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DANTE ALIGHIERI. rime... seguiranno commenti su dante e le sue opere... dal fiore.

TRASCRIZIONE ELETTRONICA - PER I NON VEDENTI - CURATA DA: EZIO GALIANO. L'amante. Quand'io vidi i marosi s 'nforzare Per lo vento a Provenza che ventava, Che alberi e vele e ncole fiaccava, E nulla mi valea il ben governare, Fra me medesmo comincia' a pensare Che era follia se pi navicava, Se quel maltempo prima non passava Che dal buon porto mi fac' alungiare: S che io allor m'ancolai a una piaggia, Veggendo che io non potea entrar in porto: La terra mi parea molto salvaggia. Io vi vernai co molto disconforto. Non sa che mal si sia chi non asaggia Di quel d'Amor, ond' io fu' quasi morto. dalle rime... La vecchia. E s'ella nonn- bella di visaggio, Cortesemente lor torni la testa. E s lor mostri, sanza far aresta. Le belle bionde treccie d'avantaggio. Se non son bionde, tingale in erbaggio E a l'uovo e po' vada a nozze e a festa; E, quando va, si muova s a sesta Che al su' muover nonn-abbia punt'oltraggio. E gentamente vada balestrando Intorno a ss cogli occhi a chi la guarda, E 'l pi che puote ne vad'acrocando. Faccia sembianti che molto le tarda Ched ella fosse tutta al su' comando. Ma d'amar nullo non fosse musarda. a ciascuana alma... A ciascun'alma presa, e gentil core, nel cui cospetto ven lo dir presente, in ci che mi rescrivan suo parvente, salute in lor segnor, cio Amore. Gi eran quasi che atterzate l'ore del tempo che onne stella n' lucente, quando m'apparve Amor subitamente, cui essenza membrar mi d orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d'esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo. o voi... O voi, che per la via d'Amor passate, attendete e guardate s'elli dolore alcun, quanto 'l mio, grave; e prego sol ch'audir mi sofferiate, e poi imaginate s'io son d'ogni tormento ostale e chiave. Amor, non gi per mia poca bontate, ma per sua nobiltate,

mi pose in vita s dolce e soave, ch'io mi sentia dir dietro spesse fiate: Deo, per qual dignitate cos leggiadro questi lo core have?W Or ho perduta tutta mia baldanza, che si movea d'amoroso tesoro; ond'io pover dimoro, in guisa che di dir mi ven dottanza. S che volendo far come coloro che per vergogna celan lor mancanza, di fuor mostro allegranza, e dentro dallo core struggo e ploro. piangete... Piangete, amanti, poi che piange Amore, udendo qual cagion lui fa plorare. Amor sente a Piet donne chiamare, mostrando amaro duol per li occhi fore, perch villana Morte in gentil core ha miso il suo crudele adoperare, guastando ci che al mondo da laudare in gentil donna sovra de l'onore. Audite quanto Amor le fece orranza, ch'io 'l vidi lamentare in forma vera sovra la morta imagine avenente; e riguardava ver lo ciel sovente, ove l'alma gentil gi locata era, che donna fu di s gaia sembianza. morte... Morte villana, di piet nemica, di dolor madre antica, giudicio incontastabile gravoso, poi che hai data matera al cor doglioso, ond'io vado pensoso, di te blasmar la lingua s'affatica. E s'io di grazia ti vi far mendica, convnesi ch'eo dica lo tuo fallar d'onni torto tortoso, non per ch'a la gente sia nascoso, ma per farne cruccioso chi d'amor per innanzi si notrica. Dal secolo hai partita cortesia e ci ch' in donna da pregiar vertute: in gaia gioventute distrutta hai l'amorosa leggiadria. Pi non vi discovrir qual donna sia che per le propiet sue canosciute. Chi non merta salute non speri mai d'aver sua compagnia. cavalcando... Cavalcando l'altr'ier per un cammino, pensoso de l'andar che mi sgradia, trovai Amore in mezzo de la via in abito leggier di peregrino. Ne la sembianza mi parea meschino, come avesse perduta segnoria; e sospirando pensoso venia, per non veder la gente, a capo chino. Quando mi vide, mi chiam per nome, e disse: Io vegno di lontana parte, ov'era lo tuo cor per mio volere;

e rcolo a servir novo piacereW. Allora presi di lui s gran parte, ch'elli disparve, e non m'accorsi come. ballata... Ballata, i' vo' che tu ritrovi Amore, e con lui vade a madonna davante, s che la scusa mia, la qual tu cante, ragioni poi con lei lo mio segnore. Tu vai, ballata, s cortesemente, che sanza compagnia dovresti avere in tutte parti ardire; ma se tu vuoli andar sicuramente, retrova l'Amor pria, ch forse non bon sanza lui gire; per che quella che ti dee audire, s com'io credo, ver di me adirata: se tu di lui non fossi accompagnata, leggeramente ti faria disnore. Con dolze sono, quando se' con lui, comincia este parole, appresso che averai chesta pietate: Madonna, quelli che mi manda a vui, quando vi piaccia, vole, sed elli ha scusa, che la m'intendiate. Amore qui, che per vostra bieltate lo face,come vol,vista cangiare: dunque perch li fece altra guardare pensatel voi, da che non mut 'l coreW. Dille: Madonna, lo suo core stato con s fermata fede, che 'n voi servir l'ha 'mpronto onne pensero: tosto fu vostro, e mai non s' smagatoW. Sed ella non ti crede, d che domandi Amor, che sa lo vero: ed a la fine falle umil preghero, lo perdonare se le fosse a noia, che mi comandi per messo ch'eo moia, e vedrassi ubidir ben servidore. E d a colui ch' d'ogni piet chiave, avante che sdonnei, che le sapr contar mia ragion bona: Per grazia de la mia nota soave reman tu qui con lei, e del tuo servo ci che vuoi ragiona; e s'ella pel tuo prego li perdona, fa che li annunzi un bel sembiante paceW. Gentil ballata mia, quando ti piace, movi in quel punto che tu n'aggie onore. tutti li miei pensier... Tutti li miei pensier parlan d'Amore; e hanno in loro s gran varietate, ch'altro mi fa voler sua potestate, altro folle ragiona il suo valore, altro sperando m'aporta dolzore, altro pianger mi fa spesse fiate; e sol s'accordano in cherer pietate, tremando di paura, che nel core. Ond'io non so da qual matera prenda; e vorrei dire, e non so ch'io mi dica: cos mi trovo in amorosa erranza.

E se con tutti vi far accordanza, convnemi chiamar la mia nemica, madonna la Piet, che mi difenda. con l'alre donne... Con l'altre donne mia vista gabbate, e non pensate, donna, onde si mova ch'io vi rassembri s figura nova quando riguardo la vostra beltate. Se lo saveste, non pora Pietate tener pi contra me l'usata prova, ch Amor, quando s presso a voi mi trova, prende baldanza e tanta securtate, che fre tra' miei spiriti paurosi, e quale ancide, e qual pinge di fore, s che solo remane a veder vui: ond'io mi cangio in figura d'altrui, ma non s ch'io non senta bene allore li guai de li scacciati tormentosi. ci che m'incontra... Ci che m'incontra ne la mente, more, quand'i' vegno a veder voi, bella gioia; e quand'io vi son presso, i' sento Amore che dice: Fuggi, se 'l perir t' noiaW. Lo viso mostra lo color del core, che, tramortendo, ovunque p s'appoia; e per la ebriet del gran tremore le pietre par che gridin: Moia, moiaW. Peccato face chi allora mi vide, se l'alma sbigottita non conforta, sol dimostrando che di me li doglia, per la piet, che 'l vostro gabbo ancide, la qual si cria ne la vista morta de li occhi, c'hanno di lor morte voglia. spesse fiate... Spesse fiate vgnonmi a la mente le oscure qualit ch'Amor mi dona, e vnnemi piet, s che sovente io dico: Lasso! avvien elli a persona?W; ch'Amor m'assale subitanamente, s che la vita quasi m'abbandona: cmpami uno spirto vivo solamente, e que' riman, perch di voi ragiona. Poscia mi sforzo, ch mi voglio atare; e cos smorto, d'onne valor vto, vegno a vedervi, credendo guerire: e se io levo li occhi per guardare, nel cor mi si comincia uno tremoto, che fa de' polsi l'anima partire. donne ch'avete intelletto... Donne ch'avete intelletto d'amore, i' vo' con voi de la mia donna dire, non perch'io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando il suo valore, Amor s dolce mi si fa sentire, che s'io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente: E io non vo' parlar s altamente, ch'io divenisse per temenza vile; ma tratter del suo stato gentile

a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con vui, ch non cosa da parlarne altrui. Angelo clama in divino intelletto e dice: Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l'atto che procede d'un'anima che 'nfin quass risplendeW. Lo cielo, che non have altro difetto che d'aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede. Sola Piet nostra parte difende, ch parla Dio, che di madonna intende: Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto me piace l ov' alcun che perder lei s'attende, e che dir ne lo inferno: O malnati, io vidi la speranza de' beatiW. Madonna disiata in sommo cielo: or vi di sua virt farvi savere. Dico, qual vuol gentil donna parere vada con lei, ch quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e pre; e qual soffrisse di starla a vedere diverria nobil cosa, o si morria; E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ch li avvien ci che li dona salute, e s l'umilia ch'ogni offesa oblia. Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato che non p mal finir chi l'ha parlato. Dice di lei Amor: Cosa mortale come esser p s adorna e s pura?W Poi la reguarda, e fra se stesso giura che Dio ne 'ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi in forma, quale convene a donna aver, non for misura; ella quanto de ben p far natura; per esemplo di lei bielt si prova. De li occhi suoi, come ch'ella li mova, escono spirti d'amore inflammati, che fron li occhi a qual che allor la guati, e passan s che 'l cor ciascun retrova: voi le vedete Amor pinto nel viso, l 've non pote alcun mirarla fiso. Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand'io t'avr avanzata. Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevata per figliuola d'Amor giovane e piana, che l ove giugni tu dichi pregando: Insegntemi gir, ch'io son mandata a quella di cui laude so' adornataW. E se non vuoli andar s come vana, non restare ove sia gente villana; inggnati, se puoi, d'esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno l per via tostana. Tu troverai Amor con esso lei; raccomndami a lui come tu dei. amore e 'l cor gentil...

Amore e 'l cor gentil sono una cosa, s come il saggio in suo dittare pone, e cos esser l'un sanza l'altro osa com'alma razional sanza ragione. Flli natura quand' amorosa, Amor per sire e 'l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi s, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui, che fa svegliar lo spirito d'Amore. E simil fce in donna omo valente. negli occhi... Negli occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ci ch'ella mira; ov'ella passa, ogn'om vr lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, s che, bassando il viso, tutto smore, e d'ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond' laudato chi prima la vide. Quel ch'ella par quando un poco sorride, non si p dicer n tenere a mente, s novo miracolo e gentile. voi che portate... Voi, che portate la sembianza umile, con li occhi bassi mostrando dolore, onde venite che 'l vostro colore par divenuto de piet simile? Vedeste voi nostra donna gentile bagnar nel viso suo di pianto Amore? Ditelmi, donne, che 'l mi dice il core, perch'io vi veggio andar sanz'atto vile. E se venite da tanta pietate, picciavi di restar qui meco alquanto, e qual che sia di lei no 'l mi celate. Io veggio li occhi vostri c'hanno pianto, e vggiovi tornar s sfigurate, che 'l cor mi triema di vederne tanto. se' tu colui... Se' tu colui, c'hai trattato sovente di nostra donna, sol parlando a nui? Tu risomigli a la voce ben lui, ma la figura ne par d'altra gente. E perch piangi tu s coralmente, che fai di te piet venire altrui? Vedest pianger lei, che tu non pui punto celar la dolorosa mente? Lascia pianger a noi e triste andare (e fa peccato chi mai ne conforta), che nel suo pianto l'udimmo parlare. Ell'ha nel viso la piet s scorta, che qual l'avesse voluta mirare sarebbe innanzi lei piangendo morta. donna pietosa...

Donna pietosa, e di novella etate, adorna assai di gentilezze umane, che era l 'v'io chiamava spesso Morte, veggendo li occhi miei pien di pietate, e ascoltando le parole vane, si mosse con paura a pianger forte; E altre donne, che si fuoro accorte di me per quella che meco piangia, fecer lei partir via, e appressrsi per farmi sentire. Qual dicea: Non dormireW, e qual dicea: Perch s ti sconforte?W Allor lassai la nova fantasia, chiamando il nome de la donna mia. Era la voce mia s dolorosa e rotta s da l'angoscia del pianto, ch'io solo intesi il nome nel mio core; e con tutta la vista vergognosa ch'era nel viso mio giunta cotanto, mi fece verso lor volgere Amore. Elli era tale a veder mio colore, che facea ragionar di morte altrui: Deh, consoliam costui,W pregava l'una l'altra umilemente; e dicevan sovente: Che vedest, che tu non hai valore?W E quando un poco confortato fui, io dissi: Donne, dicerollo a vui. Mentr'io pensava la mia frale vita, e vedea 'l suo durar com' leggero, pinsemi Amor nel core, ove dimora; per che l'anima mia fu s smarrita, che sospirando dicea nel pensero: - Ben converr che la mia donna mora! Io presi tanto smarrimento allora, ch'io chiusi li occhi vilmente gravati, e furon s smagati li spirti miei, che ciascun giva errando; e poscia imaginando, di conoscenza e di verit fora, visi di donne m'apparver crucciati, che mi dicean pur: - Morrti, morrti -. Poi vidi cose dubitose molte, nel vano imaginare ov'io entrai; ed esser mi parea non so in qual loco, e veder donne andar per via disciolte, qual lagrimando, e qual traendo guai, che di tristizia saettavan foco. Poi mi parve vedere a poco a poco turbar lo sole ed apparir la stella, e pianger elli ed ella; cader li augelli volando per l're, e la terra tremare; ed omo apparve scolorito e fioco, dicendomi: - Che fai? Non sai novella? morta la donna tua, ch'era s bella -. Levava li occhi miei bagnati in pianti, e vedea (che parean pioggia di manna) li angeli che tornavan suso in cielo, ed una nuvoletta avean davanti,

dopo la qual gridavan tutti: ~Osanna~; e s'altro avesser detto, a voi dirlo. Allor diceva Amor: - Pi nol ti celo; vieni a veder nostra donna che giace. Lo imaginar fallace mi condusse a veder madonna morta; e quand'io l'avea scorta, vedea che donne la covran d'un velo; ed avea seco umilit verace, che parea che dicesse: - Io sono in pace. Io divenia nel dolor s umile, veggendo in lei tanta umilt formata, ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno; tu di omai esser cosa gentile, poi che tu se' ne la mia donna stata, e di aver pietate e non disdegno. Vedi che s desideroso vegno d'esser de' tuoi, ch'io ti somiglio in fede. Vieni, ch 'l cor te chiede.Poi mi parta, consumato ogne duolo; e quand'io era solo, dicea, guardando verso l'alto regno: - Beato, anima bella, chi te vede! Voi mi chiamaste allor, vostra merzede.W io mi senti'... Io mi senti' svegliar dentro a lo core un spirito amoroso che dormia: e poi vidi venir da lungi Amore allegro s, che appena il conoscia, dicendo: Or pensa pur di farmi onoreW; e ciascuna parola sua ridia. E poco stando meco il mio segnore, guardando in quella parte onde venia, io vidi monna Vanna e monna Bice venir invr lo loco l ov'io era, l'una appresso de l'altra maraviglia; e s come la mente mi ridice, Amor mi disse: Quell' Primavera, e quell'ha nome Amor, s mi somigliaW. vede perfettamente... Vede perfettamente ogne salute chi la mia donna tra le donne vede; quelle che vanno con lei son tenute di bella grazia a Dio render merzede. E sua bieltate di tanta vertute, che nulla invidia a l'altre ne procede, anzi le face andar seco vestute di gentilezza d'amore e di fede. La vista sua fa ogne cosa umile; e non fa sola s parer piacente, ma ciascuna per lei riceve onore. Ed ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si pu recare a mente, che non sospiri in dolcezza d'amore. s lungiamente... S lungiamente m'ha tenuto Amore e costumato a la sua segnoria, che s com'elli m'era forte in pria, cos mi sta soave ora nel core. Per quando mi tolle s 'l valore

che li spiriti par che fuggan via, allor sente la frale anima mia tanta dolcezza, che 'l viso ne smore, poi prende Amore in me tanta vertute, che fa li miei sospiri gir parlando, ed escon for chiamando la donna mia, per darmi pi salute. Questo m'avene ovunque ella mi vede, e s cosa uml, che nol si crede. li occhi dolenti... Li occhi dolenti per piet del core hanno di lagrimar sofferta pena, s che per vinti son remasi omai. Ora, s'i' voglio sfogar lo dolore, che a poco a poco a la morte mi mena, convnemi parlar traendo guai. E perch me ricorda ch'io parlai de la mia donna, mentre che vivia, donne gentili, volontier con vui, non vi parlare altrui, se non a cor gentil che in donna sia; e dicer di lei piangendo, pui che si n' gita in ciel subitamente, e ha lasciato Amor meco dolente. Ita n' Beatrice in l'alto cielo, nel reame ove li angeli hanno pace, e sta con loro, e voi, donne, ha lassate: no la ci tolse qualit di gelo n di calore, come l'altre face, ma solo fue sua gran benignitate; ch luce de la sua umilitate pass li cieli con tanta vertute, che f maravigliar l'etterno sire, s che dolce disire lo giunse di chiamar tanta salute; e flla di qua gi a s venire, perch vedea ch'esta vita noiosa non era degna di s gentil cosa. Partssi de la sua bella persona, piena di grazia, l'anima gentile, ed ssi gloriosa in loco degno. Chi no la piange, quando ne ragiona, core ha di pietra s malvagio e vile, ch'entrar no 'i puote spirito benegno. Non di cor villan s alto ingegno, che possa imaginar di lei alquanto, e per no li ven di pianger doglia; ma ven trestizia e voglia di sospirare e di morir di pianto, e d'onne consolar l'anima spoglia, chi vede nel pensero alcuna volta quale ella fue, e com'ella n' tolta. Dnnomi angoscia li sospiri forte, quando 'l pensero ne la mente grave mi reca quella che m'ha 'l cor diviso; e spesse fiate pensando a la morte, vnemene un disio tanto soave, che mi tramuta lo color nel viso. E quando 'l maginar mi ven ben fiso, gignemi tanta pena d'ogne parte,

ch'io mi riscuoto per dolor ch'i' sento; e s fatto divento, che da le genti vergogna mi parte. Poscia piangendo, sol nel mio lamento chiamo Beatrice, e dico: - Or se' tu morta? -; e mentre ch'io la chiamo, me conforta. Pianger di doglia e sospirar d'angoscia mi strugge 'l core ovunque sol mi trovo, s che ne 'ncrescerebbe a chi m'audesse: e quale stata la mia vita, poscia che la mia donna and nel secol novo, lingua non che dicer lo sapesse. E per, donne mie, pur ch'io volesse, non vi saprei io dir ben quel ch'io sono, s mi fa travagliar l'acerba vita; la quale s 'nvilita, che ogn'om par che mi dica: - Io t'abbandono -, veggendo la mia labbia tramortita. Ma qual ch'io sia, la mia donna il si vede, ed io ne spero ancor da lei merzede. Pietosa mia canzone, or va piangendo, e ritruova le donne e le donzelle, a cui le tue sorelle erano usate di portar letizia; e tu, che se' figliuola di trestizia, vatten disconsolata a star con elle. venite a 'ntender... Venite a 'ntender li sospiri miei, oi cor gentili, ch piet 'l disia: li quai disconsolati vanno via, e s'e' non fosser, di dolor morrei; per che gli occhi mi sarebber rei, molte fiate pi ch'io non vorria, lasso! di pianger s la donna mia, che sfogasser lo cor, piangendo lei. Voi udirete lor chiamar sovente la mia donna gentil, che si n' gita al secol degno de la sua vertute; e dispregiar talora questa vita in persona de l'anima dolente abbandonata de la sua salute. quantunque volte... Quantunque volte, lasso! , mi rimembra ch'io non debbo giammai veder la donna ond'io vo s dolente, tanto dolore intorno 'l cor m'assembra la dolorosa mente, ch'io dico: - Anima mia, ch non ten vai? ch li tormenti che tu porterai nel secol, che t' gi tanto noio, mi fan pensoso di paura forte -. Ond'io chiamo la Morte, come soave e dolce mio riposo; e dico: - Vieni a me - con tanto amore, che sono astioso di chiunque more. E si raccoglie ne li miei sospiri un sno di pietate, che va chiamando Morte tuttavia: a lei si volser tutti i miei disiri, quando la donna mia

fu giunta da la sua crudelitate; perch 'l piacere de la sua bieltate, partendo s da la nostra veduta, divenne spirital bellezza grande, che per lo cielo spande luce d'amor, che li angeli saluta e lo intelletto loro alto, sottile face maravigliar, s v' gentile. ~Primo cominciamento~... Era venuta ne la mente mia la gentil donna che per suo valore fu posta da l'altissimo Signore nel ciel de l'umiltate, ov' Maria. ~Secondo cominciamento~... Era venuta ne la mente mia quella donna gentil cui piange Amore. Entro 'n quel punto che lo suo valore vi trasse a riguardar quel ch'eo facia. Amor che ne la mente la sentia, s'era svegliato nel destrutto core, e diceva a' sospiri: Andate foreW; per che ciascun dolente si partia. Piangendo uscivan for de lo mio petto con una voce che sovente mena le lagrime dogliose a li occhi tristi. Ma quei che n'uscian for con maggior pena, venian dicendo: Oi nobile intelletto, oggi fa l'anno che nel ciel salistiW. videro li occhi miei... Videro li occhi miei quanta pietate era apparita in la vostra figura, quando guardaste li atti e la statura ch'io faccio per dolor molte fiate. Allor m'accorsi che voi pensavate la qualit de la mia vita oscura, s che mi giunse ne lo cor paura di dimostrar con li occhi mia viltate. E tlsimi dinanzi a voi, sentendo che si movean le lagrime dal core, ch'era sommosso da la vostra vista. Io dicea poscia ne l'anima trista: Ben con quella donna quello Amore lo qual mi face andar cos piangendoW. color d'amore... Color d'amore e di piet sembianti non preser mai cos mirabilmente viso di donna, per veder sovente occhi gentili o dolorosi pianti, come lo vostro, qualora davanti vedtevi la mia labbia dolente; s che per voi mi ven cosa a la mente, ch'io temo forte no lo cor si schianti. Eo non posso tener li occhi distrutti che non reguardin voi spesse fiate, per desiderio di pianger ch'elli hanno: e voi crescete s lor volontate, che de la voglia si consuman tutti; ma lagrimar dinanzi a voi non sanno. l'amaro lagrimar...

L'amaro lagrimar che voi faceste, oi occhi miei, cos lunga stagione, facea lagrimar l'altre persone de la pietate, come voi vedeste. Ora mi par che voi l'obliereste, s'io fosse dal mio lato s fellone ch'i' non ven disturbasse ogne cagione, membrandovi colei cui voi piangeste. La vostra vanit mi fa pensare, e spavntami s, ch'io temo forte del viso d'una donna che vi mira. Voi non dovreste mai, se non per morte, la vostra donna, ch' morta, obliareW. Cos dice 'l meo core, e poi sospira. gentil pensero... Gentil pensero che parla di vui, sen vene a dimorar meco sovente, e ragiona d'amor s dolcemente, che face consentir lo core in lui. L'anima dice al cor: Chi costui, che vene a consolar la nostra mente ed la sua vert tanto possente, ch'altro penser non lascia star con nui?W Ei le risponde: Oi anima pensosa, questi uno spiritel novo d'amore, che reca innanzi me li suoi desiri; e la sua vita, e tutto 'l suo valore, mosse de li occhi di quella pietosa che si turbava de' nostri martriW. lasso!... Lasso! per forza di molti sospiri che nascon de' penser che son nel core, li occhi son vinti, e non hanno valore di riguardar persona che li miri. E fatti son che paion due disiri di lagrimare e di mostrar dolore, e spesse volte piangon s ch'Amore li 'ncerchia di corona di martri. Questi penseri, e li sospir ch'eo gitto, diventan ne lo cor s angosciosi, ch'Amor vi tramortisce, s glien dole; per ch'elli hanno in lor, li dolorosi, quel dolce nome di madonna scritto, e de la morte sua molte parole. deh! peregrini... Deh! peregrini che pensosi andate, forse di cosa che non v' presente, venite voi da s lontana gente, com'a la vista voi ne dimostrate, che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la citt dolente, come quelle persone che neente par che 'ntendesser la sua gravitate. Se voi restaste per volerlo audire, certo lo cor de' sospiri mi dice che lagrimando n'uscireste pui. Ell'ha perduta la sua beatrice; e le parole ch'om di lei p dire hanno vert di far piangere altrui. oltre la sfera...

Oltre la sfera che pi larga gira, passa 'l sospiro ch'esce del mio core: intelligenza nova, che l'Amore piangendo mette in lui, pur s lo tira. Quand'elli giunto l dove disira, vede una donna che riceve onore, e luce s che per lo suo splendore lo peregrino spirito la mira. Vedela tal, che quando 'l mi ridice, io no lo intendo, s parla sottile al cor dolente che lo fa parlare. So io che parla di quella gentile, per che spesso ricorda Beatrice, s ch'io lo 'ntendo ben, donne mie care. TRASCRIZIONE ELETTRONICA, PER I NON VEDENTI, A CURA DI EZIO GALIANO. DANTE ALIGHIERI. dalle Rime. (Guido, i' vorrei...). Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel che ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, s che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse il disio. E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch sul numer delle trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d'amore, e ciascuna di lor fosse contenta, s come i' credo che saremmo noi. (Deh, Violetta..). Deh, Violetta, che in ombra d'Amore negli occhi miei s subito apparisti, aggi piet del cor che tu feristi, che spera in te e disiando more. Tu, Violetta, in forma pi che umana, foco mettesti dentro in la mia mente col tuo piacer cho vidi; poi con atto di spirito cocente creasti speme, che in parte mi sana l dove tu mi ridi. Deh, non guardare perch a lei mi fidi ma drizza li occhi al gran disio che m'arde, ch mille donne gi per esser tarde sentiron pena de l'altrui dolore. (Deh peregrini..). Deh peregrini che pensosi andate, forse di cosa che non v' presente, venite voi da s lontana gente com'a la vista voi ne dimostrate, che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la citt dolente, come quelle persone che neente par che 'ntendesser la sua gravitate? Se voi restaste per volerlo audire, certo lo cor de' sospiri mi dice

che lagrimando n'uscireste pui. Ell'ha perduta la sua beatrice e le parole che om di lei p dire hanno vert di far piangere altrui. (Sonar bracchetti..). Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare, lepri levare ed isgridar le genti, e di guinzagli uscir veltri correnti, per belle piagge volgere e imboccare assai credo che deggia dilettare libero core e van d'intendimenti. Ed io, fra gli amorosi pensamenti, d'uno sono schernito in tale affare, e dicemi esto motto per usanza: "Or ecco leggiadria di gentil core, per una s selvaggia dilettanza lasciar le donne e lor gaia sembianza. Allor, temendo non che senta Amore, prendo vergogna onde mi ven pesanza. (Cos nel mio parlar voglio esser aspro). Cos nel mio parlar voglio esser aspro com' ne li atti questa bella petra la quale ognora impetra maggior durezza e pi natura cruda, e veste sua persona d'un diaspro tal che per lui, o perch'ella s'arretra, non esce di faretra saetta che gi mai la colga ignuda, ed ella ancide e non val che om si chiuda n si dilunghi d colpi mortali, che, com'avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascunarme: s cho non so da lei n posso atarme. Non trovo scudo ch'ella non mi spezzi n loco che dal suo viso m'asconda: ch, come fior di fronda, cos de la mia mente tien la cima. Cotanto del mio mal par che si prezzi quanto legno di mar che non lieva onda, e 'l peso che m'affonda tal che non potrebbe adequar rima. Ahi angosciosa e dispietata lima che sordamente la mia vita scemi, perch non ti ritemi s di rodermi il core a scorza a scorza com'io di dire altrui chi ti d forza? Ch pi mi triema il cor qualora io penso di lei in parte ov'altri li occhi induca, per tema non traluca lo mio penser di fuor s che si scopra, ch'io non fo de la morte, che ogni senso co li denti d'Amor gi mi manduca: ci che il pensier bruca la lor vertu, s che n'allenta l'opra. E m'ha percosso in terra, e stammi sopra con quella spada ond'elli ancise Dido, Amore, a cui io grido merz chiamando, e umilmente il priego: ed el d'ogni merz par messo al niego. Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida

la debole mia vita, esto perverso che disteso a riverso mi tiene in terra d'ogni guizzo stanco: allor mi surgon ne la mente strida; e il sangue, ch' per le vene disperso, fuggendo corre verso lo cor, che il chiama; ond'io rimango bianco. Elli mi fiede sotto il braccio manco s forte che il dolor nel cor rimbalza; allor dico: S'elli alza un'altra volta, Morte m'avr chiuso prima che il colpo sia disceso giuso. Cos vedess'io lui fender per mezzo lo core a la crudele che il mio squatra; poi non mi sarebb'atra la morte, ov'io per sua bellezza corro: ch tanto d nel sol quanto nel rezzo questa scherana micidiale e latra. Om, perch non latra per me, com'io per lei, nel caldo borro? ch tosto griderei: Io vi soccorro; e fareil volentier, s come quelli che ne' biondi capelli che Amor per consumarmi increspa e dora metterei mano, e piacere'le allora. S'io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille: e non sarei pietoso n cortese, anzi farei com'orso quando scherza e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di pi di mille. Ancor ne li occhi, ond'esccon le faville che m'infiammano il cor, che io porto anciso, guarderei presso e fiso, per vendicar lo fuggir che mi face, e poi le renderei con amor pace. Canzon, vattene dritto a quella donna che m'ha ferito il core e che m'invola quello ond'io ho pi gola, e dlle per lo cor d'una saetta: ch bell'onor s'acquista in far vendetta. tanto gentile... Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umilt vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mstrasi s piacente a chi la mira, che d per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender no la pu chi non la prova: e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: Sospira!W seguono commenti su dante e le sua opere...

