove si rispecchia tale e quale la sua anima.

E se gli uomini freddi e insensibili


gli girano le spalle,
egli fa della sua coerenza
difesa e corazza contro le avversità.

Né si prostituisce per afflizione,


né s’inalbera per alterigia”.
E dicendo questo, abbandono da me stesso
chi mi aveva fatto da sostegno; e accigliato mi allontano di lì.

Così, riconoscente per l’aiuto ricevuto,


sprezzo con sdegno i consigli;
e, senza alcun rimorso,
rientro zoppicando a casa mia.

Vittorio Alfieri (Asti 1749-Firenze 1803)

Dalle Rime

XVIII
O Morte, mi provochi con ostilità? e, orribile a vederti,
sollevi minacciosamente davanti a me la tua roncola storta?
Colpiscimi, dunque: non mi sorprenderai mai vacillare,
scongiurandoti di arrestare la tua botta micidiale.

La nascita, sì proprio la nascita rappresenta per me l’evento più doloroso,


non certo la morte, a causa della quale io resto libero
dalle mie tante sofferenze, e un unico, rapido momento
può risarcire la disgrazia della mia venuta al mondo in schiavitù.

O Morte, che aspetti dunque a spezzare quella vita disonorevole


che io trascorro in catene, io, non meritevole di essere schiavo,
[che aspetti dunque], se il tuo rinvio mi esaspera?

Liberami dalla tirannia dei re, ai quali soltanto la vigliaccheria della maggioranza
consente di vantare quella superbia e quel potere che li spinge a essere crudeli,
e a eludere la fiacca ribellione di una piccola minoranza.

CLXVII
Nobile immagine di parole sincere,
fammi vedere chi sono sia nel fisico sia nell’intimo:
capelli, adesso diradati sul davanti, ma schiettamente rossi;
di notevole altezza, ma con la testa chinata verso il basso [nell’attitudine di chi medita];

corporatura snella su due gambe diritte;


bianco l’incarnato, gli occhi celesti, il volto amabile;
naso regolare, bocca proporzionata e dentatura perfetta;
esangue in faccia, più di un tiranno sul podio:

a tratti caparbio e aspro, a tratti arrendevole e benevolo;


sempre corrucciato, ma mai perfido;
la ragione e la passione in me sempre in perenne conflitto:

di solito malinconico, ma alle volte alquanto gaio,


a tratti ritenendomi un eroe, ma pure un vigliacco:
o Vittorio, sei un gigante o un nano? Solo la Morte potrà rivelartelo.

CXXXIII
Fra le tante, sublimi qualità della mia amata,
di cui mi è concesso più lo sperimentare che il raccontare,
la [più nobile], in ragione della quale io mi strappai da me stesso,
è il cuore, così ben provvisto di suprema comprensione.

Questa, fra le sue innumerevoli doti, ho preferito sin dall’inizio,


ed essa mi ha affascinato molto più della sua bellezza:
e questa comprensione, dopo diversi anni, l’ho scelta di nuovo
come solido fondamento alla mia esistenza felice.

Non [posso dire che] anche la mia donna non conosca le fugaci collere:
né [posso dire che] talora appaia restia o insensibile:
ma [posso affermare che] ella si mostra costantemente più disponibile al perdono.

Nel suo animo non alberga alcuna perfidia o cattiveria;


ella accorda sempre ai favori un premio raddoppiato;
dimentica gli oltraggi insieme con l’oltraggiatore.

LXV
Umor nero, perché quale tua unica dimora
hai eletto questo mio povero cuore?
Implorando, rabbrividendo, ti domando una volta di più:
ahimè, quando porrai fine alle mie pene?

L’oscura presenza della tua luttuosa compagnia


hai già completamente disteso su di me:
fra lugubri pensieri, dimmi, dovrò quindi
vivere, pensando sempre alla morte, senza mai effettivamente morire?

Umor nero, cosa pretendi? che io stesso metta termine


a questa angoscia infinita, insostenibile,
prima che il dolore mi faccia incanutire i capelli? [mi faccia invecchiare?]

[Se così dev’essere,] allora si spenga qualsiasi speranza di prossima letizia


che Eros mi addita in due occhi celestiali [quelli della contessa d’Albany];
e tu, [umor nero], procura che io cessi una buona volta di vivere.

XXII
Attraverso questi spaventosi oscuri boschi di conifere,
che costellano di spine il pendio roccioso delle Alpi scoscese,
O mia Amata, un tempo mi avventurai in solitudine,
inseguendo la luce dei tuoi occhi, mia guida sicura e felice.