TRASCRIZIONE ELETTRONICA, PER I NON VEDENTI, A CURA DI EZIO GALIANO. DANTE ALIGHIERI. da LA VITA NOVA. Nacque a Firenze nel maggio 1265 da nobile famiglia guelfa che contava fra gli antenati un Cacciaguida, cavaliere crociato morto in Terrasanta nel 1147. Dante era ancora fanciullo quando gli mor la madre Bella, e non aveva ancora vent'anni quando perdette il padre, Alighiero secondo. Fece i suoi primi studi presso i francescani di Santa Croce e pot in seguito trarre profitto dalle dotte conversazioni di Brunetto Latini, letterato e cancelliere fiorentino. Fu amico, fra gli altri, di Guido Cavalcanti . All'et di nove anni - ed entriamo qui nel suo racconto allegorico incontr una bambina a nome Beatrice, morta poi giovanissima nel 1290. Essa fu l'ispiratrice di gran parte della sua poesia. Nel 1289 Dante combatt a Campaldino contro i ghibellini di Arezzo e assistette, nel medesimo anno, alla resa del castello pisano di Caprona. Dopo la morte di Beatrice, superato un periodo di traviamento, studi filosofia e si iscrisse a una delle Corporazioni delle Arti (quella dei Medici e Speziali), che poteva permettergli di partecipare alla vita pubblica. Probabilmente nel 1295 spos Gemma Donati, da cui ebbe sicuramente tre figli, Pietro Jacopo e Beatrice. Dante, per tradizione familiare, era guelfo. Nel travagliato periodo delle lotte civili fu eletto Priore (1300). Il priorato decr et il bando da Firenze dei capi dei due partiti rivali (i bianchi e i neri), succeduti a quelli tradizionali dei guelfi e dei ghibellini. Dante si schier per la parte bianca. Le contese non terminarono. Sicch i Neri ricorsero all'aiuto di papa Bonifacio ottavo, che invi con l'apparente compito di paciere Carlo di Valois. Forti di questo intervento, i Neri si impadronirono del potere. Cominciarono le proscrizioni. Dante, che si trovava in viaggio di ambasceria presso il pontefice, nel ritornare, apprese che era stato esiliato (1302). Cominci di qui il lungo periodo dell'esilio e delle peregrinazioni presso corti e citt. Fu ospitato, prima, dai signori della Scala a Verona, poi in Lunigiana dai marchesi Malaspina, sempre sperando che l'imperatore Arrigo settimo di Lussemburgo calasse in Italia per rimettere ordin e. Ma nel 1313 Arrigo, dopo un vano tentativo di riconquista dei comuni, mor e le speranze di Dante caddero definitivamente. Poco dopo si rec in quel di Lucca presso Uguccione della Faggiola, e poi nuovamente a Verona da Cangrande della Scala. Gli ultimi anni li trascorse a Ravenna, ospite di Guido Novello. E proprio in viaggio di ambasceria da parte di quel signore fu colto da malattia, e non appena tornato a Ravenna, il 14 settembre 1321, si spense. Fra le opere minori di Dante scritte in volgare, sono la Vita nuova, raccolta di poesie e di prose che formano il romanzo giovanile dell'amore di Dante per Beatrice; le Rime (amorose, morali, satiriche e bizzarre), seguir il Convivio, scritto tra il 1304 e il 1307, di alta divulgazione dottrinaria, Dante scrisse soltanto i primi quattro dei quindici trattati previsti, dosando le canzoni sue pi importanti. Per quanto riguarda le opere in latino, oltre il De Monarchia, dove sono espress e le sue considerazioni politiche, in rapporto anche alla discesa dell'imperatore, si ricorder il De Vulgari Eloquentia, trattato di retorica in cui il poeta cerca al di sopra delle parlate locali i principi universali del linguaggio poetico, e inoltre la Quaestio de aqua et terra, le Epistole, le Ecloghe. La sua opera maggiore, e al tempo stesso una delle sommit della

poesia universale, la Commedia, chiamata poi Divina da Giovanni Boccaccio. /:/ La Vita nuova. Ad intender nella sua precisa cornice storica il libretto giovanile di Dante, occorre ricollegarlo, com' naturale, al movimento poetico dello stil nuovo : e questo, a sua volta, s'intreccia per mille legami a tutta la letteratura dei secoli di mezzo, e non solo d'Italia, com' noto. Ricollocata l'opera nel suo ambiente e nei suoi tempi, mille cose che prima parevan stranezze e misteri inesplicabili si fan limpide e chiare e naturali agli occhi dello studioso. Senonch proprio questa necessaria e tutt'altro che facile preparazion storica fa difetto alla maggior parte degli interpreti: n basta sempre l'intelligenza e la dottrina: occorre anche talora sapersi trasportare in un punto visivo che estraneo al nostro mondo e alle nostre abitudini moderne. D'altronde s' visto, specie in tempi romantici, che un siffatto distacco (e quindi un pi sereno intendimento della Vita nuova) riusciva, meglio che agli eruditi e ai critici, ai giovani innamorati non del tutto digiuni di buone lettere. Nei secoli del Medioevo, per l'influsso essenzialmente della nuova civilt cristiana, che insegna ed impone agli uomini una pi assidua attenzione ai fatti della coscienza, si elabora a poco a poco un sistema di complicate indagini psicologiche, nel quale, insieme con i risultati delle analisi compiute in questo campo dagli Ebrei, dai Greci, dai Latini, dagli Arabi, vengono a confluire il rigore logico e il gusto delle distinzioni sottili degli scolastici, la passione speculativa dei mistici, le lmmagini e le formule dei poeti antichi e recenti, la ricca e varia esperienza degli uomini, e massime di quelli--studiosi e letterati-dotati d'una maggiore sensibilit affettiva. Questo sistema costituito da un patrimonio, complesso ed eterogeneo, di definizioni e di divisioni, di paragoni e di riferimenti; il quale non rimane ristretto ai dotti, bens diventa a poco a poco, sia pure in modo inconsapevole e non senza confusione, bene pubblico: e gi ai tempi di Dante era largamente diffuso anche in ambienti di non raffinata cultura. Questo lavoro di indagine psicologica, portato nei terreni pi diversi e lontani, acquista un pi singolare rilievo e diviene oggetto di una curiosit pi estesa e varia quando s'attacca a studiare e definire la passione di amore. Si muove dapprima, in questo campo, dai libri notissimi di Ovidio, che vengono tradotti discussi commentati a pi riprese: ma il cristianesimo aveva introdotto nella storia un nuovo concetto della charitas che, pur distinto in s e nella sua nobilt dall'amore terreno ed umano, si svolgeva con forme e modi paralleli ed analoghi al processo di sviluppo di quello. Donde da un lato, nei filosofi e nei mistici, il vezzo d'adoperare le espressioni della passione pi sensuale e carnale per descrivere le esperienze e i concetti dello spirito; e dall'altro lato, nei letterati e ni poeti, quello di trasportare alle loro umane vicende frasi e soprattutto il tono di passione ardente ma rarefatta dei libri mistici. La storia di questa fusione e dello sviluppo d'un concetto insieme umano e divino assai complessa ed intricata ed implica la conoscenza d'una mole immensa di scritti, che vanno dalle traduzioni e dai rifacimenti dell'Ars amatoria ai trattati d'amore, alle opere dei filosofi, dei vittorini, dei francescani, alla poesia erotica e mistica di tutta l'Europa occidentale fino al Petrarca. storia comunque ancor quasi tutta da fare, n possibile altro qui se non dare al lettore un'idea almeno della sua verit e della sua importanza. Negli ultimi provenzali, come ha mostrato in alcuni studi notevolissimi il De Lollis, il concetto d'amore diviene oggetto d'uno studio pi alto e sottile: s'insiste da essi soprattutto sull'influsso del sentimento amoroso, in quanto esso eleva moralmente e raggentilisce e

nobilita gli animi che ne son tocchi. Da questi poeti derivano, attraverso il Guinizelli, gli scrittori del dolce stil nuovo : i quali si staccano consapevoli e risolutamente da tutte le grossolanit della pi vecchia maniera e, poggiati sul fondamento d'una cultura pi ampia e raffinata, trovano, nel campo della psicologia, distinzioni pi sottili, definizioni pi delicate. L'analisi delle vicende d'amore, che nei poeti anteriori era tutta intrinseca o quasi, disgregata e frammentaria, espressa per mezzo d'immagini esteriori ed inadeguate, diventa con i poeti del dolce stil nuovo pi intima, coglie con maggior immediatezza la realt dell'animo, trova immagini pi incorporee ed aeree pi tenui e fragili, meglio aderenti al contenuto tutto spirituale che esse vogliono esprimere. proprio questo carattere d'interiorit che ha tratto molti critici in inganno. Si direbbe che essi abbiano dimenticato che l'amore , infine, un sentimento, un fatto dello spirito, come gi sapevano i lirici della scuola siciliana del Dugento, e non solo un contatto corporeo sensuale: e che propria veramente dell'amore (se pur non ne costituisce l'essenza) quella funzione di elevamento morale, di raggentilimento dei costumi, su cui si soffermarono, in modo speciale e quasi esclusivo, i poeti del dolce stil nuovo ), e `della quale molto pi tardi doveva discorrere in maniera non troppo diversa, in un suo canto celebre, Giacomo Leopardi. Guardando quelle donne tutte angeliche e spirituali, i critici cui accennavo danno sfogo al loro scetticismo pi povero e grossolano e non tentano neppure di rievocare i ricordi degli anni giovanili, che pure potrebbero insegnar loro molte cose. Soprattutto non badano che i poeti fiorentini della fine del Dugento mirano piuttosto ad esprimere l'influsso della donna, e ancor pi dell'amore in s, sul loro animo, che non a lasciarci dell'amata un ritratto pi o meno verosimile: e questo ritratto delineano se mai soltanto in modo indiretto, attraverso il dramma spirituale, com' proprio d'altronde d'una pi alta poesia, che non sa contenersi nei limiti d'una mera descrizione esteriore. Centro di questo mondo lirico dialtronde non la donna, di cui si esalta l'azione beatifica e purificatrice, bens il poeta stesso con la sua singolare esperienza fatta di alte gioie e di angoscie profonde, di esultanza solitaria e di segreta tristezza. In un certo senso anche noi, giunti a questo punto, potremmo chiamar simboli le donne degli stilnovisti, nelle quali la creatura terrena cos pallida e lontana: simboli non per d'alcunch d'esterno e diverso, bens della potenza stessa d'amore: idee vagheggiate e accarezzate nella mente, quasi sintesi d'una nuova e migliore condizione della coscienza. Il poeta stesso in qualche modo anche lui un simbolo: rappresenta l'uomo su cui la passione damore opera perfezionandolo moralmente. E intorno a lui e alla donna--creature a mezzo tra l'allegoria e la realt--si muovon le minori personificazioni: Piet, Mercede, la coorte degli spiritelli. Questi gli schemi (talora artificiosi e monotoni) attraverso i quali s'esprime questa poesia psicologica. Schemi non diversi nella sostanza, se pur lontanissimi nelle forme, da quelli cui obbediscono i letterati moderni: e necessari in qualche modo anche, come quelli che costituiscono l'atmosfera rarefatta e irreale, di cui una tal poesia aveva bisogno per nascere e vivere. Anche la Vita nuova un'espressione poetica del dolce stile. E non , neppure nella sua forma estrinseca di narrazione ordinata e compiuta d'una storia d'amore, qualcosa di molto singolare e nuovo. (Non sarebbe difficile infatti elencare altri esempi consimili nella letteratura del Dugento). Non pu quindi essere interpretata senz'altro veristicamente, quasi fosse la trascrizione precisa e documentabile di un brano di realt vissuta. Ma neppure il caso di chiuder gli occhi alle chiare e sicure testimonianze che ci additano una sostanza di verit alle origini e nel nucleo essenziale del racconto. Gli stessi artifi:

ci retorici e dottrinali, la pesantezza medesima--astratta e numerica--dei simboli, ci mostrano lo sforzo durato dal poeta per trasportare un episodio della sua vita sul piano diverso e pi alto, se non della poesia, almeno della letteratura. Ne risulta un contrasto pi accentuato, un pi stridente gioco di luce e di ombra, fra` gli episodi e i particolari desunti dall'esistenza comune e quotidiana da un lato, e dall'altro le visioni, i dialoghi tra le facolt dell'animo, le dissertazioni didascaliche, i complicati giochi numerici per fissare la data di questo o quell'evento. Alle radici del romanzo sta di certo un nucleo umano, ed anzi autobiografico; senonch Dante, all'uso de' suoi tempi, non ha voluto offrircelo nella sua immediata e grezza realt e neppure ha saputo farlo diventare poesia senz'altro senza passare per la strada della letteratura. Anzi tutto si deve tener conto del fatto che egli un giovane e l'arte sua ancora agli inizi; e poi, cosa di solito dimenticata o ignorata dai pi, che egli si trova a vivere in tempi di letteratura raffinata e colta, sottile e non priva di pedantetia. La storia del suo amore prende perci, nella Vita nuova, aspetto tipico e generale, assoluto e filosofico: diventa la descrizione della vicenda d'amore in se stesso, degli effetti che quel sentimento produce nell'animo dell'amante, della trasformazione morale che vi opera. Inoltre l'esperienza del giovane Dante era stata troncata tragicamente dalla morte della donna: e forse proprio in conseguenza di questa morte o forse anche per influssi anteriori, dopo un periodo di smarrimento e di angoscioso brancolare, egli aveva sentito crescere nel suo animo quella vigorosa potenza di fede, che doveva costituire poi la sostanza pi intima della sua vita e della sua poesia. Perci il romanzo dell'amor perfetto, che in altri stilnovisti umano e drammatico, prende in lui quel caratteristico colore religioso, quell'intonazione celeste che tutti sanno. L'uomo toccato dall'amore ne deriva anzitutto un miglioramento generale, un'elevazione dei costumi, una nuova gentilezza dell'animo: cui corrisponde d'altro canto un affinamento e struggimento fisico. Senonch egli preso dapprima da rispetto umano: teme i discorsi altrui, teme di mostrare agli altri la sua nuova, pi nobile ma anche pi strana, coscienza: e intanto cerca di persuadersi che necessario che la sua passione rimanga occulta perch non sia deformata e avvilita dai contatti esterni: donde l'episodio delle donne-schermo. Liberatosi da codesti infingimenti e rinunziato ad ogni contatto esteriore, e persino al saluto, l'amante--nella sua platonica solitudine--tocca, insieme con un profondo dolore, una altezza spirituale e morale mai raggiunta; che si rispecchia nella canzone della lode. Ma interviene la morte della donna: momento di paurosa angoscia, dal quale l'innamorato esce dapprima smarrito ed incerto: cerca un rifugio di consolazione, di piet: la Donna Gentile. Poi, allontanandosi nel tempo la data dolorosa, incomincia a riflettere su se stesso, a prender chiara coscienza di ci che gli avvenuto, a intenderne il significato pi alto e segreto. Allora s'avvede che non la presenza della donna, e neppur la sua immagine reale, o anche solo la lode di lei come donna, il contenuto pi profondo del sentimento che ha trasfigurato tutta la sua vita. Il sentimento palpito in s puro e infinitamente vasto, che sussiste, esaurite anche tutte le condizioni esteriori tra le quali e per le quali pareva esser nato. La donna ormai una santa nel cielo--essa che parve angelo in terra. E al cielo si rivolge, con il suo amore purificato, l'amante che, mosso dalla passione terrena, giunto in modo misterioso ed esemplare al sommo apice della chartas divina. [...] Sotto gli schemi un p rigidi del trattato dell'amor perfetto , troveremo un dramma umano, che di tutti i tempi: finch almeno vi saranno al mondo giovani con i loro amori vergini e contemplativi, e purificazioni e conversioni nate dall'angoscia e dalla morte. A suo

modo dunque anche la Vita nuova , come il Convivio, un'opera didattica: nella quale per allegoria e spiegazione, parola e insegnamento sono strettamente e stranamente fusi e quasi forman tutt'uno Non la storia di Beatrice, n il suo ritratto umano, dovremo cercarvi E se la donna ci parr troppo lontana, e le linee della sua figura pallide ed incerte, dovremo pensare che la vediamo sempre soltanto indirettamente, nello specchio vivo e mobile in cui l'ombra di lei si riflette. Personaggio centrale del romanzo il poeta che racconta la sua angoscia tormentosa e la difficile conquista della sua purezza. E tutto il romanzo vuol essere interpretato cos (a quel modo stesso che ogni altra opera del dolce stil nuovo ) come un tentativo di sottile complicata e raffinata psicologia. Qualcosa che sta a mezzo tra la vita e la letteratura, tra la poesia e la scienza: della vita e della poesia tengon gli slanci sinceri, pur nella loro delicata fralezza, del sentimento; alla letteratura, alla scienza si debbono invece gli schemi esteriori, i simboli, e, pi in generale, l'atmosfera un p trasognata ed astratta, nella quale il dramma si svolge, rimanendone alquanto deformato e sommerso. Solo da un punto di vista siffatto possibile dare della Vita nuova una valutazione estetica positiva: mentre un critico realista dovr alla fine riconoscerla povera ed insufficiente secondo il suo gusto; e il mistico e il simbolista poi escludono a priori, sia pure inconsapevolmente, ogni valore di poesia. Invero la Vita nuova non tutta una lirica compatta ed omogenea e neppur soltanto un gioco allegorico e didascalico: opera complessa e multiforme, nella quale la poesia vivace e calda spesso si trova accanto ad una prosa ancora ampollosa e squallida, la sincera espressione degli intimi affetti erompe con difficolt attraverso il gergo manierato del giovane poeta ancor sottomesso ed impacciato dalle regole della sua scuola. Cosicch non hanno avuto torto quei critici (tra i quali, con maggior chiarezza, il Croce) che hanno sentito nel romanzo qualcosa di artificioso, d'immaturo, d'acerbo: e hanno quindi posto tra esso e la Commedia un profondo distacco. E veramente, se al maggior poema la Vita nuova si riattacca per l'animo religioso che gi la pervade, ne lontanissima come opera di poesia. L'arte del dolce stil nuovo , cui essa appartiene (insieme con tutte le altre correnti della lirica interiore--amorosa e mistica--del Medioevo) sulla strada che conduce all'analisi complicata e raffinatissima del Petrarca: ma la Commedia rimane al di fuori di questa linea, e pi in alto. Occorre distinguere ancora pi da vicino, nel senso stesso del libro, le parti scritte in versi da quelle in prosa. Le prime ci offrono, in confronto delle altre, una rappresentazione pi immediata degli stati sentimentali che le hanno ispirate. Non del tutto immediata per: perch gi in esse gli affetti s'esprimono secondo i modi e le formule della scuola poetica, cui Dante aderiva. Tuttavia esse furono concepite, le pi almeno, ciascuna a s, senza idea di legame e continuit con le altre, all'infuori d'ogni velleit preconcetta d'inquadramento sistematico Perci sono unite ancora per mille vincoli alla realt umana donde son mosse, e contengono particolari inutili od estranei allo schema narrativo quale fu poi fissato nella prosa. La quale invece stata immaginata e scritta tutta ad un tempo, secondo un piano definito chiaro e fermo. In essa perci, all'atmosfera astratta e di sottile psicologia caratteristica del dolce stil nuovo , s'aggiunge anche il proposito dimostrativo e didattico: cosicch essa, ed essa sola, costituisce la trama logica ordinata e compatta, ma anche un p astratta e talora pedantesca, del romanzo. Il che non toglie che essa contenga brani di poesia nuova [...], brani nei quali il primo abbozzo lirico d'una canzone o d'un sonetto s'illumina d'una luce pi raffinata e pi intensa, sotto l'influsso della nuova e pi chiara coscenza che il poeta ha acquistato della sua vicenda d'amore. In questo senso si

pu e si deve dire che la parte scritta in prosa rappresenta un pi alto grado di maturit umana, e in qualche modo anche poetica: ed essa infine che d il tono all'opera tutta, creando quel clima mistico e devoto, quell'atmosfera di chiusa e singolare esaltazione, che tutti pi o meno i lettori debbono avervi sentito. Poesia s certamente: ma tale da richiedere in chi legge uno stato d'animo speciale, una singolare comunione di sentimenti, una attitudine di commosso rapimento: poesia delicata e fragile tanto che a toccarla con mano men che leggera, c' pericolo di vederla subito gualcirse appassire. NATALINO SAPEGNO: Da La Vita nuova di Dante , in Pegaso, secondo (1930). /:/ La lingua di Dante. Dante teorico [...] saldamente legato al mondo nel quale la cultura italiana e la fiorentinit si erano venute svolgendo. Firenze non ha ancora n pretesa n potere di dettar legge in materia di lingua. Ma se la sua tesi del volgare illustre non significa un superamento e una sintesi di dialetti, non rappresenta nemmeno un passaggio a un riconOScimento del fiorentino per ragioni che fossero diverse dalle storico-culturali. Si pu certo dire che la Divina Commedia una commedia e non tragedia n canzone. Sta di fatto che la sua lingua, come ha dimostrato N. Zingarelli in un lavoro fondamentale, il fiorentino, che accoglie i latinismi, gallicismi e dialettismi italiani pet ragioni che non sono affatto quelle di renderlo pi elevato: forme condannate nel De vulgari eloquentia come i barbarismi pisani in -onno, appaion, nientemeno, nel Paradiso (ventottesimo, 15): ...terminonno ; volgarismi fiorentini come manicare, introcque per mangiare e intanto nell'Inferno (trentatreesimo, 60 S.) ... pensando che i'l fessi per voglia / di manicar ; (ventesimo, 130): s mi parlava ed andavamo introcque . Ma i latinismi come appropinquare, cernere, digesto, igne non arrivano a cinquecento e sono quasi sempre giustificati da ragioni tecniche o stilistiche. I gallicismi come masnada, miraglio, vengiare sono poche decine. I dialettismi come brolo per orto e burlare per cadere dal settentrione, o sorpriso dal meridione sono ancor meno. Tutti insieme non giustificano l'imagine n di una lingua di Dante sopradialettale n di accoglimenti occasionali e bizzarri. La Divina Commedia scritta in fiorentino. Dante si dunque contraddetto . Ma la contraddizione, che infirma l'argomentazione logica, non ha nessun pesosul terreno estetico e storico-culturale Nello scrivere la Divina Commedia, Dante non ha agito in quanto teorico della lingua, ma in quanto artista, che nello strumento linguistico fiorentino ha trovato una realizzazione pi adeguata per le sue intuizioni. Felice contraddizione che ci risparmia di misurare artifici e complicazioni di una poesia scritta in volgare illustre, sottomessa a regole esteriori, quasi oggi, da un sostenitore di una lingua internazionale, si aspettasse per coerenza un'opera di poesia scritta in esperanto se non in basic english. Le condizioni storico-politiche che mutano definitivamente la posizione di Firenze corrispondono ai due primi decenni della vita di Dante. Si capisce che la capacit di espansione di Firenze risale al dodicesimo secolo, dalla morte della contessa Matilde nel 1115 agli inizi della sottomissione del contado nel 1197. Sta di fatto che dopo la sconfitta di Montaperti nel 1260 per opera dei Senesi ghibellini, gli avvenimenti determinanti sono stati la rivincita sui Senesi a Colle nel 1267, la sconfitta dei Pisani per opera dei Genovesi alla Meloria nel 1284, la vittoria fiorentina di Campaldino sugli Aretini nel 1289.

Le condizioni storico-culturali si verificano subito dopo. Nelle arti, S. M. Novella si inizia nel 1278. Nel campo delle lettere la prosa del Boccaccio salda la tradizione latineggiante con la giovane fiorentina e affianca al modello dantesco un tronco di tradizione prosastica solido e insieme suscettibile di svolgimento ordinato. Il nobilitarsi del fiorentino appare nella sua grandezza se si pensa che nelle carte commerciali, a mezzo il secolo quattordicesimo, compaiono barbarismi toscani che in quelle del tredicesimo erano assenti. Questo perch, come mi suggerisce A. Castellani, lo spazio vitale fiorentino si dilatato al punto da accogliere nelle carte d'affari formule caratteristiche di persone in maggioranza provinciali. Nel secolo tredisecimo i barbarismi erano imposti da un prestigio qualitativo che veniva di fuori, nel quattordicesimo dal peso numerico di classi inferiori. Le osservazioni del Bembo alla fiorentinit di Dante non sono fondate. La fiorentinit ha significato per Dante aderenza al suo tempo in una forma che due secoli dopo si ritrovava superstite nel solo contado, non pi nella metropoli, per lo stesso motivo: la metropoli, aperta a tutte le correnti spirituali e perci linguistiche del periodo d'oro della nostra cultura, si disfa di tutto quello che s genuino, ma pu apparire a un certo momento come zavorra grossolana, resto di situazioni e ambienti tramontati facile dunque definire nei manuali l'italiano come il fiorentino elevato a dignit di lingua letteraria per le sue virt intrinseche nell'ambito dei dialetti italiani, quasi si trattasse di un fatto prevedibile, automatico, fatale. Vorrei invece aver sgombrato il terreno da questi formalismi e da questi semplicismi e aver mostrato un travaglio: il dramma di una tradizione linguistica universale come la latina, isolata in Etruria, e, all interno dell'Etruria, solcata da forze centrifughe, isolata in Firenze, non per prestigio, ma per povert e lontananza dalle grandi strade. Dopo di che, raddrizzate le cose da un punto di vista politico, dall'opera di un uomo del vecchio mondo, Dante, ha potuto prender principio una tradizione nuova, quella che durata secoli, quella che ci permette oggi, italiani di tutte le regioni d'Italia, nel nome di Firenze e del suo pi grande cittadino, di intenderci. GIACOMO DEVOTO: Da Dalla lingua latina alla lingua di Dante , in Storia della civilt fiorentina. Il Trecento, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 51-53. /:/ La romanicit del linguaggio dantesco. La poesia della Commedia si qualifica nel linguaggio, che d la consistenza delle cose reali, disegno, rilievo, prospettiva, luci, ombre alla mirabile fantasmagolla di immagini, paesaggi e idee, che si displega di canto in canto. [...] Tutta l'opera, nelle notazioni particolari e nel simbolismo concettuale delle immagini, nelle figure verbali, nelle esposizioni dottrinrie, in tutto il congegno rappresentativo del veduto , si integra in un linguaggio unitario, in un unico stile, il cui carattere dominante costituito da una fedelt al reale, cos piena e compiuta da postulare una tipica forma della mente, la quale riesce a configurare l'invisibile con la stessa nettezza ed evidenza del visibile. Se si considera l'arte di Dante nei rapporti`e legami con le arti del suo tempo, ci si svela una fondamentale comunione di atteggiamenti interiori, i quali caricano di significati le rappresentazioni particolari. La forma interna della poesia dantesca , certo, assai affine a quella che anima i vari aspetti dell'arte romanica. Nessuno dubita che l'essenzialit del linguaggio della Commedia e la carica simbolica del

segno sono sulla stessa linea del realismo simbolico, che costituisce il modo di vedere e di esprimere proprio di tale arte. , certamente, romanica l'istanza di verit che compenetra le pi audaci e libere creazioni fantastiche, s che la cosa rappresentata (il giudice Minosse che sta orribilmente con il grande corpo e la coda smisurata all'ingresso dell'Inferno, o Matelda che va cogliendo fiori per i prati del paradiso terrestre in un'aurea di primavera), pi che rappresentata, presente . Le figure della Commedia, come quelle della scultura romanica, ignorano una distinzione di verit fra il reale esperito e quello fantastico, poich il vedere con gli occhi della mente non meno vero di ci che gli occhi possono vedere: la fantasia soltanto il mezzo per guardare nell'invisibile, conoscere ci che al di l della capacit dei nostri sensi; fra il visibile e l'invisibile non c' soluzione, e la fantasia poetica altro non fa se non porre sul piano del sensibile ci che ne lontano, perch sia presente a pari titolo con le cose vedute. La necessit del reale investe come istanza di organicit il creare dantesco, s che nell'opera personaggi, paesaggio, episodi, dati dottrinari, ragionamenti prendono corpo nella struttura del poema, coscome nella basilica romanica le sculture nascono, come suol dirsi, dentro l'architettura, si integrano nel muro, realizzando con esso il significato religioso e morale dell'edificio. La libert con cui l'artista romanico attinge da ogni fonte i mezzi del suo esprimere la stessa libert che informa il linguaggio della Commedia, libero dalle inibizioni implicite nel preziosismo stilnovistico. Come per una vigorosa rivincita della natura sul costume e della poesia sulla poetica, la lingua di Dante si allarga in un poderoso respiro creativo, che investe il diacronico e il sincronico, e non ammette altra limitazione se non quella intrinseca al fine del comunicare. Esperienze sensibili e acquisizioni culturali sono parimente attratte e fuse nel circolo incandescente della creazione poetica, che le plasma come forma di una presenza effettiva di cose e di sentimenti. Il linguaggio di Dante ignora il non funzionale, il superfluo, l'esornativo. La misura del realismo poetico dantesco meglio risulta al confronto con il linguaggio di altri grandi poeti. In quello shakespeariano, ad esempio, metafora, analogia, similitudine coloriscono poeticamente, adornano una realt concreta di personaggi, discorsi ed eventi, la cui esistenza percepibile come ossatura sotto la splendida fioritura delle parole e delle immagini: la realt diventa immagine poetica nell'atto stesso che viene avvolta nella nebbia calda e traslucida del discorso. In Dante, invece, l'immagine gi fatto, racconto; la metafora, la similitudine sono elementi essenziali della narrativa, non distinguibili e non separabili da essa. Esasperando le differenze, potr dirsi che, mentre il barocco del linguaggio shakespeariano assume la materia, il veduto e il pensato, negli spazi iridescenti della fantasia, perch vi si animi di colori poetici, la romanicit di quello dantesco assume il fantastico, l'irreale e l'astratto nello spazio del reale, del concreto, perch si conformi al ritmo vitale delle cose vere. innegabile che nel linguaggio di Dante vi sia una conscia ansia di verit reale e di chiarezza, che costituisce una novit nei confronti dell'arte romanica; vi come un nuovo rispetto della natura nei confronti delle inquietanti deformazioni di quella sorta di fabulistica vegetale, animale e poi umana che popola la decorazione romanica. La fedelt alla figura esplicitamente affermata dal poeta in pi di un luogo; e baster ricordare il senso di angoscia che da lui attribuito a chi guarda le figure umane, contratte e rattrappite, poste dagli architetti a sostegno di capitelli e architravi, Purgatorio,decimo,130 ss.: Come per sostantar solaio o tetto, / Per mensola talvolta una figura / Si vede giugner le ginocchia al petto, / La qual fa del non ver vera rancura / Nascere in chi la vede... . La associazione di natura e arte, su cui il poeta insiste sul piano teorico (cfr. specialmente Inferno, undicesimo, 97 SS. e

Convivio,quarto,nono, 11), cnone valido per il suo creare. C', certo,da chiedersi se in siffatto atteggiamento sia da vedere un'apertura verso la forma interna del gotico, come per solito si ritiene o non piuttosto un avvio o un preludio alle istanze estetiche, che si faranno valere nell'arte e nella cultura dell'et seguente. ANTONINO PAGLIARO: Da Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, MessinaFirenze, D'Anna, 1966, pp. 812-816. /:/ Dante e Guinizelli: novit e continuit. di roncagli... Di donne angeliche formicola gi la poesia italiana anteriore allo stil nuovo . Angelica figura ha la donna del Notaro, angeliche bellezze quella di Mazzeo di Rico, angelico viso quella di Monte Andrea, angelica sembianza ancora quella di Guittone, addirittura sovrangelica sembianza quella di Pucciandone Martelli. Ma il paragone non ha altro significato che materiale; altro non pretende che esaltare la bellezza fisica, corporea, della donna, come evidente nella precisazione di Guittone: Angel de Deo sembrate in ciascun membro. Non c' bisogno di- scendere agli ultimi trovatori perrovare paragoni simili nella poesia provenzale. Gi nell'et d'oro la donna da cui Guglielmo di Saint-Didier attende gioia sembra un angelo del cielo ; mentre allo scanzonato Rambaldo d'Orange il sorriso della donna d maggiore beatitudine che il sorriso di quattrocento angeli, e sembra addirittura il sorriso di Dio. Con la solita intemperanza Peire Vidal va anche pi in l, e paragona la donna direttamente a Dio: Bona domna, Dieu cuig vezer quan lo vostre gen cor remir! La stessa intemperanza si ritrover nei siciliani, per esempio in Rinaldo d'Aquino: S forte mio Dio siete che d'altro paradiso gi mai non metto cura! N Guittone sar da meno: Voi me' Deo sete, e mea vita e mea morte ch, s'eo so 'n terra o 'n mare in periglioso fare, voi chiamo com'altri fa Deo; ma poi in un'altra canzone d'ispirazione pi propriamente moralistico-religiosa, condanner l'irriverente iperbole e intoner una palinodia: O tu, di nome Amor, guerra di fatto, peggio che guerra... ch l'omo perde in te discrezione che el misconosce Dio, e crede e chiama sol Dio la donna che ama. Quanto al Guinizelli, egli non attender nemmeno l'occasione d'una

palinodia, e Si mostrer cosciente dell'irriverenza del paragone nell'atto stesso di ripeterlo: Donna, Deo me dir: Che prosumisti? siando l'anima mea a lui davante Lo ciel passasti, e sino a me venisti, e desti vano amor me per sembiante Dir li por: Tenea d'angel sembianza che fosse del to regno... . In conclusione, l'angelicazione o divinizzazione della donna nella poesia provenzale e nella poesia italiana anteriore a Dante una semplice metafora, senza significato spirituale religioso: e rischia anzi dapparire irriverente alla riflessione degli spiriti pi sinceramente religiosi, proprio perch sovrappone all'immagine profana della donna immagini tratte dal mondo sacro della religione. Questa sovrapposizione n n ha nulla di nuovo n di sorprendente. Il cristianesimo la religione dell'amore e uno stesso vocabolo designa l'amore religioso e l'amore profano. Si pu contrapporre l'amor mundi all'amor Dei, come fa, per esempio, sant'Agostino; si pu distinguere dallo schietto amor l'equivoco amar (che significa insieme amare e amaro ), come fa, per esempio, Marcabruno. Ma la contrapposizione riguarda il diverso oggetto, non l'intrinseca natura della forza spirituale che ad esso si volge. Questa medesimezza di natura, questa identit di vocabolo, permettono in qualsiasi momento la trasposizione metaforica d'immagini dal linguaggio religioso al linguaggio profano, il richiamo etico dall'esperienza profana all'esperienza religiosa. E tutta la tradizione della lirica provenzale solcata da un filone di metafore tratte dal mondo feudale cavalleresco. ipoi del tutto logico e naturale che i poeti borghesi lascino cadere quegli aspetti della metafora feudale che pi non rispondevano a un'esperienza viva, e scavino invece dentro la metafora religiosa. Ma in ci non pu ancora leggersi il segno d'una spiritualizzazione mistica del loro amore e della loro poesia. Dov' dunque la novit del Guinizelli? La sua novit consiste nell'approfondimento intellettuale dello scavo: nell'interpretazione della metafora tradizionale donna-angelo alla luce dell'angelologia teorizzata dai filosofi con l'equazione tra angelo e intelligenza. Come le intelligenze angeliche, la donna ha una funzione attualizzatrice: essa traduce in atto, cio in amore, la potenza del cor gentile. Aveva dunque ragione il Vossler di cercare alla novit del dolce stile dei fondamenti filosofici. La stessa intensificazione dell'elemento visivo, luminoso, cos caratteristica degli stilnovisti, con quelle loro donne che fanno tremar di claritate l'aere , nasce non da una casuale propensione della sensibilit, ma da presupposti concettuali, filosofici. Dietro le immagini luminose ( vedut'ho la lucente stella diana , ed in fra l'altre par lucente sole , che tutta la rivera fa lucere, e ci che l' d'incerchio allegro torna ) c' l'estetica metafisica della luce, che si annette alla poesia della donna-angelo, cos come s'era sposata nella speculazione filosofica al tema dionisiano dell'illuminazione gerarchica delle intelligenze angeliche. Dio luce, e quanto pi si avvicinano a lui, tanto pi le creature sono luminose. Propriissime enim Deus lux est, et quae ad ipsum magis accedunt, plus habent de natura lucis , come dice san Bonaventura. Attraverso lo splendore della loro luce le creature superiori agiscono sulle inferiori. La contemplazione della luce divina nelle intelligenze angeliche il principio motore dei cieli: Splende in la intelligenza de lo cielo Deo creator, pi che a' nostr'occhi il sole: quella li 'ntende so fatto oltra 'l cielo

e 'l ciel volgiando a lui ubidir tole. Solo ci che manca di luce si sottrae a questa influenza: Omne illud quod caret lumine privatum est a ratione influentiae, sicut terra. Ex quo sequitur terram elementorum faecem esse , come dice il Liber de intelligentiis; ed la spiegazione puntuale dei versi guinizzelliani: Fere lo sole il fango tutto il giorno: vile riman. Ma il cuore che ha in s la luce dellgentilezza s'accende alla luce con cui la donna lo irradia: Cosi lo cor, che fatto da Natura esletto, pur, gentile, donna, a guisa de stella, lo innamura. Ci permette anche di precisare meglio in che direzione adano cercati i presupposti filosofici del dolce stil novo . Occorre guardare non tanto alla scolastica tomistica, quanto piuttosto alIa mistica speculativa raccolta dai francescani, con i suoi elementi d'ascendenza neoplatonico-agostiniana. Occorrer pensare in particolare a quell'importante opera, composta in Francia intorno al 1230, che il Liber de intelligentiis o Memoriale rerum difficilium. E si potr fare ancora un altro passo, e ricordare che gli insegnamenti di questo trattato, con la sintesi fra il tema delle gerarchie angeliche e la metafisica della luce, ripresi occasionalmente da san Bonaventura, ispirano tutto il trattato De luce del francescano Bartolomeo da Bologna, che fu maestro di teologia a Parigi e successore di Matteo d'Acquasparta come rettore della scuola teologica bolognese nella seconda met del XIII secolo. Si tratta dunque di motivi che erano d'attualit nella Bologna del Guinizelli, negli ambienti universitari e culturali che egli frequent. Insomma, la chiave dello stil novo dantesco non va cercata a Tolosa, fra gli epigoni del trobadorismo cortese, ma a Bologna, negli ambienti universitari aperti alle novit filosofiche venute di Francia. Va per detto subito che per il fatto d'essere filtrata attraverso l'interpretazione intellettualistica d'uno spirito aperto alla cultura filosofica del tempo, anzich venire accettata superficialmente e ripetuta meccanicamente come per il passato, la metafora della donna-angelo non perde la sua natura di metafora. L'immagine resta immagine e si arricchisce come tale. L'intellettualismo e la cultura del Guinizelli hanno solo una funzione mediatrice tra l'immagine tradizionale e l'immagine nuova, arricchita da nuove risonanze. Checch ne sia stato detto, l'amore cantato dal Guinizelli non spiritualizzato in senso religioso. Non un amore da cui proceda castit e che per sua natura escluda il peccato. Al contrario Guinizelli ha vivissimo sia il senso del desiderio carnale, sia il senso del peccato. Si pensi al sonetto Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo, con quella sua chiusa di slancio ardente, subito seguita dal pentimento: Ah, prender lei a forza, oltra su' grato, e baciarli la bocca e 'l bel visaggio e li occhi suoi che'n due fiamme di foco! Ma pentomi, per che m'ho pensato ch'sto fatto pora portar dannaggio e altrui despiacera forse non poco. Si pensi allo smarrimento del peccato nel sonetto Pur a pensar mi par grameraviglia:

e per credo solo che 'l peccato accieca l'omo e s lo fa smarrire che vive come pecora nel prato. Nessuna meraviglia, dunque, se la stessa metafora della donna-angelo si ripiega di fronte all'esplicito rimprovero divino in un timido tentativo di giustificazione. Come Dio fa beata l'intelligenza che mirando direttamente nella sua luce lo serve, volgendo il cielo, cos la donna dovrebbe dare beato compimento all'innamorato che, illuminato dalla sua bellezza, le manifesta la sua soggezione: fino a questo punto il Guinizelli aveva usato svolgere la metafora tradizionale. Ma subito se ne fa rimproverare da Dio, come di un'audacia eccessiva: Donna, Deo me dir: Che prosumisti? , siando l'anima mea a lui davante, Lo ciel passasti e sino a me venisti e desti in vano amor me per sembiante . L'audacia del paragone non cambia la natura dell'amore, che pur sempre vano amor , affetto terreno. E il tentativo di giustificazione scopre, dietro l'apparente audacia, la sua sostanziale timidezza: Dir li por: Tenea d'angel sembianza che fosse del to regno... . Tenea d'angel sembianza : somigliava a un angelo; ma non dice era un angelo ! Gli spunti offerti dalla poesia guinizelliana sono raccolti in maniera diversa dai diversi stilnovisti. Alcuni, fra i pi tipici, sono raccolti solo da Dante. Ed Dante che dalla canzone Al cor gentil raccoglie il messaggio implicito nel potenziamento intellettuale della metafora, vi avverte l'aspirazione istintiva al passaggio non ancora realizzato dalla metafora alla realt, vi intuisce come in una rivelazione la possibilit di trasferire effettivamente l'immagine dal piano metaforico al piano metafisico. Quella che in Guinizelli era stata soltanto un'ardita comparazione, ardita sino a slSorare l'irriverenza nei confronti della divinit ( e desti in vano amor me per sembiante ), diviene per Dante l'intuizione di una verit superiore ed essenziale ( Beatrice, loda di Dio vera ). Quella che per Guinizelli era soltanto verit ottativa nell'ambito d'una suggestiva analogia ( cos dar dovra al vero la bella donna... : analogamente dovrebbe operare la donna sul cor gentile dovrebbe cio dargli la beatitudine; ma dar dovra , dovrebbe are, non e d ! ) diviene per Dante verit ontologica, metafisica certezza ( Donna di sopra che m'acquista grazia ). Cos egli supera quell insoddisfazione, quell'inquietudine, che il Guinizelli non riusciva, tormentandosene, a superare, e che il Cavalcanti, con irritata malinconia, teorizzava pessimisticamente insuperabile. Vano amore e solo quello che pretenda beato compimento da un bene imperfetto ( che non fa l'uom felice ), e a questo arresta il suo impulso senza guardare oltre, e troppo ad esso s'abbandona . Vano amore e solo quello che non sa riconoscere in se stesso, e non soltanto riconoscere, ma stabilire in uno slancio di tensione mistica, la medesima natura spirituale di quell'amore che muove il sole e l'altre stelle (Felici gli uomini, se il loro animo sar governato dallo stesso amore che governa i cieli: O felix hominum genus Si vestros animos amor quo caelum regitur regat!

cos aveva cantato, fin dalle soglie del Medioevo, Boezio). Vano amore , insomma, soltanto quello che non sa trascendere la donna terrena, la donna che tale rimane anche se abbia d'angel sembianza nella celeste Beatrice, splendor di viva luce etterna . Proprio dal riconoscere che il Guinizelli non aveva saputo compiere questo superamento dell'amore terreno, Dante trae il pretesto strutturale per collocarlo nelle fiamme che purificano i lussuriosi, sull'ultima cornice del Purgatorio; cos come vi colloca il provenzale Arnaldo Daniello, il quale una volta aveva affermato di non conoscere uomo, fosse pure eremita, monaco o chierico, tanto devoto a Dio, quanto lui, Arnaldo, alla donna del suo canto. Ma nel medesimo tempo che segna cos il distacco e la superiorit della propria concezione d'amore, Dante si compiace di sottolineare esplicitamente la continuit della tradizione che lo lega ad Arnaldo e al Guinizelli: e rlconosce ed esalta nel trovatore provenzale il pi grande artista in lingua volgare, il miglior fabbro del parlar materno , quegli che versi di amore e prose di romanzi / super tutti , dunque un insuperato modello di stile; e riconosce e venera nel poeta bolognese il padre suo e degli altri... che mai / rime d'amore usar dolci e leggiadre , il caposcuola dei nuovi poeti, che conseguirono intima musicalit e raffinato sentire perch si mossero a poetare, come lo stesso Guinizelli aveva poetato, con gran diso pensando lungamente / Amor che cosa sia ; pi ancora: il saggio dai cui versi, dal cui approfondimento intellettuale della metafora tradizionale, per la prima volta era balenato a lui, Dante, il raggio della rivelazione poetica, l'intuizione del " salto" decisivo dal piano metaforico al piano metafisico. Questo " salto", questa spiritualizzazione religiosa dell'amore, la novit di Dante e soltanto di Dante, per il quale la poesia diviene cos un impegno totale. I famosi versi che sciolgono il nodo in cui consiste la superiorit dello stil novo rispetto alla poesia precedente --Io mi son un che quando Amor mi spira, noto, ed a quel modo che e' ditta dentro, vo significando-non s'intendono se non si sottintende l'assoluta fede dantesca nella trascendenza dell'ispirazione amorosa, s che l'esercizio della poesia diviene ascesa spirituale ad una contemplazione sempre pi pura dell'essenza d'Amore: quell'Amore da cui muove non la sola poesia, ma tutta la vita morale dell'uomo, tutta la vita dell'universo, dall'istinto delle minime creature fino alla circolazione delle sfere celesti. Forse a qualcuno, abituato all'interpretazione romantica, la quale leggeva in questi versi solo una dichiarazione di sincerit sentimentale, parr strano che dove Dante parla di pi immediata adesione al dettato d'Amore ( io veggo ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette ), si debba pensare a complicazioni d'ordine metafisico Non si tratter di complicazioni escogitate dalla critica e arbitrariamente sovrapposte al senso, in apparenza cos ovvio, delle parole dantesche? Questo dubbio s' fatto strada anche tra i critici dei nostri giorni. Lo ha ripreso e svolto, in modo particolarmente esplicito, Silvio Pellegrini. Secondo le sue conclusioni, il succo della terzina, messo in discorso comune privo di figure e colori retorici, si restringe all'affermazione: " io sono di quelli che, quando sono innamorati, fedelmente manifestano quanto hanno nell'animo ". Nulla pi [ ... ] Dante sembra contrapporre il poetare proprio, inserito nella corrente dell'amore veramente sentito, a un poetare convenzionale d'altri, fra i quali appunto sarebbero il Notaro, Bonagiunta e Guittone . Ma anche quest'ultimo--osserva ancora il Pellegrini--aveva dichia-

rato: " trovare non sa, n valer punto, uomo d'Amor non punto "; e se qualcosa gli si pu rimproverare, di avere coltivato una poesia semmai persino troppo ancorata alla sua esistenza privata [...] Sicch [...] la ripulsa dantesca appare senza fondamento, se presa alla lettera. Il fatto si che [ ... ] la risposta a Bonagiunta priva di valore teorico speciale e non fornisce alcun sussidio atto a determinare il concetto storiografico per cui invalso il nome di dolce stil novo . A me non pare. Mi sembra piuttosto che lo stesso corollario, il quale degrada sul piano banale della rivalit letteraria la ripulsa dantesca della maniera guittoniana, dovrebbe metterci in guardia contro la speciosa fallacia del teorema. Una semplice dichiarazione di maggiore sincerit sentimentale mi sembra, oltre tutto, anacronistica rispetto alle poetiche medievali. Nel quadro della loro storia, l'adesione al dettato d'amore, di cui parla Dante, un'adesione mistica che corona uno sforzo conoscitivo: lo sforzo di chi, avendo meditato lungamente e con gran desiderio sulla natura d'amore, con gran diso pensarldo lungamente / amor che cosa sia , consegue finalmente il premio d una rivelazione e si sente illuminato dalla sua luce, privilegiato dalla sua grazia, posseduto-dalla sua verit. Lo sforzo conoscitivo, il richiamo alla cultura, un presupposto dal quale non si pu prescindere. Se n'era ben accorto, tra i vecchi commentatori, Jacopo della Lana, che proprio all'accoppiamento di natura e scienza riconduce la novit del canto: Quando la natura s'accoppia e congiunge con la scienza, necessario conviene che quello che in tale essere parli diritto, pulito e nuovo... e per segue che il dicitore scienziato, se ello innamorato, dice troppo pi amoroso che li altri . Cos l'interiorit del dettato d'Amore non l'interiorit romantica del sentimento individuale, al limite l'originalit irripetibile e incomunicabile delle esperienze cantate dal moderno solipsismo poetico; e nemmeno si limita ad essere autosufficienza del poeta in-un amore che non pi colloquio, perch rinuncia a chiedere un minimo di corresponsione e soddisfacimento. iinvece l'interiorit dell' homo interior contrapposto all' homo exterior , l'interiorit agostiniana che spalanca le porte della trascendenza alla conquista della verit assoluta. In interiore homine habitat veritas , e in interiore homine habitat amor : nella spiritualit dell' homo interior abita la verit dell'amore: quell'amore vero che si contrappone al vano amor della tradizione trobadorica e guinizzelliana. Che la chiave della definizione dantesca di stil novo sia in questa interiorit dell'amore, intesa come spiritualit e svolta con rigore consequenziario a trascendenza metafisica, apparir pi chiaro da una analisi di tale definizione in rapporto ai suoi precedenti retorici, letterari e propriamente filosofici. Prendiamo l'immagine di amore che detta. Essa non nuova. La troviamo gi, e pi d'una volta, in Ovidio: Tu amor mihi dictasti iuvenalia primus , mea carmina / purpureus quae mihi dictat amor , dictatis ab eo feci sponsalia verbis . La troviamo addirittura in una iscrizione popolare sui muri di Pompei: scribenti mi dictat amor mostratque Cupido ; ci che mostra come, gi in epoca antica, l'espressione fosse diventata proverbiale: un luogo comune, un topos diffuso dalla scuola e ormai alla portata di tutti. Dante la riprende da Ovidio, ma ricordando certo anche la tradizione scolastica medievale e le variazioni cristiane che contrappongono alla materialit esteriore dello scrivere la spiritualit interiore del dettare (fin da Tertulliano: nihil potest manus scribere quod non anima dictaverit , e Agostino: Cum scribimus litteras, facit eas primo cor nostrum, et deinde manus nostra ) e sostituiscono la charitas all'amore pagano (gi in Ennodio: Verba in penetralibus conscientiae charitate magistra dictantur`). Su questa linea, gi Notkero il Balbo, in pieno secolo IX, aveva parlato di Amore che

detta, intendendo l'amore in senso religioso ed esprimendo l'idea che l'altezza del canto dipende dalla grazia che amore concede: Talia dictat amor. verus respondet amator. Ingratus taceat; gratus ad alta canat. Non voglio dire che Dante conoscesse il distico di Notkero; voglio soltanto indicare la tradizione cui si ricollegano i suoi versi: tradizione in cui l'immagine classica era gi stata reinterpretata dallo spirito cristiano in forme e con un significato da cui Dante non sostanzialmente lontano. Ancor pi vicino a Dante, e probabilmente presente alla sua mente, infine un passo di Riccardo di San Vittore, segnalato gi dal Casella. Come parler d'amore--chiede Riccardo-un uomo che non ama, che non conosce la forza dell'amore? Di tutto il resto si pu trovare nei libri abbondante materia; ma di questo o tutta dentro di noi, o non da nessuna parte. L'amore, infatti, non induce le sue segrete dolcezze dall'esterno all'interno, ma le traduce dall'interno all'esterno. Solo, dunque, pu degnamente parlar d'amore chi compone le sue parole secondo l'intimo dettato del cuore. AURELIO RONCAGLIA: Da Dante e Bologna nei tempi di Dante, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1967, pp. 21-29. /:/ Dante e il mondo classico. Lo storico moderno che compie una ricerca su Dante e il mondo classico incontra sul suo cammino temi che ancor n'on sono stati risolti, o addirittura non sono stati affrontati. Il pi grave, e tuttavia dimportanza capitale, il seguente: conobbe Dante (seppur indirettamente) la lex de imperio Vespasiani? Questa lex la pi significativa epigrafe dell'et romana imperiale, per ci che riguarda il diritto pubblico; taluni indizi han fatto pensare che Dante, teorico e storico della monarchia imperiale, ne avesse forse conoscenza (indiretta, non gi diretta); ma problema che sinora aspetta, non pur una soluzione, ma persino una semplice impostazione scientifica. Per altri aspetti, lo storico moderno si trova dinanzi a una problematica che solo ora comincia a delinearsi. [...] Mentre Cicerone e Livio avevano esaltato le virt romane, Agostino e Orosio avevano mostrato le miserie della storia romana--pur ritenendo che l'impero romano fosse voluto dalla divina provvidenza. Dante afferma non solo che la grandezza di Roma fu voluta da Dio (questa era gi dottrina di Orosio ed Agostino), s anche che il popolo romano combatt (come aveva detto Cicerone) per amore di pace e per il bene del mondo, ed ebbe l'impero (come aveva insegnato Livio) per le sue virt. un tentativo di sintesi fra Cicerone e Livio da una parte, Agostino e Orosio dall'altra; sintesi, per certi aspetti, di opposti (o quasi), se si vuole; ma c', in questa sintesi, l'intuizione dantesca del mondo classico in quanto storia provvidenziale di Roma-cio, con un termine moderno, la dantesca filosofia della storia . Possiamo seguire cos, attraverso l'opera di Dante, il vario atteggiarsi degli esempi di virt troiana e romana, che l'antichit classica aveva tramandato. A cominciare, naturalmente, da Enea. Dice Dante nella Monarchia (secondo 3, 6-7): Il nostro divino poeta Virgilio attesta che il glorioso re Enea fu padre del popolo romano, in tutta l'Eneide, per ricordo eterno; Tito Livio, egregio scrittore delle gesta romane, lo conferma nella prima parte del suo volumen, cominciando dalla caduta di Troia. Non posso dire nei particolari quanta fosse la nobilt di quel padre invittissimo e piissimo, nobilt per la quale si

considerano non solo la sua virt, ma anche quella dei suoi progenitori e quella deUe spose, s che da entrambi i rami la nobilt conflu in lui per diritto ereditario . Ed infatti, questa nobilt gi di Anchise, anche egli pio: s pia l'ombra di Anchise si porse . facile trovare, in tutta l'opera di Dante, l'eco delle virt romane celebrate da Cicerone, da Livio, e dalla tradizione classica in genere. Gli Orazi. uccisi i tre combattenti Curiazi, e due dei Romani (leggiamo ancora nel secondo 9, 15 della Monarchia) la palma della vittoria, sotto re Ostilio, tocc ai Romani: lo racconta diligentemente Livio nella prima parte, ed Orosio lo conferma . Il volere intero di Muzio Scevola accoppiato, in due celebri versi di Paradiso quarto, con quello del martire san Lorenzo: come tenne Lorenzo in su la grada e fece Muzio a la sua man severo . (Com' noto, accoppiamenti di figure pagane con corrispondentigure cristiane sono caratteristici nell'opera di Dante). Nella Monarchia (secondo 4, 10) anche celebrata, per esempio, Clelia: a prigioniera nell'assedio di Porsenna,pezate le catene, sorretta dal mirabile aiuto di Dio, pass a nuoto il Tevere, come ricordano quasi tutti gli storici di Roma . C' dunque, nel pensiero di Dante, stretta connessione fra virt romane e provvidenza divina (il mirabile aiuto d Dio a Clelia). Naturalmente, la sintesi di queste idee sulla virt romana si trova nel Secondo della Monarchia (che gi abbiamo citato, in alcuni punti); e altres nel sesto del Paradiso, dove Giustiniano rievoca la storia del sacrosanto segno. [...] Ma gi il quarto trattato del Convivio contiene una precisazione, ed esposizione, della virt e benignit romana nel suo sviluppo storico. Per che, con ci sia cosa che a quello [l'impero] a ottenere non sanza grandissima vertude venire si potesse, e a quello usare grandissima e umanissima benignitade si richiedesse, questo era quello popolo che a ci pi era disposto. Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che sopra ogni ragione... La forza dunque non fu cagione movente s come credeva chi gavillava, ma fu cagione instrumentale...; e cos non forza ma ragione, [e] ancora divina, essere stata principio del romano imperio .. assai manifesto la divina elezione del romano imperio per lo nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de l progenie di Maria [cio, fu in uno temporale che David nacque e nacque Roma ]... Non pur per umane, ma per divine operazioni and lo suo processo [cio, la formazione dell'impero romanO]... Se noi consideriamo poi che per la maggiore adolescenza sua, poi che da la reale tutoria fu emancipata, da Bruto primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi troveremo lei essaltata non con umani cittadini, ma con divini... E chi dir che fosse sanza divina inspirazione Fabrizio infinita quasi moltitudine d'oro rifiutare, per non volere abbandonare sua patria? Curio, da li Sanniti tentato di corrompere, grandissima quantit d'oro per carit de la patria rifiutare, dicendo che li romani cittadini non l'oro, ma li possessori de l'oro possedere voleano? e Muzio la sua mano propria incendere perch fallato avea lo colpo che per liberare Roma pensato avea? Chi dir di Torquato, giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene sanza divino aiulorio ci avere sofferto? e Bruto predetto similemente? Chi dir, de li Deci e de li Drusi, che puosero la loro vita ,per la patria? Chi dir del cattivato Regolo, da Cartagine mandato a Roma per commutare li presi cartaginesi a s e a li altri presi romani, avere contra s per amore di Roma, dopo la legazione ritratta, consigliato, solo da umana, e non da divina natura mosso? Chi dir di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto da lo aratro, e dopo lo tempo de l'officio, spontaneamente quello rifiutando a lo arare essere ritornato

? Chi dir di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma contra li suoi nimici, e dopo la sua liberazione, spontaneamente essere ritornato in essilio per non offendere la senatoria autoritate, senza divina ist igazione? O sacratiSSimo petto di Catone, chi presummer di te parlare?... Non puose Iddio le mani proprie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano di furto Campidoglio di notte, e solamente la voce d'una oca f ci sentire? E non puose Iddio le mani, quando per la guerra d'Annibale avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d'anella in Africa erano portati, li Romani volse ro abbandonare la terra, se quele Benedetto Scipione giovane non avesse impresa l'andata in Africa per la sua franchezza? E non puose Iddio le mani quando uno nuovo cittadino di piccola condizione, cio Tullio, contra tanto cittadino quanto era Catellina la romana libert difese? Certo S. Per che pi chiedere non si dee, a vedere che spezial nascimento e spezial processo, da Dio pensato e ordinato, fosse quello de la santa cittade (Convivio quarto 4/11- 5/20). La santa citt , detto di Roma, come anche, nel quindicesimo dell'Inferno, la sementa santa di que' Roman che vi rimaser (per la fondazione di Firenze), poi nel diciassettesimo del Paradiso, il santo uccello , e nel sesto del Paradiso il sacrosanto segno : in queste espressioni, santo ha un valore semantico che si congiunge direttamente alla repubblica santa di Livio; ma riecheggia, indirettamente, espressioni tipiche del mondo classico romano, soprattutto l'idea romana che l'imperium d la sanctitas. La migliore illustrazione di siffatta terminologia liviana (e dantesca) ci viene dalla ricerca di un romanista, Pietro De Francisci, il quale ha mostrato che nella concezione romana anche il pontefice titolare di imperium; di qui la santit dell'imperium; nella santa cittade e nel santo uccello di Dante quell'originaria sacralit ritorna, seppure (naturalmente) per vie insospettate e diversissime. Siamo in presenza di un caso in cui Dante , sia pur a suo modo, un aderente interprete di valori classici: come per intuizione, s'intende. Dicevamo: a suo modo. La storia di Roma considerata, dall'uomo medievale, nel quadro di una prospettiva politica collegata col rapporto fra papato e impero [...l, e anche Dante pu rientrare in questo quadro. Perci il pensiero storico di Dante viene considerato, da molti studiosi, quasi come un paragrafo del suo pensiero politico; e passa sotto questa categoria e rischia d'essere svalutato nei suoi aspetti propriamente storiografici. Ma di Dante politico e stato detto che egli in verit nacque troppo tardi ( un anno prima della battaglia di Benevento ), per poter aver fortuna, con quella sua profezia del cinquecento diece e cinque, che messo da Dio ancider la fuia [ ... ] Vero che il Dante pensatore storico va ben al di l del Dante politico: un rivoluzionario, e sa di esserlo. In che consista la sua rivoluzione di pensiero, abbiamo gi accennato. Dante parte da Agostino e da Orosio, ma anche da Cicerone e Livio; ed Orosio, sebbene attingesse a Livio, era abbastanza alieno, negli spiriti, dalla interpretazione liviana della storia di Roma; ancor pi alieno, ne era Agostino; Dante, con la sua sintesi di opposti, di cui dicevamo (fra Agostino e Orosio da una parte, Cicerone e Livio dall'altra), costruisce un universo storico in cui la rievocazione del mondo romano si muove, s, nel quadro d'una interpretatio Christiana, ma riafferma quei valori classici che Livio aveva esaltato, insomma la virt che ha fatto degno di riverenza il santo segno. Qui l'autentico Dante umanista; e qui il significato della sua rilettura di Virgilio . [...] La discussione moderna [ ...] pone il problema di Dante umanista in termini troppo netti: taluni studiosi trovano che il suo mondo classico sempre visto, per cos dire, con gli occhiali del Medioevo;

altri, al contrario, pongono Dante agli inizi dell'Umanesimo. A nostro giudizio il problema va inteso altrimenti: non si tratta di incasellare Dante, semplicemente, nel Medioevo, oppure agli inizi dell'Umanesimo; si tratta di intendere il nuovo animo con cui egli resuscita l'antichit romana. Guardando superficialmente dice Dante, sempre nel secondo primo 2-3 della Monarchia, io ritenevo che il popolo romano avesse ottenuto l'impero non per diritto, ma solo con la violenza delle armi. Ma dopo che medullitus oculos mentis infixi, e mi accorsi per segni efficacissimi che questa era opera della divina provvidenza, non ebbi pi a meravigliarmi (delle vittorie romane) ma al contrario subentr in me un disprezzo, misto a derisione, contro quelle genti che sapevo aver avuto avversione contro la preminenza del popolo romano... . Ed alla fine di questo secondo undicesimo 7 della Monarchia s'avvia alla conclusione: ormai ritengo sufficientemente chiaro che il popolo romano a buon diritto (de iuresi conquist l'impero del mondo . Come arriv Dante a questa rivalutazione del mondo romano, e della tradizione classica? Il vecchio pensiero storico medievale si muoveva tra escatologia e storia: il pensiero gioachimita, specialmente P. de J. Olieu, fu noto a Dante. La conversione filosofica (da collocare come sembra, intorno al 1292-3), di cui egli parla nel Convivio secondo dodicesimo 2-3 fu ispirata alla Philosophiae consolatio di Boezio e al Laelius di Cicerone: E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l'Amistade, avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v'entrai tanto entro, quanto l'arte di gramatica che io avea e un poco di mio ingegno potea fare . Dante ha dunque proseguito per questa via, ed ha letto e riletto i suoi autori, ed arrivato cos ad una reinterpretazione del mondo classico. [ ... ] Se ci avviciniamo alla sintesi dantesca del mondo classico, e tentiamo di considerarla nella sua unit interna, essa ci si mostrer ricca di una coerenza significativa. Domina, nel pensiero di Dante, il mondo romano. C', s, nello sfondo, la grecit; ma Dante la conosce (oltre che attraverso Aristotele) soprattutto attraverso gli autori latini con cui ha dimestichezza. Questa grecit si riflette nell'onrata nominanza dei suoi spiriti magni, da Omero poeta sovrano ad Aristotele maestro di color che sanno, e a tutti i grandi della filosofica famiglia, posti nel Limbo. La grecit politica ha anche un suo posto, nel pensiero di Dante. Basta pensare alle visioni estatiche (nel quindicesimo canto del Purgatorio), di cui la seconda grecanica, la mansuetudine di Pisistrato. Ma la grecit politica per eccellenza viva nel ricordo di Dante si riassume in un nome: Alessandro Magno. [...] Alessandro Magno appariva a Dante come il grande rivale di Roma, fermato dalla provvidenza; se Dante avesse dovuto avvicinarlo a qualcuno, lo avrebbe avvicinato a Cesare. Nella geniale sintesi di cui dicevamo, Dante ha potuto conciliare l'ammirazione per la Roma repubblicana (e per le sue virt) con l'esaltazione dell'aquila imperiale, e dello stesso Cesare: egli vedeva Cesare armato con occhi grifagni, ed altres lo considerava esempio di fervore, quando punse Marsilia, e poi corse in Ispagna . Cos Dante compiva, insomma, la conciliazione fra gli spiriti imperiali dell'Eneide virgiliana, e gli spiriti catoniani della Farsaglia. Pone Cesare nel Limbo (ma nell'Inferno cos Curio, che esort Cesare a varcare il Rubicone, come i cesaricdi, Bruto con Cassio). Tuttavia riconosce in Catone, che si uccise dopo la vittoria di Cesare, l'immagine pi alta dell'uomo classico, quella della libert

morale; e lo fa guardiano del Purgatorio. Dice nel Convivio: E quale uomo terreno pi degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo . La conciliazione fra Virgilio e Lucano, fra ideali augustei e ideali catoniani, sembrerebbe a prima vista impossibile. Com' possibile ammirare, a un tempo Cesare e il suo implacabile avversario repubblicano, Catone? Com' possibile idealizzare, a un tempo, la Roma repubblicana e la monarchia? Lo studioso moderno di storia antica non si scandalizza di un avvicinamento del genere: ormai da gran tempo siamo capaci di intendere che una parte di ideali repubblicani era trapassata nello stato augusto. Con ci non si vuol dare a Dante una patente di precursore, in un qualunque modo, della scienza storica moderna: che sarebbe errore il pi grave possibile. Ma si vuol ribadire, piuttosto, che il mito di Roma classica ha, in Dante, una sua coerenza meditata e sicura. L'immagine per eccellenza dlla giustizia imperiale romana , si sa, nel decimo del Purgatorio, l'effige di Traiano che rende giustizia alla vedovella: giustizia vuole e piet mi ritiene ; di qui, la gran vittoria di Gregorio Magno; e nel ventesimo del Paradiso, la visione delle due fiammette di Traiano e Rifeo. L'immagine della storia di Roma in Dante , dunque, del tutto nuova: l'accento non batte pi, come in Orosio, sulle miserie di quella storia; batte invece sulle virt; ed qui quella sintesi, di cui parlavamo a principio, fra spiriti liviani e spiriti orosiani, com'essa fu concepita da Dante. Una nuova intuizione storica s'annuncia; la cultura medioevale si volge nell'umanistica. possibile superare i confini dell'antico e del medioevale, concepiti da Dante in unit continua ? Il grammatico Servio, contemporaneo d'Orosio, aveva detto che gi l'antico Ulisse and al di l delle colonne d'Ercole. Dante ripens quell avventura odissiaca, sotto la suggestione immediata dell'impresa dei fratelli Vivaldi. Scrisse cos il canto ventiseiesimo dell'Inferno, il canto d'Ulisse. la pi alta interpretazione dei valori classici, che mai si sia data: seguir virtute e conoscenza, anche nella ricerca del mondo senza gente. Ma anche una rievocazione dei limiti, che virtute e conoscenza trovarono (e torn in pianto) nel folle volo. Dante, umanista, ha sentito le infinite possibilit che il mondo classico apriva; e tuttavia, anche, le apore e le contraddizioni di esso. Inserendo il classico nell'economia della storia cristiana (Garin), ha dato un pensiero storico all' impegno intramondano (Gregory) del basso Medioevo. SANTO MAZARINO: Da Terzo Programma, Torino, ERI, 1965 n. 4, PP. 137-145. /:/ La religiosit di Dante. Dante comprese e celebr i valori del misticismo e dell'ascetismo; riconobbe che la vita contemplativa superiore alla vita attiva (e quale vero cristiano potrebbe non riconoscerlo?), come la beatitudine celeste superiore a quella terrestre; ma non fu n un mistico n un asceta. Intendere giustamente questo carattere della religiosit di Dante fondamentale per non fraintendere lo spirito che anima il poema sacro . Tutta la Commedia prova che la religiosit-di Dante non fu mai abbandono, estasi, ebbrezza contemplativa, come nei mistici, ma una conquista intellettuale e razionale, con tutte le conseguenze che siffatta posizione comporta specialmente nella sfera speculativa; e, insieme, che essa non soffoc, come negli asceti, ma, al contrario, rafforz in lui il senso dei valori della

vita terrena, e, per conseguenza, del dovere e della responsabilit, del singolo e di tutti, di attuarli individualmente e socialmente. Il preteso atteggiamento mistico che egli avrebbe, secondo alcuni studiosi, assunto nella Commedia dopo l'esperienza razionalistica del Convivio, si compendia nel comune sentimento e convincimento di ogni sincero credente, che la mente umana non pu da s arrivare a scoprire il mistero dell'universo e di Dio, e perci solo nella fede la suprema verit nella quale l'intelletto si possa quietare; che la vita mortale preparazione a quella eterna, e perci a questa, come a sua meta, l'uomo deve mirare costantemente; che solo in Dio, in questa e nell'altra vita, la pace dell'anima, l'immutabile felicit, perch solo Dio il bene perfetto. Ma il convinto riconoscimento, da parte di Dante, dei limiti posti alla conoscenza naturale non avvil mai ai suoi occhi la nobilt della mente umana, fine e preziosissima parte de l'anima, che deitade (Convivio, terzo, secondo,19), n gli fece mai rinnegare il valore altissimo n ripudiare mai l'uso continuo della pi nobile parte dell'uomo, la ragione, dalla quale chi si parte... non vive uomo, ma vive bestia (Convivio, secondo,settimo, 3-4). Virgilio, che nel poema simboleggia la ragione o la filosofia naturale, sollecitato da Beatrice a soccorrere Dante e lo guida per i due terzi del viaggio oltremondano. Perfino nel Paradiso egli esalta la potenza dell'umano intelletto, affermando, con la stessa baldanza del Convivio, che, attraverso il dubbio rampollante da una verit acquisita, c' un impulso naturale che al sommo pinge noi di collo in collo , cio alle vette accessibili del sapere. Perfino facendo a san Pietro la. sua professione di fede, non rinunzia alle prove fisice e metafisice dell'esistenza di Dio, accantO alle Sacre Scritture; aCCanto alle quali, ancora una volta, mette i filosofici argomenti e l'intelletto umano , quando interrogato da san Giovanni sulla carit, la pi mistica delle virt teologali. N mai nel poema, fino al momento estremo del suo viaggio, egli lascia la ricerca razionalistica per abbandonarsi alla intuizione mistica. Alle verit metafisiche, a cui la mente umana pu giungere, egli giunge scolasticamente per dimostrazioni e confutazioni, provando e riprovando (Paradiso,terzo, 3). E se vero che il viaggio si conclude (n poteva concludersi diversamente) con la visione di Dio, la quale al di fuori e al di sopra delle possibilit della mente umana, ebbene, perfino nello svolgersi dell'ineffabile visione, piuttosto che l'anima del mistico, estraniata dai sensi, consunta dalla fiamma dell'amore, annegata nell'infinito, avvertiamo in Dante un intelletto lucidissimo e una intrepida volont di conoscenza, tesi in uno sforzo sovrumano a penetrare, addirittura mediante l'acume fisico degli occhi corporali, entro l'essenza divina, fino al momento estremo in cui, pi inebbriato delle sue progressive conquiste che non sgomento degli alti misteri che man mano gli si rivelano, il poeta preSume di spiegarsi con argomenti di ragione il pi incomprensibile dei misteri della fede cristiana, l'Incarnazione, come un matematico che tutto s'affige per cercar di risolvere un problema che gli si presenta scientificamente insolubile per la mancanza di un principio esatto su cui fondarsi. Solo in quel momento al vano sforzo intellettuale e volitivo subentra, per opera della grazia l'intuizione mistica. Il suo stesso amore di Dio fu essenzialmente amor Dei intellectualis ; e, come san Tommaso, egli fece consistere la beatitudine celeste ne l'atto che vede , nella visione del Vero in che si queta ogni intelletto , non nell'atto di amarlo, che ritenne conseguente alla comprensione di Dio (Paradiso ventottesimo, 106-111) esattamente l'opposto dell'esperienza mistica. Anche per il Dante della Commedia, come gi nel Convivio, la scienza ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade (Convivio, primo,primo, 1): la felicit--s'intende--terrena,