Adesso uniti, allegri e sereni,


non avendo più paura delle ferite procurate dalla rabbia,
noi ci siam messi in viaggio, godendo passo dopo passo
delle suggestioni della natura, come farebbero dei paesaggisti lirici.

Trascorsi quasi dieci anni, avendo in ultimo


posto la nostra meta verso la desiderata Italia,
porgiamo un addio definitivo all’irriconoscente Mittel-Europa,

non completamente affrancati, ma di sicuro assai meno oppressi, dalla terribile


soggezione della folle dittatura [dei giacobini francesi],
laggiù [, in Italia,] potremmo vivere liberi e incolumi, in splendido abbandono.

XXIV
Oh splendido, felice panorama [di Firenze],
di cui per lunghissimo tempo sono vissuto sprovvisto in Francia!
Limpido cielo, libero da qualunque foschia,
attraversato dai raggi d’oro del Sole infuocato.

Qui [, a Firenze], il Sole, da cui deriva la vita, si oppone senza sosta


al gelo nordico, sterilmente freddo e malsano:
qui l’inverno pungente non affligge la natura con la sua bianca coltre [di neve],
e non si mostra nemico delle efflorescenze.

Libero da qualsiasi intirizzimento, ecco che l’Arno dorato


apre il suo alveo alle acque scorrenti,
le quali innaffiano felici la città della Sapienza.

E qui la mia stessa ispirazione poetica, già prigioniera del freddo


là, oltralpe, adesso risvegliatasi riprende in mano
il suo delicato strumento canoro, per il quale probabilmente essa un giorno è venuta al mondo.

Ugo Foscolo (Zante [Grecia] 1778-Londra 1827)

All’amica risanata. Ode

Come, [levandosi] dagli abissi del mare


la stella più amata [cioè Espero] dalla dea dell’Amore
si mostra con i capelli bagnati
al venir meno dell’oscurità,
e abbellisce il suo corso
con la luce dell’irraggiamento perenne [cioè del sole],

allo stesso modo si leva il tuo corpo


divino dal letto di dolore,
e in te riprende vita la bellezza,
quella dorata bellezza da cui ottennero
sola consolazione alle sofferenze
gli umani ingegni, fatti per dar credito alle illusioni.

Vedo rifiorire sul volto amato


il colorito roseo, i grandi occhi
ritornano a sorridere
con mossa seduttiva; a causa tua
restano vigili per recenti lacrime
le madri preoccupate e le fidanzate gelose.

Le Ore, che fino a poco fa


ti somministravano con tristezza le medicine,
adesso ti portano [v. 26] la veste [di seta] indiana,
e i gioielli impreziositi
da cammei di divinità,
opere preziose di scultori greci,

e i sandali bianchi,
e i talismani,
in grazia dei quali nelle feste serali
i giovani, per ammirare te, Divina,
scordano di prender parte ai balli,
[per ammirare] te, che sei causa di sofferenze e di desideri [d’amore].

Ovvero, [i giovani sono rapiti da te] allorché abbellisci le corde del tuo strumento
sia con nuove armonie
sia con il sinuoso profilo
delle tue curve che un morbido
tessuto modella, e nel frattempo
tra i sommessi aneliti [di desiderio] si libra la tua canzone

più irresistibile: ovvero allorché


vai descrivendo figure di danza e, mentre consegni
il tuo fisico flessuoso allo spazio,
segrete bellezze traboccano
dalle vesti, e dallo scialle discinto
fluttuante sul seno che sobbalza.

Mentre ti muovi, piano piano


si sciolgono le trecce [dei tuoi capelli], rilucenti
per la fresca applicazione dei balsami divini,
non sostenute dal pettine d’oro
e dalla corona di rose
che adesso la primavera ti dona insieme con il ristorato vigore.

Sicché ministre d’Amore


ti volteggiano attorno
le Ore spregiate [dalle altre donne];
le Grazie guardino con avvilimento
chi ti ricorda la precarietà
del fascino e il momento della morte.
Donna mortale, leader
delle ninfe oceanine,
la vergine Diana abitava
il versante del monte Parrasio
e faceva fischiare da lontano, spaventando i cervi,
la corda dell’[eccezionale] arco fabbricato a Cidone.

La popolarità la proclamò
figlia degli dei; gli uomini
timorosi le dànno il nome di dea,
e le consacrarono il regno
dei Campi Elisi, e il dardo infallibile,
e le montagne, e il carro della Luna nel cielo.

Allo stesso modo il monte Elicona, risonante delle voci dei poeti,
consacrò altari a Bellona,
già invincibile guerriera;
ella adesso sta preparando
elmi e scudi, cavalli e cannoni
contro l’avida Inghilterra.

E colei [Venere], della quale ti vedo avvolgere


devotamente con sacro mirto
la statua di marmo
che protegge
le stanze più segrete della tua casa,
dove sola a me ti mostri come vestale [d’Amore],

fu una sovrana, e comandò felice


a Citera e a Cipro ove si spande il profumo
di un’eterna primavera,
e sulle isole
che, con le loro pendici boscose,
fendono il flusso ai venti di sud-est e al vasto mare Ionio.

Io sono nato su quel mare,


lì si aggira lo spirito spogliato [del corpo]
dell’amante di Faone [cioè di Saffo],
e, quando la brezza notturna
soffia dolcemente sulle onde,
le spiagge risuonano di un’eco dolente di lira:

ragion per cui io, saturo del nativo e


sacro soffio vitale, traspongo in tuo onore
la lirica eolia
nella più seria poesia italiana,
e, attraverso i miei versi, tu riceverai,
come una dea, le preghiere delle future donne lombarde.

Dalle Grazie, stesura del 1814


Inno Primo [vv. 1-46, 101-116, 131-149]
O Grazie, dovendo far versi sulle virtù celesti
di cui vi abbellisce il cielo, e sulla felicità
che voi, pudiche, concedete agli uomini,
splendide vergini, a voi domando la misteriosa
dolce musicalità capace di dipingere
la vostra bellezza; così che il mio carme
corra inatteso a rasserenare l’Italia,
tormentata dalle discordie di sovrani stranieri.
Nella valle, fra i colli elevati
di Bellosguardo, dove io elevo un altare alle tre divinità,
circondato da un ruscello
trasparente tra la frescura tranquilla di numerosi
giovani cipressi, e un sacro bosco di allori
porge riparo facendo da tempio,
vieni, o Canova, alla piacevole cerimonia e ai canti. [Canti] di cui mi diede regalo al cuore
la splendida divinità [di Venere] che tu hai consacrato
qui, a Firenze, quale protettrice delle arti figurative,
ed ella recinse interamente d’eterna luce e di nettare divino
il suo stesso idolo sacro.
Forse (o io m’illudo), tu, scultore di divinità,
infonderai insieme con me un rinnovato soffio vitale alle Grazie
che ora, attraverso l’opera delle tue mani, vengono fuori dalla pietra: io stesso
dipingo, e infondo l’anima alle mie immaginazioni [poetiche];
ripudio la poesia fatta di sola armonia incapace di forgiare la vita;
perché il dio Apollo mi spiegò: io per primo ho ispirato il pittore Fidia
e lo scultore Apelle con la mia poesia.
Esistevano [un tempo] il monte Olimpo, Giove apportatore di saette e il Destino
e la madre Terra era scossa
a causa del tridente di Nettuno [apportatore di terremoti]; Amore dal cielo
colpiva [il cuore] del dio degli Inferi: e le Grazie non erano ancora comparse.
Una divinità percorreva l’intero mondo
per renderlo fertile e aveva il nome solenne
di Natura; fra gli dei adesso ella beneficia
d’innumerevoli scranni, e con nomi diversi e con altari
la festeggiano gli esseri umani, e fra tutti più le piace
quel canto che la implora come splendida abitante dell’isola di Citera.
Siccome la sacra dea, benevola nei nostri confronti, dopo averci visti tristi,
affannati e in preda all’ira, fece un giorno
la sua apparizione insieme con le Grazie
sorgendo dalle onde de mare, ove si era tuffata
per ridar vigore alle figlie di Nereo; e diede ricetto per prima
a Venere e alle Grazie l’onda del mare Ionio, quell’onda che, compagna
del ridente litorale e dell’alga ospitale,
tutti i giorni da Citera giunge piena di desiderio
ai miei luoghi natii: lì, sin da bambino,
ho avuto occasione di rendere omaggio alla divinità di Venere.
(Antonio Canova, Venere italica, 1804-1812
Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina)
[...]
In tutta l’isola [di Citera] non si ascoltavano [allora] né canti di preghiera né cori nuziali,
bensì il continuo abbaiare dei cani,
e un fischiare di frecce
e le urla dei primi esseri umani in lotta fra loro per il possesso dell’orso ucciso,
e quelle dei cacciatori feriti.
Cerere [, dea dei campi e dell’agricoltura,] aveva fatto inutile dono dell’aratro
a quei bruti, invano un giorno da oltre il fiume Eufrate
aveva chiamato il giovane di Bacco, esperto vendemmiatore,
a rendere più ridenti i pianori con la coltivazione della vite:
lo strumento sacro a Cerere arrugginiva dimenticato sui solchi
tracciati appena; le viti venivano spogliate a morsi prima
di riuscire a vedere i loro stessi giovani grappoli appena germogliati
diventar rossi sotto i raggi del sole autunnale; e, solo
quando fecero la loro comparsa le Grazie, i cacciatori
e le donne trascurate e i loro [poveri] figli
misero da parte le armi e la paura, colti da repentina meraviglia.
[...]
Citera non era ancora
l’unica dominatrice dello specchio marino che ora la circonda:
perché, là dove adesso si scorgono le navi svettare sulle onde,
[i nostri antenati potevano vedere] una foresta nera [che] protendeva le sue ombre,
ed ogni Divinità ne era stata allontanata dagli uomini, nati dalla terra,
intenti [solo] a combattere per derubarsi [gli uni con gli altri]; i vincenti
allestivano a se stessi banchetti di carni umane.
Videro il carro [di Venere] ed emisero un verso bestiale,
sollevando e soppesando il proprio randello [in atto di guerra]. Venere
raccolse a sé, sotto il suo mantello, le tre sue fanciulle [le Grazie]
in lagrime, e disse: “Affondati, foresta”, e la foresta scomparve tra i flutti.
Ahimè, probabilmente gli antenati dell’uomo furono tutti di tal risma!
Per questo in noi, disgraziati, serpeggia un innato
desiderio di guerra e, anche se le Grazie fanno di tutto
per placarlo, esso si riaccende minaccioso,
compiacendosi di mostrare come un trofeo le ossa dei nostri stessi fratelli;
che almeno io non le veda [ostentate] adesso, in Italia,
ove esse biancheggiano senza sepoltura in mezzo alle spighe di grano!