alla quale si perviene mettendo in pratica appunto gli insegnamenti della filosofia (Monarchia,terzo,sedicesimo,7-8). Tutto il poema, infatti, mostra quale insaziabile avidit di sapere fosse in Dante: cos ardente da non farlo arrestare neppure davanti ai problemi metafisici e di fede pi pericolosi, Il suo stesso viaggio oltremondano un viaggio di istruzione, che ha per scopo supremo la conoscenza della verit. Daltra Parte, posizioni di dubbio o di agnosticismo erano incompatibili con la sua forma mentis e con il suo temperamento, di natura, Come si detto, sistematica e dogmatica: sicch il suo ardore di conoscenza assumeva in lui il carattere di un'esigenza categorica di verita assolute e incrollabili. E poich la scienza mondana non poteva dare ai massimi problemi dell'esistenza se non soluzioni incerte e contraddittorie, necessariamente egli doveva trovare nella fede, che quei problemi risolveva con le sue verit trascendentali, l'appagamento insieme, della sua avidit di sapere e della sua esigenza di verit assolute. E non si tratta, come parso a qualcuno, di una Posizione spirituale contraddittoria, che celi un conflitto inavvertito, ma sempre vivo nel profondo dell'anima del poeta: come per ogni credente di alto intelletto, scienza e fede, ragione e dogma furono per Dante complementari tra loro, come Virgilio e complementare di Beatrice. La fede, insomma, fu per lui una necessit razionale, riconosciuta come sola pacificatrice dell'intelletto, e accettata con assoluta consapevolezza delle rinunzie che tale accettazione imponeva alla ragione, limitate peraltro alle verit ultime. La pace che egli disse di cercare, dietro i piedi di Virgilio e poi con Beatrice, di mondo in mondo , e che egli trov compiutamente in Dio, non fu propriamente la pace del cuore, ma appunto la pace dell'intelletto, illuminato integralmente, dove la ragione non bastava, dalla fede. Sotto questo aspetto, diremo che lo spirito che anima la Commedia quello di una ricerca ardente ed eroica della verit, che si serve della fede come strumento necessario all'uomo per le sue estreme conquiste nella sfera speculativa, per raggiungere l'ultima perfezione de la sua anima e riposarsi nella suprema verit conquistata. [...] Il convincimento, cristianamente elementare, dell'intrinseca superiorit della vita contemplativa rispetto alla vita attiva non fece affatto di Dante un propugnatore dell'ascetismo. significativo che egli, pur lodando, nel Convivio, Lancillotto e Guido da Montefeltro per essersi resi, nella vecchiezza, a vita monastica, aggiunga che tuttavia non necessario neppure a coloro che sono sposati vestire l'abito monacale per condurre una vita santa, perch eziandio a vera e propria religione si pu tornare, in matrimonio stando, perch Dio non volse religioso di noi se non il Cuore . Monachesimo e ascetismo sono le espressioni pi alte e pi caratteristiche della spiritualit medievale, che ha come mira suprema la perfezione religiosa; e poich questa pu raggiungersi soltanto nell'isolamento dell'anima con Dio, l'uomo del Medioevo tende al ripudio di tutto ci che lo lega alla societ, ritenutO, in ogni caso, d'impedimento alla sua perfezione suprema. una posizione individualistica, antisociale, antistorica, esattamente opposta a quella dell'uomo del mondo classico, che considera la vita terrena, senza preoccupazione dell'oltretomba, degna di essere vissuta come scopo a se stessa, e vive nella societ e per la societ, perch fondamentale in lui il senso della necessit della convivenza sociale e dei vincoli che lo legano ai suoi simili, alle generazioni passate e future. Lo scopo della vita--nella forma pi alta e pi caratteristica della spiritualit classica--consiste nell'esercitare quanto pi pienamente e altamente possibile le forze di cui la natura umana dotata-prima fra tutte quella dell'intelletto--, e nell'attuare tutto ci che materialmente e spiritualmente conferisce alIa vita stessa nobilt bellezza felicit, e valga a far vivere l'uomo nelIa riconoscente memoria

dei posteri: che la sola forma di sopravvivenza di cui il mondo classico si preoccupi. Dante la prima grande personalit dell'et moderna, che, pur conservando profondissimo il sentimento di ogni credente che la meta finale cui l'uomo deve tendere il Cielo, abbia reintegrato, contro il pensiero e sentimento ascetico medievale, con costante ragionata piena consapevolezzala nobilt e dignit dell'uomo e della vita umana, per l'alta considerazione in cui tenne l'intelletto umano e l'opera che l'uomo chiamato ad attuare sulla terra Basti pensare all'esaltazione che egli fece della virt umana, non solo ammettendo nel Limbo, contro l'opinione di san Tommaso e la costante tradizione della Chiesa romana, le anime degli Infedeli virtuosi, ma creando addirittura per quelli tra essi che per l'eccellenza nel campo del sapere o dell'azione si erano resi benemeriti dell'umanit (perfino musulmani, il che ancora pi grave dal punto di vista dell'ortodossia cattolica), un nobiIe e luminoso castello, una sorta di Elisio pagano, che gli sar rimproverato da sant'Antonino come contrario alla fede. [...] A due fini, infatti, secondo Dante, l'uomo stato ordinato da Dio: non alla sola felicit celeste, dopo la morte, come per gli asceti, ma anche, prima, a quella terrestre (Monarchia,terzo,sedicesimo, 6-8). Prima che Beatrice conduca Dante alla beatitudine del Paradiso, Virgilio, cio la filosofia naturale che indirizza l'uomo all'esercizio delle virt morali e intellettuali, lo condurr alla beatitudine di questa vita , al Paradiso terrestre, che appunto tale beatitudine raffigura (ibidem). Dante non poteva estraniarsi dal mondo, ripudiare la vita attiva per isolarsi nella contemplaziOne dell'eterno, perch egli era dotato di un temperamentO ricco di passioni e pronto a reagire gagliardamente a tutte le sollecitazioni del mondo esterno, e, insieme con l'avidit di sapere di cui si gi detto, aveva una molteplicit e vastit di interessi umani quasi senza limiti; sicch in lui non meno vivo del sentimento dell'eterno era il sentimento della missione che l'uomo chiamato a compiere sulla terra, come individuo e come membro della societ: missione che pu compendiarsi nelle parole del suo Ulisse: divenir del mondO esperto e delli vizi umani e del valore e seguir virtute e conoscenza . Contro la svalutazione o la condanna e il disprezzo ascetici, egli riconobbe come naturale e giusto il misurato amore alle cose terrene; ed esalt la magnanimit delle azioni, le fatiche e i frutti dell'ingegno, in tutti i campi, gli affetti familiari, l'amicizia, insomma tutto ci che di bello, di buono, di nobile c' nella vita. Quel suo terribile e quasi continuo sdegno per la corruzione e la decadenza di ogni valore umano e civile ai suoi tempi cosa ben diversa dal disprezzo del mondo da parte degli scrittori ascetici: , anzi, la magnanima riprova del suo alto apprezzamento di quei valori, di cui propugnava ed affrettava, con la rampogna e col desiderio, la restaurazione, che egli credeva immancabile e vicina, perch senza quei valori la vita terrena perde il suo pregio, tradisce la missione impostale da Dio. E aspir apertamente e con tutta l'anima alla gloria terrena, non quella, s'intende, effimera del successo e del plauso del volgo, ma quella vera e duratura che il giudizio severo dei posteri conferisce e sancisce agli animi generosi, ai grandi intelletti: di essa si preoccuper perfino in Paradiso, e--ci che ancora pi significativo--non ne sar affatto rimproverato dal beato a cui confessa questa sua preoccupazione tutta terrena, come di sentimento sconveniente l dove ogni affetto e desiderio dovrebbe essere rivolto solo a Dio. Sta di fatto che neppure l'esperienza paradisiaca riesce a far staccare l'anima di Dante dagli interessi mondani ed a tenerla concentrata e assorbita, come dovrebbe essere, solo nella contemplazione dell'eterno e nell'amore di Dio. Dal punto di vista strettamente religioso, sorprender che, dopo che egli ha ricevuto una simbolica incoronazione nientemeno da san Pietro, in segno di approvazione per

la sua professione di fede, il suo cuore voli improvvisamente dal Paradiso a Pirenze, pieno di nostalgia del bello ovile , ov'egli aveva dormito agnello, e di amarezza per l'ingiustizia che lo tiene, innocente, fuori di esso, quasi abbia pi cara dell'ideale incoronazione in Paradiso quella a cui egli aspira con tutta l'anima nel suo bel san Giovanni : moto umanissimo del cuore (e, poeticamente, un ex abrupto stupendo, forse il pi solennemente appassionato di tutto il poema: Se mai continga.(Paradiso,venticinquesimo, 1 ss.), ma troppo terreno per un pellegrino del cielo, che gi ha avuto una prima visione di Cristo e di Maria, e ora a colloquio con gli Apostoli ed prossimo alla visione di Dio. La verit che Dante anche nel Paradiso port immutati i suoi affetti e interessi terreni; e il sentimento di distacco dalla terra, che naturalmente non pu non affiorare qua e l nella terza cantica, soprattutto intellettualmente intuto come condizione essenziale alla vita di Paradiso, ma non scaturisce dal pi profondo del suo cuore, non rispecchia un'effettiva condizione d'essere della sua anima: pi vagheggiato che posseduto. Il suo sorriso per il vil sembiante che la terra mostra dall'alto dei cieli (Paradiso,ventiduesimo, 134-138) soprattutto un a reminiscenza letterario-filosofica, sapientemente utilizzata a conclusione di un canto in cui gli accenti poetici pi vivi sono quelli che esprimono i suoi persistenti interessi per la vita di questa aiuola che ci fa tanto feroci , e che, invece, dovrebbe essere campo per l'esercizio delle virt e dell'ingegno: sono, infatti, prima, lo sdegno contro la corruzione e l'avidit di ricchezze degli ordini monastici, poi, la franca affermazione dell'alto ingegno che natura gli aveva dato. Anche gli aspetti, diciamo, detetiori del suo carattere appaiono immutati per tutto il viaggio, tanto prepotenti e indomabili erano in lui le passioni terrene. Odio e amor --potremmo dire col poeta maremmano-mai non s'addormirono nel petto di Dante credente, allo stesso- modo che nel petto del non credente Carducci. La sua fermissima fede cattolica gli risolse, sul piano trascendentale, le inquietudini dell'ntelletto, ma non valse a pacificargli il cuore: le virt specificamente cristiane, che avrebbero potuto pacificarlo--il perdono delle offese ricevute, l'accettazione del dolore come pegno di premio celeste, la rassegnazione, l'umilt di spirito--, gli furono sconosciute. SIRO A. CHIMENZ; Da DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, a cura di Siro A. Chimenz, volum primo, Torino, UTET, 1963, pp. 14-22. /:/ Simbolo e allegoria nella Divina Commedia. Per la Divina Commedia il problema critico, che pregiudizialmente s'impone, quello del linlite tra simbolo e allegoria. Forse ha nociuto all'interpretazione di quel grandioso segno che il poema dantesco, il non avere distinto nettamente ci che in esso si configura come simbolo e perci si identifica con la stessa poesia, e quello che pu e deve essere inteso come allegoria. [. ] Nel simbolo e nell'allegoria si ha un significato, che viene assunto a significante di un altro significato; ma i due rapporti semantici si attuano in modi totalmente diversi. Il simbolo di natura propriamente metaforica, poich il segno si crea nelambito di un rapporto tra il sensibile e il concettuale; data la diversit dei piani, non si ha un immediato attuarsi di esso, ma si rende necessaria la sua acquisizione in una progressiva rappresentazione. A differenza del simbolo, l'allegoria non di natura metaforica, perch il significato non nasce da un legame di necessit naturale tra il dato sensitivo e l'idea (cio l'idea non si sviluppa da una connotazione reale dell'oggetto), ma imposto da un'intenzione, sottintende, cio, un riferimento a qual-

cosa che medi in un certo senso il rapport. Mentre nel simbolo si ha una unit desensibile e del non sensibile (come del significante e del significato nella parola, nel suo momento genetico), nell'allegoria il rapporto naturalmente arbitrario, come lo il segno nella sua stretta funzionalit; il rapporto viene legittimato solo dall'intenzione di intendere in un certo modo, anzich in un altro, cos come nella prima individuazione funzionale del segno il significante reso legittimo (ci qui avviene con maggiore pienezza e regolarit) dall'intenzione di distinguere un sapere, un significato. [...] La poesia e l'arte in genere, in quanto comportano una trasfigurazione dell'esperienza, sono pi o meno simboliche: infatti, il dato sensitivo si carica di un diverso significare, di intenzioni, allusioni, riferimenti. Necessariamente simbolica la poesia, quando debba essere forma di pensieri astratti e raziocinanti, che tendano a obiettivarsi poeticamente, cio nel linguaggio che a questa proprio (ritmo fonicosemantico, in cui si fondono significati, cio; saperi, immagini, cio dati sensitivi, e sentimenti, cio impulsi affettivi che investono il reale e il pensato. Dante, volendo, come si detto, rappresentare fantasticamente un suo itinerario spirituale, non aveva altra possibilit (a meno di fare un trattato filosofico), se non procedere sulla via del linguaggio simbolico. Il significato simbolico fa, pertanto, parte della lettera, del senso letterale proprio della Commedia; n pu esservi altro significato voluto per prima cosa dal suo poeta se non questo (non certo historia, fatto, ma fabula, come nel mito, la finzione di base, secondo cui egli al suo trentacinquesimo anno si trova smarrito in una selva e incontra tre fiere e poi Virgilio che lo accompagna per due terzi del viaggio; e cos il resto). Questo significare simbolico certo il sensus poeticus, che Dante ha definito come lettera nel Convivio. Poich il simbolismo nel solco del linguaggio poetico, un grado di esso, e la poesia , per l'appunto, nel suo linguaggio, non si d per noi motivo di fare distinzione tra-poesia e non poesia, sino a tanto che il linguaggio si sviluppa come simbolico. possibile, invece, formulare questo assioma: la poesia si oscura, l dove il simbolismo forzato in allegoria, cio quando alla rappresentazione, dentro cui il simbolo si definisce e si compie, si raccorda arbitrariamente uno sviluppo concettuale su un piano diverso, a cui per solito avvia la funzione metaforica di un segno (come nel caso del veltro, o del pastore che ragumar pu, ma non ha l'unghie fesse ). Tutti gli effettivi valori simbolici della Commedia, da Virgilio simbolo della ragione sommessa alla fede e Beatrice simbolo della ragione illuminata dalla fede, cio dalla sapienza teologica, alla lupa simbolo della cupidigia, al giunco schietto simbolo dell'umanit, sono assunti a questo significare per connotazioni bene individuabili, e compiono, per dire cos, il loro contenuto simbolico nel contesto pi o meno esteso al quale partecipano. Virgilio e Beatrice sono persone che significano, forme vive di una realt non sensibile, partecipanti in quanto persone vive da protagonisti alla vicenda poetica. Ma anche i simboli, che sono legati alla contingenza narrativa, ad esempio quelli che concorrono a costituire all'inizio la motivazione del viaggio, non possono dirsi allegoria, dacch sono la condizione del tradursi in forme sensibili, e perci poetiche, di puri momenti della coscienza, di dati, cio, non sensibili. La selva, il monte, le tre l'iere sono le forme icastiche di una verita interiOre: rispetto a questa verit, la rappresentazione costituisce necessit formale di comunicabilit e, in quanto icasticamente valida, ealt poetica, obiettivazione poetica di un pensiero pervaso

e animatO da un sentimento. Che la poesia si compia e si esaurisca in tale sequenza rappresentativa, perfettamente conforme alla natura della poesia, la quale, con la tecnica che le propria, fissa in realta sensitive e, comunque, intuitivamente riconoscibili, i moti della coscienza fatti propri e adeguati all'obiettivazione dalla fantasia creatrice, s che ne risulti una realt fantastica, la quale viva e duri come forma di quel contenuto. Le tre fiere si presentano ciascuna con un proprio valore: la lonza mobilissima, vestita di pel maculato, simbolo della lussuria- il leone, immagine di orgoglio e di violenza, la lupa magra e famelica, simbolo dell'avidit. La tradizione simbolistica medievale e altri successivi riferimenti facilitano l'integrazione del significare sul piano della fantasia. Epper gi nella presentazione della lupa si insinua quasi per un accostamento impreveduto su un altro piano, il dato allegorico. La terzina e d'una lupa che di tutte brame Sembiava. contiene nel suo ultimo verso tratti che pi non si conformano aila upa in quanto lupa (invece, la famelicit e la magrezza ne sono connotazioni naturalissime), ma proiettano sul simbolo una connotazione estranea a quelle il cui insieme costituisce il significato della parola lupa: difatti, non della lupa simbolica, ma dell'avidit di cui essa e simbolo pu dirsi che molte genti fe' gi viver grame . La caduta allegorica , per usare un'espressione del Momigliano, diventa pi profonda nelle parole di Virgilio in cui si integrer il simbolo della lupa; e pi ancora nella connotzione del veltro. [...l Simbolo nel suo carattere pi proprio si ha, quando una cosa viene assunta a rappresentare unicamente una delle molteplici connotazioni, dalle quali composto il sapere che di essa si possiede, in altri termini il significato del segno che la designa. Cos il leone assunto a simbolo della superbia in rapporto al fatto che nella conoscenza comune la superbia uno degli attributi che qualificano tale fiera (e, cioe, una delle connotazioni del significato di tale nome); e la lupa assunta a simbolo della cieca cupidigia, poich la fame insaziabile una delle connotazioni, che ne compongono la nozione nell'ambito di una certa tradizione. Si pure nel dominio del simbolo, quando il rapporto tra la cosa e il significato, che essa chiamata a rappresentare, non esiste, per dire cos, naturalmente, ma progressivamente acquisito nella congruenza delle situazioni e dei contesti in cui ricorre: Virgilio squalifica, attraverso la sua funzione di maestro e guida a Dante nell'Inferno e nel Purgatorio, come simbolo della ragione non illuminata dalla fede, cos come per Beatrice si qualifica nel Paradiso come la conoscenza fondata sulla fede. Pu essere che, come nel caso di Gerione, si abbia una creazione tutta nuova, che si esaurisca in se stessa; ma in questo caso, a ben considerare, appare chiaro che la funzione del simbolo risulta dagli elementi connotanti di cui si compone l'immagine e dal rapporto fra essi. In ultima analisi, il simbolo partecipa nella sua costituzione dei modi e delle condizioni che presiedono al costituirsi dell' universale poetico [...] e, in quanto tale, appartiene al linguaggio poetico nella sua basilare unit. Nel caso dell'allegoria si hanno condizioni del tutto diverse. Essa non si pu considerare, n un aspetto, n una continuazione del linguaggio poetico, poich manca il legame naturale fra il significato e il complesso delle connotazioni reali del significante; e l'avvio non di ordine metaforico come nel simbolo. N il legame viene conseguito progressivamente, poich carattere dell'allegoria quello di esaurirsi nel cerchio ristretto della sua rappresentazione. La statua del veglio di Creta non ha in s nessun riferimento necessario alla storia umana che vuole rappresentare; n alcun legame

naturale esiste fra la sua ubicazione e posizione e quello che essa vuole significare. Un certo legame, che basta tuttavia ad avviare una facile interpretazione, si ha con dati eterogenei della tradizione letteraria, accolti e trattati liberamente dal poeta. Ma l'allegoria rimane autonoma e quasi estranea al contesto, e manca di ogni sviluppo interno, come per l'appunto una statua che i viandanti incontrino a caso sul loro cammino Quanto al carro, nelle scene allegoriche del paradiso terrestre, non ci sono in esso connotazioni particolari per cui debba significare necessariamente la Chiesa; e, quanto all'albero, che rinverdisce quando il carro viene a esso legato, la tradizione non ci dice niente di sicuro per l'identificazione del suo significato. Le funzioni che connotano un carro sono molteplici, e, se il poeta stesso non ci addita quella che lo ha spinto alla sua scelta, si rimane inevitabilmente nell'incerto. Cos nel caso del fiumicello, che circonda il nobile castello, non si sa a quale attributo fluviale ci si possa riferire, per dare a esso un significato univoco (tanto pi che il passaggio come terra dura respinge le connotazioni primarie di un corso d'acqua); nel caso della corda, fra le molteplici connotazioni, di cui formato il sapere che si ha di un simile oggetto, cioe, il significato del nome, non ce n' una che possa in s unificare, da un lato il prendere la lonza, dall'altro il richiamo di Gerione. Palesemente, l'allegoria comporta l'imposizione di un significato a una certa immagine o sequenza di immagini, dall'esterno, all'incirca cos come avviene nell'interpretazione dei sogni, delle visioni o delle profezie. Essa non nasce come qualcosa che per s significhi, bens come un segno da interpretare. Da qui la sua sostanziale ambiguit. La stessa ambiguit caratterizza quella sorta di allegoria secondaria che si sviluppa talvolta dal significato del simbolo, su un piano che estraneo alla concretezza del significante, cio alla sua verit. Questo , come si gi detto il caso del veltro, che appare sviato dal piano del simbolo su quello dell'allegoria, nel momento in cui gli si attribuisce la capacit di cibarsi n di terra n di peltro, ma di amore, sapienza e virt, e si addita come una qualifica e forza la nascita fra ruvidi panni. Lo sviamento avviene perch il discorso di Virgilio si volto in profezia e alla profezia si conviene il parlare coperto. Una siffatta deviazione allegorica talvolta si sviluppa dalla stessa concisione della metafora; ad esempio, in Purgatorio sedicesimo 98 s., in cui la duplice metafora del papa come pastore e come capobranco di un gregge porta a una singolarissima immagine per che il pastor che procede, rugumar pu, rna non ha l'unghie fesse , dove non si sa bene cosa si debba intendere per unghie fesse . Raccogliendo le fila delle considerazioni, alle quali ci ha condotto una esemplificazione necessariamente sommaria e parziale, possiamo concludere riaffermando il principio che simbolo e allegoria sono due fatti nettamente distinti. Il significare simbolico rientra nel sensus poeticus, appartiene cio al senso letterale della poesia, e si muove nel solco della creativit espressiva, che va dalla metafora all' universale poetico . La sua Presenza, necessariamente ampia e impegnativa in un componimento di epica spirituale, come la Commedia, non pu costituirne la qualifica, poich si tratta di una condizione generale (anche se non cos generale come la metafora) del linguaggio poetico. L'allegoria, invece, come imposizione di un sovrasenso a valori che per s significano (epper, per solito, il sovrasenso comporta che il significante si adatti pi o meno imperfettamente al contesto o alla struttura) ha nel poema dantesco un carattere episodico, va-

riamente occasionale, come il sogno, la visione e la profezia, ed in s pi un fatto di poetica, che non di poesia. In conseguenza essa non ha alcun titolo per qualificare la Commedia: e ancor meno pu pretendere di condizionare tutta l'esegesi. ANTONINO PAGLIARO: Da Simbolo e allegoria nella Divina Commedia, in L'Alighieri, quarto (1963), n. 2, pp. 3-35. /:/ Le due specie di simboli danteschi. Coloro che considerano l'opera di Dante non solo meravigliosamente composta, come senza dubbio, ma anche, ed altra cosa, legata nella sua composizione ad un sistema, si fanno un dovere di riscontrarvi punto per punto le derivazioni dal sistema. Niente di pi comodo, per giungervi, che prestarle un simbolismo dalle molteplici ramificazioni, grazie al quale sar sempre possibile caricare il testo di significati corrispondenti al sistema che gli si attribuisce. Questa volta per l'errore non assurdo, poich c' senz'altro in Dante molto simbolismo, e si capisce come i suoi interpreti non siano sempre d'accordo sui significati dei simboli e nemmeno sulla loro collocazione nell'opera,ma anche su questo punto, le difficolt, mi sembra sono state artificiosamente e inutilmente moltiplicate. Dal fatto che Dante si servito nelle sue opere di formule rettoriche di cui ogni scrittore fa naturalmente uso, si dedotto che egli aveva studiato e poi applicato la tavola dei modi di espressione letteraria compilata da san Tommaso nei suoi commenti ai Salmi e alle Sentenze di Pietro Lombardo. Cos dall'avere Dante accettato la distinzione, normale presso i teologi, del senso letterale, allegorico o mistico, morale e anagogico, c' chi si ritenuto autoriZzato a cercare dovunque significati allegorici al punto che il senso letterale stato soffocato dalla dilatazione dei simboli che gli si vogliono imporre. Che in Dante ci sia del simbOlismo ed in miSUra notevole, evidente, ma se ne comprender molto meglio la natura partendo dal testo della sua opera che non dalle regole del Ticonio. Altro definire le regole che permettonO la spiegazione dei vari sensi della Bibbia, come fa l'esegeta, altro Usare quelle regole, come ha fatto Dante, per creare il testo di un poema che altri dovr spiegare. Indubbiamente Dante ha applicato nella Sua opera il principio fondamentale degli interpreti della Bibbia. Nella Divina Commedia come nella Scrittura anche le cose hanno un significato. Possono essere cose inanimate, animali o uomini. Ora la spiegazione simbolica, mi pare, non deve essere la stessa nei diversi casi, perch la realt che simboleggiano anche essa di diversa natura. Pi precisamente, gli esseri umani che popolano il poema sacro, indicati con nomi propri, sembrano sostanzialmente diversi, quanto a valore simbolico, da tutte le altre realt a cui si attribuisce un qualsiasi significato spirituale. Se ci fosse vero, non si dovrebbero usare gli stessi metodi per stabilirne il significato. Facciamo alcuni esempi. Bench gli interpreti di Dante non concordino sul significato della selva, del leone, della lonza e della lupa, tutti ammettono implicitamente che il simbolismo di queste cose o di questi esseri di natura semplice. Qualunque cosa significhino, non hanno che un senso, che resta lo stesso per varie che possano essere le modalit di applicazione Bisogna d'altra parte osservare che i commentatori di Dante si accordano in pratica molto meglio sul simbolismo delle cose che non su quello dei personaggi. Cos la selva osCura significa senz'altro la vita peccamnosa dell'uomo. Che poi si dica peccato, vizio, vita peccaminOsa, non ha importanza, poich il senso fondamentale resta identico. NOn ha molta importanza per il nostro proposito che si opti

per il peccato originale o per il peCCato attuale , anzitutto perch l'uno non sta senza l'altro, ma anche perch, ancora una volta, il simbolo fondamentale rimane lo stesso: il peCcato. Uguale osservazione varrebbe per il colle, il sole, le tre fiere ed in generale per gli innumerevoli simboli il cui significato si pu cogliere senza eccessiva difficolt. Certo ce ne sono altri sui quali non s' raggiunto mai l'accordo, ma la grande maggioranza degli interpreti sembra ammettere che la lonza rappresenti la lussuria, il leone l'orgoglio, la lupa la cupidigia o, nel senso tecnico e pieno della parola, l'avarizia. Indubbiamente la lussuria, l'orgoglio e la cupidigia a loro volta si dividono in specie, ma tutte queste specie rientrano in un medesimo genere, ed precisamente il loro genere comune che questi simboli stanno a designare. Il loro carattere comune di essere delle pure finzioni, o, se si preferisce, delle semplici immagini, a cui Dante ha legato una volta per sempre un determinato significato. La selva e la lupa sono immagini poetiche, proposte come tali dal poeta e come tali egli ci chiede di accoglierle. Ammettiamo, per facilitare il discorso, che tutti i simboli di questo genere costituiscano una prima famiglia. Si dir allora che nell'opera di Dante le figurazioni simboliche sono generalmente rivestite di un significato semplice, che resta univoco attraverso le molteplici applicazioni che ne pu fare il poeta e che di conseguenza si pu indicare con una parola sola. In un certo senso i personaggi reali introdotti da Dante nella Divina Commedia possono e devono essere considerati come investiti anche essi di un significato simbolico. Sono tipi visibili, significativi di realt spirituali che spesso li superano. Pertanto il loro caso profondamente diverso dal precedente. Una volta capito che l'aquila simboleggia l'Impero, non ci si deve pi attendere da questo simbolo alcuna sorpresa, per la semplice ragione che l'essere dell'aquila in questione si riduce a quello di una immagine simbolica dell'impero. Le cose stanno diversamente per quanto riguarda Dante, Virgilio e San Bernardo da Chiaravalle. Dante, si dice, significa l'homo viator, l'uomo nel suo terreno pellegrinaggio. Non c' dubbio, ma egli pu essere simbolo perch realmente un pellegrino. Dietro la favola poetica della Divina Commedia troviamo un uomo che raCconta la propria storia e la propria esperienza umana, quella della sua liberazione dal vizio per l'intervento della grazia divina: Tu m'hai di servo tratto a libertate (Paradiso, trentunesimo, 85). Quinci su vo per non essere pi cieco (Purgatroio, ventiseiesimo, 58). Questi versi ed altri implicano la realta sostanziale del racconto e dei personaggi incontrati. Anche Virgilio si comporta nella Commedia come un vivo con Cui Dante ha allacciato rapporti personali e concreti, ed altrettanto si pu dire di san Bernardo. Il valore simbolico di questi personaggi , dunque, necessariamente complesso come complessi sono loro steSsi ed in particolare la parola simbolo , non pu essere loro applicata nello steSso significato di quando si trattava di pure finzioni. Non solo la lupa la cupidigia, ma di essa non rimane se non l'immagine se le si toglie il SUo simbolismo. In casi consimili il significato che crea il simbolo. Quando si tratta di Virgilio, vero il contrario, talch si rischia di sbagliarsi gravemente sul significato della Divina Commedia se si dimentica questo punto. Poich esatto che Dante ha scelto Virgilio e san Bernardo come tipi rappresentativi di realt spirituali, e l'osservazione pu valere benissimo anche per san Bonaventura e per san Tommaso, per Salomone, Graziano, Goacchino da Fiore, Sigieri di

Brabante ed altri, ma qui non il significato che crea l'essere simbolico, ma l'essere simbolico che crea il proprio simbolo. In conclusione ognuno di essi simbolo anzitutto di ci che egli . Ci si esporrebbe dunque a gravi controsensi, se ci chiedessimo prima di. tutto che Cosa rappresenti Virgilio, per interpretare il testo movendo dal simbolo che si decide di attribuirgli. Questo metodo vale per la lupa: ogni volta che la si incontra, corretto mettere subito in chiaro che essa la cupidigia; ma il metodo non vale per Virgilio, perch questo personaggio svolge nella Divina Commedia un compito complesso, analogo a quello che egli svolse realmente nella vita di Dante: le Sue reazioni hanno la pieghevolezza, la diversit e spesso le imprevedibilit di quelle di un essere concreto e vivente Gli interpreti di Dante lo hanno spesso dimenticato e hanno cercato dietro questo personaggio un simbolismo semplice e univoco, simile a quello della lupa, della lonza o dell'aquila. Che cosa non si mai immaginato? Si voluto fare di lui l'autorit imperiale, la ragiOne umana, la filosofia, l'ordine della natura senza la grazia, ecc. Sarebbe molto facile proporre infinite altre interpretazioni, ma sarebbe tempo perso, poich Virgilio non riducibile, pi di qualsiasi altro eSSere reale, a un simbolo astratto e semplice: vi si oppongono il suo stato civile e il suo certificato di nascita. Non nato da una significazione simbolica, ma la genera. A meno che non si vogla leggere la Divina Commedia all'inverso, si deve sempre andare da ci che vi fa e dice Virgilio a ci che Virgilio significa, e non al contrario. C' dunque il poeta sommo, ma non la Poesia, un saggio, ma non la Sapienza, un eminente rappresentante delle virt naturali e della prudenza morale, ma non la Filosofia. Se si pretende di avere una risposta in una parola, come si pu esigere quando si tratta di pure finzioni poetiche, la domanda di che simbolo Virgilio? non ammette risposta: si potranno dare ventiisposte, ciaScuna delle quali si presenter unica ed esclusiva, ma sarannO proprio per questo contraddittorie. Sarebbe forse pi saggio rinunciare a questo giuoco in cui gli studi danteschi hanno pi da perdere che da guadagnare. Particolarmente bisognerebbe rinunciarvi per quanto concerne Beatrice. Ho criticato, forse pi severamente del necessario, molti dei simboli che le si attribuiscono, senza proporne da parte mia alcun altro. si giudicher senza dubbio troppo facile tale sistema: me ne dolgo, ma nessuno tenuto all'impossibile. Coloro che ammettono come principio che Beatrice non che finzione poetica, hanno ragione di porre il problema del suo simbolo come si trattasse di quello della lupa o dell'aquila, ed d'altra parte quello che fanno cercando in lei un senso semplice e univoco, per esempio la Teologia, la Fede, la Grazia, la Rivelazione, le virt Teologali, la vita Contemplativa che trascende la vita attiva, la vita Soprannaturale, ecc. Questi simboli, anche i pi verosimili, sono in numero indefinito, ma nessuno di essi soddisfa tutti i dati del problema perch ognuno di coloro che li propongono, difende tenacemente il proprio senza pervenire a un accordo o a una eliminazione di quelli degli altri. Come fare per uscire d'imbarazzo? Ritornare alla regola aurea di Michele Barbi: Quello che pi importa di comprendere la poesia di Dante dalla quale deriva naturalmente quest'altra: ci che fuori della coscienza del poeta non pu riguardarci . Nel caso attuale, che cosa c' nella coscienza del poeta? C' questo: Beatrice l'anima beata di una donna che egli ha amato. Per Dante l'immortalit dell'anima una certezza assoluta: l'esistenza attuale di Beatrice dunque per lui fuori di ogni dubbio. E nessun dubbio vi in lui che ella sia una beata, provvista, per conseguenza, di tutti i privilegi e di tutte le virt spirituali che convengono al suo stato. Come stupirsi perci che lei eserciti su Dante le fun-

zioni molteplici che egli le attribuisce? Una eletta da Dio pu essere lo strumento del suo ravvedimento morale e della sua salvezza religiosa: pu agire su di lui poich i beati conoscono in cielo tutto ci che accade quaggi, possono interessarsi alle nostre vicende come vuole la giustizia divina, e, bench non lo facciano abitualmente, lo fanno in circostanze eccezionali; lei pu intercedere per lui presso Dio tanto pi efficacemente quanto pi perfetta la sua carit: inoltre pu essere legittimamente pregata da Dante perch una santa e tutti i santi, non solum superiores sed etiam inferiores, devono essere pregati. Citare san Tommaso a sostegno di queste affermazioni non necessario se non per ricordare che si tratta di tesi autenticamente cristiane, perch ogni cristiano sa che cos e Dante non aveva bisogno, per saperlo, di essere quel theologus Dantes di cui si abusato non poco. Se le cose stanno cos non possiamo capire la Divina Commedia come l'intendeva il poeta, salvo che trattando da finzione ci che per lui fu finzione e come realt ci che anch egli concep come realt. Quelli che non condividono la fede di Dante non sono per questo dispensati dal leggere la sua opera come quella di un credente. Coloro che condividendo la sua fede non hanno il senso della reale presenza dei morti che permise a Dante di vivere con loro in comunione di pensiero, non sono autorizzati a trattare Virgilio e Catone come se fossero stati per lui solo ci che possono essere per i suoi interpreti. Per non cadere in quest'errore si eviter dunque di creare un'etichetta indicatrice di ci che significa Beatrice e di ridurla al nome che designa quel simbolo dell'opera di Dante essa qualcuno, non qual che cosa: un essere che Dante ci presenta come una persona reale e che ha anche la colnplessit deLIa vita di lui. Ecco in realt una beata che gode della vista di Dio, a faccia a faccia, che intercede, prega per colui che l'ama, che interviene per rialzarlo dalla caduta e lo guida verso il suo ultimo fine: come potrebbe venirci presentata in questo modo senza richiamare le nozioni di beatitudine celeste, di contemplazione, di virt teologali, di fede, di grazia, che, tutte, concorronO a definire la vita cristiana nella sua perfezione? giUStO perci notarle e associarle alla persona di Beatrice, ma non si pu concludere, senza commettere arbitrio, che essa la Luce della Gloria, la Teologia, la vita Contemplativa, n, parlando in generale, alcuna di queste nozioni. Non si pu nemmeno concludere che essa sia la vita Cristiana presa nel suo insieme. La santit di questa eletta non autorizza a ridurvela pi di quanto non si volatilizzi in simili astrazioni la santit di san Francesco, di san Domenico e di san Bernardo. ETIENNE GILSON: Da Dante et la philosophie, Paris 1953, pp. 289-297. /:/ Dante e il pensiero teocratico. La dottrina che Dante mira a confutare nel suo trattato politico pu essere indicata con un nome oggi generalmente accolto dagli storici. la dottrina teocratica , dottrina che agli occhi di Dante implicava la dipendenza dello stato dalla chiesa, o pi precisamente la giurisdizione suprema e diretta del papa cos negli affari temporali come in quelli spirituali. [...] Nella sua discussione della dottrina teocratica nel libro terzo della Monarchia Dante non si riferisce ad alcun trattato o documento particolare Egli nomina tuttavia esplicitamente i suoi principali avversari, e il primo il papa in persona: ma, in codesta fase, Dante ancora desideroso di assolverlo, sia egli Bonifacio o Clemente. L'assolu-

zione si estende a tutti gli altri pastori del gregge cristiano nella misura in cui le loro pie intenzioni li scusino. Ma accanto a questo primo gruppo, ce ne sono altri due che non incontrano la stessa indulgenza: sono, da un lato, coloro che fanno un cattivo uso della supremazia papale per soddisfare la loro cupidigia e contestare impudentenlente la giurisdizione imperiale: li chiameremmo oggi i puri politici; dall'altro lato ci sono coloro che si sforzano di fornire una giustificazione teoretica alle pretese papali pervertendo l'insegnamento della chiesa. Questo terzo gruppo di avversari specificatamente indicato con un nome. Sono i giuristi della curia, i decretalistae: coloro i quali sostengono che i decreti dei pontefici posseggono la stessa autorit della Sacra Scrittura. [...] In assenza di ogni altra prova, il capitolo terzo del libro secondo della Monarchia dovrebbe bastare, a mio parere, a indicare la data di composizione del trattato. Il raggruppamento che Dante vi delinea in se stesso rivelatore; esso evoca infatti ai nostri occhi la profana alleanza della teocrazia col nazionalismo. I teorici della monarchia universale del papato si son dati la mano con i sostenitori della sovranit dello stato. E costoro invero sono per Dante i peggiori della masnada, perche in fondo al cuore non riconoscono alcuna autorit superiore: iudicem habere nolunt. Pur di poter dare libero corso alle loro infamie essi sono disposti ad ogni estremo, sinanche a prostituire la loro madre . L'immagine del gigante e della meretrice e lo sdegno della Commedia son gi qui visibilmente adombrati. Ma il papa e la curia non sono ancora identificati come gli ispiratori della grande congiura ai danni della restauratio imperii. Dante tuttora convinto che le regole del gloco sono rispettate, e che nella sua stessa pretesa alla precedenza il pontefilce romano riconosce il principe romano come suo collega nel governo del mondo. Tale, io credo, la situazione storica che dobbiamo aver presente al fine d'intendere correttamente la Monarchia. Per quanto riguarda la chiesa il problema qui di raddrizzare una deviazione piuttosto che di riedificare ab imis fundamentis l'organizzazione religiosa dell'umanit. Molto importante l'allusione ai decretalistae, che non devono confondersi col decretistae Dante non nemico del diritto canonico in quanto tale, e un abisso lo divide dalla Riforma. Egli riserva un posto nel cielo a Graziano (Paradiso, decimo, 103-5),il grande ordinatore del diritto canonico, l'autore del Decretum. Graziano attendeva alla sua opera nella prima met del secolo dodicesimo, e la deviazione denunciata da Dante aveva avuto luogo in tempi posteriori, quando dai decreti papali (decretales) cominci a scaturire una sempre nuova produzione giuridica. Fin qui la presa di contatto col problema della chiesa essenzialmente negativa, e rimane tale attraverso la maggior parte del libro terzo della Monarchla (capitoli quarto-dodicesimo). Dante, a quel che sembra, ansioso di mantenere per quanto possibile la discussione proprio sul terreno degli avversari. Dapprima vengono gli argomenti scritturali, argomenti che gli scrittori papali avevano con grande abilit procurato d'estrarre dalla Scrittura a dimostrazione della dipendenza del potere temporale da quello spirituale. Di questo tipo l'allegoria del sole e della luna, fondata sul Genesi, primo 16--i duo luminaria magna--luogo comune della teoria politica medievale. Dante stesso l'aveva accettata nelle sue epistole politiche, n la respinge ora, sebbene sollevi alcuni dubbi circa la sua validit e respinga le conclusioni che i curialisti ne ricavavano. Egli segue una linea analoga in riguardo ad altre argomentazioni scritturali quali la potest delle chiavi, le due spade, ecc. Seguono gli argomenti tratti dalla storia, e in primissimo luogo quello della donazione di Costantino. Qui come altrove Dante accetta per autentica la leggenda della donazione; non discute l'autentici-

t dei documenti inseriti nel Decretum (primo, dist. 96, tredicesimo-quattordicesimo); ma,almeno in questa fase, egli si preoccupa della donazione soltanto dal punto di vista dell'impero. Costantino, come egli aveva gi indicato nel libro secondo, era stato il primo infirmator imperii. L'amarezza di Dante verso di lui dovuta al fatto che egli avrebbe dissipato la dignit imperiale e lacerato la tunica inconsutile dell'impero. La donazione pertanto non giuridicamente valida. Delle sue fatali conse guenze per la chiesa non si fa parola nella Monarchia. Gli argomenti fondati sulla ragione sono il terzo caposaldo della dottrina teocratica confutata da Dante. Qui incontriamo nuovamente l'argomentum unitatis: e l'oscillare di Dante su questo terreno caratteristico. Mentre infatti nella prima parte del trattato egli non aveva esitato a servirsi di tale argomento, in un senso quasi moderno, a provare la necessit della giurisdizione suprema dell'impero, egli adesso respinge decisamente ogni ulteriore impiego di esso da parte dei suoi avversari in favore della giurisdizione papale. La reductio ad unum, sostiene Dante, non pu applicarsi ai rapporti fra imperatore e papa; semmai, essa pu soltanto confermare l'opinione tradizionale che cos l'imperatore come il papa derivino la loro autorit da Dio, fonte originaria di ogni potere. L'atteggiamento di Dante rispetto alla chiesa nella Monarchia dunque nel complesso un atteggiamento conservatore. L'aculeo del suo argomento si manifesta in pieno soltanto alla fine, quando egli ribadisce il suo concetto dell'impero. Il potere temporale, in esso incarnato, non riguarda la chiesa n da essa deriva, giacch anche Ecclesia non existente aut non virtuante, imperium habit totam suam virtutem (Mon., terszo, tredicesimo, 3). Imperii vero fondamentum ius humanum est (ibid, decimo, 7): Dante crede con Aristotele e l'Aquinate che lo stato abbia un fondamento razionale e naturale. Ci non esclude che l'impero sia un rimedio contro l'infermit del peccato (ibid., quarto, 14): la nozione agostiniana dello stato sopravvive anche in questa fase, e invero viene associata a quella della missione provvidenziale dell'impero. Ma il valore positivo dell'impero s'impone, secondo Dante, attraverso l'evidenza della filosofia--per philosophica documenta (ibid, sedicesimo, 8). La sua necessit e dignit vengono pienamente e adeguatamente assicurate dalla ragione umana, quella ragione que per philosophos tota nobis innotuit (ibid., sedicesimo, 9). Siamo cos ricondotti alla concezione esposta nei capitoli introduttivi della Monarchia. L'impero lo strumento per l'attuazione del fine del genere umano nel suo complesso, della humana civilitas; in virtu dell'impero che pu conseguirsi la beatitudine di questa vita , una beatitudine que... per terrestrem paradisum figuratur (Mon., terzo, sedicesimo, 7). L'ottimismo politico di Dante sembra qui sconfinato, e il cmpito che egli assegna all'impero il pi alto su questa terra. Da quel cmpito la chiesa viene accuratamente esclusa. Infatti, al pari dell'impero, la chiesa un rimedio istituito dall'alto contro il peccato. Ma, diversamente dall'impero la chiesa una societ soprannaturale non effectus nature, sed Dei (ibid. quattordicesio,3).I suoi poteri sono puramente spirituali: il suo fondatore, Cristo, dichiar espressamente che il suo regno non era di questo mondo (ibid., quindicesimo, 5-6). Una netta separazione viene stabilita da Dante fra i due fini che l'ineffabile Provvidenza ha fissato agli uomini: il conseguimento della felicit in questa vita e in un'altra, la vita eterna (ibid., sedicesimo,7). Ne segue che le due supreme autorit che a ciascuna d'esse presiedono sono indipendenti l'una dall'altra; le loro vie in effetto non hanno alcun punto d'incontro. questo principio dell'autonomia o indipendenza della sfera temporale dalla spirituale che alcuni interpreti recenti considerano come l'essenza della teoria politica di Dante nella Monarchia. Nulla in realta mutato, essi affermano, con la correzione apportata da

Dante all'ultimo momento nel paragrafo finale del trattato. Qui egli ci ammonisce che la verit da lui esposta non deve essere interpretata falsamente non sic stricte recipienda est nel senso d'una completa equivalenza dei due poteri: Illa igitur reverentia Cesar utatur ad Petrum qua primogenitus filius debet uti ad patrem . Tale pia esortazione non altera la sostanza dell'argomento dantesco. Sei secoli or sono Guido Vernani indic che l'errore di Dante era nell'aver concepito la felicit temporale come fine in se stessa, laddove nella visione cristiana della vita essa pu essere soltanto un fine subordinato. Fra i nostri contemporanei, il Gilson e il Nardi si sono dichiarati concordi nel ritenere la teoria di Dante come sovvertitrice della nozione gerarchica del Medioevo: ed essi sono inoltre d'accordo che la fonte dell'atteggiamento di Dante su questo punto debba rintracciarsi nel principio gi esposto nel Convivio, che la filosofia indipendente dalla teologia ed guida sufficiente all'uomo per il conseguimento dei suoi fini terreni. Nella Monarchia, a ogni modo, la posizione di Dante esplicita gi in partenza, ed impossibile non essere colpiti dalla vastita del compito che egli attende dall'impero. la stessa attesa che ispira le epistole politiche, ma il vederla formulata sotto forma di una proposizione filosofica ne rivela pienamente la gravit e ne pone in luce tutto ci che vi implicito. A. PASSERIN D'ENTREVES: Da Dante politico e altri saggi, Torino, Einaudi, 1955, pp. 79-84. Dante Alighieri. Sommario: 1. La vita. 2. Le Rime e la Vita nuova. 3. Il Convivio. 4. Il De vulgari eloquentia. 5. La Monarchia e le Epistole. 6. La Commedia. /:/1.LA VITA. Dante Alighieri nacque a Firenze nella seconda met di maggio del 1265, da una famiglia appartenente alla nobilt cittadina di parte guelfa. Nonostante le condizioni economiche alquanto disagiate, pot in giovinezza condurre vita da gentiluomo e procurarsi una raffinata educazione. Dei suoi primi studi non abbiamo notizie sicure, ma pare che abbia imparato la retorica, cio l'arte di parlare in pubblico e di scrivere lettere in latino, indispensabile per chiunque volesse partecipare alla vita politica cittadina, proprio dal pi grande maestro della Firenze del tempo, Brunetto Latini. Ma ancora adolescente sent fortissima la vocazione alla poesia, e impar da s i'arte di dire parole per rima , meditando sulla lirica provenzale, sui Siciliani, su Guittone e su Guinizzelli. Le prime composizioni ben presto resero noto il suo nome negli ambienti letterari fiorentini; egli strinse cos un sodalizio poetico con alcuni letterati quali Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, a lui affini per gusto e sensibilit. La complessa esperienza intellettuale e sentimentale di questi anni si raccoglie tutta intorno alla figura angelicata di Beatrice, destnata a restare il cardine di tutto il percorso spirituale e poetico successivo. La morte della "gentilissima", avvenuta nel 1290, segna per Dante un periodo di smarrimento, ma anche l'uscita dal mondo troppo chiuso, esclusivo e rarefatto dello stilnovismo, e di conseguenza determina l'ampliamento dei suoi orizzonti culturali e un impegno pi concreto con la realt politica. Innanzitutto, per trovare conforto al dolore per la scomparsa di Beatrice, Dante si rivolge agli studi filosofici, entusiasmandosi tanto per la filosofia che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero : da questo momento l'ardore intellettuale e l'ansia di possedere la verit costituiranno al-

trettanti aspetti fondamentali della sua personalit e della sua poesia. Al tempo stesso legge i poeti latini, in specie Virgilio, che considera il suo maestro e il suo autore, riscopre i grandi poeti provenzali del periodo aureo, soprattutto Arnaldo Daniello, e si accosta anche alla poesia comica e burlesca. A partire dal 1295, a queste esperienze culturali si aggiunge quella politica. Nel 1293 gli "Ordinamenti di giustizia" di Giano della Bella avevano escluso i nobili dalle cariche pubbliche, sancendo cos la vittoria della nuova classe borghese sugli antichi ceti dirigenti. Ma nel 1295 un nuovo provvedimento riapr le cariche ai nobili, purch appartenessero a una corporazione, e Dante ne approfitt, iscrivendosi all'Arte dei Medici e Speziali, dati gli stretti legami che allora intercorrevano tra medicina e filosofia. Negli anni che seguirono pot cosi ricoprire varie cariche, sino a essere eletto fra i Priori, la suprema magistratura cittadina, per il bimestre 15 giugno 15 agosto del 1300. Era quello un periodo difficile per il Comune fiorentino, diviso all'interno tra le fazioni dei Bianchi e dei Neri, e minacciato nella sua autonoma dalle mene del papa Bonifacio ottavo, che, approfittando del disinteresse degli imperatori per le cose d'Italia, mirava ad assicurare il dominio della Chiesa sulla Toscana. La linea politica di Dante fu, appunto, condizionata da questi due problemi schiettamente cittadini, la pace interna e l'autonomia esterna, e con i colleghi Priori egli si adoper in ogni modo per contrastare le mire del papa e rafforzare gli ordinamenti comunali col ristabilimento della concordia. Ma pur essendo al di sopra delle parti, dovette accostarsi ai Bianchi, che gli parevano i pi fedeli alla libert del Comune, tanto pi che i Neri appoggiavano sempre pi chiaramente la politica papale. Nell'autunno del 1301 il legato pontificio Carlo di Valois, mandato in apparenza con le funzioni di paciere tra le fazioni, si impadroniva di Firenze con l'appoggio dei Neri, dando inizio alle persecuzioni contro la parte avversa. Dante non si trovava a Firenze, essendo stato inviato come ambasciatore presso la Curia. E probabilmente a Siena, nel gennaio del 1302, apprese di essere stato condannato all'esilio con l'imputazione di baratteria (cio di corruzione nei pubblici uffici). Non essendosi presentato a discolparsi, due mesi dopo una seconda sentenza lo condannava al rogo. Incominci cos per Dante l'esperienza tragica, eppure feconda dell'esilio. Nei primi tempi non rinunci alla speranza di ritornare in patria, e si un agli altri fuorusciti Bianchi. Ma ben presto sdegn questa compagna malvagia e scempia , e prefer far parte per se stesso. Ebbe inizio allora un lungo e doloroso pellegrinaggio per le varie contrade italiane. Il suo ufficio fu praticamente quello dell'uomo di corte presso signori magnanimi (come i Malaspina di Lunigiana) che ospitavano uomini di cultura per dar lustro alla propria corte, ma anche per servirsene in varie incombenze. E' comprensibile perci come Dante, nato e vissuto in un libero Comune, di indole fiera e sdegnosa e conscio del proprio valore, dovesse soffrire di questa umiliante condizione. Alla patria dove aveva lasciato ogni cosa diletta pi caramente rivolgeva sempre il pensiero, esprimendo l'amara nostalgia nelle pagine delle opere che veniva componendo. Insieme accarezzava il sogno di ritornare al bell'ovile dove aveva dormito agnello , non solo per essere mondato di ogni accusa infamante, ma anche per ricevere il giusto riconoscimento del suo valore. Frattanto, I'esperienza dell'esilio valeva ad allargare ulteriormente i suoi orizzonti da Firenze all'Italia al mondo intero. Il triste spettacolo a cui quotidianamente assisteva nelle sue peregrinazioni attraverso la penisola, lacerata da discordie, sopraffazioni e violenze di ogni genere, corrotta dalla dilagante bramosa di danaro, lo induceva a meditare sulla cagion che il mondo ha fatto reo [malvagio] , ed egli credette di individuarla nella mancanza di un supremo arbitro, che

facesse rispettare le leggi, I'imperatore, il cui potere era invece usurpato dalla Chiesa, che si corrompeva sempre pi nella cura delle cose mondane. Gli parve allora di essere investito della missione di indicare agli uomini le cause della loro abiezione, e di condurli sulla via del riscatto. Da questa vocazione profetica nacque il disegno della Commedia, alla quale continu a lavorare sino ai suoi ultimi giorni. Nel 1310 il suo sogno di una restaurazione imperiale che sanasse tutti i mali dell'umanit parve dovesse concretarsi nella realt: il nuovo imperatore Arrigo settimo scendeva in Italia per cingere la corona, con il consenso del pontefice Clemente quinto. Ma ben presto le generose illusioni del poeta svanirono di fronte al voltafaccia del papa, alla resistenza delle citt italiane, e infine all'improvvisa morte dell'imperatore avvenuta nel 1313. Frattanto erano cadute anche le ultime speranze di un ritorno in patria: nel 1315 Dante rifiut sdegnosamente un'amnistia, che aveva come prezzo il riconoscimento della propria colpa. Nei suoi ultimi anni, trov ospitalit prima presso il signore di Verona Cangrande della Scala, poi presso Guido da Polenta di Ravenna, ormai circondato dalla fama di altissimo poeta e di uomo di mirabile dottrina. E a Ravenna, di ritorno da un'ambascera a Venezia, mor il 14 settembre del 1321, dopo aver appena terminato gli ultimi canti del Paradiso.

/:/2. LE "RIME" E LA "VITA NUOVA". Firenze, ai tempi della giovinezza di Dante, era un ambiente frvido di cultura, in cui le pi diverse tendenze fiorivano a fianco a fianco, dalla lirica cortese di tipo guittoniano alla nuova maniera cavalcantiana, dallo stile comico e borghese all'enciclopedismo e alla retorica di Brunetto Latini, alI'allegorismo dei poemetti quali il "Fiore" o l'"Intelligenza". In questo ambiente cos stimolante, il giovane Alighieri cominci prestissimo a occuparsi di poesia. I documenti del suo noviziato poetico costituiscono una parte cospicua delle "Rime", accanto a una serie di altri componimenti, che risalgono a epoche successive. Nel fermentare dei vari indirizzi culturali del suo ambiente, il poeta sceglie quelli pi raffinati, ardui e aristocratici, orientandosi verso la lirica d'amore di ascendenza provenzale. Le prime prove rivelano un netto influsso guittoniano, nella ripetizione di convenzionali schemi psicologici e nel linguaggio ricco di astrusi artifici. Ma subentra ben tosto l'amicizia con Guido Cavalcanti, e nasce quel cenacolo di spiriti eletti e aristocratici, orgogliosi della propria altezza d'ingegno e desiderosi di isolarsi dalla tumultuosa realt contemporanea in un mondo di raffinati sentimenti, che viene oggi designato con la formula dantesca di "Dolce stil novo". Questo clima spirituale documentato dal celebre sonetto "Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io", dove il poeta accarezza un sogno di evasione, accanto agli amici e alle donne amate, in un mondo sereno e fuori del tempo, concepito secondo i modi fiabeschi delle leggende bretoni di re Art. E' naturale che il giovane Dante subisca il fascino del pi anziano e prestigioso amico Cavalcanti: difatti le sue rime registrano, dopo la fase guittoniana, un'evidente suggestione cavalcantiana, concentrandosi nella visione drammatica dell'amore come tormento e sofferenza e nell'analisi esclusiva dell'io dolente. Da questo influsso Dante ben presto si libera, trovando una maniera schiettamente personale. Ma per comprendere questa svolta, opportuno rifarsi all'interpretazione che Dante stesso ne diede pi tardi, a esperienza conclusa, nella "Vita nuova". Dal mazzo gi folto delle sue liriche, Dante decise, dopo la morte

di Beatrice, di raccogliere insieme tutte quelle riferentisi al suo amore sublime per la gentilissima , facendole precedere da un commento in prosa che spiegasse l'occasione dei singoli componimenti e li chiudesse in una vicenda unitaria. L'opera, compiuta fra il 1293 e il 1295, fu intitolata "Vita nuova" a indicare il rinnovamento interiore del poeta operato da un amore eccezionale e altissimo. La "Vita nuova" dunque la ricapitolazione di un'esperienza passata, e al tempo stesso la ricostruzione del suo significato profondo; esperienza sentimentale e intellettuale insieme, di vita e di poesia, cos unite tra loro da non potersi distinguere. Di qui nascono le discussioni tra coloro che interpretano la "Vita nuova" come reale documento autobiografico, e coloro che vi scorgono un'allegoria, una pura trascrizione simbolica di un complesso di idee e di sentimenti. Ma l'operetta non n una cosa n l'altra. In essa certo contenuta una trama di fatti realmente accaduti, ma Dante si sforza soprattutto di cogliere i significati segreti che stanno al di l di essi, e di comporli in una vicenda esemplare, universalmente valida, sottratta al tempo e allo spazio. Deriva di qui l'irrealismo che caratterizza la narrazione dantesca. I luoghi e le persone perdono la loro concreta fisionomia individuale e sfumano in un'estrema indeterminatezza. Tra la molteplicit di avvenimenti che presenta normalmente la vita quotidiana viene operata una rigorosissima selezione, che lascia filtrare solo pochi gesti, poche azioni, estremamente stilizzate e come assottigliate, svuotate di ogni urgenza fisica immediata, ridotte a pure cifre immateriali: incontri, sguardi, saluti, gentili colloqui, solitarie passeggiate, lacrime, sospiri. Ne deriva l'impressione di un mondo diverso da quello reale, impalpabile ed evanescente, come immerso in un'aura, stranita, di sogno; tant' vero che alle vicende reali si mescolano spesso autentici sogni e visioni, senza che si crei alcuno stridore, alcuna sfasatura di tono e d'atmosfera. Il poeta narra di aver incontrato all'et di nove anni Beatrice, e di averne provata una tale impressione che da quel momento Amore signoreggi la sua anima. Dopo nove anni (nella narrazione torna di frequente la simbologia dei numeri), Dante incontra ancora Beatrice, e al suo saluto gli pare di vedere tutti li termini della beatitudine . Da allora nel saluto della gentilissima egli ripone tutta la sua felicit. Per, seguendo strettamente i rituali dell'amor cortese, si sforza di celare a tutti la vera identit dell'amata; perci finge di amare altre donne, che chiama dello schermo , perch proteggono il suo sentimento dagli invidiosi "malparlieri". La finzione suscita tuttavia le ciarle della gente e lo sdegno di Beatrice, che gli nega il saluto. Comincia cos per Dante un periodo doloroso, che coincide con l'adozione, in poesia, di una tematica cavalcantiana, imperniata sulla visione dell'amore come forza crudele che fa soffrire. Ma attraverso questa esperienza matura una profonda trasformazione della sua maniera di concepire l'amore. Egli comprende di dover porre il fine dell'amore non pi nel saluto, ma in qualcosa che non gli puote venir meno , in quelle parole che lodano la sua donna. Di conseguenza, decide di assumere per la sua poesia matera nuova e pi nobile che la passata : non pi la descrizione dei suoi tormenti, ma solo la lode della gentilissima . Nasce cos la canzone "Donne che avete intelletto d'amore", da cui Dante fa iniziare le sue nove rime , una nuova maniera di poetare. E' questa la svolta fondamentale a cui ci eravamo fermati nell'analizzare le "Rime giovanili"; e poich Dante stesso si preoccupa di metterne fortemente in rilievo l'importanza, bisogner cercare di capirne a fondo il senso dietro alle sottili argomentazioni del poeta. Quello che si qui verificato in sostanza il superamento dell'amor cortese, quale si era tramandato dai trovatori di Provenza agli stilnovisti. L'amore che Dante ci descrive in tutta la prima parte del libretto rientra ancora pienamente nei cnoni dell'a-

mor cortese, secondo cui l'amante poteva sempre sperare un premio da parte dell'amata; il saluto, dato il grado di sublimazione a cui era giunto in Italia l'amor cortese, era divenuto appunto il simbolo di questo appagamento. Ora invece Dante dichiara che la felicit nasce tutta dentro di lui, nella lode della donna, e attribuisce a questa scoperta un valore incommensurabile. Ebbene, questo modo di concepire l'amore ha una stretta affinit con la visione dell'amore mistico elaborata dai teologi precedenti Dante. E' l'amore dei beati in cielo, che non cerca premio, e trova la sua felicit nella contemplazione e nella lode di Dio. L'amore per Beatrice si innalzato a un livello ben superiore a quello cantato dai trovatori. La donna un miracolo, un dono di Dio, la guida alla perfezione e alla salvezza; la "salute" che proviene dal suo saluto la salvezza dell'anima secondo la concezione cristiana; l'amore non pi passione terrena, sia pur sublimata e raffinata, ma un aspetto di quell'amore di cui parlano mistici e teologi, la forza che muove tutto l'universo, che innalza le creature sino a ricongiungersi con Dio: l' Amor che move il sole e l'altre stelle , come lo definir Dante stesso nell'ultimo verso del "Paradiso". Quando Guinizzelli e Cavalcanti lodavano la donna come angelo del cielo, non si trattava che di un'iperbole retorica, che rientrava in una precisa convenzione poetica. Ma nella "Vita nuova" la prosa che accompagna le liriche attesta che non si tratta di metfore dell'uso poetico, e risponde della profonda seriet di tutto il discorso. L'intera opera tesa verso il cielo, e quando alla fine il poeta lo raggiunge, non si tratta di una metfora retorica, ma d'una realt autentica dell'anima. In effetti la vicenda d'amore della "Vita nuova", dopo lo stadio cortese, e dopo la scoperta dell'amore come contemplazione e lode, conosce ancora un terzo momento: la morte di Beatrice. Essa preannunciata al poeta da una visione avuta durante una malattia, che offre la materia alla pi bella delle liriche della "Vita nuova", la canzone "Donna pietosa e di novella etate", tutta sospesa in un'aura stranita di arcane visioni. Difatti poco tempo dopo Beatrice muore realmente. Per il poeta trascorrono giorni di grande dolore, finch lo sguardo pietoso di una donna giovane e gentile attrae la sua attenzione. Un nuovo amore sembra dover nascere, e coprire d'oblo quello antico. Ma la tentazione vinta da una nuova visione, in cui al poeta appare Beatrice come la prima volta in cui gli era apparsa. Il "malvagio desiderio" scacciato e tutti i pensieri di Dante ritornano a Beatrice. E l'"intelligenza nova" che Amore mette in lui lo eleva sino all'Empreo, dove ha la visione di Beatrice splendente di gloria. E' questa la materia dell'ultimo sonetto della "Vita nuova", "Oltre la spera che pi larga gira". Il circolo si chiude: I'amore che discendeva dal cielo tramite Beatrice, per lo stesso tramite ritornato al cielo. Anche la "Vita nuova", dunque, un viaggio verso Dio con Beatrice per guida, come sar poi la Divina Commedia. Difatti, poco dopo aver scritto il sonetto citato, il poeta narra di aver avuto una mirabile visione , e si propone di non parlare pi di Beatrice sinch non potr "pi degnamente trattare di lei". E spera, se Dio gli conceder di vivere ancora alcuni anni, di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna : l'annuncio che nella mente del poeta si formato il primo germe del futuro capolavoro. Ma, nonostante questo presagio, il passaggio dalla "Vita nuova" alla "Commedia" non affatto diretto e immediato: in mezzo si pongono due grandi esperienze che maturano profondamente la visione di Dnte, e colmano l'abisso tra il chiuso ed evanescente mondo dell'operetta giovanile e quell'immensa sintesi del reale in tutta la sua molteplicit che il capolavoro: sono l'esperienza filosofica e quella politica. Tali esperienze si riflettono innanzitutto nelle Rime scritte posteriormente alla "Vita nuova". Nel "Convivio" Dante narra come, dopo la

morte di Beatrice, fosse sorta in lui un'ardente passione per la filosofia, che veniva quasi a soppiantare il ricordo della gentilissima . Da questo nuovo e singolare amore nascono alcune canzoni allegoriche, in cui permangono i modi espressivi dello Stil novo, ma alla donna reale si sostituisce un'astrazione, la Filosofia. Due di esse, "Voi che intendendo il terzo ciel movete" e "Amor che nella mente mi ragiona" saranno poi raccolte e commentate nel "Convivio". L'ardore intellettuale, I'ansia di conoscenza, che sono aspetti essenziali della poesia dantesca, trovano qui espressione attraverso la metfora amorosa: ma gi la terza canzone del "Convivio", "Le dolci rime d'amor", abbandona l'allegoria e affronta direttamente la materia concettuale, il problema etico della nobilt. E l'adozione di nuovi contenuti implica anche l'abbandono dello stile soave della poesia amorosa, le dolci rime di un tempo, e determina l'uso di una "rima aspra e sottile", che traduca l'arduo sforzo di architettare nudi concetti. Accanto a questa canzone se ne pu porre un'altra, "Poscia che Amor", destinata forse anch'essa a essere commentata nel "Convivio", in cui viene analizzata una tipica virt cortese, la "leggiadra": come si vede, Dante si misura con problemi vivi nella societ del suo tempo, assumendo la posizione del conservatore, del difensore del passato di contro alla corruzione presente. Nel suo atteggiamento polemico si delinea una rigorosa tempra morale, una visione della vita sorretta da fermi principi: al soave ma gracile poeta d'amore subentrato l'austero "cantor rectitudinis" [poeta della virt] . Ma per Dante sono questi, tra la morte di Beatrice e l'esilio, anni di intense sperimentazioni. Se nelle grandi canzoni dottrinali egli ricerca uno stile "sublime", dotto ed elevato, tenta poi anche la via della poesia comica e burlesca. Ne documento la "tenzone" con Forese Donati, uno scambio di sonetti pieni di mordenti invettive, in cui Dante fa le prove di un linguaggio basso e plebeo, denso delle realt pi corpose, ma impiegato con altissima perizia tecnica, che gli servir poi per affrontare il mondo del basso Inferno. Quasi parallelamente avviene per Dante l'incontro con la poesia provenzale del periodo aureo, conosciuta nella giovinezza pi che altro per via indiretta, e soprattutto con l'elaboratissimo e astruso Arnaldo Daniello. Nascono di qui le "Rime petrose", cos chiamate perch dedicate a una madonna Pietra, bella e insensibile. In esse si riversa una passione ardente e sensuale, lontanissima dalle estasi e dai rapimenti stilnovistici, che viene espressa, per, in modi estremamente intellettualistici e preziosi, con il ricorso ai tecnicismi pi esasperati nella metrica, nelle immagini, nelle parole, in ossequio al modello provenzale. Eppure, specie nella sestina (forma metrica tecnicamente molto difficile, tipica di Amaldo, composta di strofe di sei versi, dove in rima tornano sempre le stesse parole) "Al poco giorno" e nella canzone "Io son venuto", un sottile fascino promana dai quadri di paesi e stagioni, specialmente di una natura irrigidita dal gelo invernale (la terra che "par di smalto , l' acqua morta che si converte in vetro), "ritratti con quella lucidit secca e cristallina che s'appunta nella nitidezza preziosa del singolo vocabolo, e ritorner nei punti della Commedia dove la fantasia di Dante si fa, nel descrivere, pi elegante e metafisica, densa a un tempo e irreale". Parimenti, nell'altra canzone "Cos nel mio parlar voglio essere aspro", si fa strada una mossa e vigorosa drammaticit, un'intensit di immagini e di linguaggio che fa presentire il tono del capolavoro. Nelle "Rime" scritte dopo l'esilio spicca soprattutto la canzone "Tre donne intorno al cor mi sono venute", in cui affermata con incisivit l'alta dignit dell'"exul immeritus", l'esule immeritevole per il quale, in un mondo in cui tutti i valori sono degradati e stravolti, la pena stessa un onore: "l'essilio che m' dato, onor mi tegno . In questi anni la visione dantesca si fa pi cupa: il mondo ai suoi occhi

pare sprofondato in una generale abiezione. Perci, nel sonetto "Se vedi gli occhi miei di pianger vaghi", eleva a Dio una preghiera perch ristabilisca in terra la giustizia, "ch sanza lei non in terra pace". E' questo il nodo di affetti e di ideali che viene anche espresso, in questi anni, nella "Commedia": un intenso desiderio di pace, che componga il mondo umano secondo l'ordine perfetto del mondo divino; e dal vedere le speranze sempre deluse dalla realt, nascono gli sdegni e le ire di Dante: nella canzone "Doglia mi reca" egli si scaglia contro l'avarizia e il culto del denaro che signoreggiano il mondo con il tono aspramente polemico e apocalittico che delle grandi invettive del poema indirizzate contro la nuova realt borghese e mercantile, che distrugge i valori del passato feudale e cortese.

/:/3. "lL CONVIVIO". Frutto degli studi filosofici e dell'esperienza della realt maturata nell'attivit politica anche il "Convivio", scritto tra il 1304 e il 1307. Nel disegno di Dante, I'opera doveva essere una vasta enciclopedia, in cui si raccogliesse tutto lo scibile umano; doveva comprendere quindici trattati, il primo introduttivo, gli altri costruiti come commento ad altrettante canzoni, ma fu interrotto al quarto, probabilmente pereh sostituito, nella mente di Dante, dal grandioso disegno della "Commedia". Nel primo trattato l'autore espone i fini dell'opera: egli vuole offrire un banchetto di sapienza, ma non ai dotti, bens a tutti coloro che per "cure familiari e civili" non abbiano potuto dedicarsi agli studi, pur essendo dotati di spirito "gentile", elevato e virtuoso, cio, diremmo noi, alla classe superiore: "principi, baroni, cavalieri, e molt'altra nobile gente, non solamente maschi, ma femmine; che sono molti e molte in questa lingua, volgari e non litterati". Per questo non scrive in latino, come la tradizione imponeva per le opere dottrinali, ma in volgare. Anzi del volgare fa un'appassionata esaltazione, proclamando la sua dignit pari a quella del latino. Nel "Convivio" culmina dunque quella tendenza alla divulgazione che in tutta la prosa volgare precedente, sintomo delle esigenze della societ laica che mira ad impadronirsi di quella cultura che era stata per secoli monopolio dei chierici. Una cultura concepita non come astratto esercizio intellettuale destinato a pochi eletti, ma come strumento di lavoro, al contatto della vita civile. E proprio quest'ansia civile, questa volont di contribuire a stabilire un'ordinata convivenza umana riscalda la prosa greve di medievale dottrina del "Convivio". Nel secondo trattato Dante offre essenzialmente una vasta descrizione dei cieli e delle intelligenze angeliche da cui sono governati, utile a intendere la struttura del Paradiso. Il terzo tutto un inno alla sapienza, somma perfezione per l'uomo, e vi tocca il culmine quell'entusiasmo filosofico, quel culto dell'intelligenza che anima tutta l'opera, e da cui si irradia una ricca gamma di sentimenti: I'aspirazione a una sapienza sentita come la felice nobilt di alcuni pochi; la malinconia e l'umilt di sentirsi da essa ancora lontano; la consapevolezza gioiosa del proprio sapere nei confronti della gente comune; la responsabilit di insegnare a chi rimasto nell'ignoranza, e tante altre sfumature e tonalit, che daranno vita a uno dei filoni poetici pi suggestivi della "Commedia", la poesia dell'intelligenza. Nel quarto trattato infine viene affrontato un importante problema morale allora molto discusso, quello della nobilt, intesa non pi come privilegio di sangue, ma come conquista personale mediante l'esercizio della virt. Vi trova anche posto una prima enunciazione della teoria politica di Dante, incentrata sulla necessit di un Impero universale, che sar sviluppata qualche anno pi tardi nella Monarchia.