Alessandro Manzoni (Milano 1785-ivi 1873)


Dai Promessi sposi, edizione 1840-1842

Introduzione [dell’Anonimo]
La storia si può veramente dire un grande conflitto contro l’azione devastatrice del tempo, perché,
sottraendo alla di lui morsa gli anni prigionieri, anzi già ridotti a carcasse, li fa rivivere, li mette in
riga e li pone nuovamente in campo. Ma gli storici famosi [illustri Campioni] che in questa arena
[Arringo] mietono i successi più gloriosi, si occupano di resuscitare soltanto le salme più
appariscenti e luccicanti,
immortalando con le loro penne le azioni dei sovrani, dei potenti e dei personaggi più celebri, e
fissando con l’acutezza del loro ingegno i fili d’oro e di seta che formano l’eterna trama delle
vicende più famose. Ma ad un uomo modesto come me non si addice aspirare a trattare questioni
così grandi e così delicate, con il rischio di smarrirmi nei dedali degli intrighi delle corti o quello di
assordarmi per via del fragore delle trombe di guerra: soltanto che, essendo venuto a conoscenza di
alcune vicende degne di menzione, benché accadute a gente del popolo e di modesta levatura, mi
appresto a darne testimonianza a chi verrà dopo di me, riportando in modo franco e schietto la storia
riferitami oralmente. In essa appariranno come in un piccolo scenario penose calamità orribili ed
episodi di feroce
crudeltà inframmezzati da azioni magnanime, e miracoli celesti contrapposti a imprese sataniche. E
davvero, riflettendo che questi nostri paesi [climi] si trovano sotto la protezione [l’amparo, termine
iberico] di Filippo IV di Spagna, che Dio guardi, nostro re, il quale è come un sole senza tramonto,
e che sopra di essi [paesi], illuminato di luce riflessa, come una luna sempre piena, splende il
campionen di nobile stirpe [cioè il governatore del Ducato di Milano], il quale temporaneamente
rappresenta il sovrano, insieme con i magnifici senatori, i quali sono come astri sempre fissi, e con
gli altri nobili
magistrati, i quali come i pianeti riflettono la luce ovunque, venendo a costituire un universo
perfetto, non si può ricercare altra motivazione nell’osservarlo [questo perfetto universo]
trasformato in un abisso di azioni oscure, di cattiverie e di crudeltà riprodotte e ripetute da individui
sconsiderati, se non nell’astuzia e nell’opera del Demonio, visto che la malignità umana da sola non
dovrebbe poter opporsi a così tanti campioni della politica, i quali con cento occhi e cento braccia,
come i mitici giganti Argo e Briareo, si vanno sbattendo per il pubblico vantaggio. Per cui,
riferendo questa storia accaduta all’epoca della mia gioventù, nonostante il maggior numero dei
personaggi che vi rivestono un ruolo siano oramai usciti di scena, avendo reso il pegno della loro
vita alle Parche [divinità che presiedono al destino umano], tuttavia, per una precisa forma di
rispetto, si taceranno i loro nomi e i loro cognomi, e lo stesso si farà con i luoghi, accennando solo
in forma generica al territorio. Né vi sia alcuno che per questo parli di debolezza della storia e di
difetto di questo mio modesto resoconto, a meno che non si tratti di un censore completamente
privo di studi filosofici, laddove tutti gli intendenti si accorgeranno
perfettamente che nulla manca alla sostanza di questa mia narrazione. Si tratta infatti di cosa
risaputa e non rigettata da alcuno che i nomi altro non sono che meri, inutili dettagli...