/:/4. IL "DE VULGARI ELOQUENTIA". Scritto nello stesso periodo del Convivio, il "De vulgari eloquentia" [L'eloquenza volgare] ne riprende il discorso sulla dignit del volgare. L'opera nasce dal proposito di fissare norme precise per l'arte di scrivere in volgare, come avevano fatto le "retoriche" antiche per la lingua latina. Con il trattato dantesco si conclude perci, toccando il massimo grado di consapevolezza teorica, il processo di affermazione del volgare come lingua dell'alta cultura che si era svolto lungo tutto il corso del Duecento. Scritto in latino, pereh opera strettamente scientifica destinata ai dotti, il "De vulgari eloquentia" doveva comprendere almeno quattro libri, ma rimase interrotto a met circa del secondo. Il primo libro imposta il problema del volgare illustre , cio della formazione di un linguaggio e di uno stile sublimi, atti a trattare argomenti elevati e importanti. La retorica medievale infatti, sulle orme di quella classica, dava molto peso alla divisione degli stili a seconda della materia trattata, e distingueva uno stile sublime o "tragico", uno mezzano o "comico", e uno umile o "elegiaco". Dante, dopo aver tracciato una rapida storia del linguaggio, passa in rassegna tutti i dialetti d'Italia alla ricerca di quel volgare illustre a cui egli mira, ma non gli pare di poterlo riconoscere in alcuno di essi. Il volgare illustre sarebbe la lingua degna di essere parlata alla corte regale; ora, sebbene l'Italia non abbia un unico sovrano, non si pu dire che manchi di una corte, anche se essa materialmente dispersa: le "membra" di questa corte sono i letterati e gli uomini dotti disseminati nelle varie citt d'Italia, e a essi tocca l'elaborazione del volgare illustre. Nel secondo libro invece si definiscono gli argomenti per i quali occorre lo stile "tragico": le armi, l'amore, la virt. Rispetto alla "Vita nuova", in cui Dante affermava che solo gli argomenti amorosi si addicevano al volgare, il "De vulgari eloquentia" segna un notevole allargamento del campo poetico della nuova lingua, e costituisce la presa di coscienza teorica di un ampliamento che si era di fatto verificato negli interessi danteschi, come provano le "Rime" di argomento morale e politico posteriori al giovanile periodo stilnovistico. Per ora Dante fissa la sua attenzione solo sullo stile "tragico", che per lui si deve concretare nella canzone. Ma non per nulla il trattato interrotto: il segno pi palese del maturare in Dante del disegno della "Commedia", cio un'opera non pi in stile "tragico", il bello stilo delle canzoni che gli aveva fatto onore :, ma in stile "comico", in cui possano trovare posto tutte le manifestazioni della realt, dalla turpe bassezza dell'Inferno alla gloria luminosa del Paradiso.

/:/5. LA "MONARCHIA" E LE "EPISTOLE". La grandiosa costruzione poetica e concettuale della "Commedia" accompagnata da un intenso lavoro di speculazione politica, che prende corpo nella "Monarchia" e in alcune delle "Epistole". La "Monarchia" sorge sul terreno vivo della realt contemporanea. Il primo decennio del '300 aveva visto un rapido logoramento delle due massime istituzioni del Medio Evo, la Chiesa e l'Impero: questo aveva perso completamente il suo dominio sull'Italia, quella aveva tentato di riempire il vuoto politico, ma si era sempre pi corrotta e alla fine era divenuta praticamente vassalla della monarchia francese. In questa crisi Dante ravvisa la causa della decadenza e della corruzione in cui piombato il mondo, privato della sua guida spirituale e tempo-

rale. Gi nel "Convivio" aveva formulato il sogno di una restaurazione dell'autorit imperiale, che riportasse la pace, la giustizia, il rispetto della legge e i buoni costumi nel mondo dominato dalla bramosa di denaro, dalla violenza e dalla volont di sopraffazione. Questo sogno pare doversi tradurre in realt nel 1310, alla notizia che il nuovo imperatore Arrigo settimo sta calando in Italia per ristabilirvi l'autorit imperiale. L'arrivo dell'imperatore accolto da Dante con tre lettere, ai reggenti d'Italia, ai Fiorentini e ad Arrigo stesso, in cui vibrano le sue speranze per l'impresa, lo sdegno per i maneggi di chi l'ostacola, i timori di un fallimento. Dietro lo stimolo di questo evento capitale nasce anche la "Monarchia" (la cui data di composizione non per ben sicura). Essa l'opera dottrinale pi organica di Dante, e anche l'unica compiuta. Nel primo libro si dimostra la necessit della monarchia universale, cio di un imperatore che sia supremo arbitro delle contese e amante della giustizia. Il secondo libro dimostra come l'autorit imperiale giustamente sia stata attribuita da Dio al popolo romano, che ebbe il compito provvidenziale di unificare e pacificare il mondo per renderlo atto ad accogliere la venuta di Cristo. Il terzo libro tocca il problema pi importante e pi attuale: il rapporto tra Chiesa e Impero. Proprio in quegli anni una corrente politica affermava che la suprema potest era quella dell'imperatore e che quella del papa derivava da essa; un'altra corrente sosteneva la tesi esattamente opposta del potere supremo della Chiesa, da cui derivava quello imperiale. Di contro ad ambedue le tesi, Dante afferma che i due poteri sono autonomi, derivando entrambi direttamente da Dio. Ma la loro sfera d'azione diversa: l'Impero ha per fine il raggiungimento della felicit in questa vita, la Chiesa invece il raggiungimento della beatitudine eterna. L'azione delle due guide per complementare, in quanto solo se l'umanit in pace e concordia pu seguire la guida del papa e giungere alla salvezza. La costruzione concettuale di Dante era grandiosa, ma anche destinata a rimanere nei limiti di una magnanima utopa, che la realt effettuale della storia avrebbe ben presto dimostrato irrealizzabiie; e tuttavia proprio da questo sogno di un'impossibile restaurazione delle istituzioni e dei valori del passato, da questo rifiuto cruccioso del presente, da quest'ansia visionaria e profetica di un'universale rigenerazione doveva scaturire la straordinaria costruzione poetica della "Commedia".

/:/6. LA "COMMEDIA". La "Commedia" segna il ritorno a Beatrice: dopo anni di intense esperienze filosofiche e politiche Dante riprende contatto con il mondo della sua poesia giovanile. In effetti il poema, a cui comincia ad attendere nei primi anni dell'esilio, pare rispondere alla promessa, fatta nell'ultimo capitolo della Vita nuova, di dire di Beatrice quello che mai non fue detto d'alcuna , e riprende il disegno, gi adombrato nelle sottili trame del romanzo giovanile, del mistico viaggio a Dio, dell'innalzamento dell'anima al di sopra della condizione mortale sino a partecipare della gloria celeste. Ma l'esperienza di vita e di cultura che il poeta ha maturato uscendo dall'umbratile mondo dello stilnovismo non stata invano. Perci, se vi un rapporto intimo tra la "Vita nuova" e la "Commedia", vi anche una netta opposizione. Il viaggio a Dio si compie ormai in ben altro modo: non pi una esperienza esclusivamente individuale vissuta nell'interiorit; prima di attingere alla gloria celeste il poeta deve scendere nelle viscere della terra dove si raccoglie tutto il male del mondo, salire faticosamente il monte del Purgatorio per conoscere il travaglio dell'espiazione; deve cio compiere un'esplorazione di tutta la realt terrena e

storica, prendendo coscienza degli aspri conflitti che la dilacerano. Perci, se il germe primo del poema l'antico disegno di esaltare Beatrice, lo stimolo immediato di natura essenzialmente morale e politica. La "Commedia" nasce da una visione cupa e apocalittica della realt presente e dall'ansiosa speranza di un riscatto futuro. Dante scorge dinanzi a s, nella sua quotidiana esperienza di pellegrino per tutte le contrade d'Italia, un mondo sconvolto e corrotto: I'imperatore dimentica la sua funzione di garante della giustizia e della pace e ha perduto ogni autorit, la Chiesa invece di attendere alla salvezza delle anime persegue solo fini di salvezza mondana; tutti i valori che nel passato assicuravano un tranquillo e ordinato vivere civile, come la sobriet e la pudicizia, sono sovvertiti; anche cortesia e valor, le splendide virt cavalleresche d'un tempo, li affanni e li agi / che ne 'nvogliava amore e cortesia sono scomparsi sotto l'ondata di una gente nova che, recando ancora addosso il puzzo della campagna, invade le citt ansiosa di sbiti guadagni : un mondo caotico e brulicante, in cui la cupidigia di denaro, del maladetto fiore impresso sul fiorino, trionfa generando da s tutta una serie di altri vizi, orgoglio e dismisura , invidia, volont di sopraffazione, che trasformano le citt in teatri di discordie e lotte senza fine. Dante, pur cogliendo con mirabile acutezza gli aspetti della crisi contemporanea, non comprende che si tratta di una crisi salutare; per lui, rappresentante della classe nobiliare pressoch spodestata dai nuovi ceti borghesi, non si tratta solo della fine di un mondo ormai esausto, da cui scaturir un mondo nuovo e pi splendido, ma della fine del mondo in assoluto. Perci egli sente di essere stato investito da Dio della missione di salvare l'umanit dal baratro e di indicarle la via della rigenerazione. Egli il terzo a compiere il viaggio nell'oltretomba dopo Enea, da cui deriv l'Impero romano, e san Paolo, che diffuse nel mondo il Cristianesimo. A lui ora tocca di ricondurre l'umanit all'obbedienza della sua guida temporale e di quella spirituale. E lui stesso il Veltro, il messo divino che scaccer dal mondo la lupa , simbolo della cupidigia, a cui accenna l'oscura profezia del primo canto del poema. La "Commedia" nasce perci con un carattere profetico, di ispirato messaggio, e vuole essere lo strumento per riportare l'ordine nel mondo sconvolto. Il viaggio nell'oltretomba, in cui viene analizzato il male del mondo terreno in tutte le sue forme, e in cui, attraverso l'espiazione, si attinge infine alla gloria del Paradiso, la storia della redenzione individuale di Dante, ma anche un invito alla redenzione dell'umanit intera. Redenzione che deve condurre alla salvezza eterna nella citt celeste, ma prima ancora alla beatitudo huius vitae , alla felicit e alla pace nella citt terrena. Dante cominci la stesura del suo poema probabilmente dopo il 1307 (anche se, come attestano alcuni biografi antichi, i primi canti furono composti forse prima dell'esilio); e dalle testimonianze che possediamo, possiamo dedurre che nel 1319 l'Inferno e il Purgatorio erano gi pubblicati, mentre il Paradiso, a cui il poeta attese sino agli ultimi tempi della sua vita, comparve ormai dopo la sua morte. A tradurre in atto il suo grandioso disegno Dante si valse degli strumenti che gli forniva la cultura del suo tempo: innanzitutto adott lo schema della visione dei tre regni ultraterreni, di cui la tradizione medievale, latina e volgare, aveva gi dato numerosi esempi (l'ingenua visione di Bonvesin della Riva). Nel suo complesso poi l'opera rientrava nel genere, anch'esso tipicamente medievale, del poema allegorico e didascalico, sulla linea del francese Roman de la Rose e del toscano Fiore (che taluni oggi vogliono attribuire a Dante stesso), e obbediva al concetto allora imperante della poesia come ammaestramento e rivelazione della verit. Il fondo concettuale costituito dalla filosofia della Scolastica, e soprattutto di san Tommaso, che aveva compiuto una ge-

niale opera di fusione della filosofia aristotelica con le dottrine cristiane. Ma nel poema confluisce praticamente tutta la cultura del Medio Evo, che Dante, uomo dottissimo e fiero della propria dottrina, domina con grande sicurezza. Perci la "Commedia" si pu anche considerare la continuazione, in lingua volgare, delle grandi "Summae", le enciclopedie del Medio Evo, che abbracciavano il reale nella sua totalit, chiudendola in un armonico sistema concettuale che spiegava ogni mnomo particolare; con la differenza che Dante non vuole solo spiegare il mondo, come i teologi, ma trasformarlo in obbedienza alla missione profetica che sente a lui destinata, restaurandone l'ordine compromesso (come scrive in una epistola indirizzata a Cangrande della Scala, il poema stato scritto non per la speculazione, ma per l'azione: non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars ). Sorretta da tutto il lavoro teologico e filosofico del Medio Evo, la visione del mondo di Dante caratterizzata da una salda fede nel possesso della verit, dalla convinzione che il mistero dell'universo stato definitivamente spiegato dalla rivelazione divina e dalla filosofia, e che non resta pi alcun margine di dubbio e di errore. Da tutto il poema spira questa certezza incrollabile. Anche se il poeta assume senza esclusioni tutto il reale nella sua molteplicit irta di contraddizioni, I'universo gli appare retto da un ordine mirabile, regolato dalla volont di Dio, nel quale ogni elemento ha una giustificazione e un fine. E in questa visione di un'immobile perfezione trascendente, egli trova conforto a compiere la propria missione di riportare l'ordine nella citt terrena, rigenerandola sul modello della citt divina. Anche il titolo di "Commedia" fu posto da Dante alla sua opera in obbedienza alle norme retoriche medievali. Abbiamo gi visto a proposito del "De vulgari eloquentia" come il Medio Evo desse molta importanza alla divisione dei tre stili, "tragico", "comico" ed "elegiaco". Dante nell'epistola con cui dedica a Cangrande alcuni canti del Paradiso, e che contiene alcune importanti dichiarazioni di poetica, spiega perch la sua opera appartenga al genere "comico": innanzitutto perch ha un inizio doloroso, I'Inferno, e una fine lieta, il Paradiso; in secondo luogo per lo stile, che quello remissus et humilis in cui et mulierculae communicant [dimesso e umile, m cui anche le donnicciole comunicano fra loro]. Questa affermazione pu sembrare strana, in quanto l'argomento del poema dei pi sublimi, cio il viaggio nei tre regni dell'oltretomba, e pare anche contrastare con i numerosi punti in cui Dante dimostra piena coscienza dell'altezza della sua opera. Ma la realt che Dante ha elaborato un nuovo tipo di sublime: non pi quello classico, "tragico", che si limitava a rappresentare solo ci che fosse nobile ed elevato, con rigorosa e aristocratica esclusione di tutto ci che fosse umile e quotidiano, ma un sublime ispirato alla visione cristiana della vita, che non teme di raccogliere in un'unica rappresentazione tutta la realt nei suoi molteplici aspetti, da quelli pi alti a quelli pi concreti e dimessi sino a quelli pi turpi e abietti, sentiti anch'essi nella loro profonda seriet e importanza. E per designare questo nuovo tipo di sublime, Dante elabora una formula nuova, che esce dagli schemi retorici classici del "tragico" e del "comico": il poema sacro a cui ha posto mano e cielo e terra , il poema che abbraccia la storia continuamente mutevole degli uomini e l'eterna verit di Dio, il caos e la miseria della terra e l'immobile perfezione del cielo. La molteplicit degli aspetti reali raccolti nel poema si riflette nella molteplicit dei piani stilistici e linguistici. Stile e linguaggio si innalzano progressivamente nelle tre cantiche in corrispondenza con l'innalzamento della materia. Un diagramma di questo innalzamento pu essere segnato da tre vocaboli diversi che nelle tre cantiche Dante usa per designare un medesimo oggetto: nell'Inferno Caronte un

vecchio , nel Purgatorio Catone un veglio , nel Paradiso san Bernardo un sene ; si passa cio dal termine pi usuale e quotidiano a un termine pi eletto e letterario, per giungere al puro latinismo dotto e solenne. Nell'Inferno, sul fondo dei toni pi dimessamente narrativi spicca l'intensa espressivit dello stile aspro , fatto di termini rari e talora crudamente dialettali ( piote per gambe , accaffare per arraffare , introcque per frattanto ), rime difficili, suoni stridenti e disarmonici, con cui, specie negli ultimi cerchi, Dante vuol rendere la bassezza plebea del mondo rappresentato. Nel "Purgatorio" il linguaggio si fa pi elevato e nobile, e anche pi uniforme, coerentemente con il tono sentimentale della cantica. Nel "Paradiso", a rendere il senso di un'ardua esperienza, la scalata alle cime ineffabili della realt divina, Dante ricorre a un linguaggio eccezionale composto di latinismi, provenzalismi e francesismi, parole di assoluta e impensata novit ( immiarsi , intuarsi , immillarsi , insemprarsi ), senza per temere di ridiscendere ai termini pi concrefi e pleblei nei passi di violenta invettiva politica. Dante apre cos un filone della nostra letteratura che si compiace delle mescolanze stilistiche, dei forti contrasti che intensificano l'espressivit del linguaggio. Questo filone assumer poi sempre una funzione di polemica e di rottura; mentre la lingua poetica regolare della tradizione italiana sar fissata dal modello linguistico petrarchesco, schifiltoso verso la quotidiana e scabra realt, e dominato da un ideale classico di equilibrio, armonia e decoro che rifiuta ogni violenza e ogni stridore. Nell'organizzare la sterminata materia del poema, la fantasia di Dante si muove secondo una legge geometrica, entro schemi di una rigorosa razionalit. Come il linguaggio riflette la molteplicit, cos la ferrea simmetria dell'opera sembra riflettere l'ordine perfetto che, nella visione dantesca, regola tutto l'universo. Il numero tre e il numero dieci, due numeri importantissimi per la mistica medievale, I'uno simbolo della Trinit, I'altro della perfezione, sono i princpi regolatori dell'architettura del poema: tre sono le cantiche come i regni dell'oltretomba, ciascuna divisa in trentatr canti, pi un canto che funge da proemio a tutto il poema, in modo da dare il totale di cento canti, multiplo di dieci. L'Inferno una voragine a forma di imbuto che si apre al centro dell'emisfero boreale e giunge sino al centro della terra, suddivisa in nove cerchi pi un vestibolo; i dannati sono ripartiti in tre grandi sezioni, che comprendono rispettivamente i peccatori di incontinenza, violenza e frode. Il Purgatorio una montagna che si eleva dall'oceano nell'emisfero australe, anch'essa divisa in nove cornici, con in cima il Paradiso terrestre; le anime espianti sono distribuite a seconda che l'amore sia stato diretto al male, o, se diretto al bene, con troppo o poco vigore. Il "Paradiso" distinto in nove cieli, rotanti per impulso dell'amore divino, pi l'Empreo, che l'immobile sede di Dio; i beati sono ripartiti a seconda che il loro amore di Dio fu mescolato con interessi mondani, o si manifest in una vita attiva o contemplativa. Anche il metro governato dal numero tre; la terzina a rime incatenate, secondo lo schema aba, bcb, cdc, ecc. /:/a) L'Inferno. Il poeta narra di essersi smarrito, nel mezzo del cammino della vita, nella selva oscura del peccato. Uscito dalla selva dopo una notte di angoscia, la salita di un colle illuminato dal sole che lo porta alla salvezza gli impedita da tre fiere, che lo ricacciano indietro nella selva. Gi sin dall'inizio evidente l'impostazione allegorica del racconto, in cui ogni elemento ha un significato che va al di l di quello letterale. In soccorso a Dante giunge il poeta Virgilio: il poeta di cui egli si era nutrito appassionatamente in una lunga consuetudine di

lettura, e da cui aveva tratto il bello stile delle grandi canzoni. Il colloquio con Virgilio tutto imbevuto della religione delle lettere e della poesia, vibrante della trepidazione che nasce nell'incontrare l'adorato maestro, sui cui scritti Dante s' formato spiritualmente, e che rappresenta il modello e la guida verso la perfezione dell'arte e della vita morale. Ma Virgilio anche per Dante, secondo la visione che il Medio Evo aveva del poeta latino, il pi grande savio dell'antichit, nel cui poema si compendia tutta la dottrina della civilt classica; perci assunto a rappresentare la ragione umana nella sua pi alta espressione, a cui pu giungere con le sole sue forze, senza l'aiuto della rivelazione divina. Per di pi Virgilio il cantore di Enea, fondatore della stirpe dei Romani che crearono l'Impero, e l'Impero per Dante ha appunto il compito di guidare gli uomini alla felicit di questa vita: perci Dante prende Virgilio come guida nel processo di purificazione dalle scorie terrene, sino a che avr riconquistato l'innocenza primitiva, perduta con il peccato originale. Per giungere sino alla visione di Dio per non baster pi la ragione umana, e occorrer una guida pi alta, Beatrice, che rappresenta la verit rivelata. Virgilio spiega a Dante che per trovare la via della salvezza dovr prima percorrere il regno della dannazione e quello della purificazione, e, allo sgomento di Dante di fronte a tanta impresa, aggiunge di essere stato mandato in suo soccorso da Beatrice, e che il viaggio si compie per la volont stessa di Dio. Comincia cos il fatale andare del poeta. Appena varcata la soglia infernale, la prima impressione di una fitta tenebra, in cui echeggiano grida, pianti e imprecazioni. In una sorta di anti-inferno si aggira la turba degli ignavi, di coloro che vissero senza mai impegnarsi n nel bene n nel male, e che Dante dall'alto della sua visione eroica della vita, intesa come lotta e sacrificio in nome di alti ideali, riguarda con disprezzo, negando loro anche la certezza della dannazione eterna. Varcato miracolosamente il fiume Acheronte, Dante penetra nd primo cerchio infernale, il Limbo, dove, in un nobile castello che spicca luminoso sulla tenebra circostante, contempla con ammirazione i grandi poeti e pensatori antichi, disposti in atteggiamenti gravi e solenni. Dopo questa pausa serena, scende di cerchio in cerchio nella voragine infernale, osservando sempre nuovi tormenti e nuovi tormentati . Trascinati da una bufera che mai non si placa, compaiono i lussuriosi, tra cui spiccano Paolo e Francesca, amanti adlteri sorpresi e uccisi dal marito offeso. Francesca narra prima la storia della passione che ha condotto lei e l'amato alla morte e alla dannazione, e impiega, a giustificare il peccato come effetto della forza invincibile d'Amore, le formule pi usuali della dottrina stilnovistica (Amor che al cor gentil ratto s'apprende, Amor che a nullo amato amar perdona); poi, alle vibranti domande di Dante, che appare profondamente toccato dall'episodio, rievoca il momento in cui, durante le lettura comune del romanzo di Lancillotto, si era rivelata la vicendevole passione, e dinanzi all'infelicit eterna dei due amanti Dante vinto dalla pietade sino a smarrire i sensi. A intendere il celebre episodio, occorre liberarsi dell'interpretazione romantica che a lungo ha dominato e che vede in Francesca un'eroina della passione d'amore, che la commossa piet di Dante purifica dal peccato. In realt il poeta mantiene ferma la propria condanna morale del peccato e della peccatrice. La pietade che lo vince non da intendersi come compassione che cancella la colpa, bens come lo smarrimento che nasce dalla meditazione su un problema complesso e inquietante: egli ha di fronte le terribili conseguenze dell'amore, il sentimento celebrato da tutta la tradizione cortese di cui egli stesso si era nutrito. Ci che lo turba il considerare il tenue margine che separa l'amore come passione dei sensi, che porta alla dannazione, e il raffinato e sublimato sentimento cantato dai

poeti. Perci l'episodio, se si pensa che sulle labbra di Francesca dannata in eterno tra i lussuriosi suonano le formule pi correnti dello Stil novo, conferma il distacco di Dante dalla tradizione poetica cortese e l'elaborazione della nuova visione d'amore, inteso in senso mistico e teologale, che era gi individuabile nella "Vita nuova", ed ora alla base della "Commedia". Man mano che il poeta discende, i peccati si fanno sempre pi gravi e le pene pi atroci: i golosi sono sferzati da una pioggia fetida, mista di grandine e neve; gli avari e i prdighi spingono dei macigni col petto, guardati da Dante con freddo disprezzo e come ridotti a pura materia in movimento, essi che avevano posto le loro anime nella materia. Attraversata poi su una navicella la brumosa palude Stige, in cui sono immersi gli iracondi, si profilano in lontananza le torri della citt di Dite, che comprende i cerchi pi bassi dell'Inferno. Subito di l dalle mura, chiusi in arche infuocate, si trovano gli eretici, tra cui spicca la magnanima figura di Farinata. L'episodio si articola in tre momenti distinti: nel primo, in cui avviene uno scambio di taglienti battute politiche tra Farinata e Dante, emerge l'animo ardente dell'uomo di parte ghibellina, tutto ancora acceso degli odi e dei crucci che l'avevano nutrito in terra; poi, come diversivo dalla tensione drammatica senza via di sbocco che si venuta a creare e come contrappunto tonale, si inserisce l'episodio di Cavalcante, il padre del poeta Guido, che, del tutto estraneo alla passione politica di Farinata e chiuso nel mondo degli affetti privati, interroga ansioso Dante sulla sorte del proprio figlio ("mio figlio ov'? e perch non teco?"). Dopo questa pausa emerge in primo piano la figura di Farinata, che a sua volta era rimasto insensibile al dramma paterno di Cavalcante. Ma il colloquio con il poeta si svolge ora in un tono pi umano e pacato. Dalle parole di Farinata affiora la sofferenza per le persecuzioni di cui la sua famiglia fatta oggetto da parte dei Guelfi vincitori; la risposta di Dante, che ricorda le stragi di cui i Ghibellini furono responsabili, illuminante per Farinata: a giustificarsi, egli ricorda che era stato lui solo, dopo la vittoria ghibellina, a impedire la distruzione di Firenze, e appare cos in una nuova luce, non pi come acceso fazioso, ma come magnanimo cittadino che pone la patria al di sopra degli odi di parte. Risulta chiaro perci come Farinata non sia affatto un personaggio monumentale e monolitico, nonostante il senso di grandezza che da lui spira, ma al contrario un personaggio intimamente contrastato e problematico, diviso tra la passione politica di parte, il dubbio tormentoso sul male provocato con la propria condotta, e la coscienza della propria magnanimit. Altrettanto complesso e sfumato l'atteggiamento del poeta, che condanna in Farinata le discordie e gli odi partigiani che dilacerano le citt italiane, ma al tempo stesso ammira l'uomo per la sua grandezza e lo erige a emblema di virt che vanno scomparendo nel corrotto mondo che lo circonda, la magnanimit e l'amor di patria. Dante si inoltra quindi nel cerchio dei violenti, diviso in vari gironi: i violenti contro il prossimo sono immersi in un fiume di sangue; i suicidi sono trasformati in alberi, che compongono una sinistra e allucinata foresta; i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai, cio rispettivamente i violenti contro Dio, la Natura e l'Arte, sono disseminati per un sabbione deserto sotto una pioggia di fuoco. Tra i suicidi Dante incontra Pier delle Vigne, il cancelliere di Federico secondo che era stato fatto imprigionare dall'imperatore per le ingiuste calunnie dei cortigiani, e che si era dato la morte in carcere per sfuggire il disonore. Il nucleo dell'episodio l'elegia della fedelt, della fedelt calunniata e condotta al disonore e alla disperata morte , come scrive il Croce; nessuna parola il suicida cancelliere di Federico di Svevia pronuncia contro l'imperatore che si mostr a lui spietato, ma che

sempre rimane per lui "il suo signor che fu d'onor s degno": la fedelt serbata anche nell'ingiusta condanna, anche nella morte, anche nell'oltretomba. La voce dell'anima offesa soltanto contro il mondo, contro la corte, contro gli invidi, che circuiscono e insidiano e trascinano alla rovina l'uomo valente e onorato . In questo dramma dell'uomo giusto disonorato dalla malvagit degli uomini si proietta l'amarezza di Dante stesso, ingiustamente accusato e perseguitato dai concittadini, e tuttavia sempre fedele alla sua Firenze. Questo tema politico, strettamente connesso con la bruciante esperienza personale del poeta, emerge in piena luce nei canti immediatamente successivi. Tra i sodomiti Dante ritrova con intensa commozione l'antico maestro, Brunetto Latini, che gli aveva insegnato come l'uom s'etterna , e che ora gli profetizza il raggiungimento di un glorioso porto , anche se i Fiorentini ingrati e maligni gli saranno nemici proprio per il suo ben far , per il suo operare retto e magnanimo. Quindi un altro sodomita fiorentino, Iacopo Rusticucci, chiede a Dante se cortesia e valor dimorino ancora in Firenze, o se siano scomparse; e il poeta, con l'atteggiamento ispirato e sdegnoso di un antico profeta, si scaglia contro la gente nova e i subiti guadagni, contro il sorgere dei nuovi ceti "borghesi" e l'affermarsi dello spirito affaristico, che, ai suoi occhi di nostalgico vagheggiatore dei valori di un mondo feudale che si va dissolvendo, sono la causa della corruzione della citt. Infine, sul ciglio estremo del sabbione rovente, appaiono gli usurai, tutti uomini appartenenti a famiglie di insigne nobilt, che Dante guarda con acre disprezzo e bolla con avvilenti paragoni animaleschi perch si sono degradati all'infamante maneggio del denaro. Superato un ripido strapiombo sulla groppa del mostro Gerione, i due poeti si trovano sul ciglio delle Malebolge, dieci fosse concentriche che raccolgono le varie forme di un peccato infame, la frode. Se finora quasi tutti i dannati avevano conservato, pur tra le pene, la loro umana dignit, ora invece si presenta un quadro di umanit degradata e offesa, di carni atrocemente martoriate: i lusingatori immersi nello sterco, i simoniaci inseriti a capofitto in buche e con le piante dei piedi accese, gli indovini con il capo stravolto indietro, i barattieri tuffati nella pece bollente e arpionati dai diavoli, i ladri trasformati in serpenti, i consiglieri di frode fasciati di fiamme, i seminatori di discordie sventrati e mutilati, i falsari coi corpi disseccati dalla scabbia, gonfi per l'idropisa e fumanti di febbre. Oltre che della fisicit greve e dolente, Malebolge il trionfo dei sentimenti pi abietti, delle bestemmie atroci, dei gesti bassamente osceni. In questo fondo angusto e soffocante dell'Inferno si raccoglie tutto il negativo della realt nelle sue forme estreme, che Dante esplora con impvida lucidit. Dal mondo plebeo di Malebolge si distacca l'episodio di Ulisse, che avvolto da un'atmosfera di eroica dignit. Il mitico personaggio, punito tra i consiglieri frodolenti, narra a Dante il suo ultimo viaggio: spintosi nell' alto mare aperto al di l delle colonne d'Ercole per ardore di conoscenza, per l'ansia di divenir del mondo esperto , per l'amore della verit, dinanzi a cui avevano ceduto l'amore per il figlio, per il vecchio padre e per la moglie, era stato inghiottito dalle acque appena giunto in vista dell'altissimo monte del Purgatorio. Anche Ulisse, come gi Farinata, un personaggio fortemente problematico.: l'eroe della conoscenza, la quale per Dante la perfezione somma della natura umana; in secondo luogo rappresenta, come altre figure del mondo classico, il culmine di sapienza e di altezza spirituale a cui l'umanit pagana con le sue sole forze e senza l'aiuto della rivelazione pot giungere. Ma pur esaltando l'ardore di conoscenza Dante addita anche, compreso di religiosa perplessit, le frontiere invalicabili che fermano il debole ingegno umano. Per questo, a designare il viaggio di Ulisse, usa due volte l'ag-

gettivo folle : magnanimo Ulisse, ma anche folle, perch tenta un'impresa troppo ardita, preclusa alle limitate forze umane. Perci la sua tragica fine non una punizione divina, ma il fatale soccombere dinanzi a una legge naturale, il destino dell'uomo che non pu toccare i limiti supremi della conoscenza. Solo Dante, sorretto dalla Grazia divina, potr raggiungere il monte del Purgatorio che Ulisse riesce a intravvedere di lontano prima di inabissarsi. Dopo il mondo brulicante e caotico di Malebolge sottentra l'immobilit spettrale di una distesa di ghiaccio, in cui sono confitti i peccatori dell'ultimo cerchio, i traditori. Tra di essi il conte Ugolino rode con animalesca ferocia il cranio dell'arcivescovo Ruggieri, l'avversario di parte che aveva chiuso lui e i suoi figli in una torre, lasciandoveli morire di fame. Il racconto di Ugolino, con rapidi e intensi scorci, percorre gli ultimi giorni della tragedia: prima un triste sogno gli rivela il futuro; poi, dal momento in cui si odono rimbombare i colpi che inchiodano l'uscio del carcere, comincia una lenta agona, punteggiata di sguardi angosciati, di improvvisi gesti di disperazione, di rare, strazianti parole, pausate di lunghi silenzi. Infine Ugolino resta solo a brancolare, ormai cieco, sui cadaveri dei figli, sinch anch'egli vinto dal lungo digiuno. Con Ugolino Dante presenta ancora una figura complessa e problematica, come tutte le altre grandi figure dell'Inferno; una figura dominata da due sentimenti estremi e in apparenza inconciliabili, I'odio pi bestiale e il pi tenero amore paterno, che si generano l'uno dall'altro in una vicenda inesauribile: I'animo di Ugolino oscilla dall'odio per il nemico, che ha eternamente sotto gli occhi, conficcato accanto a lui nel ghiaccio, al ricordo degli affetti famigliari spietatamente calpestati, che a sua volta rinfocola pi veemente l'odio. Come scrive il De Sanctis: Accanto alla lacrima sta l'imprecazione; e spesso in una stessa frase c' odio e c' amore, c' rabbia e c' tenerezza: l'ultimo suono delle sue parole, che chiama i figli, si confonde con lo scricchiolare delle odiate ossa sotto a' suoi denti . Al centro della distesa vetrosa di ghiaccio si erge Lucifero, un tempo il pi bello degli angeli, ora immane mostro peloso dalle ali di pipistrello, vera massa di materia bruta e inerte. Inerpicandosi sul suo vello, e poi attraversando uno stretto cunicolo, Dante e Virgilio escono finalmente a riveder le stelle. Dante, nonostante la materia del suo canto sia lo "status animarum post mortem" [la condizione delle anime dopo la morte], come afferma nell'epistola a Cangrande, non il poeta della morta gente . Manca nel poema il senso del funebre, la paura dell'arcano mondo che si apre al di l della morte. In ci il poeta si rivela assai lontano dalla tendenza della cultura medievale, che si compiaceva, dai trionfi della morte alle danze macabre, dalle pagine dei mistici a quelle dei poeti, nella figurazione della morte. Troppo precisa e salda in lui la visione del mondo, e troppo diritta e lineare la sua volont, e forte la coscienza della verit e la certezza dell'azione, per lasciare possibilit d'esistenza a inquieti ondeggiamenti e oscure angosce. Perci questo poema, che tratta della condizione delle anime dopo la morte, in realt il poema della vita e dei viventi. Soprattutto nell'Inferno la figura umana si staglia in tutta la sua intensa vitalit, nella molteplicit inesauribile dei suoi aspetti. Dante trae i personaggi che popolano i cerchi infernali dal mito classico e biblico, dalla storia passata e recente, ma anche dalla vita contemporanea; accanto a figure illustri stanno le figure pi oscure della minuta cronaca comunale, e spesso, specie nel basso Inferno, di quella che noi diremmo "cronaca nera". Sicch un poeta francese del secolo scorso, il Lamartine, ha potuto definire la Commedia una "gazzetta fiorentina". Ma in verit questi personaggi, pur colti nella loro concreta, irripetibile individualit, sono anche forme eterne di una realt spirituale e morale. Sono cio, secondo la caratteristica visione medievale,

degli exempla, [esempi], per cui nella loro vicenda terrena e nella loro fisionomia spirituale sono racchiusi un significato e un ammaestramento valido per ogni tempo e luogo. E Dante puo caricare queste figure di un significato universale senza smarrire il senso della loro concreta personalit proprio perch rappresenta un mondo che s quello terreno, ma al tempo stesso gi sottoposto al giudizio finale di Dio, che colloca ogni particolare nel posto che gli compete nelI'ordine universale. Di contro a questa folla di figure il protagonista vero Dante stesso, tanto che, come stato detto, la Commedia potrebbe intitolarsi Danteide. Tra il pellegrino nel suo fatale andare e le anime che via via incontra si stabiliscono rapporti di intensa drammaticit. Il suo atteggiamento non solo di rigida condanna, ma pu variare tra il disprezzo gelido e distaccato per gli ignavi, gli avari, gli usurai, l'ammirazione per la magnanimit di Farinata, l'affettuosa riverenza nei confronti del maestro Brunetto, lo sdegno, che nasce da una rigorosa coscienza morale, per l'iracondo Filippo Argenti o il traditore della patria Bocca degli Abati, la contemplazione curiosa e obliosa di fronte all'umanit pittoresca e plebea di Malebolge. Attraverso questa serie infinitamente cangiante di atteggiamenti la figura del protagonista acquista una duttile articolazione umana. Sottile e complesso anche il rapporto con Virgilio, figura ricca di sfumature. Sin dal primo incontro si stabilisce tra i due poeti la corrente emotiva tipica del rapporto tra scolaro e maestro, che si alimenta di tutta una gamma di sentimenti, dall'esaltazione alla riconoscenza, dall'ammirazione all'affetto; e per tutto il viaggio infernale, come ancora nell'ascesa del Purgatorio, l'atteggiamento di Dante sar di abbandono fiducioso e di filiale confidenza nei confronti del poeta latino. Da parte di Virgilio la serie dei sentimenti va dalla severit del maestro che esorta e guida il discepolo, giungendo agli acerbi rimproveri quando lo vede immmore dei suoi compiti, alla patema preoccupazione, sino a una premura e una tenerezza quasi femminile e materna. Al di fuori di questo rapporto intimamente affettuoso, Virgilio vibra ancora di una nota poetica sua peculiare: la malinconia, l'ansia del cielo da cui in eterno escluso, il vuoto nel cuore che la ragione e l'umana sapienza che in lui si incarnano non bastano a colmare. A comporre l'immagine complessiva del mondo infernale, alle figure umane si unisce tutta una serie di figure mostruose e demoniache. Nel rappresentarle Dante d prova di una prodigiosa inventivit figurativa, che rientra nel gusto medievale per una zoologia fantastica e orrida quale testimoniato dagli ornamenti scultorei delle chiese romaniche: cos Gerione, composita macchina umano-ferina dall'aspetto immondo e ributtante, che presenta volto umano su un corpo di serpente dipinto di nodi e di rotelle , zampe artigliate e pelose e coda forcuta; cos Crbero, cane a tre teste, tutto pervaso di fremente animalit. Talora invece il poeta, come nel caso dei Centauri, si compiace di linee svelte e sobrie, tese in una scattante sveltezza ma composte in classica dignit; all'estremo opposto si pongono i giganti confitti nel centro di Malebolge e Lucfero, masse enormi di inerte materia. Non mancano neppure i diavoli, caratteristici della visione popolare dell'Inferno, ma il poeta, pi che sulla paurosa mostruosit, insiste sulla loro volgarit plebea, contemplata con sottile vena comica. Ultima componente del mondo infernale il paesaggio: rocce scoscese, paludi nebbiose, fiumi di sangue, cupe foreste di alberi contorti, sterminate lande sabbiose, dirupati strapiombi, distese di ghiaccio vetroso; il tutto sempre immerso in un'aria fosca, senza tempo, che non conosce alternanza di luce e ombra, e contribuisce a rendere pi angosciosa la vista dei tormenti (indimenticabile, ad esempio, la figura di Mosca de' Lamberti che protende i moncherini sanguinanti nella tenebra, s che 'l sangue facea la faccia sozza ).

E' un paesaggio estremamente concreto, che s'incide nella fantasia con un'urgenza fisica e visiva, ma al tempo stesso denso di significati spirituali, s da costituire un commento continuo al variare drammatico degli stati d'animo dei personaggi. Da quanto detto sinora risulta che la poesia dell'Inferno individuata da due caratteristiche salienti: innanzitutto la drammaticit, cio l'emergere di figure umane dai caratteri nettamente delineati e dalle forti passioni, tra cui si stabilisce un gioco intenso e vario di rapporti e di conflitti; in secondo luogo l'evidenza plastica con cui si impongono figure e luoghi. Gran tema poetico dell'lnferno il sentimento della corporeit, la celebrazione della vita della materia, l'emozione del mondo fisico nella sua pi immediata urgenza, e parallelamente la passionalit pi intrisa di realt fisiologica. Ma accanto alla dimensione drammatica e a quella visivo-figurativa, non bisogna dimenticare un'altra dimensione essenziale dell'Inferno, quella narrativa. Le cose viste e i sentimenti sofferti si innestano tutti sul motivo del viaggio. E, come nel delineare immagini e passioni, Dante rivela una sapiente tecnica anche nel narrare, nel distribuire la successione degli avvenimenti in modo da tener desto l'interesse, da creare addirittura la suspense, giocando sulla curiosit e sulla sorpresa del lettore. Cosi avviene, ad esempio, nella selva dei suicidi, tutta avvolta da un'atmosfera arcana di mistero, rotta da segni lgubri e inquietanti, da cui si stacca, determinando un'intensa scossa, il fatto imprevisto e sovrannaturale dell'albero che parla. E si pensi ancora alla comparsa di Gerione: prima il gesto misterioso di Virgilio, che getta la corda dal ciglio dello strapiombo, poi l'aspettazione ansiosa, l'emergere di una forma indistinta e fluttuante dal fondo oscuro dell'abisso, e infine lo stagliarsi improvviso, in piena luce, della figura mostruosa. Tutti gli aspetti passati in rassegna fanno s che la prima cntica sia quella pi mossa e viva del poema, quella pi immediatamente godibile alla lettura, e di conseguenza quella pi conosciuta e amata dai lettori non specialisti. Ma sarebbe un errore identificare la poesia di Dante con la poesia dell'lnferno, o anche svalutare le altre due cntiche in confronto alla prima, riconoscendo validi solo i tratti pi concreti e drammatici. In realt ogni cntica ha una sua forma peculiare di poesia, che si distingue dalle altre pur senza creare fratture e stridori, in modo che il poema risulta un tutto unitario e organico. /:/b) Il Purgatorio. Usciti dalla voragine infernale, Dante e Virgilio si ritrovano sulla spiaggia del Purgatorio. L'alba vicina: il cielo sereno mostra un dolce color d'oriental zaffiro in cui si distinguono nitide le stelle. Dopo la caligine soffocante, I' aura morta dell'Inferno, subentra un senso d'aria pura e libera, che come la sigla dell'intero Purgatorio. E' questa la cntica della libert dell'anima affrancata dalla schiavit della materia e del peccato, che ritrova l'innocenza perduta dopo il peccato originale. E subito Dante incontra un simbolo di questa libert, Catone l'Uticense, che per essa rifiut la vita. Purificatosi il volto dalla caligine infernale con fresca rugiada ( questo il primo dei gesti rituali che ritornano cos frequenti nella cntica), Dante comincia il suo nuovo viaggio allo spuntare dei primi raggi del sole, con la trepidazione ansiosa e nostalgica del pellegrino che torna in patria: e sar questa la tonalit sentimentale che informer di s tutta l'ascesa. Ma poich Dante si concede ancora un breve momento d'oblio nell'incontro affettuoso con il msico Casella, e trova consolazione e dolcezza nell'ascoltare l'amico che gli canta una sua antica canzone, I'intervento severo di Catone richiama l'anima, troppo ingenuamente felice nella sua nuova condizione, ai doveri e ai gravi compiti che l'aspettano.

Nell'ascesa attraverso le nove balze o cornici del monte Dante incontra via via, come gi nell'Inferno, una serie di anime; ma mentre nell'Inferno i peccatori erano puniti per determinati atti peccaminosi ed erano fissati per l'etemit nel luogo della loro pena, qui i peccati sono ormai perdonati e le anime espiano solo le loro tendenze peccaminose, salendo di balzo in balzo sino al cielo. Prima Dante attraversa un "antipurgatorio", dove stanno le anime dei peccatori che furono tardi a pentirsi; e gi i primi incontri indicano quello che il tema dominante della cntica, la purificazione, cio la liberazione da ogni scoria terrena. Una lezione di umilt, di superamento delle passioni viene dall'episodio di Manfredi, il re svevo morto nella battaglia di Benevento, in cui si rivela il passaggio dalla superbia regale alla coscienza della fragilit umana, dall'orgoglio del peccatore all'accento umile del penitente, dai rancori di parte alla superiore valutazione degli errori suoi e degli avversari, che ora sono contemplati con sereno distacco, con l'animo dell'uomo che stato perdonato e che non pu non perdonare a sua volta. Questo processo di liberazione non impedisce per che Dante si rivolga ancora ai problemi politici terreni, proprio per trovare stimolo all'ascesa dalla visione della corruzione mondana: perci l'incontro fra il trovatore Sordello ed il conterraneo Virgilio gli offre l'opportunit di lanciare un'acerba invettiva alle citt d'Italia lacerate dalle discordie inteme. All'imbrunire, I'ora delle accorate nostalgie, Dante giunge in una valletta appartata, in cui si trovano le anime dei prncipi negligenti; e poich senza la luce del sole che guidi e illumini impossibile nel Purgatorio continuare l'ascesa, vi trascorre la notte. Ma durante il sonno miracolosamente trasportato dinanzi alla soglia del Purgatorio vero e proprio. A custodia di essa sta un angelo, che traccia con la spada sette P sulla sua fronte, che saranno via via cancellate di cornice in cornice. Queste sono sette, e in ciascuna di esse si purifica un peccato capitale: i superbi avanzano schiacciati da pesanti macigni, gli invidiosi recano le plpebre cucite, gli iracondi sono immersi in una fitta nebbia, gli accidiosi corrono incessantemente intorno al monte, gli avari e i prdighi sono prostrati a terra, i golosi sono scarniti e prosciugati dall'acuto desiderio di cibi e bevande, i lussuriosi si purificano nel fuoco. Quasi tutti gli episodi pi importanti sono costituiti da incontri con amici poeti o artisti. Il ricordo dell'arte pervade tutto il colloquio con il pittore di miniature Oderisi da Gubbio, in cui si ricreano l'ambiente e le consuetudini di un sodalizio tra artisti e uomini di cultura, uniti da una comunanza di interessi e di sensibilit. Il nucleo sentimentale dell'episodio costituito da una meditazione sulla fama, che da un lato sentita come consacrazione dell'attivit eroica dell'intelligenza, ma dall'altro vista anche, con religiosa consapevolezza e malinconia, nella sua labilit di fronte all'eterno. Anche l'incontro con Stazio presenta un folto germogliare di motivi, che si concentra intorno alla religione della cultura e della poesia. Le parole del poeta latino, che ancora non sa di aver di fronte a s Virgilio, esprimono l'entusiasmo nei confronti del proprio "autore", sentito nei termini di un affetto filiale, il desiderio struggente di incontrare il maestro che viene proiettato in una luce quasi mitica, il sentimento dell'incomparabile dignit degli uomini di alto intelletto. Il riconoscimento tra i due poeti si riscalda quindi di questo intenso clima sentimentale. La seconda parte dell'episodio si arricchisce poi di nuove note, l'affetto e l'intimit che nascono tra spiriti colti, l'ammirazione fervente, la riconoscenza per l'efficacia fecondatrice, artistica e religiosa, dell'arte ( per te poeta fui, per te cristiano , confessa Stazio al maestro). Anche nell'incontro con Guido Guinizzelli l'ammirazione per un poeta costituisce il movimento determinante. Per, a differenza degli incontri con i poeti classici, vi spira un senso di incandescente contemporaneit, di letteratura militante. Insieme l'epi-

sodio si colora della suggestione di un raffinato costume intellettuale nell'indugio a rievocare le rime d'amor [...] dolci e leggiadre> di Guido, che agli occhi di Dante rendono preziosi gli stessi inchiostri con cui sono state vergate le carte. Dante rievoca qui il mondo della sua giovinezza. A questa stagione si ricollegano con insistenza anche altri episodi in queste ultime cornici del Purgatorio: nel colloquio con Forese Donati, insieme a tutto un mondo di affetti (la moglie Nella, la sorella Piccarda), ritorna anche il ricordo del giovanile periodo di traviamento e di rilassatezza morale; nell'incontro con Bonagiunta da Lucca si affaccia la memoria della lontana e felice stagione poetica in cui erano nate le nove rime inaugurate dalla canzone Donne ch'avete. Via via che Dante avanza, viene messa a fuoco sempre pi nitidamente l'esperienza capitale della sua vita, quando giovinezza voleva dire Beatrice. Tutto tende ommai al momento decisivo, il momento in cui culminer l'ascesa del Purgatorio: la ricomparsa della gentilissima , della gloriosa donna della giovinezza del poeta. Varcata la cortina di fuoco che chiude la cornice dei lussuriosi, trascorsa una notte di attesa, Dante giunge finalmente alla cima del monte, dove situato il Paradiso terrestre; purificatosi di ogni peccaminosa disposizione, ha ritrovato l'innocenza anteriore al peccato originale. Qui, in uno scenario idllico di acque limpide, fiori ed erbe, ritratto con freschezza di linee e di colori, assiste a una fantastica processione di figure allegoriche. Al temmine di essa, su un carro trionfale, tra voci osannanti, in una nube di fiori gettati da uno stuolo angelico, appare Beatrice. A questo punto scompare Virgilio, che ha ommai temminato il suo ufficio di guida, lasciando Dante dolorosamente smarrito. In questo distacco tocca il culmine di intensit quel complesso affettivo che si manifesta per tutte le prime due cntiche, per cui il legame tra discepolo e maestro si configura nei modi pi teneri dell'amor paterno e filiale, fatto di slanci e abbandoni fiduciosi, di sollcite premure. L'epifana di Beatrice rievoca in Dante tutta una serie di sentimenti che si ricollega all'esperienza della Vita nuova ( conosco i segni dell'antica fiamma confessa il poeta). Beatrice sempre la donna gloriosa della sua mente, e risplende di tutta la bellezza antica. Ma se il collegamento con il mondo giovanile diretto, si pur verificato anche lo svolgimento promesso nell'ultimo capitolo della Vita nuova: Beatrice mantiene intatte le sue note femminili, ma si arricchisce di sensi teologali ed innalzata al ruolo di guida dell'anima nella suprema ascesa a Dio. Perci la gentilissima esce dall'aura remota e stupita in cui l'avevano collocata i versi giovanili per assumere le vesti severe del giudice e sottoporre Dante a una acerba requisitoria, che lo induce a pentirsi e a confessare la causa dei suoi traviamenti. Questo della confessione il momento risolutivo della vicenda personale di Dante, ma anche della vicenda universale ed esemplare dell'anima peccatrice e redenta, che deve valere come perenne mnito agli uomini. Immerso nel fiume Lete, che arreca l'oblo di ogni peccato, Dante assiste poi a una grandiosa rappresentazione allegorica, in cui sono raffigurate le vicende dell'umanit dopo la Redenzione, e specialmente la corruzione della Chiesa. Al temmine, Beatrice trae la profeza di una prossima rigenerazione del mondo a opera di un messo di Dio. Si ribadisce cos la missione profetica di Dante: egli deve ripetere all'umanit traviata quanto ha visto, per indicarle la via della salvezza. Ma il poeta, bevuta l'acqua dell'Euno, che rammemora tutto il bene compiuto, ormai puro e disposto a salire alle stelle , pronto a terminare, con la nuova guida di Beatrice, la mistica ascesa a Dio. Come gi si avvertiva, il Purgatorio ha una sua peculiare tonalit poetica, profondamente diversa da quella dell'Inferno. Se la poesia della prima cntica drammatica e plasticamente corposa, animata

da passioni estreme e contrasti crudi, quella della seconda presenta invece un tono medio e uniforme, che gioca sui sentimenti pi teneri e delicati, e sfuma nel lirismo e nell'elega. I due filoni poetici pi rilevanti, come sar gi apparso dalla precedente analisi, sono la memoria intenerita degli affetti familiari e la gioia dell'esperienza intellettuale. Come scriveva il De Sanctis, "nasce un mondo idillico, che ricorda l'et dell'oro, dove tutto pace e affetto, e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte, i dolci sentimenti dell'amicizia. [...] Questa intimit, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all'arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a' profani, il mondo rappresentato nel Purgatorio ; anche se, a correggere la visione del critico ottocentesco, che insiste eccessivamente sul carattere idllico della cntica, occorre rilevare che non manca nel Purgatorio una tensione drammatica, seppur differente da quella dell'Inferno, meno disperata e pi fiduciosa, meno vibrante e pi contenuta: il dramma dell'anima che, sebbene ormai sicura della salvezza e confortata dalla prospettiva della futura beatitudine, deve tuttavia lottare e sottostare a dure prove per liberarsi dal peso delle scorie terrene. In questa luce si arricchisce di sfumature il mondo affettivo dei Purgatorio: una sostanza terrena permane, ma come assottigliata e rarefatta; i personaggi non hanno dimenticato la terra, ma nessun odio, nessuna acrdine pi li anima, nessuna traccia di orgoglio e di superbia rimane in loro: essi hanno ormai tutto perdonato, e il loro atteggiamento improntato solo a umilit. Ormai consapevoli della miseria umana, guardano con sereno distacco ai conflitti e alle brutture della vita; unico autentico legame con la terra la pungente ma pacata nostalgia delle persone care e degli affetti lasciati. Manfredi ricorda la sua bella figlia , la buona Costanza , il giudice Nino spera che la figlia Giovanna preghi per lui, e pensa con amarezza, ma anche con piet alla moglie che cos presto l'ha dimenticato, mentre sulla bocca di Forese Donati suona con domestica affettuosit il nome della sposa, Nella mia , la vedovella mia che tanto amai . Data questa temperie di miti sentimenti, non si trovano pi nel Purgatorio le possenti e rilevate individualit dell'Inferno. I contorni delle figure sfumano, assorbiti in un'atmosfera di coralit, pervasa dal calore di carit che stringe tutti i cuori. Perci variano anche i rapporti tra Dante e i suoi personaggi: l'io del poeta si fonde con questo clima di intimit pensosa e malinconica; egli non pi l'antagonista appassionato e sdegnoso, e i suoi incontri non sono pi scontri, ma colloqui fraterni, e spesso occasioni di uno scavo entro se stesso. Per questo motivo il poeta popola le pendici del monte di persone che in vita erano a lui strette da amicizia; ed essendo il mondo delle sue amicizie un mondo di poeti e artisti, si origina di qui l'altro aspetto che individua il tono della seconda cantica, la poesia delI'intelligenza, la poesia nutrita dei sentimenti che si generano dall'esperienza intellettuale appassionatamente realizzata: la gioia che nasce dalla comunanza di interessi e di gusto con spiriti eletti, l'ammirazione per i grandi maestri, che assume quasi il fervore di un innamoramento dell'intelletto, il sentimento della dignit dell'esercizio poetico, il desiderio di gloria, temperato di malinconia al pensiero che essa cosa fugace: di questa gamma di sentimenti si nutrono gli episodi ricordati di Casella, di Sordello, di Oderisi, di Stazio, di Guido Guinizzelli. Non viene meno nel Purgatorio la poesia del viaggio, ma coerentemente con la tonalit nuova della narrazione s'interiorizza anch'essa, articolandosi non tanto in una successione animata di avvenimenti concreti e figure a forte rilievo, quanto piuttosto nella vicenda di ansie, scoramenti e speranze che si svolge nel mondo interiore del viandante. Anche il paesaggio conserva una sua suggestione, affidata

specialmente al senso dell'altezza del monte che dislaga :verso il cielo; al succedersi di ripide pareti rocciose, stretti cunicoli e balze sospese sul vuoto, tra cui si snoda la faticosa ascesa del corpo e il processo di purificazione dell'anima; alla vicenda di giorni e notti, di sole e di tenebra, che ritmano il tempo attivo dell'espiazione e le pause di pensoso raccoglimento, creando per il dramma dell'anima uno sfondo familiare, ma al tempo stesso pervaso da una segreta tensione. Infatti, se l'atmosfera dell'Inferno era senza tempo , qui la dimensione temporale acquista grande rilievo: ogni ora che passa nel Purgatorio importante, perch segna un maggior avvicinamento alla meta celeste, verso cui l'anima ansiosa si protende. /:/c) Il Paradiso. Fissando gli occhi negli occhi di Beatrice, Dante rapito anima e corpo dal Paradiso terrestre al cielo. E' un trasumanar , un'esperienza che non si pu tradurre in parole, e che lascia il poeta stupito e attnito di fronte alla luce dilagante e all'armonia delle sfere celesti. In questo modo miracoloso si compir poi sempre l'ascesa di cielo in cielo, sino all'ultimo rapimento in Dio. E di cielo in cielo sfolgora sempre pi la bellezza di Beatrice, sino a toccare i vertici dell'ineffabile, dinanzi a cui il poeta si confessa vinto. Beatrice nel Paradiso la guida intellettuale di Dante: ogni dubbio trova in lei piena e pacificante soluzione. E se talora Beatrice, nel risolvere ardue questioni teologali, assume modi eccessivamente dottrinari che quasi fanno dimenticare la sua fisionomia umana, la sua figura si arricchisce tuttavia di un complesso gioco di sentimenti: la premura sollcita e talora quasi materna per l'anima affidatale, la gioia dell'insegnare e del fugare le tenebre dell'errore, la certezza trionfante di possedere la verit ultima dell'universo, attinta dalla visione diretta di Dio. Nel complesso, la figura di Beatrice, pur ricca di umanit, non si riduce mai nei limiti di una psicologia usuale e quotidiana, ma sempre avvolta da quel soffio epico che percorre tutto il Paradiso e che nasce dall'esperienza suprema della Grazia che innalza alla gloria divina. I cieli, secondo la concezione tolemaica, sono nove sfere concentriche, di materia cristallina e incorruttibile, in cui sono infissi i vari pianeti; ognuno animato da un moto rotatorio, che prende l'avvio dal cielo pi esterno, il Primo Mobile; al di l dei cieli l'Empreo, che non nello spazio, ma comprende in s tutti gli spazi, ed la sede di Dio. Di cielo in cielo si mostrano a Dante le anime dei beati, ma in realt la loro vera sede l'Empreo, ed esse compaiono distribuite nei cieli solo per compiacere alla vista di Dante ancora legata alla corporeit, e per dargli cos il senso dei vari gradi di beatitudine. La diversa collocazione nella gerarchia del Paradiso non implica per una maggiore o minore pienezza di felicit: la felicit proporzionata alla capacit delle anime, perci ciascuna contenta di ci che ha e non desidera di pi; la beatitudine consiste appunto nel perfetto adeguamento della volont delle anime e di quella di Dio. Il primo cielo, della Luna, accoglie le anime di coloro che, pur contro la loro volont, mancarono ai voti: sono le uniche che nel Paradiso conservino ancora una parvenza umana, seppur diafana ed evanescente come le immagini riflesse per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille ; parimenti rimane in questo cielo una sostanza drammatica di affetti terreni, anch'essi per rarefatti e disincarnati. Nei cieli seguenti le anime saranno solo pure luci, e la psicologia umana nella sua immediatezza lascer il posto a un complesso di sentimenti e di esperienze concettuali che prendono vita dall'inebriante esperienza dell'anima che si eleva a partecipare all'infinit di Dio. In questo primo cielo Piccarda Donati rievoca la sua vicenda terrena: entrata giovinetta nell'ordine di santa Chiara, ne era stata

strappata con la forza dal fratello Corso, che l'aveva promessa in sposa a un nobile fiorentino. Su questi fatti Piccarda stende un velo di riserbo, come se rifuggisse dal rievocare l'esperienza negativa delle passioni terrene dopo aver ormai toccato il porto della beatitudine; ma in questi accenni, pur cos sobri, si indovina il dramma antico di quell'anima: il dolore di essere strappata dalla pace del convento, il cui rimpianto ancora pungente nella memoria, e di esser dovuta ritornare nel mondo che aveva fuggito. Questo dramma rimasto chiuso nel segreto della sua coscienza, e affidato solo allo sguardo pietoso di Dio ( Iddio si sa qual poi mia vita fusi ); ora, verso chi le ha fatto del male non ha alcun accento di rancore: non pu evitare di dare un giudizio negativo, ma lo fa con la pacatezza e il distacco di chi si identifica ormai totalmente con Dio e la sua giustizia. Nei cieli seguenti, le anime si fanno incontro a Dante sfavillanti di luce, traducendo cos il loro ardore di carit nei suoi confronti: nel cielo di Mercurio, che accoglie coloro che furono attivi nel bene non solo per amor di Dio, ma anche per desiderio di gloria mondana, I'imperatore Giustiniano traccia una rapida sintesi della storia dell'Impero romano, esponendo la tesi della sua funzione provvidenziale, presente anche nella Monarchia; nel cielo di Venere stanno le anime che sentirono fortemente l'impulso d'amore, ma, a differenza della Francesca infernale, seppero purificarlo indirizzandolo al suo vero oggetto, Dio; nel cielo del Sole tre corone concentriche di luci racchiudono gli spiriti dei pi insigni teologi della tradizione cristiana: qui il domenicano san Tommaso tesse l'elogio di san Francesco e il francescano san Bonaventura quello di san Domenico. La biografia di san Francesco raccoglie ben pochi di quei gentili e notissimi aneddoti di cui tramata la leggenda del santo; insiste piuttosto su un motivo allegorico, le nozze con la Povert. Il giovane Francesco, per amore di questa donna che tutti disprezzano e scansano come la morte, entra in lite con il padre e con lei si unisce sotto gli occhi di tutti. E' una scena concepita secondo il tipico gusto del realismo medievale, che pu ricorrere alle immagini pi crude per rappresentare le pi nobili realt spirituali. Ma il modello di uno stile in cui la sublimit andava unita alla massima umilt era fornito dalla storia stessa di Cristo. L'allegoria delle nozze con la Povert vuole infatti sottolineare il motivo dell'imitazione di Cristo da parte del santo, assai diffuso nella tradizione francescana: come Cristo, Francesco il pi povero degli uomini, e nello stesso tempo un re; perci, mentre nella prima parte della biografia sono presentati gli aspetti pi umili e dimessi, nella seconda si insiste sul trionfo e sulla grandezza del santo: il sigillo ottenuto da parte del papa, a cui regalmente egli espone la sua dura intenzione , il crescere prodigioso dei seguaci, la seconda corona ricevuta da papa Onorio, la missione tra i pagani, e, supremo sigillo, le stimmate. E quando a Dio piace chiamarlo al premio eterno, lascia la sposa ai seguaci, e dal grembo della Povert 1' anima preclara si muove tornando al suo regno . Nel cielo successivo, quello di Marte, si profila una grande croce, composta dalle luci dei beati, la prima di quelle grandiose e simboliche figurazioni luminose che appariranno negli altri cieli alla contemplazione stupita del poeta. Dalla croce si stacca l'anima di un antenato di Dante, Cacciaguida, e l'episodio che segue vale a ricordare, proprio nel cuore della mistica ascesa, le radici concretamente terrestri e politiche dell'intero poema. Da un lato infatti Dante riprende, per bocca di Cacciaguida, la polemica contro la gente nova che ha invaso Firenze assetata di sbiti guadagni , introducendovi con l'attivit mercantile e bancaria la cupidigia di denaro, le discordie politiche, la corruzione dei costumi, e rievoca, con amara nostalgia, la Firenze antica, che si viveva in pace, sobria e pudica , coi suoi costumi semplici e patriarcali, la sua popolazione poco numerosa e

pura sino all'ultimo artigiano. D'altro lato sulle labbra di Cacciaguida risuona, con una chiarezza e una solennit mai prima udite da Dante nel suo viaggio, la profezia dell'esilio. Infine, dopo questo quadro ampio e ricco del presente visto in tutta la sua negativit, riceve altissima celebrazione la missione profetica e riformatrice del poeta: solo a lui, dopo san Paolo, stata aperta la porta del cielo prima della morte; suo compito sar di ripetere agli uomini tutto quanto ha visto nel suo viaggio oltremondano, sferzando impavidamente la corruzione per riportare il mondo sulla retta via. Il motivo politico ritorna con insistenza anche nei cieli successivi, a creare un contrappunto di urgente terrestrit al tripudio di luce e musica del Paradiso: nel cielo di Giove le anime compongono l'immagine dell'aquila, simbolo dell'Impero e quindi della giustizia; nel cielo di Saturno san Pier Damiani e san Benedetto, discesi con altri spiriti su una scala di luce che si perde nell'infinito, scagliano aspre invettive sulla cupidigia dei prelati e sulla decadenza degli ordini monastici. Anche quando sale nel cielo delle stelle fisse, Dante non pu fare a meno di volgersi a guardare la terra, I' aiola che ci fa tanto feroci , seppur per sorridere del suo vil sembiante ; e nello stesso cielo, dopo che le schiere dei santi hanno celebrato, in un crescendo di inebriata letizia, il trionfo di Cristo, dopo che Dante ha subto da parte di Pietro, Giacomo e Giovanni un esame sulla fede, la speranza e la carit, denso di ardua materia teologale, che vale come nuova e solenne investitura della sua missione profetica, san Pietro scaglia un'invettiva cos violenta e bruciante contro la corruzione del papato che tutto il cielo ne trascolora. L'intervento di queste ombre di terra e di peccato hanno una funzione vitale nell'orchestrazione del Paradiso. La poesia di questa cntica prende vita dalla memoria complessiva di tutte e tre le cntiche, con le loro fondamentali e opposte tonalit. E' dunque naturale che la poesia del Paradiso si affermi anche nel riflesso della corpulenta e acre terrestrit dell'lnferno, e che talune violente ombreggiature di questa materia intervengano tra le stasi celesti come presenze inevitabili e necessarie, efficaci a dar rilievo al paesaggio paradisiaco. Se nel Paradiso domina il "tema del pi", I'anelito dell'anima protesa alle vette supreme del trascendente, che imprime alla cntica quel carattere di ascesa, di perpetua addizione, per cui data un'affermazione subito se ne aggiunge un'altra pi intensa, le presenze terrene concedono al poeta una continua possibilit di slancio, di ripresa e di superamento; sicch il tema del pi non sarebbe, o non sarebbe pienamente, senza il tema del gi, senza quegli sguardi alla terra lontana e pur sempre presente all'occhio dell'uomo e del poeta. Dal Primo Mobile, in cui compare un'immagine simbolica di Dio e dei cori angelici come un punto luminosissimo contornato da nove cerchi infuocati, Dante sale infine all'Empreo, il cielo che pura luce intellettuale e ardore di carit. Qui gli angeli e i beati compaiono a Dante in una serie di figurazioni sensibili, che si trasformano a mano a mano che la sua vista si fa pi sicura: prima un fiume di luce, da cui escono vive faville che entrano nelle corolle dei fiori che ricoprono le sponde, per poi tornare a sprofondarsi, inebriate dal profumo, nel miro gurge [mirabile corrente]. Quindi i beati gli compaiono disposti in un'immensa, candida rosa; da essa si stacca una moltitudine di angeli, che incessantemente volano verso Dio, per poi discendere nel gran fiore portandovi la pace e l'ardore di carit. Dante, al centro della rosa, gira gli occhi a contemplare la forma general di Paradiso , colmo di gioia e di stupore nel vedere il regno della pace, lui, proveniente al divino dall'umano, all'etterno dal tempo , e soprattutto da Firenze, che riassume in s tutta la corruzione e l'ingiustizia della terra, in popol giusto e sano . Ma vltosi verso Beatrice trova in suo luogo un sene [vecchio] dal volto at-