Giacomo Leopardi (Recanati, Macerata 1798-Napoli 1837)

Dai Canti: La sera del dì di festa (1820)

La notte è serena, limpida e priva di perturbazioni


e sopra queste case e nel mezzo dei giardini
si giace la luna, e mostra in lontananza
chiara ogni montagna. O mia amata,
le strade [del borgo] sono silenti, e attraverso le finestre dei terrazzi
filtra raramente un lume notturno:
tu riposi, poiché ti avvinse facilmente il sonno
nelle tue stanze tranquille; e non ti tormenta
alcuna preoccupazione; e ancora non intendi e non immagini
quale profonda ferita mi hai aperto in mezzo al cuore.
Tu dormi: io mi sporgo a salutare questo cielo
che si mostra così benevolo all’occhio,
e l’eterna natura che può tutto,
la quale mi creò per soffrire. “A te tolgo la speranza,
– mi disse – anche la speranza;
e le tue pupille non devono brillare per altri motivi se non per le lacrime”.
Questo è stato un giorno di festa: adesso hai posto un intervallo
ai divertimenti, e probabilmente nel sogno ricordi
quanti siano stati quelli a cui oggi sei piaciuta e quanti siano stati
quelli che hanno attratto il tuo desiderio: io non ritorno nelle tue fantasie,
né c’è ragione di sperarlo. Nel frattempo io m’interrogo
sul tempo che mi sia concesso di sopravvivere, e d’improvviso mi torco a terra
urlo e mi agito. Oh, che giornate terribili,
in un’età così giovane! Ahimè, sulla strada
sento non distante la canzone sola
del fabbro, che ritorna a notte inoltrata,
dopo i bagordi, alla sua misera abitazione;
e provo una crudele fitta al cuore,
nel riflettere su come, a questo mondo, tutto trascorra
senza lasciare pressoché tracce. Ecco se n’è appena volato via
il giorno festivo, e ad esso
segue quello feriale, e il fluire del tempo trascina con sé
ogni vicenda umana. Dov’è adesso il ricordo
di quelle famose civiltà antiche? Dov’è adesso la fama
dei nostri celebri antenati, e il dominio immenso
di quella grande Roma, e il rumore di quegli eserciti
che percorse i continenti e i mari?
Adesso regna una quiete inerte e silenziosa, e si giace
il mondo intero, e di loro non si parla più.
Nella mia infanzia, quando si attende
con desiderio il giorno della festa, oppure allorché
esso si era concluso, io [ricordo che] angosciato, insonne,
rimanevo sdraiato sul mio letto morbido al tatto; e nelle ore più profonde
[ricordo di] un canto percepito attraverso i sentieri,
il quale, piano piano si affievoliva in lontananza,
[e ricordo che] già allora, allo stesso modo, sentivo una fitta al cuore.

Dai Canti: A se stesso (1832-33 circa)

Adesso avrai pace una volta per tutte,


sfibrato animo mio. Svanì l’ultima illusione [l’amore per Aspasia (i.e. Fanny Targioni Tozzetti)],
che avevo giudicato fosse imperitura. Svanì. Mi accorgo lucidamente
che in noi [i.e. nella mente e nel cuore del poeta che dice io] è morta
non solo la speranza ma pure la frenesia delle amate illusioni.
Abbi pace una volta per tutte. Hai pulsato
sin troppo. Non c’è cosa alcuna degna
delle tue emozioni, né il mondo merita
che si pianga per lui. La vita è solo dolore e tedio,
e nient’altro; e la società è uno schifo.
Riposati, infine. Abbandona definitivamente
speranze e illusioni. Il destino non ha accordato alla nostra condizione umana
altro regalo che la morte. Infine poni in disdegno
te stesso e la natura e quella forza
malvagia che, insidiosamente, bada a far male a chiunque,
e l’universale inconsistenza dell’essere.

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