teggiato a benigna letizia: san Bernardo, il grande mistico del dodicesimo secolo, che sar l'ultima sua guida alla mistica visione di Dio. Per intercessione della Vergine, a cui san Bernardo rivolge la sua preghiera, a Dante elargita la grazia di elevarsi all' ultima salute . Il suo sguardo penetra nell'essenza divina, e per una miracolosa folgorazione gli sono rivelati i misteri della struttura dell'universo, della Trinit e dell'Incarnazione. La visione ineffabile e Dante rinuncia a tradurla in parole; ma per un attimo si innalzato alla condizione dei beati, alla perfetta identificazione coll'ordine che regola tutto l'universo. Da questo sguardo generale facile intuire che la poesia del Paradiso, se non pu ignorare quella dell'Inferno e del Purgatorio dalla quale si venuta sviluppando e distinguendo, di una qualit profondamente diversa. Infatti avvenuto un incommensurabile salto qualitativo, il passaggio dalla terra al cielo; non ci si muove pi nel dominio dei pi immediati sentimenti terreni, siano essi tesi e potentemente drammatici come nell'lnferno o sfumatamente lirici ed elegiaci come nel Purgatorio, ma nel campo di un'esperienza pi che umana, l'esperienza del divino. Il tema dominante della cntica quello della Grazia, sentita come ascesa dell'anima che giunge a partecipare dell'infinit di Dio. E' questo il motivo che stringe in unit il Paradiso e ne pervade tutti gli aspetti. Innanzitutto gli aspetti visivi e figurativi. Il Paradiso stato definito la cntica della luce, per l'assoluto rilievo che vi assume questa presenza; ma la luce non un motivo paesistico, n va intesa nella sua pura realt fisica, come il paesaggio nelle altre cantiche: essa un simbolo, una metafora spontanea e immediata della realt divina, consacrata da una lunga tradizione mistica e teologica, dalla Bibbia a san Tommaso. Cos pure l'immagine del cielo, che occupa tanta parte del Paradiso, e tutta una serie di aspetti terrestri, che compaiono in paragoni e similitudini, fiori e giardini, acque, sorgenti, fiumi, laghi, colli, alberi, prati, o gentili e nobili creature animali, colombi, aquile, api che s'infiorano, non sono animati da un senso della natura terrestre contemplata di per se stessa, ma sono anch'essi carichi di valore simbolico, e sono impiegati a esprimere i vari sentimenti dell'anima che vive l'esperienza della mistica ascesa a Dio. Il sentimento dell'anima che partecipa dell'infinito si esprime non solo attraverso queste analogie, ma anche attraverso il linguaggio dell'ineffabile. Se non si pu rappresentare l'infinito, si pu tuttavia esprimere il sentimento che l'anima prova nell'affacciarsi a esso. Infatti Dante, giunto al culmine della sua ascesa, rinuncia a dire ci che al di sopra delle possibilit della parola, ma proprio in questa rinunzia esprime lo smarrimento dell'anima di fronte all'infinit di Dio. Tutta la mistica medievale insiste sul fatto che di Dio si pu parlare solo per via indiretta, attraverso la confessione dell'impossibilit di parlarne. Perci al termine dell'ultimo canto l'idea che Dante vuol darci di Dio non nell'immagine del triplice cerchio di luce simboleggiante la Trinit, che solo, come confessa il poeta stesso, un punto d'appoggio, una provvisoria allegoria, ma nel sentimento di aver attinto all'infinito e di averlo subito smarrito, e nell'impossibilit di ridire la sovrumana esperienza. Secondo talune interpretazioni Dante interromperebbe continuamente la mistica ascesa verso Dio per discendere verso i grandi ideali politici, morali e intellettuali che animano la vita terrena. Ma anche i grandi temi politici del Paradiso si inseriscono nel motivo mistico che pervade la cntica. Si tratta infatti di una politicit di ispirazione religiosa, che non contrasta ma scaturisce dal misticismo. Per Dante la Grazia non solitaria comunione con Dio sentito come amore, ma partecipazione alla vita di Dio inteso come legislatore delI'universo. Perci il sentimento della Grazia implica responsabilit po-

litiche e sociali, che si traducono in lotta per la giustizia, per la fondazione di un ordine terreno che assicuri all'uomo la beatitudo huius vitae , la felicit in questa vita. Anche la vasta materia intellettuale e dottrinale che si dispiega per il Paradiso riconducibile al fondamentale motivo teologico della grazia. La gamma di sentimenti che accompagna la vita dell'intelligenza, I'ansia di certezza, I'esaltante tensione dell'intelletto, lo smarrimento dinanzi a ci che supera le capacit del pensiero, la gioia dell'attingere alla verit indubitabile, presentano un'analogia con i sentimenti che s'irradiano dall'esperienza mistica, il protendersi ansioso dell'anima verso Dio e la pace che deriva dal congiungimento colla sua infinit. Oltre a questa implicita teologia che anima gli aspetti figurativi, i temi politici e dottrinali, esiste nel Paradiso anche una teologia esplicita, in cui centrale il tema di Dio. Dio sentito da Dante non tanto come amore, quanto come potenza: l'"imperador che l su regna", una potenza immensa e remota, al di l dello spazio e del tempo, eppure operante dovunque, e sempre quale altissimo sovrano, motore primo e immobile dell'universo. Per questo l'esperienza della Grazia, che partecipazione all'infinit ed etemit di Dio, si configura nel Paradiso dantesco come un'esperienza esaltante e gloriosa. I toni languidi e sospirosi di alcuni mistici sono ignoti a Dante, come ignoti gli rimangono gli accenti sereni e chiaramente distesi. Il suo tono ha qualcosa di forte, di solenne, di epico. La Grazia per lui non nostalgia del cielo o pace serena e operosa, ma soprattutto fonte di gloria. Questa trionfale luce di gloria che avvolge l'uomo salito a partecipare all'eternit di Dio giustifica il tono epico della terza cantica, e permette di parlare, per il Paradiso, di epica della Grazia. LA LIRICA DI DANTE Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi pi in l, ti risponde come Raffaello: Noto, quando Amor mi spira, ubbidisco all'ispirazione. E appunto, se vogliamo trovar Dante, dobbiamo cercarlo qui, fuori della sua coscienza, nella spontaneit della sua ispirazione. Innanzi tutto, Dante ha la seriet e la sincerit dell'ispirazione. Chi legge la "Vita nuova", non pu mettere in dubbio la sua sincerit. Ci si vede lo studente di Bologna, pieno il capo di astronomia e di cabala, di filosofia e di rettorica, di Ovidio e di Virgilio, di poeti e di rimatori; ma tutto questo non la sostanza del libro, ci entra come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci un cuore puro e nuovo, tutto aperto alle impressioni, facile alle adorazioni e alle disperazioni, ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginit, pi nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice pi simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste, che a realt distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo, un saluto tutta la storia di questo amore. Beatrice mor angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro. Appunto perch Beatrice ha cos poca realt e personalit, esiste pi nella mente di Dante che fuori di quella, ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del trovatore, l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede, e perci grottesca certo, ma non falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche, qui sono cacciate nel fondo del quadro, sono non il quadro, ma contorni e accessorii. Il quadro Beatrice, non cos reale che tiri e chiuda in s l'amante, ma reale tanto che opera con

efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci proprio l'amante, ma ci il poeta, che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo tranquillo, fa capolino il dottore, il retore e il rimatore; ma quando il suo animo veracemente commosso, Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche, e ubbidisce a l'ispirazione. Allora Beatrice, solo Beatrice, che occupa la sua mente, e le sue impressioni, appunto perch immediate e sincere, sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come lo sente, pi adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna. Tale il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. E tale la ballata, ove con la grazia e l'ingenuit di una fanciulla scesa pur ora di cielo cos parla Beatrice: Io mi son pergoletta bella e nova, e son venuta per mostrarmi a vui dalle bellezze e loco, dond'io fui. Io fui del cielo e tornerovvi ancora, per dar della mia luce altrui diletto; e chi mi vede e non se ne innamora, d'amor non aver mai intelletto... Ciascuna stella negli occhi mi piove della sua luce e della sua virtute: le mie bellezze sono al mondo nuove, perocch di lass mi son venute. Questo non allegoria, e non concetto scientifico; o per dir meglio, ci l'allegoria e ci il concetto scientifico, ma profondato ed obbliato in questa creatura, perfettamente realizzato, conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile. Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupazione scientifica, senti un accento di verit puro ed autonomo nell'espressione del dolore, la vera musa di questa lirica. Perch infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice, il suo dolore, il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro, il motivo tragico della poesia. Finch Beatrice vive, un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni pi sottile arte di custodire; la storia poco interessante, intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire, quando scompare, al poeta manca con quello il fondamento della sua vita, e si sente solo e si sente morire insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore appena nato, simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovanezza, che acquista la sua realt presso alla tomba ed oltre la tomba. L'amore si rivela nella morte. L perde quell'aria fattizia e convenzionale, che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. L non pi concetto, n allegoria, ma sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della donna non si potuto ancora realizzare, eccolo qui nella sua schietta e pura espressione, ora

che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte pi eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti pi temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice, ita nel cielo, diviene la Verit, la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni, la bella faccia della Sapienza. Non hai pi la "Vita nuova", hai il "Convito". L'amore non pi un sentimento individuale, ma il principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo, il dolce nome che il poeta d al suo nuovo amore, alla Filosofia. Ma la filosofia non in Dante astratta scienza: Sapienza, cio a dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virt, che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue, e ti d la vera nobilt, che ti viene da te e non dagli altri. Intendere per lui il principio del fare; e la forza che d attivit all'intelletto ed efficacia alla volont l'amore. In questa triade l'unit della vita: l'uno non pu star senza l'altro. Or tutto questo in Dante non mera speculazione, n vanit scientifica; ma vero amore, ma un sentimento morale cos profondo ed efficace, come la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo, e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa seriet e sincerit di sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale, tanto pi poetica, quanto meno espressa, ma che si sente nel tono, nel colorito, nello stile. Tale la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli, e quel subito ritorno del poeta in s medesimo: L'esilio che m' dato onor mi tegno; e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria, quanta nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale non disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: cos alto ha collocato l'ideale della scienza e della virt: ... elli son quasi di que' ch'han tal grazia fuor di tutt'i rei; ch solo Iddio all'anima la dona. Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini, bestie che somigliano uomo. E dove non virt, non amore, e non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro: Ch la belt ch'Amore in voi consente a virt solamente formata fu dal suo decreto antico contra lo qual fallate. Io dico a voi che siete innamorate, che se beltate a voi fu data e virt a noi, ed a costui di due potere un fare, voi non dovreste amare, ma coprir quanto di belt v' dato poich non virt, ch'era suo segno. Lasso! A che dicer vegno? Dico che bel disdegno sarebbe in donna di ragion lodato

partir da s belt per suo comiato. Qui sviluppato in forma scolastica il solito concetto dell'amore, che fa uno di due, unisce bellezza e virt. Ma questo concetto per Dante cosa vivente, l'anima del mondo, l'unit della vita. E poich vede bellezza, e non trova virt, sente nella vita una scissura, una discordia, che lo move a sdegno. Indi quel movimento d'immaginazione cos nuovo e originale, quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di bel disdegno, per il quale dica: - Poich nell'uomo non virt, cesso di esser bella, cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad argomentare, ad esporre il suo concetto in forma dottrinale, e qui il suo torto, qui la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica un accessorio; la sostanza il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realt: Lasso! a che dicer vegno?. Il poeta sente la vanit de' suoi desidri e che il mondo andr sempre a quel modo. Come l'amore si afferma nella morte, cos la filosofia si afferma nella sua morte, cio nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo dell'unit della vita, fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto o, come si direbbe oggi, dell'ideale e del reale, e insieme il dolore della scissura, che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo caduto in servo di signore, gi signore di s, ora servo delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede, come ne' poeti moderni: l'anima del poeta ancora giovane, piena di una fede robusta, che il disinganno nobilita e fortifica; e per il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia, anzi alla sua glorificazione, ad un pi ardente amore della derelitta, fiero di possederla e amarla egli solo con pochi, e di sentirsi perci quasi Dio tra la gregge degli uomini. Adunque, il primo carattere di questo mondo lirico la sua verit psicologica. Se c' negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale, il fondo vero, la sincera espressione di quello che si passa nell'animo del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La vita la filosofia, la verit realizzata; e la poesia la voce e la faccia della verit. Amico della filosofia, con orgoglio non minore si chiama poeta, il banditore del vero. Filosofo e poeta, si sente come investito di una missione, di una specie di apostolato laicale, e parla dal tripode alla moltitudine, con l'autorit e la sicurezza di chi possiede la verit. Ma il sentimento che move questo mondo lirico cos serio e sincero non rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si mostra: esso l'accento lirico dell'umanit a quel tempo, la sua forma di essere, di credere, di sentire e di esprimersi. Quell'angeletta scesa dal cielo, che non giunge ad esser donna, breve apparizione, che ritorna al cielo in bianca nuvoletta, seguita dagli angioli che le cantano "Osanna", ma rimasa in terra, come luce della verit, della quale l'amante si fa apostolo, tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'et: la vita che ha la sua verit nell'altro mondo e che qui non che Beatrice, fenomeno, apparenza, velo della eterna verit. Se la terra un luogo di passaggio e di prova, la poesia al di l della terra, nel regno della verit. Beatrice comincia a vivere quando muore. Un mondo cos mistico e spiritualista nel concetto, cos dottrinale nella forma, se pu essere allegoricamente

rappresentato dalla scultura, se trova nella pittura e nella musica le sue movenze, le sue sfumature, il suo indefinito, difficilissimo a rappresentare con la parola. Perch la parola analisi, distinzione, precisione, e non pu rappresentare che un contenuto ben determinato, e ne' suoi momenti successivi, pi che nella sua unit. Analizzate questo mondo, e vi svanisce dinanzi, come realt o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al discorso, al ragionamento, alla forma dottrinale, che la negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo la scienza, come concetto e come forma, la pura scienza, non penetrata ancora nella vita e divenuta fatto. vero che per Dante la scienza dee essere non astratto pensiero, ma realt. Se non che il male appunto in questo dee essere. Perch, prendendo a fondamento non quello che , ma quello che dee essere, la sua poesia ragionamento, esortazione, non rappresentazione, se non in forma allegorica, che aggiunge una nuova difficolt ad un contenuto cos in se stesso astruso e scientifico. I contemporanei sentirono la difficolt e credettero vincerla con la rettorica, ornando quei concetti di vaghi fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia, dandole una bella faccia. Certo, questo era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell'arte, nel regno dell'immaginazione. Guinicelli, Cino, Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione, e neppur Dante, ancorch dotato di una immaginazione cos potente. Anzi egli riesce meno di questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire, perch quelli vi pongono il massimo studio, non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione, dove a Dante quel mondo lui stesso, parte del suo essere, e che ha la sua importanza in se stesso: ond'egli sobrio, severo, schivo del gradire, e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre agli ornamenti, come mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare, ma per rendere palpabile ed evidente il suo concetto. Ma Dante vince in gran parte la difficolt appunto per questo, che quel mondo vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non pure sulla sua mente, ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non per sufficiente a farne un poeta. La fede la base, il sottinteso, la condizione preliminare e necessaria della poesia, ma non la poesia. Il poeta dee essere un credente, ma non ogni credente poeta; pu essere un santo, un apostolo, un filosofo. Dante non fu il santo, n il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La fede svegli le mirabili facolt poetiche che avea sortito da natura. Dante ha in supremo grado la principale facolt di un poeta, la fantasia, che non si vuol confondere con l'immaginazione, facolt molto inferiore. L'immaginazione ti d l'ornato e il colore, liscia la superficie: il suo maggiore sforzo di offrirti un simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione. La fantasia facolt creatrice, intuitiva e spontanea, la vera musa, il "deus in nobis", che possiede il secreto della vita, e te la coglie a volo anche nelle sue pi fuggevoli apparizioni, e te ne d l'impressione e il sentimento. L'immaginazione plastica; ti d il disegno, ti d la faccia: "pulcra species, sed cerebrum non habet": l'immagine il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro, e non ti coglie il di fuori, se non come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione analisi, e pi si sforza di ornare, di disegnare, di colorire, pi le fugge il sostanziale, quel tutto insieme, in cui la vita. La fantasia sintesi: mira

all'essenziale, e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine. La creatura dell'immaginazione l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia il fantasma, figura abbozzata e trasparente, che si compie nel tuo spirito. L'immaginazione ha molto del meccanico, comune alla poesia e alla prosa, a' sommi e a' mediocri; la fantasia essenzialmente organica, ed privilegio di pochissimi che son detti Poeti. Il mondo lirico di Dante, o piuttosto del suo secolo, cos mistico e spirituale, resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In bala di questa esso non che un mondo rettorico e artificiale, di bella apparenza, ma freddo e astratto nel fondo. Tale il mondo di Guinicelli, di Cavalcanti e di Cino. L'organo naturale di questo mondo la fantasia, e la sua forma il fantasma. Il suo primo e solo poeta Dante, perch Dante ha l'istrumento atto a generarlo, la prima fantasia del mondo moderno. Dante non accarezza l'immagine, non vi s'indugia sopra, se non quando essa lume che come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio la sua canzone all'Amore: Amor che movi tua virt dal cielo come 'l sol lo splendore, ch l s'apprende pi lo suo valore, dove pi nobilt suo raggio trova... Ed hammi in foco acceso, come acqua per chiarezza foco accende... sua belt del tuo valor conforto, in quanto giudicar si puote effetto sopra degno suggetto, in guisa che al sol raggio di foco; lo qual non d a lui, n to' virtute; ma fallo in alto loco nell'effetto parer di pi salute. Queste immagini non sono il concetto esso medesimo, ma paragoni atti a lumeggiarlo. la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia, e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine. Dante pi severo, perch il concetto non gli indifferente e non te ne distrae, anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com' da natura. Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo, la sua storia intima. Il concetto allora, non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine tolta dal di fuori, trasformato, esso medesimo l'immagine. In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non pi una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna astratta e anonima del trovatore, divenuta innanzi alla filosofia un'idea platonica, l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virt, eccola qui persona viva: Beatrice, quell'angeletta scesa dal cielo, che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza: Ciascuna stella negli occhi mi piove della sua luce e della sua virtute. Ma questo lavoro di trasformazione non va cos innanzi che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca), n questo avviene per manco di calore e di fantasia. Dante cos immedesimato con quel suo mondo

intellettuale e mistico, che la sua fantasia non pu oltrepassarlo, non pu materializzarlo. In questa dissonanza pu capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello, non il poeta che ha un culto per il suo mondo, e vi si chiude, e ne fa la sua regola e il suo limite. Dante non pu paganizzare quel mondo dello spirito, appunto perch esso il suo spirito, il suo mondo, il suo modo di sentire e di concepire. La sua immagine ricordevole e trascendente, e appena abbozzata gi scorporata, fatta impressione e sentimento. Non descrive: non pu fissare e determinare l'immagine, come quella a cui l'intelletto non giunge. Gli sta innanzi un non so che, luce intellettuale, superiore all'espressione, visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perci esprime non quello che ella , ma quello che pare. Ci che pi chiaro innanzi alla sua immaginazione, non il corpo, ma lo spirito, non l'immagine, ma il suo parere, l'impressione: Quel ch'ella par, quando un poco sorride, non si pu dicer, n tenere a mente: s novo miracolo e gentile. ... ..... Ed avea seco umilt s verace, che parea che dicesse: - Io sono in pace. E par che dalla sua labbia si mova ... ..... uno spirto soave e pien d'amore, che va dicendo all'anima: - Sospira. Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato, dove il poeta vuol descrivere Beatrice, e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella come Dio, nel santuario. Non la vedi, ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta non l. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno, che la udirono, e non osarono di guardarla: che qual l'avesse voluta mirare, saria dinanzi a lei caduta morta. Beatrice saluta, e ... . ogni lingua divien tremando muta e gli occhi non l'ardiscon di guardare. Di questa giovinetta, inaccessibile allo sguardo, non descritta, non rappresentata, di cui non hai nessuna parola e nessun atto, non restano che due immagini: del nascere e del morire, l'angeletta scesa di cielo, che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire. La vede in sogno, e gi morta, e quando le donne la coprian di un velo. Ma se della morte non ci l'immagine, ce n' il vivo sentimento: ... Morte, assai dolce ti tegno: tu di omai esser cosa gentile, poi che tu se' nella mia donna stata, e di aver pietate e non disdegno. Vedi, ch' s desideroso vegno d'esser de' tuoi ch'io ti somiglio in fede.

Vieni, ch 'l cor ti chiede. L'universo muore con Beatrice: Ed esser mi parea non so in qual loco, e veder donne andar per via disciolte, qual lagrimando, e qual traendo guai, che di tristizia saettavan foco. Poi mi parve vedere appoco appoco turbar lo sole ed apparir la stella, e pianger egli ed ella; cader gli augelli volando per l're, e la terra tremare: e uom m'apparve scolorito e fioco, dicendomi: - Che fai? non sai novella? Morta la donna tua ch'era s bella. S bella! Questa l'immagine. Gli basta chiamarla bella, chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini, essi soli indifferenti in tanto dolore: Ch non piangete, quando voi passate per lo suo mezzo la citt dolente? Se voi restate per volere udire, certo lo core de' sospir mi dice che lagrimando ne uscirete pui. Ella ha perduta la sua Beatrice; e le parole ch'uom di lei pu dire, hanno virt di far piangere altrui. La vita e la morte di Beatrice non in lei, ma negli altri, in quello che fa sentire. L'immagine immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata quella mezza realt che si chiama il fantasma, esistente pi nella immaginazione del lettore che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno musicale dell'indefinito. Beatrice un "rve", un sogno, una visione. La stessa sua morte un sogno, o, come dice Dante, una fantasia, accompagnata di particolari patetici e drammatici, perch il poeta vittima de' suoi fantasmi, e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni. Beatrice muore, perch esta vita noiosa non era degna di s gentil cosa; e tornata gloriosa nel cielo, diviene spiritual bellezza grande che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli angioli. Questa bellezza spirituale, o, come dice Dante altrove, luce intellettual, piena d'amore, il mondo lirico realizzato nell'altra vita, dove il fantasma sparisce e la verit ti si porge nel suo splendore intellettuale, pura intelligenza, bellezza spirituale, scorporata. Il fantasma, quella mezza realt a contorni vaghi e indecisi, pi visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini, non era che il presentimento, il velo, la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente pi d'indeciso, niente pi di corporeo: sei nel regno della filosofia, dove tutto precisione e dogmatismo,

tutto posto con chiarezza, e discorso a modo degli scolastici. E poich la filosofia non potuta divenire virt, poich in terra essa proscritta, rimane una realt puramente scientifica e dottrinale. L'impressione ultima che la terra il regno delle ombre e de' fantasmi, la selva dell'ignoranza e del vizio, la tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore, e che la realt, l'eterna e "Divina Commedia", nell'altro mondo. N prima, n poi fu immaginato un mondo lirico cos vasto nel suo ordito, cos profondo nella sua concezione, cos coerente nelle sue parti, cos armonico nelle sue forme, cos personale e a un tempo cos umano. Esso l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni, la voce dell'umanit a quel tempo. Il mistero di questo mondo religioso-filosofico la Morte gentile, come passaggio dall'ombra alla luce, dal fantasma alla realt, dalla tragedia alla commedia, o, come dice Dante, alla pace. La morte il principio della vita, la trasfigurazione. Perci il vero centro di questa lirica, la sua vera voce poetica il sogno della morte di Beatrice, l dove sono in presenza questa vita e l'altra, e mentre il sole piange e la terra trema, gli angioli cantano "Osanna", e Beatrice par che dica: - Io sono in pace -. Ci la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi, il mondo lirico nel momento misterioso della sua unit. Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante, di una rara perfezione per chiarezza d'intuizione, per fusione di tinte, per profondit di sentimento, per correzione di condotta e di disegno, per semplicit e verit di espressione. Ma se questo mondo logicamente uno e concorde, esteticamente scisso, perch non insieme terra e cielo, ma ora l'uno, ora l'altro, imperfetti ambidue. Il fantasma spesso simile pi ad un'allegoria che ad una realt, ed stazionario, senza successione e senza sviluppo, senza storia. La realt pura scienza, in forma scolastica. Si pu dire che quando in questo mondo comincia la realt, allora appunto muore la poesia, s'inaridisce la fantasia e il sentimento. un difetto organico di questo mondo, che resiste a tutti gli sforzi dell'arte, resiste a Dante. D'altra parte, Dante vi si mostra pi poeta che artista. Quel mondo per lui cosa troppo seria, perch possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte. Poco a lui importa che la superficie sia scabra, purch ci sia sotto qualche cosa che si mova. Perci sempre evidente, spesso arido e rozzo. L'Italia ha gi il suo poeta; non ha ancora il suo artista.

/:/ La romanicit del linguaggio dantesco. La poesia della Commedia si qualifica nel linguaggio, che d la consistenza delle cose reali, disegno, rilievo, prospettiva, luci, ombre alla mirabile fantasmagolla di immagini, paesaggi e idee, che si displega di canto in canto. [...] Tutta l'opera, nelle notazioni particolari e nel simbolismo concettuale delle immagini, nelle figure verbali, nelle esposizioni dottrinrie, in tutto il congegno rappresentativo del veduto , si integra in un linguaggio unitario, in un unico stile, il cui carattere dominante costituito da una fedelt al reale, cos piena e compiuta da postulare una tipica forma della mente, la quale riesce a configurare l'invisibile

con la stessa nettezza ed evidenza del visibile. Se si considera l'arte di Dante nei rapporti`e legami con le arti del suo tempo, ci si svela una fondamentale comunione di atteggiamenti interiori, i quali caricano di significati le rappresentazioni particolari. La forma interna della poesia dantesca , certo, assai affine a quella che anima i vari aspetti dell'arte romanica. Nessuno dubita che l'essenzialit del linguaggio della Commedia e la carica simbolica del segno sono sulla stessa linea del realismo simbolico, che costituisce il modo di vedere e di esprimere proprio di tale arte. , certamente, romanica l'istanza di verit che compenetra le pi audaci e libere creazioni fantastiche, s che la cosa rappresentata (il giudice Minosse che sta orribilmente con il grande corpo e la coda smisurata all'ingresso dell'Inferno, o Matelda che va cogliendo fiori per i prati del paradiso terrestre in un'aurea di primavera), pi che rappresentata, presente . Le figure della Commedia, come quelle della scultura romanica, ignorano una distinzione di verit fra il reale esperito e quello fantastico, poich il vedere con gli occhi della mente non meno vero di ci che gli occhi possono vedere: la fantasia soltanto il mezzo per guardare nell'invisibile, conoscere ci che al di l della capacit dei nostri sensi; fra il visibile e l'invisibile non c' soluzione, e la fantasia poetica altro non fa se non porre sul piano del sensibile ci che ne lontano, perch sia presente a pari titolo con le cose vedute. La necessit del reale investe come istanza di organicit il creare dantesco, s che nell'opera personaggi, paesaggio, episodi, dati dottrinari, ragionamenti prendono corpo nella struttura del poema, coscome nella basilica romanica le sculture nascono, come suol dirsi, dentro l'architettura, si integrano nel muro, realizzando con esso il significato religioso e morale dell'edificio. La libert con cui l'artista romanico attinge da ogni fonte i mezzi del suo esprimere la stessa libert che informa il linguaggio della Commedia, libero dalle inibizioni implicite nel preziosismo stilnovistico. Come per una vigorosa rivincita della natura sul costume e della poesia sulla poetica, la lingua di Dante si allarga in un poderoso respiro creativo, che investe il diacronico e il sincronico, e non ammette altra limitazione se non quella intrinseca al fine del comunicare. Esperienze sensibili e acquisizioni culturali sono parimente attratte e fuse nel circolo incandescente della creazione poetica, che le plasma come forma di una presenza effettiva di cose e di sentimenti. Il linguaggio di Dante ignora il non funzionale, il superfluo, l'esornativo. La misura del realismo poetico dantesco meglio risulta al confronto con il linguaggio di altri grandi poeti. In quello shakespeariano, ad esempio, metafora, analogia, similitudine coloriscono poeticamente, adornano una realt concreta di personaggi, discorsi ed eventi, la cui esistenza percepibile come ossatura sotto la splendida fioritura delle parole e delle immagini: la realt diventa immagine poetica nell'atto stesso che viene avvolta nella nebbia calda e traslucida del discorso. In Dante, invece, l'immagine gi fatto, racconto; la metafora, la similitudine sono elementi essenziali della narrativa, non distinguibili e non separabili da essa. Esasperando le differenze, potr dirsi che, mentre il barocco del linguaggio shakespeariano assume la materia, il veduto e il pensato, negli spazi iridescenti della fantasia, perch vi si animi di colori poetici, la romanicit di quello dantesco assume il fantastico, l'irreale e l'astratto nello spazio del reale, del concreto, perch si conformi al ritmo vitale delle cose vere. innegabile che nel linguaggio di Dante vi sia una conscia ansia di verit reale e di chiarezza, che costituisce una novit nei confronti dell'arte romanica; vi come un nuovo rispetto della natura nei confronti delle inquietanti deformazioni di quella sorta di fabulistica vegetale, animale e poi umana che popola la decorazione romanica. La fedelt alla figura esplicitamente affermata dal poeta in pi di un

luogo; e baster ricordare il senso di angoscia che da lui attribuito a chi guarda le figure umane, contratte e rattrappite, poste dagli architetti a sostegno di capitelli e architravi, Purgatorio,decimo,130 ss.: Come per sostantar solaio o tetto, / Per mensola talvolta una figura / Si vede giugner le ginocchia al petto, / La qual fa del non ver vera rancura / Nascere in chi la vede... . La associazione di natura e arte, su cui il poeta insiste sul piano teorico (cfr. specialmente Inferno, undicesimo, 97 SS. e Convivio,quarto,nono, 11), cnone valido per il suo creare. C', certo,da chiedersi se in siffatto atteggiamento sia da vedere un'apertura verso la forma interna del gotico, come per solito si ritiene o non piuttosto un avvio o un preludio alle istanze estetiche, che si faranno valere nell'arte e nella cultura dell'et seguente. ANTONINO PAGLIARO: Da Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, MessinaFirenze, D'Anna, 1966, pp. 812-816. /:/ La lingua di Dante. Dante teorico [...] saldamente legato al mondo nel quale la cultura italiana e la fiorentinit si erano venute svolgendo. Firenze non ha ancora n pretesa n potere di dettar legge in materia di lingua. Ma se la sua tesi del volgare illustre non significa un superamento e una sintesi di dialetti, non rappresenta nemmeno un passaggio a un riconOScimento del fiorentino per ragioni che fossero diverse dalle storico-culturali. Si pu certo dire che la Divina Commedia una commedia e non tragedia n canzone. Sta di fatto che la sua lingua, come ha dimostrato N. Zingarelli in un lavoro fondamentale, il fiorentino, che accoglie i latinismi, gallicismi e dialettismi italiani pet ragioni che non sono affatto quelle di renderlo pi elevato: forme condannate nel De vulgari eloquentia come i barbarismi pisani in -onno, appaion, nientemeno, nel Paradiso (ventottesimo, 15): ...terminonno ; volgarismi fiorentini come manicare, introcque per mangiare e intanto nell'Inferno (trentatreesimo, 60 S.) ... pensando che i'l fessi per voglia / di manicar ; (ventesimo, 130): s mi parlava ed andavamo introcque . Ma i latinismi come appropinquare, cernere, digesto, igne non arrivano a cinquecento e sono quasi sempre giustificati da ragioni tecniche o stilistiche. I gallicismi come masnada, miraglio, vengiare sono poche decine. I dialettismi come brolo per orto e burlare per cadere dal settentrione, o sorpriso dal meridione sono ancor meno. Tutti insieme non giustificano l'imagine n di una lingua di Dante sopradialettale n di accoglimenti occasionali e bizzarri. La Divina Commedia scritta in fiorentino. Dante si dunque contraddetto . Ma la contraddizione, che infirma l'argomentazione logica, non ha nessun pesosul terreno estetico e storico-culturale Nello scrivere la Divina Commedia, Dante non ha agito in quanto teorico della lingua, ma in quanto artista, che nello strumento linguistico fiorentino ha trovato una realizzazione pi adeguata per le sue intuizioni. Felice contraddizione che ci risparmia di misurare artifici e complicazioni di una poesia scritta in volgare illustre, sottomessa a regole esteriori, quasi oggi, da un sostenitore di una lingua internazionale, si aspettasse per coerenza un'opera di poesia scritta in esperanto se non in basic english. Le condizioni storico-politiche che mutano definitivamente la posizione di Firenze corrispondono ai due primi decenni della vita di Dante. Si capisce che la capacit di espansione di Firenze risale al dodicesimo secolo, dalla morte della contessa Matilde nel 1115 agli inizi della sottomissione del contado nel 1197. Sta di fatto che dopo la sconfitta di Montaperti nel 1260 per opera dei Senesi ghibellini, gli avveni-

menti determinanti sono stati la rivincita sui Senesi a Colle nel 1267, la sconfitta dei Pisani per opera dei Genovesi alla Meloria nel 1284, la vittoria fiorentina di Campaldino sugli Aretini nel 1289. Le condizioni storico-culturali si verificano subito dopo. Nelle arti, S. M. Novella si inizia nel 1278. Nel campo delle lettere la prosa del Boccaccio salda la tradizione latineggiante con la giovane fiorentina e affianca al modello dantesco un tronco di tradizione prosastica solido e insieme suscettibile di svolgimento ordinato. Il nobilitarsi del fiorentino appare nella sua grandezza se si pensa che nelle carte commerciali, a mezzo il secolo quattordicesimo, compaiono barbarismi toscani che in quelle del tredicesimo erano assenti. Questo perch, come mi suggerisce A. Castellani, lo spazio vitale fiorentino si dilatato al punto da accogliere nelle carte d'affari formule caratteristiche di persone in maggioranza provinciali. Nel secolo tredisecimo i barbarismi erano imposti da un prestigio qualitativo che veniva di fuori, nel quattordicesimo dal peso numerico di classi inferiori. Le osservazioni del Bembo alla fiorentinit di Dante non sono fondate. La fiorentinit ha significato per Dante aderenza al suo tempo in una forma che due secoli dopo si ritrovava superstite nel solo contado, non pi nella metropoli, per lo stesso motivo: la metropoli, aperta a tutte le correnti spirituali e perci linguistiche del periodo d'oro della nostra cultura, si disfa di tutto quello che s genuino, ma pu apparire a un certo momento come zavorra grossolana, resto di situazioni e ambienti tramontati facile dunque definire nei manuali l'italiano come il fiorentino elevato a dignit di lingua letteraria per le sue virt intrinseche nell'ambito dei dialetti italiani, quasi si trattasse di un fatto prevedibile, automatico, fatale. Vorrei invece aver sgombrato il terreno da questi formalismi e da questi semplicismi e aver mostrato un travaglio: il dramma di una tradizione linguistica universale come la latina, isolata in Etruria, e, all interno dell'Etruria, solcata da forze centrifughe, isolata in Firenze, non per prestigio, ma per povert e lontananza dalle grandi strade. Dopo di che, raddrizzate le cose da un punto di vista politico, dall'opera di un uomo del vecchio mondo, Dante, ha potuto prender principio una tradizione nuova, quella che durata secoli, quella che ci permette oggi, italiani di tutte le regioni d'Italia, nel nome di Firenze e del suo pi grande cittadino, di intenderci. GIACOMO DEVOTO: Da Dalla lingua latina alla lingua di Dante , in Storia della civilt fiorentina. Il Trecento, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 51-53.

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